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giovedì 27 febbraio 2014

Difesa: operatività e personale

Personale militare
La non riforma della difesa
Alessandro Marrone
24/02/2014
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La legge sul personale militare, approvata a gennaio dal Parlamento per attuare la riforma varata nel 2012, non migliora la capacità operativa delle Forze Armate, e quindi la disponibilità dello strumento militare per la politica estera e di difesa dell’Italia.

Fatta la legge...
La legge di riforma dello strumento militare approvata nel 2012 aveva una ratio ben precisa: ridurre le spese in personale e infrastrutture non essenziali per la capacità operativa delle Forze Armate, visti i continui tagli al bilancio della difesa, al fine di concentrare i pochi fondi a disposizione sulle necessità di addestramento e manutenzione - i costi di “esercizio” - di equipaggiamenti, ricerca e sviluppo tecnologico. Insomma, razionalizzare e snellire per essere efficaci ed efficienti.

L’obiettivo era passare da una situazione per cui nel 2013 il 66% del bilancio viene assorbito dagli stipendi, il 25% dagli investimenti, e solo il 9% dall’ esercizio al modello virtuoso di ripartizione dei fondi per la difesa adottato da altri Paesi europei: 50% per il personale, 25% per gli investimenti, 25% per l’esercizio.

A tal fine, la legge del 2012 prevedeva numeri ben precisi: entro il 2024, 33 mila militari e 10mila dipendenti civili del Ministero della Difesa in meno, e una contrazione complessiva del 30% delle strutture territoriali anche tramite soppressioni e accorpamenti.

Non solo, ma il taglio al personale doveva concentrarsi su ufficiali e sotto-ufficiali, per mantenere una base composta da soldati giovani impiegabile in operazioni militari. Infatti, non si tratta solo di efficienza dello strumento militare, ma di sopravvivenza della stessa capacità operativa delle Forze Armate, ovvero della possibilità per l’Italia di condurre o partecipare a missioni funzionali alla propria politica estera e di difesa e, in ultima analisi, alla protezione e promozione degli interessi nazionali.

…manca l'attuazione
Spirito e lettera della legge del 2012 erano chiari, come era chiaro che la legge avrebbe comportato per il personale militare e civile della difesa misure dolorose, ma necessarie per un interesse generale - il mantenimento dell’operatività delle Forze Armate.

L’ultimo decreto legislativo, approvato dal Parlamento il 28 gennaio 2014, doveva dare attuazione concreta alla legge di riforma, indicando dove, come e quando effettuare i tagli al personale del Ministero della Difesa. L'incipit della legge va in questa direzione, indicando il numero di unità che le singole Forze Armate dovranno avere entro il 2024, numero che rispecchia il taglio deciso nel 2012 tramite una riduzione di organico di 13.400 unità per l'Esercito, 8.575 per l'Aeronautica e 4.325 per la Marina, con obiettivi precisi quanto a diminuzione di ufficiali e sotto-ufficiali.

Ma il diavolo è nei dettagli. Il problema infatti è il modo indicato dalla legge per arrivare a questa futura composizione del personale militare. La prima versione del testo prevedeva sostanzialmente due strade: l’estensione del collocamento dell’Aspettativa per Riduzione Quadri (Arq) per il personale non più indispensabile, ed il trasferimento di quadri ad altre pubbliche amministrazioni che potessero impiegarli - quali forze di polizia, ministeri della giustizia e degli interni, enti locali, ecc.

La prima opzione è stata duramente criticata durante l'iter del decreto, sia per la pressione del personale interessato sia per la preoccupazione che questa decisione sembrasse contraddittoria rispetto alla generale spinta ad aumentare l'età pensionabile, ed è stata quindi sostanzialmente cancellata. Ciò comporterà tra l'altro che diversi uffici non potranno essere chiusi o accorpati, e quindi continueranno a costare allo stato in termini di spese di funzionamento (affitto, utenze, manutenzione, ecc).

La seconda opzione, il trasferimento ad altre amministrazioni, è stata di fatto completamente affossata durante l’iter parlamentare, stravolgendo così la ratio dell'intera legge. Infatti, quello che doveva essere un trasferimento imposto d'ufficio - a parità ovviamente di qualifica e trattamento economico - è stato reso impossibile da un semplice cavillo: il “previo consenso dell'interessato” al trasferimento medesimo.

Consenso che ha scarsissime possibilità di essere espresso poiché, a livello individuale, comporta il rimettersi in gioco cambiando ufficio, compiti, superiori e forse anche città dove si lavora. Poiché lo stato non si è assunto la responsabilità di imporre la decisione del trasferimento nel nome dell’interesse generale, e il singolo individuo legittimamente fa il suo interesse particolare, molto probabilmente i trasferimenti saranno, bene che vada, qualche migliaia.

Danno per l’Italia
Se i dipendenti del Ministero della Difesa non possono essere pre-pensionati in maniera significativa - come fatto in altri enti pubblici o aziende partecipate dallo stato - e non possono essere trasferiti in altre pubbliche amministrazioni, rimarranno al loro posto. Ciò vuol dire che si bloccherà sostanzialmente l'intera catena di promozioni fino al volontario in servizio permanente.

A sua volta, ciò rallenterà fortemente - quasi bloccandoli - i reclutamenti di nuovi volontari, penalizzando ulteriormente i giovani. La legge del 2014 non fornisce numeri al riguardo, lasciando ad un decreto annuale del Ministero della Difesa la quantificazione di promozioni e reclutamenti, ma la tendenza è chiara: la piramide del personale del Ministero della Difesa assomiglierà sempre di più ad un trapezio, tendente al quadrato, come in altri enti statali e locali in cui il numero di dirigenti quasi eguaglia quello dei dipendenti.

Se ciò è di per sé costoso, inefficiente e controproducente in qualsiasi pubblica amministrazione, nelle Forze Armate è particolarmente pericoloso. Infatti, oltre una certa età non si può rimanere quindici giorni in trincea a Bala Murghab a rispondere al fuoco dei Talebani, né si può pilotare un jet supersonico come l’Eurofighter.

Ovviamente le Forze Armate già da ora sono organizzate in modo da spostare gradualmente il personale meno giovane da ruoli operativi a compiti di addestramento, logistica, amministrazione, procurement e manutenzione di equipaggiamenti. Tuttavia, tale organizzazione può funzionare solo con una composizione del personale che mantenga un certo equilibrio anagrafico e nel rapporto numerico tra ufficiali, sotto-ufficiali e volontari, affinché il grosso delle forze sia impiegabile sul campo.

Considerando che per dispiegare stabilmente 12.500 militari all'estero - il livello di ambizione mantenuto dall’Italia fino a poco tempo fa - ce ne vogliono tendenzialmente 50mila, perché per ogni brigata dispiegata per sei mesi in teatro operativo ce n'è una in addestramento pre-missione, una a risposo essendo appena tornata dalle operazioni, più le forze tenute pronte all’uso nell'ambito degli impegni Nato (Response Force) e Ue (Battle Groups) e per rispondere ad eventuali emergenze, il danno creato dallo squilibrio anagrafico e gerarchico sarà molto forte.

Ciò costituisce il sovvertimento della ratio della riforma del 2012 e un danno per l’Italia: la perdita di un importante strumento di politica estera e di difesa quale la disponibilità di Forze Armate efficaci e operative - che tra l'altro sono impiegate anche per assistere la popolazione italiana in caso di disastri naturali, come il terremoto dell'Aquila nel 2009 - ma continuando a sostenerne i costi.

Se è vero che il diavolo è nei dettagli, questa legge puzza di zolfo.

Alessandro Marrone è ricercatore presso l'Area Sicurezza e Difesa dello IAI.
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Immigrazione: una priorità che deve rimanere tale

Governo Renzi
La sponda Sud da non dimenticare
Jean-Pierre Darnis
25/02/2014
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I recenti avvenimenti in Ucraina hanno spostato il focus internazionale, per lo meno quello europeo, ad Est. Certamente la crisi a Kiev cristallizza il dibattito intorno alla capacità dell’Unione europea di condurre una politica estera incisiva. Come avviene spesso, osserviamo una certa lentezza nella reazione europea che deve tenere conto di interessi contraddittori.

Triangolo di Weimar
Gli ultimi sviluppi hanno però visto la mobilitazione di Francia, Germania e Polonia che hanno inviato a Kiev i loro ministri degli esteri per cercare di favorire una transizione democratica alla crisi.

Al di là dell’efficienza di quest’azione bisogna rilevare alcune caratteristiche metodologiche. Il cosiddetto “triangolo di Weimar” è entrato in azione con un approccio tri-laterale che riesce anche a portarsi dietro l’insieme della posizione europea. Questo intervento comune avviene però pochi giorni dopo il consiglio dei ministri congiunto fra Francia e Germania.

Può sembrare un esercizio classico, l’ennesimo appuntamento della coppia franco-tedesca che auspica di lavorare insieme per il bene dell’Europa. Alcuni segnali indicano però un’evoluzione precisa. Dopo il travagliato periodo delle elezioni e della messa insieme della coalizione, il governo tedesco sembra non solo in grado di impegnarsi di nuovo sullo scenario europeo e internazionale, ma anche intenzionato a contribuire militarmente alla missione europea in Mali, come sollecitato da Parigi. E lo fa permettendo l’uso della brigata franco-tedesca che verrà dispiegata per la prima volta.

Anche se i 250 uomini della Bundeswher in rotta verso l’Africa non rappresentano una forza considerevole, siamo davanti a una svolta epocale: l’esercito tedesco interviene in un modo non completamente simbolico in Africa, a differenza delle partecipazioni precedenti alle missioni delle Nazione Unite con poche decine di soldati, e lo fa insieme con i francesi. Bisogna avere in mente l’importanza della constituency pacifista e la difficoltà nel fare accettare dal parlamento l’invio di truppe per prendere la misura del passo compiuto dai tedeschi.

Questa non è una decisione isolata, ma fa parte di un puzzle molto più complesso. Berlino vuole poter influire sulle riforme di Parigi, soprattutto in campo economico. Per farlo deve entrare in dialettica con la Francia, e sceglie quindi di farlo anche su un aspetto dolente per i francesi, il loro isolamento nei recenti interventi di sicurezza in Africa.

Questa riapertura del gioco con la Francia riguarda anche l’Ucraina. “Vi diamo una mano in Africa, ci spalleggiate all’est dell’Europa”, sembra questa la formula sulla quale si basa il patto fra Berlino e Parigi. Quindi via con la missione congiunta in Ucraina. Questi sviluppi sono senz’altri positivi, perché l’Europa si sta rimettendo in marcia sulla politica estera e di sicurezza.

Italia lontana
Si pone però la questione della posizione italiana, visto che Roma sembra lontana da queste dinamiche. I due ultimi governi non hanno sostenuto gli interventi a guida francese in Africa, sia nel Mali che in Centrafrica. Nelle fasi di combattimento non hanno dispiegato soldati visto che tale operazione poteva risultare delicata. Nella fase di ricostruzione il sostegno è stato timido: in Mali 14 militari italiani contribuiscono alla missione di formazione militare (Eutm).

C’è stato certamente il prevalere di una corrente pacifista che nel contesto di governi relativamente deboli ha portato a una posizione passiva. Bisogna però illustrare un paradosso. In Italia cresce l’attenzione verso l’Africa, vista come una zona povera verso la quale vano indirizzati sforzi di sviluppo. Le varie organizzazioni cattoliche sono molto attive in tal senso.

Inoltre la stabilità del continente, soprattutto quella dell’area sub-sahariana, è uno degli obiettivi internazionali condivisi dall’Italia, sapendo anche l’attenzione dell’alleato statunitense che punta a evitare lo sviluppo di zone terroristiche alle porte dell’Europa. L’Africa rappresenta infine una zona di “vicinato esteso” che concentra un groviglio di interessi nazionali italiani: dall’approvvigionamento energetico alla problematica dell’immigrazione fino alla lotta contro la pirateria.

Vecchia françafrique
Spesso gli interventi francesi in Africa vengono letti come frutto di una storia neo-coloniale, alimentando la riluttanza italiana. Ma la presidenza di François Hollande, proseguendo e ampliando l’azione di Nicolas Sarkozy, ha prodotto una netta evoluzione della politica africana francese, ormai molto più moderna e articolata della vecchia francafrique gaullista e mitterandiana.

Esiste quindi un’importante convergenza multilaterale sull’analisi di sicurezza in Africa fra i partner della Francia, il cui ruolo da leader leader spiega anche la considerazione dell’amministrazione Usa nei confronti di Parigi, ben illustrato nella recente visita di stato di Hollande a Washington.

Negli ultimi trent’anni, l’Italia ha compiuto un notevole salto di qualità come contribuente attivo nella sicurezza internazionale. Fra Balcani, Iraq, Afghanistan e Libano, Roma è apparsa come un attore militare spesso decisivo che giocava nella stessa categoria di Francia e Regno Unito, prima della Germania. Si tratta di un patrimonio considerevole che non va vanificato.

Oggi la partita in Ucraina illustra un rilancio dell’asse franco-tedesco. L’Italia non sembra potersi inserirsi direttamente in questa partita, anche se i suoi canali con la Russia rappresentano un asset diplomatico da non scartare, purché usati in coordinamento con i partner europei. Ma è sulla sponda sud dell’Europa che l’Italia può giocare un ruolo. Roma considera il Sud come potenziale fonte di minaccia (il rischio da Sud per dirla con Santoro), ed è tutt’ora militarmente presente sul continente africano. Può anche vantare un certo credito storico in una zona come il Corno d’Africa.

Sarebbe opportuno ridurre le divergenze fra l’ideale politico dello sviluppo del continente africano, gli interessi nazionali e di sicurezza in zona e la passività nell’uso degli strumenti militari.

Si tratterebbe inoltre di un modo estremamente efficiente per fare recuperare margini all’Italia nei giochi intra-europei, scenario di maggiore interesse per il paese. Così facendo, si può ambire ad unire lo sguardo a Sud dei colloqui mediterranei di Giorgio La Pira con la moderna promozione di un interesse collettivo in ambito europeo. Una visione che dovrebbe trovare consonanze nel nuovo governo.

Jean-Pierre Darnis è professore associato all'università di Nizza e responsabile di ricerca dell’Area sicurezza e difesa dello IAI.
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Governo: verso il nuovo

Governo Renzi
Dall’Europa nessuna cambiale in bianco
Ferdinando Nelli Feroci
22/02/2014
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Non c’è dubbio che in Europa si stiano seguendo con un misto di interesse e curiosità, ma anche di disponibilità e apertura, le recenti vicende italiane che hanno portato alla formazione di un nuovo governo, presieduto dal Segretario del Partito democratico, Matteo Renzi.

Sarebbe illusorio pensare che il nuovo governo possa fare affidamento, in Europa, su una sorta di cambiale in bianco, solo perché si presenta con nuovi protagonisti e con una nuova compagine. Ci sarà quindi molta attenzione a Bruxelles e nelle capitali europee per le prime mosse e i primi annunci del governo italiano.

Mantenere gli impegni
Proprio per questo sarebbe un grave errore pensare di poter rimettere in discussione l’impianto complessivo delle regole definite in questi anni sia in materia di controllo delle politiche fiscali e dei bilanci pubblici degli stati membri che in materia di coordinamento delle politiche economiche nazionali.

Sarebbe un altrettanto grave errore presentarsi in Europa con una richiesta di revisione degli impegni assunti dai precedenti governi in materia di riduzione del deficit e in prospettiva del debito, o di rinegoziazione degli strumenti di controllo dei bilanci nazionali.

La situazione italiana è nota in Italia e in Europa. Abbiamo realizzato un significativo consolidamento delle finanze pubbliche (grazie anche a misure che hanno avuto un impatto negativo sulle prospettive di crescita); e possiamo fare affidamento su un avanzo primario che ci qualifica tra i primi della classe in Europa sul fronte del deficit. Continuiamo però a far registrare un debito consolidato, secondo solo a quello della Grecia.

I mercati finanziari manifestano fiducia nei confronti dell’Italia e della sostenibilità del nostro debito pubblico, come testimoniato dall’andamento degli spread di questi ultimi giorni. Continuiamo però a essere il fanalino di coda in termini di crescita.

Rimaniamo infatti il paese dell’Eurozona che fatica di più ad agganciare i pur timidi accenni di ripresa prevista per il 2014 e 2015. E soprattutto, siamo agli ultimi posti in Europa per competitività, produttività, attrazione degli investimenti e altri importanti indicatori che segnalano lo stato di salute dell’economia di un paese.

Sfida credibilità
Per il governo che si insedierà nei prossimi giorni si riproporrà quindi la sfida della credibilità, in primis in Europa e con l’Europa, che è stata al centro delle preoccupazioni dei due governi precedenti.

E la sfida della credibilità si può vincere non tanto sbattendo i pugni sul tavolo di Bruxelles o chiedendo improbabili deroghe sui target per deficit e debito, quanto avviando in maniera convinta, e fin dai primi giorni, un programma di misure di riforma di rapida attuazione e destinate ad accrescere la competitività del sistema Paese.

La lista delle cose da fare è nota: una seria riduzione del cuneo fiscale e una riforma più generale del fisco che consenta di alleggerire il carico fiscale sul lavoro; una riforma del mercato del lavoro che semplifichi le tipologie dei contratti e introduca ulteriori elementi di flessibilità in entrata e in uscita, accompagnata da una riforma dei sussidi disoccupazione; un programma serio di semplificazioni amministrative con impatto immediato sul sistema delle imprese e delle famiglie; una revisione della spesa pubblica che consenta di liberare risorse per investimenti produttivi; uno programma di ulteriori privatizzazioni non solo di immobili ma anche di società pubbliche; una riforma della giustizia che consenta di velocizzare i processi civili; ulteriori interventi mirati a ridurre i fenomeni di corruzione nella pubblica amministrazione a tutti i livelli.

A queste riforme con impatto diretto sulla competitività del sistema paese si dovrebbero accompagnare anche riforme istituzionali destinate a modernizzare l’apparato dello stato e a ridurre i costi della politica.

Flessibilità
Un governo che si presenti in Europa con un programma ambizioso, ma credibile di riforme avrebbe sicuramente buone chance di negoziare con successo margini di flessibilità con la Commissione, ma anche con i maggiori partner, non tanto sul livello del deficit quanto sulla riduzione del debito, sfruttando in maniera costruttiva quegli elementi di flessibilità che sono già previsti dagli strumenti comuni di controllo dei bilanci nazionali, anche nella loro versione più aggiornata.

Lo si potrebbe fare avviando da subito un’interlocuzione con la Commissione sul piano bilaterale per esplorare un percorso che ci consenta di utilizzare questa flessibilità (soprattutto sulla riduzione del debito ed eventualmente sui tempi per la riduzione del deficit) già da quest’anno e ancor più per l’anno prossimo (il primo anno di applicazione della cosiddetta regola del debito).

Ma lo si dovrebbe fare anche su un piano più generale, rilanciando il negoziato sui contratti/partenariati per la crescita che erano stati concordati in linea di principio al Consiglio europeo dello scorso dicembre, ma che dovranno essere definiti in maniera compiuta entro il prossimo ottobre (sotto presidenza italiana della Ue).

Questi contratti offrono infatti un’opportunità da non perdere per realizzare uno strumento più efficace di coordinamento delle politiche nazionali per la crescita in un quadro comune, a condizione che si applichino a tutti i membri dell’Eurozona e che siano accompagnati da convincenti incentivi.

In attesa di poter costruire nel medio termine una autonoma capacità di bilancio dell’Eurozona, l’idea di margini di flessibilità sul debito (ed eventualmente anche sul deficit) in cambio delle riforme si presenta un “trade-off” sicuramente proponibile, probabilmente praticabile e di verosimile interesse anche per altri Paesi dell’Eurozona.

Ferdinando Nelli Feroci è presidente dell’Istituto Affari Internazionali (IAI).
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mercoledì 26 febbraio 2014

A public opinion survey

Italians and Foreign Policy
Troubled by Germany’s Rise, Perplexed about the Euro

The Istituto Affari Internazionali (IAI), in cooperation with the Laboratory on Social and Political Analysis (LAPS) at the University of Siena, has conducted a public opinion survey of Italian attitudes on a number of topical foreign policy issues.

The survey has highlighted Italian perceptions about the European crisis, EU integration, military missions abroad, the state of the Transatlantic relationship, multilateralism and the popular uprisings in North Africa and the Middle East.

Based on a random sample of one thousand Italian nationals aged eighteen and above, the survey was conducted between September and November 2013.

Main Findings:

- Italians are uneasy about Germany’s influence on EU economic policy, with a majority preferring Italy keep a wide margin of action from Berlin.

- A majority is in favour of keeping the euro, but not willing to make personal sacrifices for the survival of the eurozone.

- NATO enjoys wide support, but a majority would prefer a greater European role within the alliance.

- Italians demonstrate a general disapproval of military force, with a majority opposing Italy’s participation in international missions abroad.

- Multilateralism is embraced by Italians as the best means to effectively tackle international issues.

- Cultural diversity in Europe is considered an impediment for greater EU integration, but among younger respondents diversity is not syno nymous with division.

The full English language survey is available online.
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Istituto Affari Internazionali (IAI) via A. Brunetti 9, I-00186 Roma

Tel.       +39 063224360 (Switchboard)
Fax       +39 063224363
E-mail  iai@iai.it
Web      www.iai.itTwitter @iaionline
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Winter Scholl in Geopolitica e Relazioni Internazionali


Cari Amici e Lettori,

vi ricordiamo che sono ancora aperte le iscrizioni alla Winter School in Geopolitica e Relazioni internazionali di Roma (dal 1 Marzo al 31 Maggio, presso la sede della Società Geografica Italiana, in via di della Navicella, 12; Villa Celimontana - Metro Colosseo).

Per tutte le informazioni su lezioni, docenti e modalità di partecipazione vi invitiamo a scaricare il bando completo al link: 


Naturalmente sarà possibile anche contattarci via mail o telefonicamente. Troverete tutti i nostri recapiti nel bando.

Buon lavoro e a presto 



(www.studentiecultori.blogspot.com

martedì 11 febbraio 2014

Emma Bonino sulla crisi siriana: interventi sulla parte umanitaria

Conferenza umanitaria
L'Italia in campo per la Siria
Mario Arpino
03/02/2014
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“Come paese abbiamo insistito che la parte umanitaria non sia disgiunta dal processo politico. Non si può parlare del futuro se non si riesce a dare un presente alla popolazione siriana”. Così il ministro degli esteri Emma Bonino ha annunciato la conferenza umanitaria sulla Siria che si tiene a Roma il 3 febbraio.

Situazione caotica
Con una conta di 136 mila vittime dal marzo 2011, sei milioni costretti a fuggire dalle proprie case, di cui oltre due milioni riparati all’estero (fonti Onu), il conflitto siriano non è più solo “interno”. Il problema dei profughi coinvolge infatti tutti i vicini, nessuno escluso.

L’intervento delle brigate internazionali di islamisti vicini ad Al-Qaeda - cui partecipa un numero non precisato, ma parrebbe elevato, di miliziani europei o provenienti dall’Europa - preoccupa e coinvolge tutte le nostre capitali. Prima o poi i reduci ritorneranno, e saranno guai. Gli equilibri regionali, già precari, rischiano di venire ulteriormente compromessi.

La famigerata “responsabilità di proteggere”, lanciata dall’Onu e mai sottoscritta dagli stati, ha consentito tuttavia a qualcuno di perorare infauste azioni militari tipo Libia - i cui esiti oggi sono sotto gli occhi di tutti - e ad altri di fornire armi e supporti tanto al governo siriano che alle fazioni. Il risultato è stata la perpetuazione del conflitto.

In questo inestricabile marasma pochi sembrano aver le idee chiare, anche perché il linguaggio “politicamente corretto” utilizzato dai responsabili nei vari summit, e di conseguenza dai media, non consente di comprendere appieno gli eventi. Per oltre due anni anche l’Italia ha affogato la propria voce nell’inutile ritornello “Bashar Assad se ne deve andare”. Per ora però non è uscito di scena e sembra non avere alcuna intenzione di farlo.

Emergenza umanitaria
Se non abbiamo brillato per originalità nelle proposte di soluzione politica della crisi e abbiamo convenuto sul fatto che quelle militari non sono praticabili, vi è un settore dove il nostro contributo può essere utile e apprezzato: l’emergenza umanitaria. Settore questo più vicino e adatto anche alla formazione e al modus operandi del nostro ministro degli esteri, impegnata da sempre a recuperare spazi di visibilità all’azione italiana.

Emma Bonino è aiutata in questo da un carattere che la porta a coinvolgersi in prima persona e da un linguaggio che sembra mille miglia lontano da quello che caratterizza l’ambiente in cui opera. È probabile che tutto ciò le renda difficile la vita e che non tutto ciò che dice e fa possa essere digerito nell’immediato. Certamente però, almeno in questo settore, le ritaglia un ruolo di spicco che si riflette positivamente sull’immagine del paese. Su altro ci sarebbe forse da discutere, ma non sulle finalità dei suoi propositi.

Linguaggio accessibile
È sufficiente scorrere le rassegne e cogliere solo alcune delle sue affermazioni per accorgersene. Già all’inizio del mandato, quando si parlava ancora di “no-fly zone” sulla Siria, ne aveva intuito la pericolosità e aveva preso le distanze persino da alcune posizioni europee. Nella conferenza degli ambasciatori del 18 dicembre scorso, Bonino aveva sottolineato che “ il nostro paese nel conflitto siriano intende essere parte della soluzione, iniziando da Ginevra2”.

A Parigi, nella riunione degli Amici della Siria del 12 gennaio scorso, prendeva posizione spingendo l’opposizione siriana a partecipare senza condizioni a Ginevra2, per “consentire al popolo di prendere in mano in proprio destino”. Aveva poi insistito, annunciando per il 3 febbraio a Roma la conferenza umanitaria richiesta dall’Onu, sulla realtà che “non si può parlare del futuro, se non si riesce a dare un presente alla popolazione siriana”.

Gioia Tauro
Al di là della risposta alla crisi da parte della Cooperazione italiana (oltre 26 milioni di euro per gli sfollati e 19 già spesi per interventi a sostegno dei paesi limitrofi), l’azione italiana è divenuta più visibile quando, affiancandosi a Stati Uniti, Norvegia, Danimarca e Germania, ha offerto un porto italiano per il trasbordo a la neutralizzazione in alto mare di una prima aliquota di armamenti chimici siriani.

“Mi auguro - aveva aggiunto il ministro - che non si facciano polemiche per gli impegni internazionali che il Paese si dovrà assumere e che le forze politiche si comportino con il necessario decoro”. Puntualmente, invece sono scoppiate le polemiche su Gioia Tauro. E il peggio deve ancora venire. Emma Bonino non è una veggente. Solo che nessuno meglio di lei conosce così bene e dall’interno vizi e vezzi degli italiani. Serviva coraggio e il ministro ha dimostrato di averlo.

Almeno in questo settore il ruolo dell’Italia c’è ed è visibile. A confermarlo è la conferenza del 3 febbraio. Se vogliamo riscattare la penosa immagine che abbiamo dato al mondo con la gestione del caso dei fucilieri di marina, qualche altro scatto d’orgoglio sarà però indispensabile.

Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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