Translate

venerdì 27 maggio 2016

Roma: il finanziamento dei mussulmani

Comunità musulmana
Islam d’Italia, continua la caccia all’8 x mille
Paolo Gonzaga, Azzurra Meringolo
17/05/2016
 più piccolopiù grande
Dalla testa alla punta dello stivale saranno poco più di 700. Soprattutto in garage, cantine, capannoni ed ex negozi. Le moschee italiane costruite in luoghi istituzionalmente adibiti alla preghiera dei musulmani sono infatti pochissime. Eppure, i seguaci di Maometto sono il secondo gruppo religioso per numero di fedeli, 1,6 milioni, attivo nel nostro Paese.

Il numero di fedeli non serve a nulla neanche quando si tratta della possibilità di raccogliere l’8 per mille. Visto che l’Islam italiano non ha siglato alcun accordo con lo Stato, le autorità religiose musulmane non possono beneficiare dell’eventuale quota versata dai cittadini per le confessioni religiose. Ma anche qualora ci riuscissero, non sarebbe chiaro nelle tasche di chi andrebbero questi soldi.

Il tentativo marocchino 
Infatti, sono almeno tre le organizzazioni che rivendicano questo diritto. Due ci hanno già provato invano: Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche italiane) e Coreis (Comunità religiosa islamica). E dopo il loro fallimento, è ora la Confederazione islamica italiana a cercare di tagliare il traguardo. Espressione della comunità marocchina benedetta dal re Muhammad - sovrano che si appresta ad accogliere Matteo Renzi a luglio -, il 12 maggio la Confederazione ha lanciato la sua Opa, formalizzando la richiesta per ottenere l’intesa con lo Stato.

La Confederazione si è presentata ufficialmente a Roma con un’ambiziosa conferenza contrassegnata da interventi e messaggi istituzionali del ministro dell'Interno Angelino Alfano, del presidente del Senato Pietro Grasso, del ministro degli Affari religiosi del Marocco Ahmad Taoufik, della comunità di Sant’Egidio e della Conferenza episcopale italiane.

Il portavoce Abdallah Cozzolino ha rivendicato apertamente la richiesta di un’intesa con lo Stato italiano. Secondo i vertici della Confederazione, sono già 306 le moschee iscritte e 50 sono in via di iscrizione. Numeri che segnano una tendenza in espansione, spesso ai danni dell’Ucoii. L’intesa dovrebbe portare anche alla designazione di imam ufficiali - forse anche donne -, secondo le regole di trasparenza che valgono per tutti i culti.

Ucoii, Coreis, Confederazione islamica e molto altro
Anche se Ucoii (che nel 2007 si rifiutò di firmare la carta dei valori promossa dall’allora ministro dell’Interno Giuliano Amato), Coreis e Confederazione sono le associazioni più in vista nel Paese, queste non comprendono comunque la maggioranza delle moschee, visto che la gran parte dei luoghi di culto musulmani sono autogestiti da comunità nazionali e realtà etniche, in primis turche e bengalesi.

Molti musulmani non si ritrovano infatti in queste organizzazioni, che invece di parlare con una sola voce si beccano continuamente. Tra Ucoii e Coreis non è tutto rose e fiori. Anzi. La prima è accusata dalla controparte di essere troppo vicina alla Fratellanza Musulmana. E la seconda viene a sua volta bollata come l’organizzazione “settaria” di alcuni italiani convertiti sufi e pertanto lontana e sorda alle istanze dell’Islam plurale presente in Italia, oltre ad essere di dimensioni molto piccole.

È tra queste due realtà che si inserisce la Confederazione islamica italiana che, attraverso il controllo del Centro islamico culturale d’Italia, gestisce di fatto la Grande Moschea di Roma. Luogo di culto e di rappresentanza che è al contempo l’ennesimo campo di battaglia tra le diverse anime dell’Islam italiano. Anche se ad esprimere il presidente sono i sauditi, i marocchini hanno il diritto di nominarne il segretario.

Moschee italiane con fondi del Golfo 
Incapace di districarsi in questo puzzle e non decidendo a chi spetta il diritto di riscuotere l’8 per mille, il nostro governo si difende puntando il dito contro la frammentazione della comunità musulmana. Ma a sentire alcuni leader delle tre organizzazioni, di fronte a questa situazione l’unico accordo possibile è quello che porta a delle intese separate o ad una legge sulla libertà religiosa.

Esponenti di punta dell’Ucoii, come Hamza Piccardo, affermano “di rispettare molto i fratelli marocchini, ma l’intesa non può passare per la mediazione di uno Stato straniero: vogliamo costruire un Islam europeo”.

Per una soluzione che porta a un’intesa nel breve periodo parteggiano anche quanti temono che in Italia crescano delle pericolose sacche di radicalismo, sperando che tramite la mediazione di queste organizzazioni si diffonda nel nostro Paese un Islam moderato.

La speranza è anche quella che un accordo con lo Stato riesca a limitare le generose donazioni provenienti dal Golfo, attraverso le quali vengono finanziate molte delle nuove moschee. Sono infatti ancora vive le ultime polemiche sui fondi ricevuti da alcune moschee italiane affiliate all’Ucoii dalla Qatar Charity Association. Fondi dietro ai quali, temono in molti, si possano celare attività compiacenti con frange radicali.

Paolo Gonzaga è traduttore, giornalista free-lance, analista politico.
Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir
.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3456#sthash.WfTOLhv0.dpuf

Italia: occhio attento verso sud

Mediterraneo
L’Italia e la scommessa degli affari tunisini 
Giulia Cimini
23/05/2016
 più piccolopiù grande
Una delegazione imprenditoriale italiana sbarcata in Tunisia. A dirigerla, il 9 maggio, il ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni che ha partecipato al Business Forum organizzato da Confindustria in collaborazione con Ice-Agenzia, l'Associazione bancaria italiana e con il patrocinio del Ministero dello sviluppo economico e dello stesso Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale.

La missione imprenditoriale - oltre 170 rappresentanti di imprese, banche ed associazioni - è stata ricevuta dal capo del governo tunisino, Habib Essid, presso la sede dell'Utica, l'Unione tunisina del commercio e dell'artigianato, insignita nel 2015 del Premio Nobel della Pace assieme all'Ugtt, principale sindacato dei lavoratori, la Lega Tunisina per la difesa dei diritti dell'uomo e l'Ordine nazionale degli avvocati, per aver contribuito alla ripresa del processo di transizione dopo una fase di stallo del dialogo politico.

Obiettivo principale del Business Forum è stato quello di rilanciare la cooperazione bilaterale tra Italia e Tunisia ed approfondire le opportunità offerte dal mercato locale non solo in termini di commercio, ma anche di partenariati industriali e di investimenti, attraverso sessioni tecniche di approfondimento sul quadro legislativo nazionale in materia e una serie di incontri tra singole imprese in diversi settori: in particolare, agro-alimentare, energie rinnovabili, infrastrutture e costruzioni.

Tunisia, ponte sul Mediterraneo
L'Italia è attualmente il secondo partner commerciale ed investitore della Tunisia dopo la Francia, con un interscambio bilaterale nel 2015 di circa 5,5 miliardi di euro e un saldo commerciale in attivo. Secondo le statistiche delle Agenzie nazionali Api e Fipa e come ha ricordato anche nel corso dell'incontro Mourad Fradi, presidente della Camera di Commercio e dell'Industria tunisino-italiana, nel Paese nordafricano sono presenti circa 800 imprese, miste, a partecipazione italiana o a capitale esclusivamente italiano, la maggior parte delle quali totalmente esportatrici, che impiegano oltre 60mila persone.

Gli Ide dell’Italia verso la Tunisia, così come le esportazioni, sono tendenzialmente cresciuti negli ultimi anni, registrando una diminuzione tra 2008-2009 e nell'immediato post-2011, per riprendere, già dall'anno successivo un trend positivo.

La tradizionale presenza dell'Italia in Tunisia, considerata, oggi più del passato, come un nodo cruciale per la sicurezza nel Mediterraneo e come un ponte che apra al Medio Oriente, è rilevante soprattutto nel settore manifatturiero, in particolare del tessile/abbigliamento; in quello energetico - si pensi al gasdotto trans-tunisino Ttpc controllato da Eni che collega Italia e Algeria, ma anche al progetto di interconnessione elettrica sottomarina Elmed tra Italia e Tunisia - e delle infrastrutture.

Tra i principali gruppi italiani presenti in Tunisia troviamo colossi come Almaviva, Benetton, Marzotto, Miroglio Group, Pirelli, Riva Acciaio, ma soprattutto piccole e medie imprese meno note al grande pubblico.

Questo Forum si inserisce in un quadro più ampio di strategie di ripresa economica che il governo tunisino si appresta a sostenere, soprattutto dopo la recente approvazione del Piano di sviluppo quinquennale 2016-2020 che mira al rafforzamento del flusso degli investimenti esteri ed anche alla sua diversificazione, aprendo ai mercati del Golfo ed alla Russia, dopo l'annuncio della creazione di una linea marittima diretta per favorire gli scambi commerciali che dovrebbe collegare il porto tunisino di Radès e quello russo di Novorossiiysk sul Mar Nero.

Inoltre, una parte sostanziale degli investimenti - il 70% secondo quanto dichiarato dal ministro tunisino dello sviluppo, Yassine Brahim - dovrebbe beneficiare le regioni sfavorite dell'interno e del sud del Paese, tradizionalmente escluse dalle politiche di sviluppo economico a vantaggio della capitale e delle regioni costiere del Sahel.

Un paese in cerca di stabilità
A distanza di cinque anni dall'inizio della Primavera araba, l'economia tunisina, che assiste da oltre vent'anni ad un indebolimento progressivo del suo tasso di crescita medio, stenta ancora a decollare, con un modello che resta principalmente dipendente dalla domanda estera, che si tratti di investimenti o turismo.

Con le continue manifestazioni e sit-in e la pressione jihadista al confine con la Libia e l’Algeria, la stabilità sociale del Paese dipende, ora più che mai, da una ripresa economica che ha bisogno, anzitutto, di risposte politiche.

A due anni dall'adozione della nuova costituzione (gennaio 2014) e dalle legislative nell'ottobre 2014 che hanno segnato la vittoria del partito laico Nidaa Tounes - fondato dall'attuale presidente della Repubblica tunisina Béji Caid Essebsi come contraltare al partito islamista Ennahda - la Tunisia è ancora alla ricerca di stabilità politica, con il nuovo anno che si è aperto con un rimpasto di governo a seguito della crisi interna, e successiva scissione, al partito di Essebsi.

L'attenzione degli investitori è ora sulle riforme strutturali in cantiere, come il nuovo codice degli investimenti, la legge sul partenariato pubblico-privato e una normativa di dettaglio sulle energie rinnovabili.

Ma la creazione di un clima favorevole agli investimenti dipende anche, in larga parte, dalla capacità della Tunisia di gestire la questione terrorismo, interno ed internazionale. Anche se una riforma del settore di sicurezza sarebbe altamente auspicabile, appare ancora in sospeso.

Giulia Cimini è dottoranda di ricerca in Studi Internazionali presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale.
  - See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3465#sthash.Sh6qjdUJ.dpuf

lunedì 16 maggio 2016

La periferizzazione degli immigrati

Immigrazione
Ricetta italiana contro le banlieue
Roberto Volpi
12/05/2016
 più piccolopiù grande
C'è un modello italiano che ha fino ad ora scongiurato il fenomeno delle banlieue intrise di odio come a Parigi, o le Molenbeek della separatezza islamista come a Bruxelles. Si chiama immigrazione diffusa, un fenomeno che ha evitato che gli stranieri si concentrassero in enclave, spargendosi piuttosto sul territorio.

Gli stranieri tra i mille campanili d'Italia
Nel censimento del 2001 l’Italia contava poco più di 1,3 milioni di stranieri regolarmente residenti entro i suoi confini. Tutt’altra cosa rispetto agli oltre 5 milioni di oggi. Gli stranieri approdati in Italia non si sono addensati pesantemente attorno a tappe e mete definite, prefissate e al tempo stesso limitate, ma piuttosto dispersi tra le tante, le mille mete possibili, tra i mille campanili d’Italia.

Una prima indicazione in questo senso si ricava dal numero di stranieri per 100 abitanti residenti nelle grandi ripartizioni geografiche italiane.

In tutto il Centro-Nord, ovvero in 40 dei quasi 61 milioni di abitanti che conta l’Italia, il numero degli stranieri nella popolazione è compreso tra 10,6 stranieri per 100 abitanti al Centro e poco più di 10,7 nel Nord-Est.

Nelle regioni del Centro-Nord si oscilla tra valori minimi attorno a 9 stranieri residenti ogni 100 abitanti di Liguria, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia (le regioni più periferiche) e massimi di 12,1 dell’Emilia-Romagna e 11,5 della Lombardia.

Brescia, meta preferita dagli stranieri
L’immigrazione - è risaputo - si concentra particolarmente nelle grandi città. Sono 45 le città italiane con più di 100 mila abitanti: rappresentano il 23,4 per cento della popolazione italiana e ospitano il 32,1 per cento degli stranieri residenti in Italia.

Deve far riflettere che nelle grandi città con quasi un quarto della popolazione italiana non ci sia neppure un terzo degli immigrati residenti. Ancor più se si pensa che l’anima della graduatoria delle città con la più alta percentuale di stranieri sono proprio le città di 100-200 mila abitanti.

Al primo posto troviamo infatti Brescia col 18,6% di stranieri residenti, al terzo posto Prato (17,9%). Dopo Milano (18,6%), al secondo posto, per trovare una città di almeno 300 mila abitanti occorre scendere fino all’11° posizione, occupata da Torino (15,4%), seguita da Firenze (15,2%) e Bologna (15%).

Tra la 4° e la 10° posizione troviamo Piacenza, Reggio-Emilia, Vicenza, Bergamo, Padova, Parma e Modena. Dopo il terzetto composto da Torino, Firenze e Bologna, abbiamo ancora altre città della provincia italiana del Centro-Nord. Roma è soltanto 18°, addirittura 27° Genova.

La caratteristica diffusiva del modo italiano di incorporare l’immigrazione si conferma passando alle medio-piccole città italiane di 50-100 mila abitanti.

Nella tavola 1 si sono prese in considerazione solo le città del Centro-Nord, dove gli indicatori dell’immigrazione sono più alti. E si vede come passando dalle città grandi e medio grandi a città più piccole di 50-100 mila abitanti si registra soltanto una debole contrazione della percentuale degli stranieri residenti.

Meno rischio di enclave e ghetti 
Analizzare la distribuzione degli stranieri all’interno delle città di Milano, Torino e Roma aiuta a fare comprende perché l'Italia è meno esposta al fenomeno della ghettizzazione.

La scelta di queste tre sole città è praticamente obbligata in quanto, per aversi una forte problematicità/pericolosità sociale legata all’addensamento eccessivo dell’immigrazione, occorre che (1) il tasso di residenti stranieri sia almeno relativamente elevato e (2) le città particolarmente grandi.

A Roma la massima percentuale di immigrati si ha nel centro storico, e si tratta di immigrati dai paesi ricchi occidentali. Il 20 per cento di immigrati non si riscontra, invece, in alcun altro municipio romano.

A Milano la percentuale di stranieri supera il 20% nella zona 2 (28,1%) e nella zona 9 (23,2%), mentre a Torino la percentuale del 20% è superata nella circoscrizione 6 (23,2%) e nella circoscrizione 7 (21,4%). A Milano con la sola, peraltro blanda, eccezione degli stranieri filippini della zona 2, nessuna nazionalità vanta un numero di residenti che supera il 5% della popolazione delle zone.

A Torino è mediamente più forte la provenienza africana, che nella circoscrizione 6 arriva nel suo complesso all’8-9% della popolazione, ma dove la componente principale, quella che viene dal Marocco, è pari al 5% degli abitanti della zona.

In sostanza, l’analisi delle nazionalità degli stranieri nelle aree a maggior rischio delle grandi città italiane a più alta concentrazione di stranieri conferma che il carattere diffusivo dell’immigrazione in Italia spinge anche nel senso di differenziare le nazionalità degli stranieri internamente a queste aree, evitando quell’effetto enclave, e di estraniazione dal contesto urbano, che cela i maggiori rischi di pericolosità dell’immigrazione nelle aree urbane.

Sono proprio gli assetti economico-produttivi dell’Italia, la struttura e la localizzazione delle sue attività, aziende, imprese, vocazioni imprenditoriali a funzionare da elemento equilibratore di un’immigrazione che non si agglutina ma piuttosto si scioglie sul territorio, tra comuni e città, in qualche modo stemperandosi e meglio prestandosi all’integrazione. 
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3450#sthash.QLuiC2AJ.dpuf

Quanto contiamo noi Italiani.

Diplomazia Ue
Roma nella mappa del potere di Bruxelles 
Matteo Garnero
12/05/2016
 più piccolopiù grande
Una mappa in cui si cerca di individuare come la combinazione di potere fra i leader nazionali e i corrispettivi ambasciatori a Bruxelles determini il grado di influenza ed efficacia detenuto dai Paesi membri (e candidati) al tavolo delle trattative dell’Unione europea.

A disegnarla è stata Politico Europe che ha mostrato come i risultati di tale indagine sono tendenzialmente in linea con il funzionamento della politica interna dell’Unione europea, Ue.

Germania, leader indiscusso
Le principali economie (ad esclusione della Spagna, ancora senza governo) ricoprono infatti un ruolo centrale.

Naturalmente, il leader indiscusso resta la Germania, mentre il ruolo della Gran Bretagna, pur restando in seconda posizione, rischia di venire ridimensionato a causa dell’accordo raggiunto con l’Ue e le prospettive di Brexit.

La Francia conserva il proprio ruolo tradizionale al centro delle dinamiche europee grazie alla figura dell’ambasciatore Pierre Sellal che bilancia una leadership indebolita. Il sud Europa registra il posizionamento di due nuovi “pesi massimi”: l’Italia in quarta posizione e la Turchia in quinta.

Renzi e l’immagine italiana
L’Italia ha riscoperto il proprio ruolo di Paese fondatore grazie alle figura di Matteo Renzi, ritenuto più efficace degli altri leader della sinistra europea, incluso il Presidente francese François Hollande, sempre più in declino e in affanno.

Secondo la mappa di Politico, la nomina di Carlo Calenda come Rappresentante permanente a Bruxelles avvenuta a marzo 2016 avrebbe penalizzato l’Italia, mettendo in discussione il lavoro diplomatico della sede e facendo alzare qualche sopracciglio a causa della nomina di un non-diplomatico.

Tuttavia, è necessario precisare che la nomina di Calenda è coincisa con un periodo di distensione con le istituzioni europee, in un evidente cambio di marcia rispetto all’approccio assunto dal governo italiano alla fine dello scorso anno. L’incarico ora è traghettato nelle mani di Maurizio Massari, dal momento che Calenda è stato nominato nuovo Ministro per lo Sviluppo Economico.

La Turchia, dal canto suo, è stata in grado di rivitalizzare (almeno sulla carta) il processo di adesione all’Ue grazie al ruolo fondamentale da giocare nel pieno della crisi dei migranti. L’accordo raggiunto con l’Ue, infatti, potrebbe portare non solo all’apertura di nuovi capitoli, ma anche alla liberalizzazione dei visti entro l’estate di quest’anno.

Resta da vedere quale sia la capacità della Turchia di soddisfare i criteri previsti dall’Ue, soprattutto a fronte di numerose resistenze da parte europea, nel pieno di una transizione politica che vede l’uscita di scena del Primo Ministro Ahmet Davutoğlu e tenendo conto dell’espresso rifiuto di modificare la normativa turca in merito alla definizione di terrorismo.

Ci sono, tuttavia, alcune importanti precisazioni da fare in merito alla matrice sviluppata da Politico. In primo luogo, la metodologia con cui si è valutato il peso politico dei Paesi europei è lungi dall’essere scientifica e lascia spazio a valutazioni speculative, se non aneddotiche.

Pur tuttavia, il merito dello studio sta nell’aver avviato un dibattito in merito alla distribuzione di potere fra governo e rappresentanza diplomatica e, a cascata, come ciò si articola in sede europea. Pur non potendo vantare un solido rigore scientifico, il contributo prende atto della posizione di rilievo che diversi attori si sono potuti ritagliare con l’avvio della crisi economica dell’eurozona che ha man mano diviso l’Ue in blocchi minori.

Crisi migranti e tenuta dell’Ue
Tale posizione è determinata, più che da traiettorie strutturali che si sono consolidate nel tempo, da “fattori circostanziali” quale, da ultimo, la crisi dei migranti. Questa ha sicuramente dato maggior voce ai Paesi del Nord Europa, meta di destinazione della maggior parte dei migranti e rifugiati giunti nel continente, ma anche a quei Paesi Membri che si oppongono a meccanismi di ricollocazione solidale e la cui tenuta democratica è progressivamente messa in dubbio (Polonia e Ungheria).

Se, insomma, la maggior parte del peso politico è ancora nelle mani dei “Big Six” dell’Ue, il consolidamento dei movimenti populisti accompagnato da una crescita economica stagnante ha di fatto ridato maggior peso alle istanze nazionaliste in numerosi Paesi europei, a svantaggio di una coordinata azione europea.

Ciò ha portato alla nascita di blocchi e alleanze su temi quali la questione dei migranti e la politica economica, con il rischio di rompere progressivamente il filo che collega Bruxelles con le capitali europee.

Matteo Garnero è stagista dell’area Europa dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3449#sthash.on9lEwJC.dpuf

lunedì 9 maggio 2016

Roma: un ruolo molto interessante

Cina ed economia di mercato
Italia, deus ex machina di un accordo Ue e Cina?
Nicola Casarini
05/05/2016
 più piccolopiù grande
Riconoscere o meno alla Cina lo status di economia di mercato (Market economy status - Mes)? È questo il dilemma che l’Unione europea dovrà affrontare quest’anno, facendo una riflessione sulle circa 52 misure anti-dumping in corso contro le importazioni cinesi di acciaio, ceramica, prodotti della meccanica e altro.

Si tratta almeno del 1,4% sul totale delle importazioni europee dal gigante asiatico. Queste misure permettono alla Ue di proteggere alcuni settori industriali considerati strategici.

Se alla Cina verrà riconosciuta la Mes, sarà molto più difficile per la Ue attuare i dazi antidumping, anche se le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) prevedono comunque altre misure di difesa anti-sussidio – le cosiddette countervailing measures.

La decisione che dovrà prendere la Ue è sia economica, che politica. In gioco ci sono infatti le relazioni con la Cina, secondo partner commerciale dell’Europa (dopo gli Usa) e un investitore sempre più importante per il vecchio continente.

La rivalità con la Cina piace agli elettori Usa
Pechino sostiene che in base all’art. 15 (d) del protocollo di accesso all’Omc siglato a fine 2001, dopo il periodo transitorio di 15 anni i Paesi aderenti all’accordo devono riconoscere alla Cina lo status di Mes. Tra questi ci sono anche Ue e Stati Uniti anche se quest’ultimi hanno già fatto sapere che non concordano con questa interpretazione e pertanto non concederanno a Pechino la Mes alla fine di quest’anno.

Gli Usa si preparano in questo modo a uno scontro diretto con la Cina in seno all’Omc, consci che in caso di ripetute soccombenze di Washington davanti al tribunale d’appello dell’Omc, quest’ultimo autorizzerà Pechino a imporre sanzioni di vario tipo che penalizzino le esportazioni statunitensi.

L’approccio poco conciliante degli Usa deve molto alla campagna presidenziale in corso, che spinge i candidati a essere critici verso Pechino, una posizione gradita a molti elettori. Gli Usa hanno apertamente chiesto agli europei di seguirli sulla questione della Mes, altrimenti ci potrebbero essere rischi per il Ttip (il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti). Gli europei rischiano però di pagare molto più caro degli Usa una posizione di antagonismo nei confronti di Pechino.

Mentre per Washington la Mes con la Cina fa parte di un gioco più ampio per ‘contenere’ il gigante asiatico e le sue mire espansionistiche, in particolare in Asia, un allineamento sulla posizione degli Usa rischia di far guadagnare poco agli europei, mentre farà sicuramente perdere all’Europa quell’attrattività che si è guadagnata negli anni agli occhi dei cinesi. Inoltre, sulla questione della Mes non c’è unanimità all’interno della Ue.

Europa divisa
La consultazione pubblica sulle conseguenze della Mes condotta dalla Commissione europea si è conclusa il 20 aprile. Al di la’ dei risultati, è poco probabile che cambi le posizioni dei partner europei, per ragioni sia ideologiche che strutturali.

A sostegno della Mes ci sono i paesi del nord Europa, capitanati dalla Gran Bretagna, ma anche l’Irlanda, l’Olanda, i paesi scandinavi e molte delle nazioni dell’Europa centro-orientale. Questi ultimi non hanno una grossa base industriale da difendere, mentre sono affamati di investimenti cinesi che arriveranno senz’altro a coloro che sostengono la Mes, come sottolineato dallo stesso presidente cinese.

Per quei Paesi del nord Europa che rischiano, invece, di vedere alcune industrie chiudere – come è il caso dell’acciaio inglese – qualche migliaio di posti di lavoro persi saranno compensati dai benefici di un legame sempre più stretto con Pechino, oltre a investimenti a pioggia e un ruolo di primo piano per la City di Londra, che contribuisce molto di più dell’industria al Pil inglese.

L’Italia è l’unico paese Ue che si è schierato apertamente contro la Mes alla Cina. Gli altri grandi paesi manifatturieri come Germania, Francia e Spagna hanno scelto una posizione attendista, consci delle ripercussioni su alcuni dei loro settori industriali se la Mes dovesse passare, ma anche attenti a non mettere a rischio le loro buone relazioni con Pechino.

Questi Paesi stanno considerando la possibilità di un compromesso sulla questione. La Germania, in particolare, sta valutando se affiancare a una eventuale decisione 'politica' di riconoscere alla Cina la Mes - cosa che permetterebbe al regime cinese di ‘salvare la faccia’ e all’Ue di ingraziarsi l’ala riformatrice del partito – il mantenimento di una serie di misure di difesa anti-sussidio, necessarie per proteggere quei settori industriali considerati strategici. In questo modo la Ue segnalerebbe che con l’avanzare delle riforme e l’apertura del mercato cinese, queste potrebbero essere gradualmente tolte.

Un ruolo per l’Italia
La soluzione del compromesso potrebbe essere anche nell' interesse dell'Italia. Se il governo di Matteo Renzi lo volesse, potrebbe rimescolare le carte al tavolo negoziale Ue e divenire il deus ex machina di un compromesso storico tra Ue e Cina.

*Parti di questo articolo sono stati pubblicati in precedenza sul Sole 24 Ore del 19 aprile 2016.

Nicola Casarini è coordinatore dell’area di ricerca Asia allo IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3438#sthash.aaqzKAYH.dpuf