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venerdì 27 novembre 2015

L'Italia e il suo ruolo militare nel contesto medioorientale

Guerra al Califfato
Dopo Parigi, il ruolo dell’Italia 
Mario Arpino
19/11/2015
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È in atto una guerra privata tra il “califfo” e la Francia? Al momento, questo è ciò che appare. Il presidente François Hollande tende a coinvolgere un po’ tutti, appellandosi alla solidarietà europea prevista dall’articolo 42, comma 7, del Trattato di Lisbona e citando, solo di conseguenza, l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite e il 5 del Trattato dell’alleanza atlantica.

Poteva anche rivolgersi solo alla Nato, ma così avrebbe escluso la Russia, al momento il principale “alleato” in termini di capacità e volontà di intervento. E tutti gli altri? La trattativa sul tipo e sul livello di supporto sarà bilaterale. Un “porta a porta” necessario, se si considera che nessuno degli articoli comporta obblighi specifici.

Che cosa l’Italia sta già facendo 
L’Italia si era già mossa da tempo, molto prima dell’appello francese. Nella lotta contro al Califfo risulta essere sin dall’inizio in primo piano in termini di presenza in cielo, in mare e sul terreno. Quello che stiamo facendo è poco noto al pubblico perché, come spesso accade quando stiamo lavorando bene, ha avuto scarsa diffusione sotto il profilo mediatico.

Per richiamare l’attenzione sul nostro sforzo militare c’è voluta, giorni addietro, l’improduttiva polemica se i nostri quattro Tornado rischierati in Kuwait debbano “solo” continuare a produrre intelligence o possano “anche” sganciare qualche bomba .

Ma non ci sono solo i Tornado. Il contributo informativo prodotto dai due ricognitori a pilotaggio remoto Reaper è giudicato essenziale e, in alcune circostanze, unico.

Siamo stati i primi, dopo gli Stati Uniti e con anni di anticipo sulla Gran Bretagna, a disporre di questa capacità che potrebbe in seguito completarsi anche con armamenti di precisione. Molto apprezzata poi la disponibilità del tanker KC-767, asset prezioso che contribuisce al rifornimento in volo di tutti i velivoli della coalizione. In queste attività sono impegnati da oltre un anno circa 250 uomini e donne dell’Aeronautica.

Sempre nell’ambito della missione internazionale “Inherent Resolve”, l’Italia fornisce sin dall’inizio personale di staff ai comandi multinazionali in Kuwait e in Iraq (Baghdad ed Erbil), nonché capacità di addestramento ed assistenza alle forze armate e di polizia irachene. Sono impiegate Forze Speciali, genieri a carabinieri per un totale di oltre 400 persone, in aumento fino a 750 con i decreti in corso di rinnovo.

Contribuisce anche la Marina. Queste attività si svolgono prevalentemente in Kurdistan, dove, in ricordo di Settimio Severo che sconfisse i Persiani, le forze hanno assunto il suggestivo nome della legione “Prima Parthica”.

Che cosa ci si aspetta dall’Italia 
Che cosa faremo in seguito? Hollande probabilmente si attende una partecipazione ai bombardamenti o un supporto combat in Siria e magari nel Mali, per liberare forze da destinare altrove. Al momento, tuttavia, è destinato a rimanere deluso, se non isolato.

D’altro canto, le solitarie “fughe in avanti” alle quali la Francia ci ha abituato non hanno portato bene: pochi i vantaggi operativi, ma tanta la confusione. Le attività di consultazione e doverosa preparazione fervono in ambito militare e se ne discute in sede parlamentare e di governo, ma non sono attese decisioni epocali.

I tre mantra che circolano sono: “non possiamo lasciare sola la Francia”, “in questa lotta manca una strategia” e, la frase che recita sempre chi proprio non sa cosa fare, “l’Italia farà la sua parte”.

Senonché, con il vertice di Antalyia, i tavoli di Vienna ed il prossimo summit sul clima di Parigi, nel quale certamente si parlerà anche d’altro, una qualche sorta di strategia comune comincia ad emergere.

Questo è sicuramente apprezzato, ma è anche fonte di preoccupazione per i decisori politici che vengono messi un po’ alle strette, sapendo che spetta a loro tradurre in pratica i buoni principi. È in questa direzione che spingono soprattutto i nove punti del consenso raggiunto a Vienna.

Il presidente del Consiglio, come pure i ministri degli Esteri e della Difesa - ma anche quello degli Interni - comprensibilmente non si trovano in una posizione invidiabile. Tuttavia sottovoce, in modo frammentato e con molti condizionali, avvertono la necessità di esprimersi in pubblico.

Salto di qualità
Ciò che emerge, può essere sintetizzato come segue: si esclude, al momento, qualsiasi partecipazione di carattere combat con forze terrestri; si lascia una porta aperta a un eventuale salto di qualità nelle operazioni aeree; la via diplomatica è preferibile, ma non si possono escludere altre forme di intervento; è necessario potenziare l’Intelligence e le forze speciali.

Tra le altre forme di intervento e di supporto, è in particolare il ministro della Difesa ad allargare lo spettro delle nostre possibilità, includendo la propaganda sul web, la lotta ai finanziamenti occulti, lo scambio dei risultati delle indagini e un maggior coordinamento a livello operativo. Tutto giusto e corretto.

Resta però un quesito fondamentale, al quale forse nessuno, ormai, si attende una risposta che forse non c’è: oltre a riunire il Parlamento sovrano, cosa avremmo fatto noi - o cosa faremo - qualora ci trovassimo al posto della Francia?

Ufficiale pilota in congedo dell’Aeronautica Militare, Mario Arpino collabora come pubblicista a diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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venerdì 20 novembre 2015

UN Anniversario importante

Storia dell’Istituto Affari Internazionali
Lo IAI compie cinquant’anni, una riflessione 
Stefano Silvestri
12/11/2015
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In cinquant’anni sono cambiate più cose ancora di quante non ci aspettassimo alla metà degli anni ’60, quando Altiero Spinelli fondò l’Istituto Affari Internazionali.

Allora, la politica internazionale era influenzata dall’eredità di John F. Kennedy e la politica europea da quella di Konrad Adenauer, ambedue da poco spariti per lasciare il passo a più modesti successori.

Erano forti e presenti leader dello stampo di Charles De Gaulle in Francia, Nikita Krusciov in Unione Sovietica, Mao Zedong in Cina, Gamal Abd el-Nasser in Egitto, Josip Broz Tito in quella che era ancora la Jugoslavia.

In Italia si tentavano le prime esperienze di centro-sinistra. Il leader socialista, Pietro Nenni, diverrà per alcuni mesi Ministro degli Esteri nel 1968-69 (governo Rumor). Presidente della Repubblica era Giuseppe Saragat, dopo la fine anticipata del mandato di Antonio Segni.

La spinta europeista di Altiero Spinelli 
Molto stava cambiando. La fine degli imperi coloniali, il movimento dei paesi non allineati, i primi passi della distensione dopo la grande paura dello scontro a Cuba, la guerra del Vietnam, la crescente presenza della Cina: in quest’ultimo caso fu proprio Nenni a lanciare il processo per il nostro riconoscimento diplomatico di Pechino, che avvenne nel 1970 (e un anno dopo la Cina Popolare divenne anche l’unica Cina presente all’Onu, espellendo i rappresentanti di Taiwan che sino ad allora sedevano nel Consiglio di Sicurezza).

L’Italia si ritrovava a dover pensare in termini di politica internazionale e in particolare in termini di politica europea, come uno dei membri fondatori delle istituzioni comunitarie.

L’obiettivo esplicito di Spinelli era quello di contribuire alla consapevolezza delle problematiche internazionali in Italia e allo stesso tempo di alimentare il dibattito internazionale, formando competenze italiane che accrescessero la visibilità e l’utilità del nostro contributo.

Il centro dell’attenzione era evidentemente l’Europa, il suo processo di integrazione e la volontà di dare corpo a un nuovo grande interlocutore internazionale europeo comune, ma era ormai chiaro come la piena restaurazione degli stati nazionali europei dopo la II guerra mondiale, obbligasse anche i federalisti più convinti a passare per un processo di europeizzazione delle identità e delle politiche nazionali: processo lungo, che richiedeva competenze nuove e soprattutto continuità di attenzione e capacità di affrontare i temi internazionali senza gli stretti paraocchi delle singole tradizioni nazionali.

Missione IAI senza paraocchi
Questa è stata, fra alti e bassi, ma senza significative deviazioni, la “missione” dello IAI, nel corso di questi cinquant’anni. Oggi ci ritroviamo in una situazione apparentemente molto diversa da quella di ieri, con nuove problematiche e nuovi attori internazionali, ma nello stesso tempo dobbiamo constatare come la problematica iniziale impostata da Spinelli non sia ancora obsoleta.

La crisi europea è soprattutto una crisi degli stati nazionali che compongono l’Unione e della loro difficoltà di superare le loro forti resistenze “souverainistes”.

Allo stesso tempo, il moltiplicarsi delle guerre civili, degli stati falliti, delle derive totalitarie, in Europa, Africa ed Asia preannuncia la necessità di un nuovo ordine internazionale che, oltre a riconoscere il peso e il ruolo di nuovi importanti interlocutori, passa anche per l’accettazione dei limiti della “sovranità nazionale”.

La sfida del futuro 
Ma resta lungi da noi l’illusione del Gattopardo, per cui il cambiamento ci riporta all’esistente. Tutto cambia e cambiano anche gli equilibri e le soluzioni possibili o auspicabili.

Basti pensare alla globalizzazione e alla crescente importanza di nuove realtà tecnologiche come il cyber spazio, o alla nostra progressiva dipendenza dalle tecnologie spaziali: il governo di questi nuovi fenomeni richiederà soluzioni inedite e un eventuale fallimento comporterà costi e rischi del tutto nuovi.

L’Europa resta il centro delle nostre problematiche, ma deve ormai collocarsi in un contesto internazionale molto più complesso.

Lo IAI affronta oggi questi temi partendo da molti diversi punti di vista, politici, economici, tecnologici, strategici, restando in stretto collegamento con una sempre più numerosa comunità internazionale di analisti e studiosi, anche grazie alla parallela crescita di capacità e consapevolezza nella società italiana nel suo insieme.

Al suo interno non rimangono più molti testimoni dei suoi inizi, ma non è cambiato lo spirito né la volontà di cercare di andare oltre le convenzioni e l’illusione delle certezze acquisite.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
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mercoledì 18 novembre 2015

Prospettive positive per l'approvigionamento di pretrolio

Energia
Eni, il super hub del gas nel Mediterraneo
Azzurra Meringolo
05/11/2015
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Un’intesa a quattro per la creazione di super-hub del gas. È questo l’obiettivo della missione appena conclusasi di Claudio Descalzi a Gerusalemme. Coinvolgendo anche Cipro - dove il Ceo di Eni è già volato a settembre - ed Egitto, l’uomo al vertice del Cane a sei zampe vuole realizzare un progetto che, partendo dal Mediterraneo orientale, potrebbe allargarsi alla sicurezza energetica continentale, in primis a quella dei Paesi della sponda nord del Mediterraneo.

E c’è già chi scommette che, nel lungo periodo, questo nuovo scenario potrebbe anche lanciare una sfida ai giganti russi, principali fornitori di gas all’Europa.

Guardando la mappa di questo mare, Descalzi immagina di disegnarci un hub in grado di ricevere gas da diverse nazioni della zona per poi portare tutta la materia prima a Damietta, dove Eni controlla gli stabilimenti di liquefazione della spagnola Union Fenosa.

Una volta liquefatto, il gas potrebbe arrivare via nave in Italia, e da qui potrebbe essere smistato in Europa.

Figura 1: attività Eni in Egitto fino al 2014, Fonte: Eni.

La scoperta del giacimento di Zohr
Quello di Descalzi è un progetto che può già contare sull’intesa e sui buoni rapporti tra Benjamin Netanyahu e Matteo Renzi evidenziati dalla cordialità del loro incontro a fine agosto a Firenze.

In quella occasione i due leader avevano parlato di cooperazione in ambito energetico, lasciando però da parte le questioni affrontate invece in questi giorni da Descalzi che negli ultimi mesi ha spinto il piede sull’acceleratore.

Dopo la recente scoperta, da parte di Eni, del mega giacimento egiziano di Zohr - stimato in 850 miliardi di metri cubi - sono settimane che il Cane a sei zampe si pregusta i successi che la realizzazione di questo hub potrebbe garantire.

Figura 2: Eni scopre il giacimento di Zohr, Fonte: Eni.

L’Egitto, che dovrà ancora aspettare un paio di anni per toccare con mano i vantaggi derivanti da questa scoperta, sembra per ora intenzionato a sfruttare il gas in arrivo soprattutto per soddisfare il suo crescente fabbisogno interno.

Nel 2014, il Cairo è infatti passato dal club dei paesi esportatori a quello degli importatori. Declassamento difficile da digerire, soprattutto se si pensa che per tenersi in vita, negli ultimi anni l’Egitto si è dovuto rivolgere allo stato ebraico, al quale per decenni ha svenduto importanti quantità di gas, invertendo quindi la rotta del tanto discusso gasdotto che fino al 2012 aveva portato gas a Israele e Giordania.

Il gas egiziano sgonfia le ambizioni di Israele
Oltre all’Egitto c’è però Israele che potrebbe essere interessato a utilizzare l’hub voluto da Descalzi per esportare il gas naturale che produce nei giacimenti di Leviatano e Tamar. Il tutto grazie a un gasdotto sottomarino capace di raggiungere gli stabilimenti di liquefazione di Damietta, prima di arrivare in Europa.

Nel farlo cercherebbe di seguire due rotte di esportazione: quella egiziana e quella turca. Mentre la seconda è complicata dai delicati rapporti con Ankara, la prima è facilitata dalla collaborazione sempre più stretta - soprattutto sulla sicurezza dei confini lungo la Striscia di Gaza - con l’Egitto dell’ex generale, ora presidente, Abdel Fattah Al-Sisi.

Stando a una lettera di intenti firmata lo scorso anno dal Cairo e Noble e Delek -compagnie al vertice del consorzio di Leviatano e Tamar - l’Egitto si aspettava di ricevere da Israele 68 miliardi di metri cubi di gas nell’arco dei prossimi 15 anni. La scoperta di Zohr potrebbe mescolare le carte in tavola.

Quest’ultima ha infatti rivoluzionato lo scenario strategico ed energetico di Israele, Paese che ora rischia di perdere il suo cliente più sicuro, il Cairo, e di dover rivedere al ribasso i prezzi che in questi anni era convinto di potere dettare. Basta pensare al crollo in borsa subito dagli israeliani di Delek e dai texani di Noble Energy dopo la notizia della scoperta dei giacimenti egiziani.

Italia assetata di gas 
Ed è anche per questo che Netanyahu ha fatto capire che sarà pronto a scendere in campo personalmente per trattare con Eni l’assegnazione delle licenze di esportazione. Ma al momento la situazione è ancora in fase di stallo, anche a causa di un acceso dibattito interno al governo israeliano proprio su queste questioni.

Il ministro dell'Energia, Yuval Steinitz, è stato infatti accusato pubblicamente dal suo collega Aryeh Deri, a capo del dicastero dell'Economia, di una vera debacle in termini d'intelligence economica. Secondo Deri, infatti, Israele era totalmente all'oscuro del positivo risultato delle ricerche esplorative egiziane relative al giacimento Zohr e si è fatto, così, cogliere impreparato.

Ecco perché anche se Netanyahu e Descalzi hanno "convenuto che alla luce della crescente domanda di gas naturale nella regione è necessario esplorare ulteriori possibilità di cooperazione, compreso lo sviluppo congiunto o il trasporto di gas naturale a diversi clienti", lo sbocco di un'alleanza energetica tra Israele ed Egitto sembra al momento difficile.

I passaggi da superare non sono pochi, ma se si arriverà in fondo, Eni esporterà in Europa il gas dei giacimenti israeliani e ciprioti. Considerando solo i giacimenti scoperti nel 2013, nel bacino di Tamar si stimano 282 miliardi di metri cubi, (mld mc), mentre in quello di Leviatano 536 mld mc.

Non sazia, l’Italia - che ogni anno si scola circa 70 mld mc di metano - guarda anche anche altri giacimenti. Già Descalzi non esclude di includere nel progetto di questo hub la Libia, paese che ha grandi potenzialità di sviluppo sulla base delle recenti scoperte nell’offshore.

E lungo lo stivale c’è anche chi guarda i giacimenti israeliani minori. Basta pensare all’attività di Edison che per guadagnare quote importanti del mercato interno tiene sott’occhio i giacimenti di Karish e Tanin.

Azzurra Meringolo è ricercatrice dello IAI. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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venerdì 6 novembre 2015

Economia Globale

Economia
Pmi, la forza motrice della crescita
Eleonora Poli
28/10/2015
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Una forza motrice per la crescita. Anche se il terreno economico degli ultimi anni ha reso il loro sviluppo molto difficile, le piccole e medie imprese, Pmi, dominano non solo il contesto economico europeo, ma anche quello asiatico. La tematica è stata discussa al Seminario ASEM, "Financing SMEs in Asia and Europe", organizzato dal Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionale e Banca d'Italia in collaborazione con l'Istituto Affari Internazionali, che si è tenuto a Roma il 29-30 ottobre.

Le Pmi nell’economia globale
Secondo il rapporto annuale della Commissione europea, nel 2014 9,9 aziende europee su dieci sono Pmi; esse impiegano due dipendenti su tre e producono 58 centesimi per ogni euro di valore aggiunto. Inoltre, più della metà delle Pmi europee ha aspettative di crescita economica, mentre solo una su dieci crede che il proprio fatturato diminuirà.

L’Italia annovera circa 200 mila Pmi e il 17,6% delle micro imprese europee. Nelle Micro Pmi italiane trova impiego l’81% dell’occupazione totale e si produce il 71,3% del valore aggiunto.

Rilevante è anche il contributo in termini di esportazioni, circa il 54% del totale. Secondo il rapporto annuale dell’Asian Development Bank (ADB), le Pmi rappresentano il 96% delle imprese, forniscono il 62% dei posti di lavoro e il loro contributo al Pil è intorno al 42%.

Pmi e accesso al credito
Tuttavia, sia in Italia che in Europa, ma anche in Asia, lo sviluppo delle Pmi viene ostacolato da un accesso limitato ai finanziamenti dovuto ad una bassa propensione degli istituti di credito a erogare loro prestiti.

Secondo l’ADB, anche se le Pmi della regione hanno contribuito alla crescita economica, lo scarso accesso al credito ha visto diminuire il loro potenziale contributo allo sviluppo. Questo trend si riscontra anche in Europa, dove nel 2014, il 14% delle Pmi annovera tra i cinque ostacoli allo sviluppo uno scarso accesso al credito.

Dati: Survey on the access to finance of enterprises (SAFE) Analytical Report 2014.

Tuttavia, diversamente dall’Asia, sebbene nel 2013 le Pmi europee abbiano registrato un aumento del valore del 1,1%, la positività di questo risultato è temperato da un generale rallentamento rispetto al 2012 e al 2011, quando si era rispettivamente registrato un aumento dell’1,5 % (2012) e del 4,2% (2011). Inoltre nel 2013, non solo il numero delle Pmi europee si è ridotto dello 0,9%, ma anche le persone impiegate da quest’ ultime sono diminuite dello 0,5%.

Tale trend risulta tuttavia molto più grave in Italia. Secondo il rapporto CERVED, tra il 2011 e il 2013, l’accesso al credito per le Pmi italiane si è ridotto del 4,1 %. Tra il 2008 e la prima metà del 2014, 13 mila piccole e medie imprese italiane sono fallite, oltre 5 mila sono state insolventi e 23 mila hanno liquidato le loro attività.

Politiche a sostegno delle Pmi
Per garantire l’accesso al credito alle Pmi è necessario favorire lo sviluppo di strategie coordinate. Tuttavia, in Asia governi e banche centrali hanno sostenuto misure che variano da paese e da settore e che vanno dalla creazione di forme di garanzie per il credito sviluppate in Indonesia e in Thailandia a politiche di intervento pubblico in Bangladesh, Malaysia e Vietnam.

In Europa invece, al fine di far fronte ai trend negativi che colpiscono gli oltre 21 milioni di Pmi, la Commissione ha lanciato diversi piani d'azione, come il programma 2014-2020 per la competitività delle piccole e medie imprese che renderà più facile l’accesso a prestiti e finanziamenti.

A tali misure si deve poi aggiungere l’iniziativa Europea del Fondo per la Crescita Sostenibile. Quasi 200 delle 271 domande presentate nel 2013 proviene dalle Pmi.

In linea con i trend europei, il governo italiano ha inoltre favorito una serie di azioni per le Pmi quali l'individuazione di nuovi soggetti finanziatori come le compagnie di assicurazione, il rimborso di ulteriori tranche di debiti arretrati della Pubblica Amministrazione ed il potenziamento del Fondo di Garanzia per le Pmi destinato a coprire l'eventuale insolvenza delle imprese sui crediti bancari.

In un mercato globale dagli scenari sempre più complessi, le Pmi rappresentano una forza trainante per una crescita economica sostenibile ed inclusiva sia in Europa che in Asia.

È quindi necessario assicurare loro un giusto accesso al credito tramite politiche coordinate anche per rilanciare l’economia globale. Grazie alla flessibilità delle loro strutture produttive, le Pmi possono infatti facilmente adattarsi ai cambiamenti del mercato, stimolare la concorrenza e favorire l’occupazione.

Inoltre, sviluppando attività economiche e produttive diversificate, le Pmi sono un importante motore di innovazione e hanno il potenziale per stimolare una crescita sostenibile a livello internazionale.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.
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