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mercoledì 23 dicembre 2015

Soldati Italiani all'estero: 750 in Iraq, 1100 in Libano, 830 in Afganistan più

Impegno contro il Califfato
L’Italia tra Iraq e Libia
Alessandro Marrone
21/12/2015
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Nel discutere su cosa può fare militarmente l’Italia per combattere il sedicente “stato islamico” , Isis, sarebbe utile ricordarsi di cosa già fa il Paese nei teatri di crisi mediorientali, e di come ogni intervento militare - in Iraq, Libia o Siria - debba essere inquadrato in una strategia politico-diplomatica e non ridursi a una mera accettazione di richieste alleate.

Le missioni italiane in Iraq, Libano e Afghanistan
Nel momento in cui la Francia ha chiesto agli alleati europei di contribuire maggiormente alla lotta contro il terrorismo fondamentalista e l’Isis, ha fatto notizia la decisione tedesca di inviare un contingente militare in Mali a sostegno delle operazioni francesi, stante la tradizionale ritrosia di Berlino a partecipare a missioni internazionali con un certo tasso di rischio.

Meno attenzione hanno suscitato le decisioni dell’Italia, prima e dopo gli attentati di Parigi, di confermare, ed in alcuni casi incrementare, una serie di impegni militari significativi, tanto per quantità e qualità dei contingenti dispiegati quanto per i rischi associati alla missione.

Partendo dall’Iraq, al centro dell’attenzione mediatica italiana per la diga di Mosul, attualmente operano circa 530 militari italiani nella missione Prima Parthica, contingente di cui a novembre è stato deciso l’aumento a 750 unità.

Sulla base delle risoluzioni Onu 170/2014 e 2178/2014 e della richiesta ufficiale del governo di Baghdad, la missione, inquadrata nella coalition of the willing a guida Usa addestra le forze di sicurezza irachene e curde, fornendo assistenza, soprattutto aerea, nel contrasto all’Isis.

Rimanendo nei teatri a tiro del “califfato”, dal 2007 l’Italia ha il comando della missione Unifil delle Nazioni Unite in Libano, forte di 11 mila truppe nella delicata posizione tra Israele, Hezbollah e quel che resta della Siria, schierando finora un contingente nazionale di circa 1.100 unità (contro i 62 militari tedeschi, 800 francesi e 600 spagnoli e zero britannici).

In Afghanistan, nell’ambito della missione Nato Resolute Support, l’Italia dispiega circa 830 unità come la Germania (la Gran Bretagna ne impiega 450 e la Francia zero) e continua ad assistere le forze di sicurezza afgane nel tenere testa a insorti e terroristi imbaldanziti dal ritiro del grosso delle truppe occidentali avvenuto nel 2014.

A questi tre impegni principali, si affiancano contributi italiani relativamente importanti in missioni internazionali di dimensioni più ridotte, dispiegate in altri teatri di crisi a rischio terrorismo fondamentalista, quali le missioni Ue di addestramento delle forze di sicurezza governative in Afghanistan, Mali e Somalia.

Il significativo contributo italiano fin qui descritto - sia in termini assoluti sia in proporzione ai principali Paesi europei, sia quanto a ruoli di comando e qualità degli assetti impiegati - ha mostrato grande continuità nonostante le sfide sul terreno e il costo in termini di risorse militari, economiche ed in alcuni casi di vite umane.

A conti fatti, in Libano sono stati dispiegati sotto bandiera Onu quasi novemila militari italiani in 8 anni, mentre in Afghanistan hanno servito nelle due missioni Nato oltre 45 mila connazionali in divisa nell’arco di 10 anni.

Come fare di più contro il “ Califfato”
È in questo contesto di sforzo significativo e costante di stabilizzazione anche con compiti di combattimento (senza contare le missioni ancora in corso nei Balcani o quelle di contrasto alla pirateria nel Golfo di Aden) che va misurato il “fare di più” da parte dell’Italia contro l’Isis.

Ma quella delle risorse già impegnate e realisticamente impegnabili, peraltro a fronte di ridotte spese per la difesa e dell’impiego di circa 4.800 militari nelle città italiane a sostegno delle già numerose forze di polizia, è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è quella della strategia al cui interno è utilizzato lo strumento militare che dovrebbe fissarne gli obiettivi politici e la cornice diplomatica affinché l’uso della forza abbia chance di successo.

Non occorre conoscere Clausewitz, secondo cui la guerra è la prosecuzione della politica con l’aggiunta di altri mezzi, per comprendere che senza un accordo tra le potenze regionali e le fazioni locali loro clientes, mediato e garantito dall’Occidente, il mero bombardamento aereo di obiettivi Isis, a Raqqa ieri o eventualmente a Sirte domani, è militarmente poco utile e politicamente molto dannoso.

Ciò non vuol dire per l’Italia tirarsi indietro quando la solidarietà europea viene invocata dopo gli attacchi di Parigi, ma significa piuttosto collocare la riflessione e la pianificazione riguardo un nuovo o maggiore impegno militare all’estero in un adeguato contesto politico-diplomatico, in modo da servire davvero la sicurezza internazionale e gli interessi nazionali.

Sicurezza internazionale e interessi italiani
Sicurezza internazionale e interessi nazionali sono due obiettivi che in larga parte coincidono, in quanto l’Italia trae beneficio diretto o indiretto da un quadro globale più sicuro e stabile, ma che non si sovrappongono completamente.

Ad esempio, è evidente che Libia e Mali sono due vulnus della sicurezza internazionale rilevanti per Roma, ma l’interesse nazionale italiano è molto più forte nel primo caso che nel secondo per motivi di sicurezza, economici, energetici, storici e geografici, e non basta la solidarietà alla Francia per invertire questo ordine di priorità.

Allo stesso tempo, non bisogna vedere i teatri di crisi della regione euro-mediterranea come isolati l’uno dall’altro, né dal punto di vista della minaccia - specialmente data la natura transnazionale dell’Isis e le dinamiche di competizione regionale - né della risposta, perché gli alleati Nato a cui Roma potrebbe chiedere appoggio per la stabilizzazione della Libia sono sostanzialmente gli stessi interessati ad un contributo italiano in Siria, Iraq o Mali.

La sicurezza nella regione euro-mediterranea è per l’Italia una questione tanto importante quanto complessa e articolata, rispetto alla quale il dibattito pubblico dovrebbe guardare alla luna e non al dito che la indica.

Alessandro Marrone, Responsabile di Ricerca Programma Sicurezza e Difesa; Twitter @Alessandro__Ma.
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martedì 15 dicembre 2015

Sicurezza ed innovazione per l'Italia?

Šefčovič allo IAI
Quale ruolo per l’Italia nella nuova Unione Energetica?
Lorenzo Colantoni, Nicolò Sartori
13/12/2015
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La scorsa settimana il Vice Presidente della Commissione europea per l’Unione energetica Maroš Šefčovič ha effettuato la tappa italiana del suo Energy Union Tour, lanciato per promuovere e spiegare gli obiettivi dell’ambiziosa politica energetica avviata da Bruxelles lo scorso 25 febbraio.

Con questa iniziativa l’Ue “sta cambiando il modo in cui guarda alla questione” dell’energia, egli ha affermato durante una conferenza organizzata dallo IAI - in collaborazione con la Rappresentanza in Italia della Commissione europea - per discutere le priorità italiane nell’ambito dell’Unione Energetica, e dove è stato presentato il secondo numero dell’Energy Union Watch, la pubblicazione IAI che monitora l’evoluzione dell’iniziativa.

Un’Europa più energica
Riferendosi al lavoro delle differenti Direzioni Generali e dei Commissari, il Vice Presidente ha commentato: “Vogliamo mettere tutto sotto un unico tetto […] Se riusciremo a farlo per bene, potremmo ottenere quella che chiamo una tripla vittoria: per i nostri cittadini, per l’economia e per l’ambiente”.

Questo approccio olistico è uno dei capisaldi del programma dell’Unione Energetica. Diviso in cinque dimensioni, questo tocca appunto la sicurezza energetica, il mercato dell’energia, l’efficienza energetica, la decarbonizzazionee l’ambito ricerca e sviluppo.

Settori su cui la Commissione è stata attiva negli ultimi mesi, in particolare con il “Summer Package” legislativo dello scorso luglio, e attraverso lo Stato dell’Unione Energetica, la Comunicazione che ha fatto una prima valutazione dell’iniziativa.

La necessità di un approccio olistico è stata poi sottolineata anche dal governo italiano. Il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Sandro Gozi, ha ricordato l’importanza dell’Unione Energetica come priorità per la Commissione e per l’Italia.

Questa dovrà contribuire a ridefinire le modalità d’azione in diversi settori, come la competizione - dove verrà richiesta una visione meno ortodossa e più globale - e la decarbonizzazione, dove la riforma dell’Emission Trading System dovrà evitare carbon leakages, fughe di emissioni verso paesi con regolazioni meno stringenti.

Sicurezza e innovazione per l’Italia?
Šefčovič non ha mancato di sottolineare il ruolo dell’Italia in questo settore chiave per l’integrazione europea. Nello specifico, ha nominato l’importanza delle interconnessioni - citando il caso del cavo tra Malta e Sicilia - in particolare per fornire una scelta diversificata e prezzi inferiori ai consumatori, sia domestici che industriali.

Il nostro paese, in questo contesto, giocherà un ruolo fondamentale nel Mediterraneo, soprattutto per potenziare le interconnessioni ed evitare la concentrazione delle forniture di gas europee, sia a livello intra che extra Ue.

Un obiettivo che includerà necessariamente il rafforzamento della cooperazione con i partner esistenti, e il supporto allo sviluppo del Mediterraneo orientale, dove gli sforzi industriali dovranno essere accompagnati da un processo diplomatico di trust building regionale.

L’Italia si propone in questo senso tanto come una porta per il Mediterraneo, quanto un energy hub, sia per l’elettricità che il gas. Un proposito che si inquadra in un contesto europeo favorevole, grazie soprattutto alle tre piattaforme energetiche euro-mediterranee, di cui due già lanciate dalla Commissione, e la cui creazione è stata fortemente incoraggiata dall’Italia durante il semestre di Presidenza Ue nel 2014.

Non va poi dimenticato il ruolo del nostro paese nella crescita delle rinnovabili in Europa che - come sottolineato da Šefčovič - ha visto oltre 3.000 brevetti registrati in Italia. Un’innovazione tecnologica che si riflette anche nel primato italiano per gli smartmeters, e nel ruolo delle “smartcities” per la decarbonizzazione dell’economia europea e mondiale, per cui il Vice Presidente ha nominato, in particolare, il caso di Torino.

2016: un anno chiave
Le iniziative della Commissione nel primo anno dell’Unione Energetica si sono soprattutto focalizzate sulla pianificazione e la costruzione del consenso, sia a livello politico che popolare. Nel 2016, l’azione della Commissione entrerà in una fase più concreta e propositiva.

Tra le misure chiave che verranno lanciate dalla Commissione ci sarà la strategia per il Gnl, la revisione della Direttiva sulla sicurezza nelle forniture di elettricità, il Regolamento sulla sicurezza delle forniture di gas, la nuova Direttiva sulle rinnovabili, la revisione della Direttiva sull’efficienza energetica e la finalizzazione della riforma dell’Emission Trading System (Ets).

La Commissione sarà poi chiamata a fare maggiore chiarezza su alcuni temi spinosi, il primo tra i quali la realizzazione di Nord Stream 2, che ha alimentato forti risentimenti da parte dei paesi membri dell’Europa centro-orientale, ma che potrebbe determinare anche un indebolimento delle strategie di diversificazione energetica dell’Italia.

Temi di grande importanza per il nostro paese e più in generale per i processi di integrazione europea, e per i quali l’Energy Union - in caso di successo - potrebbe rappresentare un valido modello.

Lorenzo Colantoni è Associate Fellow del Programma Energia dello IAI.
Nicolò Sartori è responsabile di ricerca del Programma Energia dello IAI (Twitter: @_nsartori)
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sabato 5 dicembre 2015

Minacce a tutto tondo

Lotta al Califfato
L’Italia e le minacce del cyber Califfo
Tommaso De Zan
03/12/2015
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Il tema delle “capacità” delle organizzazioni terroristiche non riguarda il solo dominio fisico, ma anche quello virtuale.

Basta pensare a quanto ha fatto fino ad ora l’autoproclamatosi “stato islamico” che ha impiegato lo spazio cibernetico ai fini di propaganda, reclutamento, finanziamento e coordinamento.

Recentemente il Califfato e la sua rete di affiliati si sono cimentati in operazioni cibernetiche nel tentativo di ottenere l’accesso a sistemi informatici (“hacking”) appartenenti a individui o istituzioni considerate nemiche.

In questo contesto, una delle principali infrastrutture da salvaguardare è il sistema di gestione del traffico aereo (Air Traffic Management, Atm), la cui protezione dalle minacce cibernetiche sarà al centro di una conferenza organizzata a Roma dallo IAI il 9 dicembre.

Le operazioni cibernetiche dello “stato islamico”
Secondo Raymond Benjamin, segretario generale dell’International Civil Aviation Organisation (Icao) - l’agenzia Onu che regola l’aviazione civile mondiale - le organizzazioni terroristiche sono fra le principali minacce verso l’aviazione civile, ma lo “stato islamico” e la sua rete di hackers sono effettivamente in grado di mettere in ginocchio le reti informatiche dei sistemi Atm?

L’analisi delle loro attività cibernetiche indica, per ora, un livello di complessità nelle tecniche di hacking ben inferiore rispetto alla promozione mediatica ricevuta. Tre sono gli esempi più significativi.

Nel gennaio 2015, la violazione dell’account Twitter del Commando Centrale statunitense da parte del Cyber Caliphate, collettivo di hackers pro “stato islamico”, ha suscitato grande scalpore.

Questi hackers, dopo essere entrati in possesso dell’account per qualche ora, hanno dichiarato di aver diffuso “materiale classificato” attraverso lo stesso social network. Lungi dall’aver violato le ben più protette reti militari americane (classificate e non), il Pentagono ha poi smentito categoricamente che ci sia stato un furto di dati protetti.

Altro episodio che ha avuto ampio seguito mediatico è avvenuto ad agosto, quando un altro gruppo di hackers a favore dello “stato islamico”, l’Islamic State Hacking Division(Ishd), ha pubblicato online i dati personali di oltre mille militari statunitensi. Anche in questo caso, però, sebbene i presunti hackers si siano vantati di aver recuperato le informazioni penetrando reti militari protette, l’estrazione di dati non è mai avvenuta.

Infatti, in ottobre, il cittadino kosovaro Ardit Ferizi è stato arrestato in Malesia per aver fornito ai jihadisti il materiale poi diffuso via Twitter dallo stesso “stato islamico”. Secondo il Dipartimento di Giustizia Usa, Ferizi ha ottenuto le informazioni sul personale statunitense attaccando il sistema informatico di un’azienda locale, non un dominio della rete della difesa Usa.

L’Italia e gli hacker del Califfo
Pochi ne sono a conoscenza, ma anche la Difesa italiana è stata “vittima” delle presunte azioni offensive dello “stato islamico” e della sua galassia di hackers.

Nel maggio 2015, un documento a firma Ishd contenente le informazioni personali di dieci militari italiani è circolato su Twitter fra i followers dell’organizzazione terroristica. Anche in questo caso, l’Ishd ha affermato di aver ottenuto le informazioni grazie all’accesso a “server sicuri”. Nonostante non ci siano state smentite o conferme ufficiali, si nutrono dei fortissimi dubbi sulla veridicità dell’operazione. È più probabile, infatti, che essa sia stato il risultato di un’attenta attività di profilazione condotta sulla base di fonti aperte, quindi già disponibili pubblicamente.

Tranquilli, ma non abbassare la guardia
Tutto ciò ci suggerisce che lo “stato islamico” non disponga attualmente delle capacità di hacking per piegare le difese di reti informatiche ben protette. Inoltre, nel caso specifico dei sistemi Atm italiani, gli hackers dello “stato islamico” si troverebbe davanti un bell’osso duro.

Enav è l’unico fornitore europeo di servizi Atm certificato ISO 27001, norma di standardizzazione nel campo della sicurezza delle informazioni che denota uno standard di sicurezza piuttosto elevato. In pratica la società italiana ha messo in campo una serie di contromisure a tutela dei propri sistemi, tra cui un Security Operations Center (Soc) dedicato, che darebbero del filo da torcere anche ad hackers ben più sofisticati di quelli dell’Is.

Possiamo quindi considerarci sicuri? Per ora si, anche se non possiamo abbassare la guardia. La presunta estrazione di dati ai danni della Difesa certifica, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l’Italia è un obiettivo reale e concreto dello “stato islamico”, anche da un punto di vista cibernetico. La minaccia proveniente dal gruppo jihadista è destinata a incrementare, e non ad affievolirsi.

In futuro, è possibile che il gruppo terrorista sia in grado di attrarre esperti informatici, magari anche proveniente dall’Occidente, o più semplicemente continui a ispirare “crew” di simpatizzanti hackers a condurre azioni online a suo vantaggio. L’imperativo è dunque continuare a mantenere alto il livello di attenzione e diffondere, a livello nazionale e non solo, “buone pratiche” come quelle di Enav.

Tommaso De Zan è Assistente alla ricerca presso l'Area Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter @tdezan21).

mercoledì 2 dicembre 2015

Europa e Gran Bretagna e prospettive future

Brexit
L’Italia dica la sua sulla Brexit
Riccardo Alcaro
25/11/2015
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Rimanere nell’Ue, solo se le relazioni con Londra saranno ricalibrate. È questo il messaggio delle proposte di riforma presentate dal primo ministro britannico David Cameron in previsione del referendum in cui - tra il 2016 e il 2017- i cittadini britannici sceglieranno se restare o meno nell’Ue.

L’Italia, il quarto paese Ue per dimensioni economiche e demografiche, è destinata ad avere una parte molto importante nel negoziato.

Proposta di riforma o ricatto?
Le proposte di Cameron, messe nero su bianco nella lettera spedito al presidente Ue Donald Tusk, hanno suscitato reazioni contrastanti in Italia.

Da una parte, funzionari, politici ed esperti vi hanno visto un incoraggiante - e lungamente attesto - primo passo verso una rapida risoluzione del problema del travagliato rapporto con l’Ue del Regno Unito. Dall’altra, molti si risentono del fatto che la questione di cui Cameron ha proposto una soluzione è un problema creato da lui stesso.

Dopo la pubblicazione della lettera, Cameron si è espresso positivamente sull’Ue, ricordando i molti vantaggi che il Regno Unito trae dalla sua appartenenza all’Unione, anche in termini di sicurezza nazionale.

Molti in Italia (e di certo anche in altri paesi) si chiedono pertanto come mai il governo britannico consideri lo status quo insostenibile. In fin dei conti, molte delle proposte di riforma fatte da Cameron potrebbero essere discusse in un normale contesto di negoziato interno all’Ue. Condizionarle all’uscita del Regno Unito sembra a molti una forma nemmeno troppo nascosta di ricatto.

Altri lamentano che l’intera vicenda puzzi di opportunismo politico, visto che Cameron ha promesso di tenere il referendum per riportare all’ordine la fazione più euroscettica del Partito conservatore e contenere l’avanzata dello UK Independence Party (Ukip), visceralmente anti-Ue. Altri ancora temono una sorta di effetto domino: se si fanno concessioni speciali ai britannici, cosa impedirà ad altri di avanzare simili pretese?

Regno Unito caso speciale
Il governo di Matteo Renzi non deve farsi influenzare da questi argomenti. Che considerazioni di politica interna entrino nel calcolo strategico di leader nazionali non è uno scandalo - in un modo o nell’altro, succede a tutti i leader europei.

Agitando lo spettro della ‘Brexit’ (come colloquialmente ci si riferisce all’uscita del Regno Unito dall’Ue) Cameron sta indubbiamente giocando duro, ma il premier sa che può permetterselo perché molti non vogliono lasciar andare un paese dell’importanza economica, politica e strategica come il Regno Unito.

Per quanto opportunistico, se non cinico, il calcolo di Cameron è anche realistico. Pochi stati membri, forse solo Francia e Germania, hanno la stessa influenza - e conseguentemente la stessa forza negoziale - del Regno Unito. Se gli altri provassero a emulare Cameron scoprirebbero che anche nell’Ue alcuni stati membri sono più uguali di altri.

Renzi farebbe meglio a impostare il suo approccio su una spassionata e pragmatica valutazione degli interessi italiani in gioco. L’Italia ha un interesse vitale a tutelare la strada dell’integrazione evitandone la preclusione a quegli stati - soprattutto i membri dell’eurozona - che vogliano continuare a percorrerla.

Dobbiamo inoltre evitare che i risultati conseguiti dall’integrazione siano compromessi. Al contempo però, l’Italia ha anche interesse a tenere il Regno Unito nell’Ue perché, senza Londra, l’Unione sarebbe più piccola economicamente e meno influente sul piano internazionale.

Le riforme volute da Cameron
Cameron ha avuto il buon senso di avanzare proposte ragionevoli (pur con qualche eccezione). Delle aree che il premier britannico vorrebbe riformare, l’unica che presenta ostacoli forse insormontabili riguarda l’immigrazione da paesi Ue.

Su questo fronte l’Italia deve guardarsi bene dal fare concessioni che riducano la libertà di circolazione dei lavoratori, una delle quattro libertà fondamentali - insieme alla libera circolazione di merci, servizi e capitali - su cui il processo d’integrazione europea è storicamente basato.

Le altre aree offrono prospettive di accordo più incoraggianti. L’Italia ha interesse sia ad appoggiare la proposta di creare un’unione digitale e di capitali, sia a tenere sotto controllo la regolamentazione Ue.

Le piccole e medie imprese italiane beneficerebbero infatti dall’avere maggiore accesso a fonti di credito (una conseguenza dell’integrazione dei capitali) e una burocrazia più snella.

Cameron vuole anche porre fine all’obbligo del Regno Unito a lavorare verso una ‘unione sempre più stretta’. Purché non si aprano le porte ad un’Europa à la carte, l’Italia non deve opporsi all’introduzione di maggiore flessibilità nella governance dell’Ue.

L’Unione, dopotutto, già ora opera come un sistema di governance multi-livello, visto che un certo grado di differenziazione è già presente in questioni di difesa, giustizia e affari interni, nonché ovviamente affari economici e monetari.

A questo proposito, la richiesta di Cameron di tutelare i paesi Ue fuori dalla zona euro da possibili forme di discriminazione e proteggere il mercato unico ha senso, ma non a tal punto da acconsentire che le decisioni degli stati euro possano essere bloccate dai non-euro semplicemente richiamandosi all’integrità del mercato comune. Molto meglio orientarsi verso soluzioni ad hoc, decise caso per caso.

La strada per un accordo con i britannici è meno stretta di quanto sembri. Gli italiani possono contribuirvi senza sacrificare il loro interesse nell’integrazione europea. L’alternativa - un’Ue più modesta e un Regno Unito estraniato - potrebbe dimostrarsi ben peggiore.

Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca dello Iai e non-resident fellow presso la Brookings Institution di Washington. Di recente ha pubblicato una serie di raccomandazioni al governo italiano su come reagire alle proposte di riforma di Cameron.
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L'Italia sul "suo mare"

Traffici navali, portualità e logistica
Un Mediterraneo a 360 gradi e l’Italia
Alessandro Ungaro
26/11/2015
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Non solo crisi, minacce e instabilità - come troppo spesso siamo ormai abituati a sentire - ma anche grandi opportunità economiche, commerciali e infrastrutturali per l’Italia. È un Mediterraneo a 360 gradi quello che verrà discusso il prossimo 30 novembrea Roma durante una conferenza IAI, la quale tratterà in maniera olistica il concetto di sicurezza nella regione mediterranea, declinandola nei suoi principali aspetti politici, economici, energetici, migratori e militari.

Un’analisi che cerca altresì di fotografare una realtà - quella dei porti e della logistica italiana - alla ricerca di un nuovo vantaggio competitivo all’interno della regione, a fronte di nuove direttrici di sviluppo navali, commerciali e infrastrutturali.

Il Mediterraneo punto nevralgico per i commerci e l’economia internazionali
Nonostante l’instabile contesto politico regionale, il Mediterraneo rappresenta ancora un punto nevralgico per i commerci e l’economia internazionali. Vi transita il 19%-20% del traffico marittimo mondiale (nel 2005 era il 15%). In questo bacino passa il 30% del petrolio mondiale e circa i 2/3 delle altre risorse energetiche destinate all’Italia e ai Paesi europei.

Se dalle merci si passa ai passeggeri, nel 2014 sono transitati dai porti del Mediterraneo circa 26 milioni di crocieristi, grazie alla presenza di 152 navi e l’offerta di 2.615 itinerari: è la seconda destinazione al mondo dopo i Caraibi.

Pertanto, la regione a sud del Mediterraneo rimane cruciale per l’Italia non solo in termini di performance commerciali - di prodotti energetici e non - ma anche per una potenziale crescita economica ed occupazionale della regione del Mezzogiorno, quella più direttamente coinvolta e interessata ad accrescere il suo ruolo nella partita.

L’interscambio dell’Italia con la sola area mediterranea è cresciuto del 64,4% tra il 2001 al 2013, passando da 33,3 a 54,8 miliardi di euro. Il fatto che tale interscambio si svolga per il 75% via mare dimostra ulteriormente quanto siano fondamentali i traffici marittimi per un Paese come l’Italia e, più in generale, quanto sia fondamentale il sistema marittimo per l’economia nazionale.

Ad esempio, il solo segmento della cantieristica occupa un ruolo di primo piano: esso si posiziona ai primi posti tra le imprese della cosiddetta “economia del mare”, con circa 27 mila attività imprenditoriali, il 64,2% delle quali localizzate nei comuni costieri, che incidono per il 15,2% sul totale delle imprese del settore.

Nel suo complesso, la filiera della cantieristica è capace di generare un effetto moltiplicatore pari a 2,4 euro sul resto dell’economia: a fronte di 7,2 miliardi di euro prodotti nel 2014 ne sono stati attivati 17,4 derivanti in primo luogo da attività legate alla metallurgia, alla ricerca e sviluppo, ecc.

Portualità e logistica mediterranea: nuovi trend di sviluppo 
Il potenziamento logistico e infrastrutturale dei porti dei Paesi della sponda sud ha contribuito a cambiare il panorama dell’economia marittima mediterranea europea e internazionale. Lo sviluppo dei terminali di transhipment in Egitto e Marocco ha permesso a questi Paesi di entrare nel mercato della gestione del traffico di container.

Ciò, da una parte, ha certamente generato nuove opportunità per molti Paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo (tra cui l’Italia) ma, d’altra, i nuovi hub mediterranei si sono affermati come alternativa ai porti europei, proprio per le caratteristiche logistiche (e non solo) che meglio si adattano alle esigenze dell’odierno commercio marittimo.

Fonte: Piano strategico nazionale della portualità e della logistica.

I porti della sponda sud del Mediterraneo tra il 2005 e il 2013 hanno aumentato la propria quota di mercato, passando dal 18% al 27%, a discapito dei porti italiani di Gioia Tauro, Cagliari e Taranto che sono passati complessivamente dal 28% al 16%.

Nello stesso periodo i due hub del Pireo e di Malta hanno incrementato la loro quota di mercato dal 17% al 23%, mentre due nuovi concorrenti si sono affacciati nel panorama mediterraneo: Tanger Med in Marocco (da 0 a 10% tra il 2005 e il 2013) e Port Said in Egitto (da 10 a 14%).

A queste tendenze si aggiungono necessariamente l’ampliamento del Canale di Suez e le prospettive di crescita di quei Paesi che si trovano lungo la direttrice Mediterraneo-Golfo, quali Egitto, Israele ed Emirati Arabi, fino a includere anche l’Iran alla luce del raggiunto accordo sul nucleare e la progressiva rimozione delle regime sanzionatorio.

Fonte: IAI su dati Studi e Ricerche per il Mezzogiorno (SRM).

Il Piano strategico nazionale della portualità e della logistica (Psnpl)
Ed è in questo contesto in piena evoluzione che si inquadra il recente Piano strategico nazionale della portualità e della logistica (Psnpl). Esso cerca di colmare quei gap organizzativi, burocratici e funzionali - che impediscono all’impianto portuale e logistico italiano nel suo complesso di esprimere pienamente le proprie qualità di asset strategico per il tutto sistema-Paese.

E proprio di “sistema” che l’Italia deve necessariamente dotarsi per “garantire un rilancio del settore portuale e logistico massimizzando sia il valore aggiunto che il ‘Sistema Mare’ può garantire in termini puramente quantitativi di aumento dei traffici sia affinché il ‘Sistema Mare’ arrivi ad esplicare tutto il suo potenziale nella creazione di nuovo valore aggiunto in termini economici ed occupazionali per l’intero Paese.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @AleRUnga).
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