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domenica 21 dicembre 2014

Una nuova stagione per i militari italiani

Forze Armate e capacità militari
Addestramento, è tempo di agire
Alessandro Ungaro
06/12/2014
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L’addestramento delle Forze Armate rimane uno dei pilastri fondamentali per uno strumento militare in grado di assolvere i propri compiti istituzionali.

Attualmente in Italia sono chiamate ad affrontare la progressiva riduzione dell’impegno all’estero, una costante contrazione degli impegni finanziari, nonché adattarsi e sfruttare adeguatamente ciò che il progresso tecnologico offre in termini di innovazione, prodotti e supporto.

L’attività addestrativa è fondamentale per diverse ragioni. È in gioco la capacità dell’Italia di proiettare e sostenere rapidamente adeguate capacità militari nell’eventualità si rendesse necessario, sia su base nazionale sia in missioni internazionali sotto egida Onu, Nato e Ue.

Da un adeguato addestramento dipende infatti l’efficacia e la credibilità dello strumento militare, in termini di protezione degli interessi nazionali, anche quando quest’ultimi potrebbero non coincidere del tutto con quelli dei principali partner europei e/o transatlantici.

Va da sé inoltre che un adeguato addestramento assicura la protezione dello spazio euro-atlantico, come forma di deterrenza per scoraggiare atti potenzialmente ostili. Ciò rende necessaria un’attività addestrativa costante, capace di coprire l’intero spettro delle possibili operazioni militari, comprese quelle ad alta intensità, ossia contro un avversario con capacità convenzionali equipaggiate e addestrate.

L’addestramento risulta determinante anche considerando il progresso tecnologico, il quale esige una formazione del personale militare e tecnico più articolata e costantemente aggiornata. Infine, la sperimentazione di nuovi sistemi d’arma, specie se tecnologicamente avanzati, rimane un’attività estremamente sensibile e strettamente legata alla sicurezza nazionale, con importanti implicazioni anche sul piano industriale.

Cenerentola della difesa italiana
Alla sua crescente rilevanza, tuttavia, non coincide un adeguato sostegno finanziario. L’addestramento figura come la “cenerentola” della difesa italiana, soprattutto - ma non solo - in termini di risorse assegnate.

Basti pensare che dal 2002 al 2013 le spese per l’esercizio sono passate da 3.590 milioni di euro a 1.335 milioni, con un impressionante taglio del 63%. Anche in termini percentuali, il peso di tale voce sulla Funzione Difesa ricalca in larga misura i dati assoluti. Mentre nel 2002 le spese dedicate assorbivano poco più del 25% (26,3), undici anni dopo non raggiungono il 10% (9,2%).

A questi dati va ad aggiungersi la progressiva riduzione del finanziamento alle missioni internazionali, utilizzato per coprire parte dei costi di esercizio riferiti all’addestramento del personale militare e alla manutenzione degli equipaggiamenti. Da 1,55 miliardi di euro del 2011 si è passati a 1,4 miliardi nel 2012, per poi diminuire ulteriormente nel 2013 toccando 1,25 miliardi. Per l’anno in corso il fondo missioni ha visto un taglio di 250 milioni di euro assestandosi a circa 1 miliardo.

Un combinato disposto che solleva un problema vitale per le Forze Armate italiane, ossia come mantenere le capacità operative faticosamente acquisite negli anni, assicurando adeguati standard di efficacia, prontezza, interoperabilità ed efficienza dello strumento militare. Sono questi i temi affrontati in un recente studio IAI, che verrà presentato durante una conferenza a Roma il prossimo 11 dicembre.

La dimensione Nato e Ue
L’addestramento può annoverarsi fra le aree dove risulta più agevole realizzare iniziative di cooperazione internazionale. L’impegno italiano ha un duplice obiettivo: mantenere adeguati standard delle capacità operative sia in termini tecnologici, dottrinari e procedurali; rimanere all’interno di un sistema d’alleanze che fornisce alla politica estera, di difesa e industriale italiana un capitale politico-diplomatico-commerciale da poter sfruttare nei confronti dei principali partner europei e internazionali.

Le attività di training costituiscono pertanto uno strumento di “diplomazia militare”. Guidare o partecipare in modo significativo a iniziative internazionali nel campo dell’addestramento significa rafforzare i rapporti bilaterali e la posizione dell’Italia e attesta la qualità degli equipaggiamenti italiani realizzati dall’industria nazionale, sostenendo indirettamente gli sforzi di esportazione verso Paesi alleati ed amici.

Credibilità Forze Armate
La condotta delle operazioni è divenuta via via sempre più complessa e multiforme, tanto da richiedere una padronanza non solo del sistema d’arma in sé, ma anche del funzionamento di un’articolata catena di comando e controllo, di specifiche manovre e tattiche da realizzarsi in spazi estesi e tempi prolungati, che includono tra l’altro l’integrazione tra diversi assetti navali, terrestri e aerei.

Ecco perché aree addestrative e poligoni sono uno strumento indispensabile per l’addestramento delle Forze Armate, senza rinunciare però alla ricerca di un migliore equilibrio tra le esigenze della difesa e il rispetto dell’ambiente territoriale e delle comunità locali ove tali attività si verificano.

Qui l’innovazione tecnologica potrebbe giocare un ruolo di primo piano. Infatti, con la possibilità di organizzare esercitazioni a simulazione “live”, “virtual” e/o “constructive” si potrebbero eliminare alcuni limiti imposti dal munizionamento reale.

Se le missioni internazionali rappresentano uno degli strumenti principali della politica estera e di difesa italiana, parte di questo risultato è da attribuirsi alla credibilità delle nostre Forze Armate nell’operare all’estero. Credibilità che a sua volta è il frutto di una costante, metodica ed efficace attività addestrativa, un vero e proprio patrimonio da salvaguardare e proteggere.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @AlessandroRUnga).
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mercoledì 3 dicembre 2014

Il nodo della Palestina. Prima o poi occorre scioglierlo

Medio Oriente
Italia vaga sul riconoscimento dello Stato di Palestina
Paola Caridi
02/12/2014
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Una ‘lunga marcia’, oppure una battaglia di rimessa? È una domanda forte, eppure necessaria, quella che bisogna porsi sulla questione del riconoscimento dello Stato di Palestina. Prima di porsela, però, occorre scendere nei dettagli.

Il riconoscimento dello Stato di Palestina viaggia da anni su binari paralleli, da un lato nelle organizzazioni internazionali, e, dall’altro, nei parlamenti nazionali. Spesso, però, protagonisti e strategie non sono gli stessi.

Riconoscimento e nuova asimmetria
Cominciamo dal riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Onu e delle sue agenzie. Il traguardo raggiunto il 29 novembre 2012 con l’ammissione della Palestina come Stato osservatore nelle Nazioni Unite ha avuto una singolare gestazione.

Cominciato quando, nel 2010, la presidenza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e i negoziatori dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) hanno compreso di poter usare la carta del riconoscimento come elemento di pressione nei confronti di Israele e della comunità internazionale.

Un carta jolly. Cerchiamo di non far precipitare la situazione - questa la sintesi del messaggio lanciato dalla leadership palestinese. Dall’altra parte della barriera, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha usato la carta del riconoscimento come una giustificazione a intensificare le costruzioni dentro le colonie israeliane in Cisgiordania e nel cuore di Gerusalemme est.

Israele sa bene che il riconoscimento (effettivo, non solo formale) di uno Stato di Palestina comporterebbe un cambiamento importante nell’asimmetria del rapporto tra Israele e Palestina: uno Stato a tutti gli effetti, occupante e con il monopolio dell’uso della forza, da una parte, e dall’altra parte una entità cui viene legata l’identità di popolo, ma alla quale non vengono dati gli strumenti istituzionali tipici di uno Stato nazionale.

Se riconoscimento effettivo vi fosse, vi sarebbero due stati che devono regolare contese territoriali partendo da un confine riconosciuto dalla comunità internazionale, e cioè quello dell’armistizio del 1949. Israele diventerebbe potenza occupante su di un suolo sovrano, e le colonie israeliane sarebbero né più né meno città costruite sulla terra dello Stato palestinese.

Diplomazia imbarazzata
Quale, dunque, la differenza tra il riconoscimento dello Stato di Palestina nel sistema Onu e il riconoscimento da parte di singoli stati? A cambiare sono i protagonisti. Non è tanto l’Anp a spingere per le risoluzioni che si stanno affollando nei parlamenti europei. In campo ci sono pressioni interne palesi e sempre più diffuse nelle opinioni pubbliche nazionali in Europa.

E c’è anche il disagio - non evidente in pubblico, ma chiarissimo nei corridoi diplomatici e politici - delle cancellerie che sanno quanto sia delicata questa fase del conflitto israelo-palestinese, tra Gaza e Gerusalemme.

Il jolly del riconoscimento è nelle mani delle cancellerie e/o dei parlamenti europei. Non in quelle palestinesi. Non c'è niente che costringa gli stati a riconoscere la Palestina, ma la pressione è evidente. Chiara la pressione che il voto del parlamento britannico ha significato, e ancor più chiara la pressione sarebbe se in un altro paese dotato di potere di veto nel consiglio di sicurezza dell’Onu, cioè la Francia, il parlamento si esprimesse in modo simile.

Risoluzioni italiane sul riconoscimento della Palestina
La posizione italiana non ha la rilevanza di Londra o di Parigi. Quello che appare dalle due risoluzioni presentate alla Camera dei Deputati e dalla risoluzione presentata al Senato (non ancora calendarizzate) è che non abbiano quel peso necessario per essere considerate parte di una strategia-Paese.

Il contenuto delle risoluzioni non mostra una chiara strategia italiana sul Medio Oriente e sulla stessa, specifica questione. Si rischia, insomma, la genericità, quando non ci si arrischia di cambiare gli stessi punti della trattativa di pace.

Un esempio è contenuto nella mozione, prima firmataria Pia Locatelli, presentata alla Camera.

Questa contiene un passaggio ambiguo - “la necessità di rafforzare la leadership legittima del presidente palestinese Abbas e delle istituzioni palestinesi con capitale Ramallah, scongiurando il rischio di un rafforzamento di altre entità politiche che pretendano di rappresentare i palestinesi” - che rischia di far considerare Ramallah la futura capitale dello Stato di Palestina (e non Gerusalemme est), di bloccare i tentativi di riconciliazione tra Fatah e Hamas, e di considerare ormai definitiva la frattura tra Cisgiordania e Gaza.

È questo che l’Italia vuole? È questo che vuole, nel caso specifico, una parte della sinistra italiana in parlamento? Non si ritiene invece, all’interno delle classi dirigenti di questo paese, di riflettere seriamente sul paradigma di Oslo, che tutti sanno - nei circoli accademici tanto quanto nelle cancellerie - essere ormai superato?

Il riconoscimento dello Stato di Palestina è, per i suoi tempi, una lunga, lunghissima marcia. Dal punto di vista della cronaca e della storia recente, si sta invece trasformando in una battaglia di rimessa, proprio per il superamento - nei fatti e sul terreno - del paradigma di Oslo.

Le stesse élites politiche palestinesi - Fatah, Hamas, gli uomini dell’Olp e dell’Anp - sono protagoniste di questa battaglia di rimessa, che mette al centro la territorialità, lo Stato, lo Stato Nazionale, proprio in una fase in cui, dal basso, la richiesta poggia su altri pilastri: identità e diritti.

Questi non sono per forza di cose difendibili all’interno di uno Stato nazionale, definito secondo le linee dell’armistizio del 1949, per quanto concerne i palestinesi.

Se questa è la situazione, sul terreno e all’interno della società palestinese, la battaglia per il riconoscimento dello Stato di Palestina è di rimessa perché la storia è andata avanti, si è incanalata nei percorsi segnati dalla realtà. La politica, complessivamente intesa, non è ancora riuscita a introiettare e digerire il cambiamento.

Paola Caridi è analista e scrittrice, autrice di Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele (Feltrinelli 2013).
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Omosessualità: verso norme più accettabili

Corte europea dei diritti dell’uomo
Omosessuali europei, quali diritti?
Daniele Gallo
18/11/2014
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È sufficiente consultare i numerosi siti dedicati al tema dell’omosessualità in Europa per rendersi conto della tendenza, in atto in moltissimi paesi del continente, verso un progressivo riconoscimento giuridico dei diritti (unione registrata, matrimonio, adozione, ecc.) per i cittadini LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, intersessuati).

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha svolto un ruolo importante nella promozione e nella protezione dei diritti civili per la comunità LGBTI. Il contesto di riferimento è rappresentato dal Consiglio d’Europa (avente una membership molto più nutrita ed eterogenea dell’Unione europea, Ue), in particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che la Corte è chiamata a interpretare e applicare.

Diritti della famiglia omosessuale
La Corte, a partire dagli anni ‘80, ha ravvisato la violazione dell’articolo 8 della Convenzione (Diritto al rispetto della vita privata e familiare), nella maggior parte dei casi letto congiuntamente con l’articolo 14 (Divieto di discriminazione), con riferimento sia a diritti patrimoniali (ad es. Karner v. Austria) che a diritti collegati allo status di genitore (ad es. X. V. Austria).

Per molti anni i giudici di Strasburgo sono pervenuti a riscontrare una tale violazione facendo perno sulla nozione di “vita privata”, anziché su quella di “vita familiare”. È solamente con la sentenza Schalk and Kopf del 24 giugno 2010, infatti, che la Corte qualifica come “vita familiare” la relazione di coppia omosessuale, con il risultato che il nucleo dei diritti conferiti alla famiglia eterosessuale viene riconosciuto anche alla famiglia omosessuale.

Tuttavia, con riguardo al diritto al matrimonio, salvaguardato dall’articolo 12 della Convenzione, la Corte, se da un lato, per la prima volta, chiarisce che tale norma può applicarsi, in principio, anche al matrimonio omosessuale, dall’altro, nel sottolineare che mancava, all’epoca, un “European consensus” in merito al riconoscimento del matrimonio same-sex, nega che i ricorrenti nel caso di specie fossero titolari di un effettivo diritto al matrimonio.

La Corte giunge alla stessa conclusione anche nella citata X. V. Austria, del 19 febbraio 2013, laddove viene ribadito che l’articolo 12 non può essere interpretato nel senso che esso imporrebbe, in capo agli Stati, l’obbligo di riconoscere i matrimoni omosessuali.

Interpretazione evolutiva della Corte Edu
Dall’analisi della giurisprudenza della Corte, pertanto, emergono due elementi. Il primo è che la Corte, ricomprendendo nella nozione di “vita familiare” e in quella di “matrimonio”, ai sensi degli articoli 8 e 12 della Convenzione, anche le relazioni e i matrimoni tra persone dello stesso sesso, opta per un’interpretazione evolutiva, dinamica e, in ultima istanza, inclusiva delle norme convenzionali.

In questo senso, essa coglie le trasformazioni sociali in atto in Europa, dà loro una veste giuridica e, nel farlo, agisce come agente di cambiamento, con l’ulteriore conseguenza di rappresentare un “modello” per legislatori e soprattutto corti nazionali, come dimostrano i continui riferimenti alla giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo (Edu), svolti nelle sentenze delle corti italiane chiamate a pronunciarsi sul tema del riconoscimento giuridico delle coppie same sex (ad es. Corte di Cassazione, n. 4184, del 15 marzo 2012).

La condanna della Grecia, a opera della Corte europea, nella sentenza Vallianatos, del 7 novembre 2013, in merito alla normativa di quel paese che consentiva la registrazione delle unioni civili solamente alle coppie eterosessuali, mette in evidenza la compressione dei margini di sovranità degli Stati in una materia, come quella dei diritti LGBTI, un tempo riconducibile alla giurisdizione domestica dei paesi che sono membri del Consiglio d’Europa.

Si desume dalla pronuncia che qualora uno Stato, come l’Italia, decidesse di introdurre le unioni registrate e lo facesse solamente a favore delle coppie eterosessuali, violerebbe la Convenzione.

Matrimonio omosessuale, civil partnership e sovranità degli Stati 
Il secondo elemento che si desume dalla giurisprudenza della Corte Edu consiste nell’ancoraggio al diritto nazionale, cioè nel rinvio alla lex patriae del ricorrente: se lo Stato di cui ha la cittadinanza non riconosce il matrimonio same-sex, non si configura alcun diritto al matrimonio da lui/lei invocabile dinanzi alla Corte europea.

Non esiste, quindi, alcun diritto fondamentale, su un piano generale, al matrimonio omosessuale, a prescindere dallo Stato di origine del ricorrente.

Ciò è dimostrato dall’approccio, particolarmente cauto, adottato dalla Corte nella sentenza H. c. Finlandia, del 16 luglio 2014, laddove è stata riconosciuta come legittima la normativa finlandese che impone la trasformazione del matrimonio in una civil partnership quale effetto ex lege della rettificazione anagrafica del sesso, proprio perché la scelta rientra nel margine di apprezzamento del singolo Paese contraente.

In conclusione, la Corte dimostra, con la sua giurisprudenza, che un’interpretazione flessibile di concetti quali “family”, “spouse”, “marriage”, diversa da quella statica e rigida (originalist, per dirla alla Antonin Scalia) seguita per molti anni da giudici e legislatori nazionali, è certamente possibile e perfino auspicabile.

Tuttavia, la Corte essa è netta nel mostrare deferenza nei confronti dei legislatori (e delle corti) nazionali: fino a quando il consenso tra gli Stati (che sono parti del Consiglio d’Europa, non dell’Ue) a favore del riconoscimento delle coppie same-sex non sarà particolarmente significativo, sulla scorta di quanto affermato in Schalk and Kopf, alcun diritto fondamentale al matrimonio potrà essere azionato da cittadini LGBTI sul piano giurisdizionale.

Daniele Gallo è docente di EU Law e EU Internal Market nel Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli.
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Italia: il punto di situazione sulle tossicodipendenze

Traffico di droga
Anche eroina lungo la via della seta
Anna Paola Lacatena
20/11/2014
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Una diminuzione del consumo di eroina in Italia. Questo quanto emerso dalla relazione sullo stato delle tossicodipendenze del 2013, curata dal dipartimento per le politiche antidroga.

Al contempo però, i dati più recenti della direzione centrale per i servizi antidroga del Viminale su sequestri e denunce sembrano fotografare il fenomeno in crescita. Per il Viminale, infatti, nel corso del 2012, sono aumentati sia i sequestri di eroina (894chili rispetto agli 810 del 2011), che quelli di anfetaminici in dosi.

Tab. 1 - Consumatori di sostanze stupefacenti (prevalenza %) nella popolazione generale 15-64 anni negli ultimi 30 giorni. Anni 2010 e 2012 (fonte Dipartimento per le Politiche Antidroga).
È sufficiente guardare la relazione annuale della Guardia di Finanza del 2012 per rendersi conto che il contrasto appare più orientato verso le rotte marittime della cocaina (anche per fronteggiare lo sbarco di immigrati clandestini): 25,4 tonnellate tra hashish e marijuana, oltre 4 tonnellate di cocaina, 421 chili di eroina.

Inoltre, i mezzi sequestrati utilizzati per illeciti traffici vedono quelli marittimi nettamente superiori a quelli di terra. Eppure, secondo il World Drug Report del 2010, si sono stoccate nell'ultimo biennio oltre 12 mila tonnellate di oppio tra Afghanistan e Myanmar, attualmente le aree mondiali più importanti per la specifica produzione.

Mercato mondiale dell’eroina
Il mercato mondiale dell'eroina, stimato in 55 miliardi di dollari, ha in Russia, Iran e Europa occidentale la concentrazione più significativa del numero di consumatori, con l'Afghanistan al vertice dell'offerta (oltre il 90%).

Dati recenti del Centro di coordinamento regionale d'informazioni sull'Asia centrale segnalano la comparsa di una nuova rotta attraverso il Turkmenistan, paese leader dei precursori chimici sin dal 1990.

Nonostante il dato dei sequestri di eroina sia in crescita e non solo nel nostro paese, secondo il World Drug Report 2010, il numero ancora ridotto a fronte di una produzione in netta crescita potrebbe essere imputato all'individuazione di nuove rotte di scorrimento veloce via terra, ben organizzate e, spesso, lubrificate dalla corruzione di alcune polizie locali.

Peraltro, l'attività del servizio antidroga della polizia cantonale ticinese nel 2012 ha evidenziato che il forte aumento dei quantitativi di eroina intercettati potrebbe essere dovuto all'assenza di sequestri significativi nel 2011 (circa cinque chili di eroina nel 2012 a fronte di 870 grammi del 2011), per una contrazione delle risorse in campo.

Nuove rotte terresti per il traffico di droga
Trascurare le rotte terrestri potrebbe, nel tempo, favorire non solo il diffondersi dell'eroina, ma anche di quelle nuove droghe che giungono dall'est asiatico, come Mefedrone e Kfen.

Nella relazione congiunta dell'Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Oedt) e dell'Europol sul mercato europeo degli stupefacenti (Bruxelles, 2013) si legge che la: “Turchia gioca ancora un ruolo centrale lungo la rotta dei Balcani, ma ci sono segnali di nuove rotte utilizzate dalla criminalità organizzata per rispondere ai successi di interdizione (ad esempio dei Balcani occidentali)”.

Da quanto analizzato è possibile concludere che la lotta al narcotraffico, non può registrare in alcun modo distrazioni e riduzioni dei livelli di attenzione.

Nel nostro paese non si può concludere di essere in presenza di una contrazione del consumo di eroina solo in ragione del numero più contenuto rispetto al passato di consumatori in carico ai Ser.D.. Si fanno necessarie politiche globali, a partire dall'attenzione nei confronti delle rotte sempre pronte a rinnovarsi per eludere controlli e sorveglianza.

Al momento, per quanto riguarda gli oppiacei, la cosiddetta Via della Seta, appare quella più utilizzata (il termine fu coniato dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen nel 1877, sebbene tra il 1271 e il 1295, il nostro Marco Polo la percorse da Venezia sino in Malesia, passando per la Cina).

Sarebbe opportuno, però, non trascurare la nuova Via della Seta. Fino al 2010, sui mercati del narcotraffico europeo ogni anno comparivano tra le quattro e le cinque nuove sostanze. Nel 2012 sono stati scoperti 73 nuovi “prodotti” in 690 diversi siti internet, molti dei quali cinesi e russi.

Conseguentemente, si fa necessario, un aumento dei finanziamenti per potenziare le operazioni delle forze di polizia e delle autorità doganali, i canali di comunicazione e informazione nonostante, e tutt'oggi, il grande nodo appaia il miglioramento della collaborazione tra posti di frontiera dell'Unione europea e paesi esterni all'Unione stessa.

È necessario ribadire, poi, la necessità di azioni di prevenzione e recupero in grado di coinvolgere l'intera comunità sotto il profilo socio-culturale e sanitario.

Anna Paola Lacatena e dirigente sociologa presso il Dipartimento Dipendenze Patologiche della ASL TA, giornalista pubblicista dal 1994. Pubblicazioni recenti: "Con i tuoi occhi. Donne, tossicodipendenza e violenza sessuale", Prefazione di Don Andrea Gallo, Franco Angeli Editore, 2012 ,"Resto umano. Storia vera di un uomo che non si è mai sentito donna", Chinaski Editore, 2014.
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