Quanto è reale il rischio di una crisi bancaria in Italia? Abbastanza per imprimere un deciso cambio di direzione alla gestione del dossier “Unione bancaria” da parte delle istituzioni dell’Unione europea (Ue).
Dopo aver battagliato sul salvataggio dei quattro istituti italiani posti in risoluzione a fine 2015 e sulla creazione della bad bank per gestirne gli asset tossici, la Commissione ha infatti autorizzato garanzie di Stato per 150 miliardi di euro a favore delle banche italiane solventi, aprendo alla possibilità di ricapitalizzazioni pubbliche a tutela del settore.
Con alle viste gli stress test dell’Autorità bancaria europea, che faranno miglior luce sullo stato dei crediti deteriorati nei bilanci delle banche italiane, è stata indubbia l’abilità del governo italiano nello sfruttare l’incertezza post-Brexit per adempiere un duplice obiettivo: ottenere il placet ad un piano che pari i colpi della svalutazione deinon-performing loans ed evitare agli istituti in sofferenza l’attivazione del contestato principio di burden sharing, la compartecipazione privata alle perdite che ha stravolto il consueto rapporto tra banche e risparmiatori all’indomani del caso Banca Etruria.
Intimorita dalla possibilità di una nuova crisi sistemica dopo il “Leave” britannico, la Commissione è inoltre apparsa troppo debole per confutare la consistenza del rischio paventato dall’Italia (non condivisa, ad esempio, dal presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem) e arginare quello che appare, in gergo renziano, un vero cambio di verso.
Bailout e bail in Pur variegata nella forma - garanzie pubbliche su emissione di nuovi bond, ricapitalizzazioni, aumenti di capitale coperti dal fondo Atlante o sofferenze acquistate dal suo gemello Atlante 2 - l’operazione di sistema profilata dall’Italia riapre infatti la stagione dei bailout pubblici che, durante la crisi finanziaria, ha pesato sui deficit di bilancio e limitato la leva fiscale per altri provvedimenti anti-ciclici.
Ad uscirne dunque indebolita è la finalità stessa dell’Unione bancaria, ossia la rottura del cosiddetto doom loop, la compenetrazione viziosa dei rischi tra sistema bancario e finanze pubbliche, alimentata dai canali dell’esposizione ai bond sovrani e della crescita dei deficit pubblici gonfiati dai salvataggi bancari.
L’enfasi, forse eccessiva, sulla ricapitalizzazione pubblica limita altre opzioni di coinvolgimento di capitali privati come, ad esempio, la conversione di obbligazioni in azioni accompagnata da una risoluzione “leggera” tramite bail in che compensi i risparmiatori non istituzionali.
È tuttavia l’architettura stessa dell’Unione bancaria a lasciare uno spiraglio aperto al rientro in scena dello Stato come ultimo garante. Il Fondo unico di risoluzione (Srf), con una dotazione di soli 55 miliardi di euro, non pare in grado di reagire a vere crisi sistemiche, né è contemplato - se non in via di principio - un ruolo del Meccanismo europeo di stabilità (Esm) come prestatore di ultima istanza da sostituire alle casse nazionali.
Rimangono peraltro inesplorate opzioni in questa direzione, quali l’istituzione di linee di credito a favore del Fondo unico, come da proposta italo-francese circolata in consiglio Ecofin, o la rivisitazione dello strumento di ricapitalizzazione diretta che il Meccanismo europeo può attivare, per i soli istituti considerati sistemici, unicamente a seguito di un’iniezione di fondi pubblici e solo qualora il bailout non deteriori la situazione fiscale del paese interessato.
Principi generali vs opportunità politica Eppure, si badi, non siamo in presenza di una ritrattazione tout court delle regole europee ma piuttosto di un’ulteriore dimostrazione della porosità di un impianto normativo frutto di un compromesso fra governi e costantemente soggetto all’interpretazione politica.
Se, appunto, l’Unione bancaria pareva poggiarsi sul principio (apparentemente) condiviso di una più equa distribuzione delle perdite, la sua applicazione pratica - ilbail in - rischia invece ora di essere indebolita da un utilizzo discrezionale delle eccezioni contenute nella direttiva Ue “Brrd”, sul risanamento e la risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento.
La direttiva disciplina infatti un sostegno finanziario pubblico straordinario come rimedio a una grave perturbazione dell’economia di uno Stato membro, al fine di preservare la stabilità finanziaria.
La questione va dunque focalizzata non tanto sulla natura dello strumento utilizzato quanto sull’indeterminatezza del principio di stabilità finanziaria, la cui definizione da parte di governi e regolatori varia in funzione delle sensibilità nazionali.
Valga da esempio l’inserimento dello stesso bail in nell’elenco dei potenziali rischi stilato dal rapporto della Banca d’Italia sulla stabilità finanziaria, per via delle forti esposizioni dei risparmiatori italiani verso le obbligazioni subordinate.
Ragione per cui i negoziatori italiani mirano a evitarne la conversione, secondo l’eccezione contemplata dalla comunicazione del 2013 sugli aiuti di Stato al settore bancario in presenza di “potenziale rischio sistemico”.
Un primo test di credibilità Evidente dunque il rischio di un’eccessiva discrezionalità da parte dei regolatori nazionali nell’invocare “perturbazioni eccezionali” che inibiscano l’innesco di un fallimento ordinato delle banche in sofferenza.
Il complesso meccanismo d’azione della risoluzione gioca inoltre a loro favore: è infatti facoltà del Consiglio - dunque degli Stati membri - bloccare un piano di risoluzione proposto dall’agenzia deputata, il Comitato di risoluzione unico (Srb), qualora la stabilità finanziaria sia considerata a rischio.
Sul campo italiano l’Unione bancaria affronta quindi il primo vero test di credibilità dalla sua entrata in funzione ma la sensazione è che principi generali e opportunità politica della loro applicazione ancora non viaggino di pari passo.
Antonio Scarazzini è direttore della rivista Europae e MA Graduate presso il Collège d’Europe di Bruges.
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