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martedì 31 marzo 2015

Immigrazione: ancora proposte ad un Europa sorda

Ue Immigrazione
Il piano italiano per uscire dall’empasse
Enza Roberta Petrillo
26/03/2015
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Non sarà ancora una svolta, ma il cambio di passo c’è ed è già un buon inizio. Sul tavolo dell’ultimo Consiglio Affari Interni dell’Unione, è arrivato il piano italiano per fronteggiare l’aumento dei flussi migratori dalla sponda Sud del Mediterraneo.

Un traguardo raggiunto con il sostegno diplomatico del capo della diplomazia Ue Federica Mogherini e del commissario agli Affari interni DimitrisAvramopoulos, autori di una lettera indirizzata ai ministri degli Affari esteri europei, per sollecitare “una forte azione politica e una risposta operativa” al numero crescente di persone che continuano a partire dalle coste libiche in condizioni di estrema vulnerabilità.

Un monito raccolto senza indugi dal governo italiano, consapevole che i 9 mila migranti sbarcati sulle coste meridionali dall’inizio dell’anno - circa il 43% in più rispetto allo stesso periodo 2014 - potrebbero aumentare con la primavera, esponendo i migranti a rischi crescenti.

I dati parlano chiaro. Dall’inizio dell’anno, ha documentato l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati, circa 470 migranti hanno perso la vita nel Mar Mediterraneo, rispetto ai 15 scomparsi nello stesso periodo dello scorso anno. Un’ ecatombe annunciata che ha spinto il ministro dell’Interno Alfano ad accelerare la diffusione del piano italiano o per uscire dall’empasse. “La nostra idea è di costituire dei campi in Africa, sull'altra sponda del Mediterraneo, in modo tale che lì si facciano le richieste d'asilo e che lì si dica sì o no. Coloro a cui si dice no restano lì, gli altri ovviamente devono essere ripartiti e divisi in modo equo fra tutti i Paesi europei”.

Una gestione europea, ripensando Dublino
Linea che espressa con altre parole implicherebbe una gestione europea del dossier immigrazione che poggi allo stesso tempo sulla condivisione degli oneri connessi alla concessione della protezione umanitaria e sul rafforzamento della cooperazione con i paesi di provenienza e transito.

Obiettivi ambiziosi, già lanciati dal recente processo di Karthoum, che l’Italia punta a portare avanti in sinergia con organizzazioni umanitarie multilaterali, come l’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Unhcr) e l’Organizzazione Mondiale per le migrazioni (Oim), organizzazioni storicamente impegnate in missioni umanitarie e non di polizia.

La priorità è evitare altre morti nel Canale di Sicilia. Per fare questo la proposta italiana punta ad offrire ai migranti un canale di ingresso in Europa regolare e alternativo basato su un sistema di “safeharbours”: centri di raccolta localizzati in Niger, Sudan e Tunisia da cui i richiedenti asilo potrebbero inoltrare la loro domanda al paese Ue prescelto, dove verrebbero poi trasferiti se la loro richiesta venisse accolta.

Se approvato, il piano italiano implicherebbe un radicale ripensamento del sistema di Dublino e darebbe sostanza alla stringente necessità di potenziare il burdensharing, l’equa distribuzione dei titolari di protezione umanitaria tra tutti i 28 Stati membri dell’Ue.

L’ipotesi italiana, dettagli e criticità
Nell’ipotesi italiana, i centri potrebbero essere realizzati sulla base dei programmi di protezione regionale, iniziative di assistenza comunitaria lanciate nel 2005 per potenziare le capacità di protezione offerte dai paesi terzi che fungono da paesi di provenienza e transito verso l’Unione.

Già nel 2010 la Commissione aveva esteso questo tipo di intervento ai paesi del Corno d’Africa e del Maghreb con l’obiettivo di “migliorare la protezione dei rifugiati attraverso soluzioni durature, come il ritorno, l'integrazione locale e il re-insediamento”.

Ambizioni che hanno vacillato sia per la fragilità degli interlocutori istituzionali delle due regioni, sia per l’assenza di coerenza tra il livello d’intervento locale, nazionale e regionale, con i programmi e le iniziative sviluppate dall’Ue per garantire protezione ai migranti ospitati nei paesi terzi.

Adesso l’Italia ci riprova, integrando la marcata esternalizzazione delle politiche migratorie di quel programma, con la possibilità di richiedere la protezione direttamente dai paesi di transito. Da qui i migranti dovrebbero essere ridistribuiti in Europa con ricollocamenti su base volontaria o altri canali legali, compresi i visti umanitari.

Un cambio di strategia non da poco e che destabilizzerebbe alle radici il sistema d’asilo vigente ad oggi basato sul regolamento Dublino III del 2013. Atto che impone al primo stato europeo raggiunto dal migrante di farsi carico della responsabilità dell’esame della domanda d'asilo.

Per ora la proposta italiana avrebbe già incassato l'appoggio di Francia e Germania. Sostegni di peso, senza dubbio, ma che potrebbero non bastare per vincere lo scetticismo delle cancellerie capeggiate da molti dei paesi di recente ingresso nell’Ue.

L’appoggio franco-tedesco, le riottosità dell’Est
Riottosità sintetizzate perfettamente dal ministro lettone Rihard Koslovskis, presidente di turno del Consiglio dei Ministri dell’Ue che ha commentato la proposta italiana con un cauto “Le posizioni sono ancora divergenti”. Alfano ha rilanciato l’inderogabilità della questione. “E’dovere della comunità internazionale trovare una soluzione. La strada diplomatica resta quella principale. Se non si risolve la questione libica è inutile parlare di immigrazione con la speranza di bloccare le partenze”.

Valutazioni condivise in toto da Vincent Cochetel, direttore del Bureau UnHcr per l’Europa che ha ammonito:“Il mantenimento dello status quo non è un'opzione praticabile. Non agire di fronte a queste sfide comporta solamente la morte di altre persone”.

Una partita aperta, per ora, che con potrebbe restare aperta almeno fino al prossimo maggio, quando la Commissione europea dovrebbe varare la nuova Agenda per l’immigrazione, finalizzata a rendere più efficace l’asilo, gestire meglio l’immigrazione regolare, combattere quella irregolare e rafforzare la protezione delle frontiere esterne.

Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università “Sapienza” di Roma.Esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it).

lunedì 16 marzo 2015

La difesa in Italia: Il sempre spinoso problema

Costi della difesa
Spese per la difesa, una strada in salita 
Michele Nones
11/03/2015
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I Paesi della Nato si sono impegnati nel Vertice del Galles dello scorso settembre a contrastare la riduzione delle spese militari in atto.

Lo scenario internazionale, e in particolare la crisi in Ucraina, con le iniziative della Russia, e gli attacchi dell’autoproclamatosi “stato islamico” e di altri gruppi fondamentalisti islamici in Medio Oriente e in Africa, richiedono una più forte risposta da parte dell’Alleanza.

Nelle conclusioni approvate dai capi di Stato e di Governo vengono indicati questi obiettivi per i paesi che non destinano alla difesa il 2% del Pil, come concordato in ambito Nato:
- arrestare qualsiasi riduzione nelle spese per la difesa;
- puntare ad aumentarle quando il Pil dovesse crescere e puntare verso il 2% nel prossimo decennio per raggiungere gli obiettivi di capacità e colmare le carenze di capacità della Nato.

Crescita della spesa militare europea
Il presidente del Consiglio Renzi è intervenuto nel dibattito, e lo ha poi evidenziato nella conferenza stampa finale, per sottolineare che la crescita della spesa militare europea sarebbe molto più facile se non venisse conteggiata ai fini del Patto di Stabilità.

Ovviamente, ha voluto così ribadire che solo se l’Europa riconoscerà il carattere strategico delle spese militari potrà effettivamente migliorare le sue capacità di difesa. Il principale problema europeo non è, infatti, il basso livello di spesa, ma il suo utilizzo con la mancata, o comunque debolissima, integrazione militare.

A preoccupare è la qualità più che la quantità. Se le dimensioni delle Forze Armate europee sono tali da assorbire gran parte delle risorse, anche un livello di investimento pari al 20% del bilancio, come previsto dalla Nato, non consente di avere uno strumento efficiente perché mancheranno i fondi per l’addestramento o la manutenzione o, persino, per poter operare (ed è proprio il caso italiano, oltre che di molti altri).

Inoltre, l’inevitabile passaggio a Forze Armate professionali genera un altrettanto inevitabile aumento del costo del personale, a meno di accettare una pericolosa diminuzione della sua qualità.

Una soluzione intermedia e politicamente più accettabile a livello europeo potrebbe essere offerta da un accordo per escludere dai parametri finanziari solo le spese per la realizzazione e l’acquisizione di equipaggiamenti militari che rispondano, con soluzioni europee, ad esigenze definite a livello europeo.

Se, infatti, la sicurezza e la difesa dell’Unione richiedono determinate capacità militari, le relative spese, anche se fatte a livello nazionale, dovrebbero poter essere viste come obiettivo condiviso e una parte potrebbe ricadere sull’intera economia europea. Ovviamente questo richiederebbe la messa a punto di un sistema di “validazione” comune del loro carattere effettivamente “europeo”.

Spese militari dei paesi Nato
Un rapporto dell’European Leadership Network ha recentemente riportato l’attenzione sulle spese militari dei Paesi Nato nel 2015. Non si sono ancora registrati cambiamenti nel quadro complessivo.

Lo studio evidenzia che dei 14 Paesi esaminati, solo uno (piccolo) supera il 2% del Pil, sei (fra cui uno medio) hanno aumentato le loro spese, sei (fra cui Regno Unito, Germania e Italia) le hanno diminuite e uno (Francia) le ha mantenute allo stesso livello.

Vanno, però, tenuti presenti tre aspetti non citati nello studio:
1) i dati Nato, come quelli della European Defence Agency, sulle spese militari non sono sufficientemente omogenei per cui i confronti vanno presi con grande cautela;
2) i dati consuntivi più recenti sono soggetti a correzioni legate alle variazioni intervenute in seguito;
3) i dati preventivi sono solo indicativi.

Basti osservare il caso italiano: solo nell’ultimo biennio sono state considerate nelle nostre spese militari anche quelle sostenute dal Ministero dello Sviluppo economico per le acquisizioni, ma non quelle per Research & Technology (R&T); resta difficile quantificare il contributo offerto dalle spese per le missioni internazionali a favore di addestramento e funzionamento; in compenso continuano ad essere considerate le spese per i Carabinieri e altre di carattere generale.

Emblematico è il caso del programma navale votato dal Parlamento a fine 2013 e contrattualizzato con oneri a partire da quest’anno per un valore di 5,4 miliardi di euro in un ventennio, di cui lo studio non ha tenuto conto.

Strategia italiana
A colpire i commentatori italiani è stato, però, soprattutto il riferimento del rapporto ai “Big Three” (Regno Unito, Germania e Francia), inserendo invece l’Italia fra gli altri.

Non è la prima volta che a livello europeo al nostro Paese viene attribuito un ruolo secondario nel campo della difesa e non sarà nemmeno l’ultima. Ci sono voluti venti anni di missioni internazionali per acquisire una maggiore credibilità ed è sempre elevato il rischio di comprometterla.

Eppure anche recentemente non ci siamo tirati indietro nell’impegnare parecchie centinaia di uomini nell’addestramento delle Forze Armate afghane e in quelle irachene che combattono l’autoproclamatosi “stato islamico”. Così come abbiamo manifestato la nostra disponibilità a un’eventuale missione Onu per stabilizzare la Libia se le condizioni lo consentiranno.

Non essendoci per ora le condizioni economiche e finanziarie per aumentare le spese per la difesa, la strategia italiana dovrebbe, però, puntare a:

- evitare ulteriori tagli e cercare di recuperare quanto perso negli ultimi due anni, in linea con l’impegno alla base della Legge 244 del 2012 sulla revisione delle Forze Armate; in quest’ottica è importante non dare ulteriori messaggi contraddittori per quanto riguarda la nostra partecipazione ai programmi internazionali per nuovi equipaggiamenti;

- fare comprendere alla nostra opinione pubblica che l’instabilità della sponda sud del Mediterraneo e della Libia in particolare rappresentano una diretta minaccia alla nostra sicurezza e dobbiamo farcene carico; la stessa decisione tedesca (un paese molto prudente in questa materia) di aumentare le spese militari dal 2016 dovrebbe farci riflettere sui rischi che stiamo correndo;

- utilizzare le indicazioni che emergeranno dalla prossima pubblicazione del Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa per accelerare riorganizzazione, efficientamento e ammodernamento del nostro strumento militare.

Michele Nones è il Direttore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI.
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venerdì 13 marzo 2015

Il nostro spazio geopolitico in Africa: la Libia

Spaccature nelle due grandi coalizioni
Libia, mettere i denti alla mediazione 
Roberto Aliboni
06/03/2015
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In Libia, nelle ultime settimane, si sono moltiplicati gli attacchi alle risorse, in particolare ai campi di produzione degli idrocarburi, ai terminali da cui sono esportati e alle infrastrutture, con un uso sempre più intenso dell’aviazione.

Questo incremento di violenza, del tutto inconcludente, non ha un senso militare, bensì politico in quanto risponde al tentativo dei “duri” dell’una e dell’altra parte di ostacolare il negoziato Onu e impedire che, malgrado le enormi difficoltà, raggiunga il successo.

La violenza che ha fatto seguito all’entrata in scena dell’Isis si aggiunge a quella degli schieramenti libici - i rivoluzionario-islamisti di Tripoli e i conservatori di Tobruk. Tuttavia, mentre è un fattore che potrebbe portare la Libia ad uno scenario siriano qualora la mediazione fallisse e la guerra continuasse, per ora non ha nessun impatto sulle prospettive politiche della Libia.

Duri contro moderati
Le prospettive politiche sono infatti ancora in mano ai due schieramenti che si combattono dal luglio dello scorso anno. Solo che, in questi giorni, lo sviluppo centrale è la spaccatura che si è verificata al loro interno fra duri e moderati. Essa si traduce nella rumorosa ma inconcludente pressione di azioni militari che hanno il precipuo scopo di tagliare l’erba che sta appena nascendo sotto i piedi dei moderati, del negoziato e della pace.

Oggi 6 marzo si è aperta in Marocco un’altra sessione del dialogo di facilitazione della pace organizzato dall’Onu sotto la direzione dell’ambasciatore Bernardino Léon, inviato speciale del Segretario Generale. I bombardamenti e gli attacchi che hanno avuto un culmine nei giorni scorsi hanno cercato appunto di sabotarla. Come si è prodotta questa spaccatura?

La stanchezza della popolazione e della società civile per una guerra senza sbocco si è manifestata inaspettatamente nell’ambito della coalizione dei rivoluzionario-islamisti.

Mentre i militari della coalizione attaccavano i terminali di El Sider e Ras Lanuf, il Consiglio municipale di Misurata, culla e custode della rivoluzione del 17 febbraio, si è presentato ai negoziati dell’Onu a Ginevra manifestando esplicita propensione al dialogo e compiendo atti conseguenti, come il ritiro dell’interdetto sulla cittadina di Tawherga, che i misuratini nel corso della guerra rivoluzionaria punirono con l’esilio dell’intera popolazione avendo la città parteggiato per Gheddafi.

Nel campo avverso di Tobruk la faglia fra moderati e duri sta emergendo non fra militari e società civile ma fra i militari (e i politici che li appoggiano) e quella parte di classe politica che contrasta l’ascesa che il governo Al-Thinni, d’accordo con l’Egitto e i paesi arabi del Golfo, ha voluto assicurare al generale Khalifa Haftar, fino a nominarlo qualche giorno fa comandante supremo delle forze armate.

L’ascesa di Haftar e dei militari non è avventa nel contesto di una seria riforma delle forze armate nazionali - che sarebbe un’ottima cosa - ma come processo eminentemente politico che preannuncia, anche in Libia come in altri paesi arabi, una fase post-2011 di segno termidoriano e costituisce oggettivamente un atto di guerra verso la parte avversa e il tentativo di mediazione dell’Onu.

Tra rivoluzione e Termidoro
Nel parlamento e nel governo di Tobruk si sono levate molte e vivaci critiche contro la politica di Al-Thinni, in particolare da parte del ministro degli Interno al-Zanki.

La Camera dei Deputati, ha prima votato per la sospensione del negoziato in risposta agli attacchi militari degli avversari, poi ha votato per la nomina di Haftar e infine, capovolgendo il voto di pochi giorni prima, per la presenza di Tobruk alla sessione dei negoziati che si sta svolgendo in Marocco e l’invio di una delegazione. Sono chiari perciò i segni di scontro all’interno della coalizione conservatrice.

Ciò detto, i moderati, anche se riuscissero a prevalere, restano deboli di fronte ai militari e potrebbero facilmente rivelarsi incapaci di imporre loro un nuovo corso politico.

Nella coalizione di Tobruk i civili sono debolissimi: Haftar non è certo un Cincinnato; l’Egitto lo sostiene e le forze armate, compreso Nadhuri, il Capo di stato maggiore, non sono “Aslan Gheddafi” (uomini di Gheddafi), come sostiene l’opposizione, ma soldati che dopo esser stati marginalizzati da Gheddafi e dai suoi pretoriani aspirano ora a un ruolo primario, ricalcato su quello di al-Sisi e dei militari egiziani. Non è un ritorno al regime ma la prospettiva di un nuovo regime.

Ma nella coalizione di Tripoli la prospettiva potrebbe essere diversa perché la forza militare, che si concentra su Misurata, è composta da gruppi minoritari facenti capo ai Fratelli Musulmani, ai berberi e ad ex qaidisti, mentre il grosso è collegato alla rete di uomini d’affari e mercati misuratini che hanno sostenuto la rivoluzione e poi la coalizione contro i conservatori.

Questa rete è anche quella che sta dietro la differenziazione fra moderati e duri che è ora emersa nell’ambito della coalizione.

A differenza dei militari che si stanno ricostituendo sotto l’ala di Tobruk in una prospettiva termidoriana, sembra lecito pensare che ci sia invece una coesione politica fra la milizia cittadina di Misurata e il ceto che la finanzia e che assai probabilmente esercita una leadership politica su di essa più genuina ed effettiva di quanto non accade a Tobruk.

Essenziale una decisa iniziativa occidentale
Se questa spaccatura fra civili e militari esiste e se c’è qualche possibilità che una parte dei civili riesca a esercitare influenza sui propri militari, la mediazione ha più potenzialità di quanto l’opinione internazionale oggi non le attribuisca.

Queste potenzialità, che comunque esistono e sono all’origine della differenziazione che si è prodotta all’interno delle coalizioni, non sono però sufficientemente appoggiate dai governi occidentali, che pure sono quelli che hanno riconfermato la strada del negoziato.

La diplomazia occidentale deve imporre sanzioni personali, esercitare pressioni affinché i suoi alleati nella regione, come l’Egitto, la Turchia e l’Arabia Saudita, limitino o cessino il loro sostegno ai duri, infine - seguendo il suggerimento che è appena venuto dall’Onu - devono mettere in pratica una forma più o meno coercitiva di sorveglianza marittima onde impedire i traffici di armi e petrolio che fanno capo, anche qui, ai duri di entrambe le parti.

Stranamente, i paesi occidentali sostengono la mediazione, ma non sembrano voler mettere i necessari denti alla loro stessa politica.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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lunedì 2 marzo 2015

Denaro all'estero: cadono alcuni santuari

Accordo fiscale italo-svizzero
Se in Svizzera finisce il paradiso 
Cosimo Risi
28/02/2015
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Il negoziato sull’intesa fiscale fra Italia e Svizzera si è concluso. Le trattative cominciate tre anni fa con diversi governi e delegazioni parzialmente diverse si sono chiuse a Milano il 23 febbraio scorso.

In questi anni sono cambiati gli ambasciatori a Berna e a Roma ed è cambiato il capo negoziatore svizzero. Tuttavia il pacchetto di febbraio non è conclusivo. Lascia aperte alcune brecce che vanno riempite da lavori ulteriori.

Questi si svolgeranno in seno a gruppi negoziali che si riuniranno fra marzo e l’estate. L’ossatura delle delegazioni è tuttavia restata intatta. Sono mutate le istruzioni, specie in campo italiano. L’obiettivo è di terminare presto perché il quadro complessivo sia chiaro.

Voluntary disclosure 
Preme trovare un accordo con la Svizzera che applichi in anticipo e in via bilaterale certe clausole che fanno parte del pacchetto accettato da Berna all’Ocse.

Preme trovarlo perché la sua applicazione coincida con l’entrata in vigore della legge sulla cosìdetta voluntary disclosure, l’emersione volontaria delle fortune “dimenticate” presso conti esteri e non solo svizzeri.

Lo scambio d’informazioni con le autorità fiscali svizzere rafforza il potenziale della legge nazionale. Insieme costituiscono una placida forma di pressione verso il contribuente “smemorato” e un deterrente per chi non voglia recuperare la memoria volontariamente.

Svizzera, frontalieri e cittadini Ue
Il negoziato è complesso e a misura dei progressi aumentano i capitoli oggetto dello stesso. Dopo la votazione plebiscitaria del 9 febbraio 2014 (la vittoria del “no all’immigrazione di massa”) irrompono sulla scena due temi.

Cosa accade sul piano bilaterale nell’ipotesi che la Svizzera, per attuare il risultato referendario, denunci l’accordo sulla libera circolazione delle persone con l’Unione europea (Ue)? Quale è il regime fiscale da applicare ai lavoratori frontalieri nell’ipotesi che la denuncia dell’accordo riguardi pure loro?

Dietro a questi due quesiti premono ragioni di fondo. La prima rinvia al rapporto fondamentale che la Svizzera intende intrattenere con l’Ue. La seconda rinvia al malessere che il Cantone Ticino avverte nei confronti della “invasione” dei frontalieri provenienti in maggioranza dalla Lombardia. In pochi anni sono arrivati a superare quota sessantamila e le previsioni parlano di crescita ulteriore.

Trovare un accordo mentre la legislazione svizzera sta per mutare e con stime imprecise circa il fenomeno del lavoro mobile è impresa difficile.

Occorre introdurre clausole che fotografino lo statu quo e che, siano al contempo aperte a recepire le novità. Clausole che consentano anche un passo indietro: alla situazione antecedente lo stesso accordo in trattazione. Di qui certe formule che appaiono contraddittorie, e probabilmente lo sono. Si concorda un certo regime rebus sic stanti bus, si torna al passato se cambia il quadro normativo generale.

Stratégie de l’argent propre 
Cedere all’enfasi di passaggio storico è facile. In effetti la svolta ci sta ed è importante. Non è la “fine del segreto bancario svizzero”, come ha titolato qualche giornale. Il segreto ha cominciato a svelarsi ben prima dell’intesa di febbraio. Reca il segno delle controversie con gli Stati Uniti che portarono all’accordo Facta, ma non ancora alla chiusura di tutte le indagini a carico di banchieri svizzeri.

È il frutto della “stratégie de l’argent propre” inaugurata dal Consiglio federale non senza contrasti sul piano domestico. Se il segreto è caduto anche prima di febbraio, di sicuro la recente intesa contribuisce a picchettare la trasparenza e la collaborazione fra le autorità fiscali. Le indagini a richiesta sui conti “dimenticati” vanno in questo senso.

Cosimo Risi, Ambasciatore a Berna, è docente di Relazioni internazionali al Collegio europeo di Parma.
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