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martedì 18 novembre 2014

Forze Armate: prospettive a fronte della crisi Ucraina

L’Italia nell’Alleanza atlantica
Nato, dalle missioni alla trincea?
Carolina De Simone, Paola Tessari
15/11/2014
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“Siamo vicini a una nuova Guerra Fredda”, ha affermato Michail Gorbaciov durante le celebrazioni per il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino.

La crisi scoppiata in Ucraina ha infatti riportato un conflitto armato in Europa a quindici anni da quello in Kosovo, richiamando l’attenzione sulla situazione di instabilità di alcuni paesi europei e dell’architettura di sicurezza regionale.

Considerate l’importanza della Russia come partner economico e la vicinanza ad aree di crisi quali il Mediterraneo e l’Est Europa, per l’Italia è opportuno chiedersi come tutelare gli interessi nazionali, in particolare in riferimento alla Nato come “polizza di assicurazione” per la sicurezza collettiva euro-atlantica, e come framework nel quale perseguire i propri obiettivi di politica estera e di difesa anche attraverso lo strumento delle missioni fuori area.

Partendo dall’analisi dei rapporti tra l’Alleanza e la Russia e dagli obiettivi della partecipazione italiana ad alcune missioni Nato, una conferenza organizzata dallo IAI e dal Centro studi americani il 20 novembre rifletterà sul rapporto tra interessi nazionali e Alleanza Atlantica.

Relazioni Nato-Russia 
La crisi ucraina ha riportato l’attenzione sul ruolo della Nato come garante della difesa collettiva dei suoi membri, ma le radici delle tensioni tra l’Alleanza e la Russia affondano nel quindicennio precedente.

Ad esempio, l’allargamento della Nato a est era inteso come uno dei mezzi a disposizione dell’Alleanza per contribuire alla stabilità dei paesi dell’Europa orientale. Anche se in parte ha svolto questa funzione, al tempo stesso è stato interpretato da Mosca come una minaccia, contribuendo a inasprire i rapporti con la Russia.

La questione degli interessi nazionali è in questo contesto particolarmente complessa per le sue ramificazioni economiche, in particolare riguardo alla sicurezza energetica dell’Italia e ai rapporti commerciali con Mosca.

A seguito della spirale di sanzioni adottate da Ue e Russia, l’export italiano verso Mosca ha registrato una perdita di circa 2,4 miliardi di euro nel biennio 2014-2015, mentre i profitti russi derivanti dalle esportazioni di gas risultano diminuiti del 41% nel primo trimestre del 2014.

La Nato non ha ovviamente responsabilità diretta per quanto riguarda le sanzioni, decise in ambito Ue, ma la dimensione di sicurezza della crisi è evidente e la sua soluzione richiede un approccio strategico dell’Alleanza verso Mosca.

L’Italia ha quindi un doppio interesse al mantenimento della pace e della sicurezza in Europa, in quanto obiettivi a se stanti e come presupposto per una crescita economica che beneficerebbe tutta l’economia europea.

Missioni Nato e politica estera italiana
Se nell’ultimo anno, almeno per molti dei suoi membri, l’Alleanza ha ridato priorità al suo obiettivo originario di difesa collettiva, dalla fine della Guerra Fredda la Nato ha svolto prevalentemente operazioni di gestione delle crisi al di fuori dal territorio degli stati membri, missioni tuttora in corso in Kosovo, Afghanistan e Golfo di Aden.

L’Italia ha preso parte a un significativo numero di queste missioni, nonché a una serie di operazioni Onu e Ue, prevalentemente nei Balcani, Medio Oriente, Afghanistan e Africa.

L’ingente impegno profuso dal paese in termini di uomini e mezzi ha rappresentato uno strumento fondamentale sia della politica di difesa, sia della politica estera italiana.

Gli obiettivi perseguiti sono stati diversi: alcuni specificatamente legati al teatro operativo e altri più generali, connessi al sistema di alleanze di cui l’Italia fa parte, bilanciati in combinazioni differenti a seconda delle diverse contingenze.

Ad esempio, nel caso della missione in Kosovo del 1999, la necessità di contrastare l’instabilità nel quadrante balcanico e di tutelare gli interessi specifici in termini di sicurezza relativi al contenimento dei flussi migratori provenienti dalle zone di crisi attraverso l’Adriatico ha giocato un ruolo decisivo nella scelta a partecipare presa dall’esecutivo italiano.

L’Italia ha contribuito in modo rilevante alle operazioni anche al fine di mantenere un solido rapporto con gli Stati Uniti e salvaguardare la posizione italiana all’interno della Nato e della comunità internazionale.

Isaf, l’Italia consolida la sua posizione internazionale
Queste ultime ragioni sono state fondamentali per la decisione da parte di diversi governi italiani di garantire dal 2002 al 2014 una significativa partecipazione alla missione Isaf in Afghanistan, l’operazione più impegnativa della storia dell’Alleanza in termini sia quantitativi che qualitativi.

Gli obiettivi di mantenere strette relazioni con Washington e di consolidare la posizione italiana nella Nato e nel consesso internazionale, sono stati infatti determinanti per la scelta italiana rispetto alla pur importante necessità di stabilizzare l’Afghanistan.

Le missioni fuori area e la funzione di “polizza di assicurazione” della sicurezza euro-atlantica sono due facce della stessa medaglia in quanto entrambi “core tasks” dell’Alleanza che i paesi membri devono bilanciare sul piano militare e politico.

È oggi ancor più necessario per l’Italia capire come la partecipazione alle missioni abbia pagato - e paghi tuttora - in termini politici, rispetto alla posizione italiana nell’Alleanza e al rapporto con gli Stati Uniti. Questo nell’ottica di capire come operare a partire da queste basi per la tutela degli interessi nazionali anche nel quadro dei rapporti Nato-Russia.

Paola Tessari (@paola_tessari) e Carolina De Simone (@_cdesimone) sono assistenti alla ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI.
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Europa: nuove prospettive per uscire dalla crisi

Unione europea
L’Italia traini la governance europea
Antonio Armellini
08/11/2014
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“Uscire dall’Europa” per recuperare una sovranità nazionale perduta, come reclama una schiera sempre più folta di euroscettici, non ha molto senso.

Per la semplice ragione che dell’Europa (a 28) siamo parte costituente ed attore primario: spesso neghittoso, è vero, ma pur sempre attore. È dunque all’interno e non contro l’Europa che dobbiamo esercitare la nostra sovranità.

Rincorrendo la locomotiva tedesca
L’euro ha imposto un difficile percorso di adattamento dei paesi membri, ma ha offerto importanti possibilità. La Germania le ha sapute cogliere, avviando una serie di riforme che hanno pagato, eccome: se oggi Berlino torreggia su tutti i partner è perché questi non sono stati capaci di introdurre nelle loro economie i cambiamenti che avrebbero potuto contenere il divario dalla locomotiva tedesca.

Di tutto ciò le responsabilità vanno ricercate in chi in questi vent’anni ha governato a Roma (e a Parigi): non certo nella Germania che ha fatto, legittimamente, il proprio interesse.

Il “vincolo esterno” dell’Europa è stato usato non solo dagli anni ottanta/novanta per far passare scelte altrimenti impraticabili. È stato lo strumento con cui i governi della Prima Repubblica riuscirono a superare resistenze e introdurre il paese alla modernità: l’integrazione delle economie era vista come la premessa condivisa di una unione politica dall’impianto federale.

Il progetto europeo originario è sbiadito man mano che in “Europa” entravano paesi dalle storie diverse, realizzando una unificazione geopoliticamente importante, ma disomogenea.

Il collante è diventato la razionalizzazione economica, di cui la politica doveva essere mezzo e non guida, e l’euro è assurto a simbolo di una Europa governata da tecnocrati senza volto né patria e appesantita da un “deficit di democrazia”. Una caricatura, senza dubbio, ma molto diffusa.

Unione monetaria
L’unione monetaria avrebbe dovuto imprimere un colpo d’ala all’integrazione politica dell’Europa; l’euro ne era stato concepito come uno strumento rivoluzionario e innovativo, non come un fine.

Anche per questo a Maastricht si procedette con un accordo che nasceva tronco, nella convinzione che la dinamica dell’integrazione avrebbe reso inevitabile il passaggio a una vera unione economica. Passaggio che avrebbe richiesto una volontà politica coesa che è venuta meno perché, nel frattempo, sono andate crescendo le differenze su cosa significhi e come debba avanzare l’Unione europea.

La salute dell’Eurozona è fondamentale per la stessa Germania e la sua posizione dominante dovrà essere riequilibrata: non attraverso ukaze di carta, bensì recuperando il ruolo della politica.

Solo una unione monetaria consentirebbe una gestione comune delle politiche nazionali, calmierando le gelosie ed eccessi nazionali attuali. Aldilà degli sforzi di Mario Draghi, senza un governo comune l’euro potrà difficilmente resistere alle tensioni e la sua fine sarebbe un disastro per l’economia mondiale.

È poco probabile che a un simile governo saranno disponibili a partecipare da subito tutti: ci vorrà una combinazione coraggiosa di inventiva politica e di sapienza istituzionale per trovare formule idonee.

Una presidenza italiana tesa a lasciare una traccia significativa del suo passaggio non dovrebbe lasciarsi sfuggire una simile occasione: sarebbe in linea con la tradizione del nostro paese, di avere sempre supplito alla scarsità di peso specifico grazie a una capacità di proposta politica di grande visione.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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