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mercoledì 31 agosto 2016

Il referendum costituzionale: nodo chiave.

Referendum di ottobre
Riforma costituzionale e Ue, i conti non tornano
Alessandra Mignolli
27/07/2016
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Il dibattito in corso sulla legge di riforma costituzionale ha finora lasciato in ombra alcuni profili la cui problematicità risulta evidente se si legge il testo alla luce dell’esperienza costituzionale dell’Unione europea, Ue.

Risultano problematici, infatti, sia il ruolo del nuovo Senato, in relazione alla sua composizione e legittimazione, sia l’abolizione del Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro (Cnel), la cui esistenza, invece, è funzionale al lavoro del Comitato economico e sociale europeo (Cese).

Il futuro Senato
Il Senato, di cui al nuovo art. 57 Cost., presenta evidenti elementi di somiglianza con la composizione del Comitato delle Regioni dell’Unione. Quest’ultimo è composto da 350 membri in rappresentanza delle collettività regionali e locali dei 28 Stati dell’Unione.

Ne sono membri, ad esempio, per l’Italia gran parte dei presidenti di Regione, insieme a consiglieri regionali, sindaci, ecc. Analogamente, il nuovo Senato è espressione delle istanze regionali e locali, e realizza una rappresentanza indiretta, in quanto i senatori - consiglieri regionali e sindaci titolari di un mandato elettivo a livello regionale o locale - sono nominati dai vari consigli regionali.

Secondo l’art. 55, 5° comma, Cost., il futuro Senato, oltre a generiche funzioni di raccordo tra lo Stato e gli enti territoriali e tra lo Stato e l’Unione europea, non solo sarà chiamato a partecipare all’elezione di fondamentali e delicate figure istituzionali dello Stato, come il Presidente della Repubblica e i giudici costituzionali, ma eserciterà anche una funzione legislativa, in settori limitati ma importanti, in piena parità con la Camera, mentre per altri settori potrà proporre modificazioni, esercitando quindi una funzione consultiva.

Ai sensi del nuovo art. 70 Cost., infatti, esso concorrerà su base paritaria con la Camera a legiferare su materie, quali le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, le leggi che regolano specifiche materie, tra cui la partecipazione dell’Italia alla formazione e attuazione delle normative e delle politiche dell’Unione europea, le leggi che regolano le autonomie regionali e locali, e le leggi di ratifica di trattati internazionali relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.

Il Comitato delle regioni dell’Ue
Il Comitato delle Regioni dell’Ue (Cdr) dispone invece di poteri incisivi e trasversali, ma consultivi e limitati sotto il profilo decisionale. Si tratta di poteri volti a sviluppare la democrazia partecipativa europea attraverso il coinvolgimento delle istanze regionali e locali nel processo di formazione delle norme, e a rafforzare il controllo da parte dei più diretti interessati - le comunità territoriali - sul rispetto del principio di sussidiarietà nell’adozione degli atti legislativi dell’Unione.

Il Cdr elabora pareri - obbligatori ma non vincolanti - su tutti gli atti normativi relativi a materie di interesse regionale (per esempio in tema di trasporti, navigazione marittima e aerea, occupazione, sicurezza del lavoro, ecc.); può essere consultato dalle istituzioni ogniqualvolta lo ritengano opportuno o può esprimere pareri di propria iniziativa.

In sostanza, il Cdr non possiede mai poteri decisionali o legislativi. Il parere da esso espresso, infatti, pur facendo parte del processo legislativo, non è mai vincolante. I poteri e le funzioni di cui dispone, insomma, sono coerenti sia al perseguimento dei fini per cui il Cdr è stato creato e degli interessi che esso rappresenta, sia rispetto alla limitata legittimazione democratica di cui dispone.

Tale coerenza non si riscontra nella disciplina del Senato configurato dalla legge di riforma costituzionale. In primo luogo perché, in linea generale, nessun organo con una legittimazione democratica e una rappresentatività così limitate e poco omogenee dovrebbe essere titolare di potere legislativo. In secondo luogo perché non tutte le materie per le quali tale potere è previsto dalla legge di riforma sono coerenti con gli interessi rappresentati dal nuovo Senato.

Infine, è evidente che un Senato che si propone di rappresentare gli interessi regionali e locali dovrebbe per sua natura essere coinvolto, in modo molto più trasversale di quanto la riforma non preveda, in tutti i casi in cui tali interessi siano in gioco. Il Senato, invece, verrà escluso dal processo di adozione di leggi ordinarie che potrebbero avere un impatto rilevante sugli interessi locali e regionali, ma si troverà coinvolto su un piano di parità con la Camera elettiva nel processo di revisione costituzionale, per il quale non dispone della rappresentatività e della legittimazione necessarie.

Abolizione del Cnel
L’abolizione del Cnel, invece, impatta direttamente sul funzionamento del Comitato economico e sociale dell’Unione europea. Quest’ultimo rappresenta gli interessi variegati della società civile (associazioni di datori di lavoro, lavoratori, consumatori, organizzazioni di assistenza sociale, ecc.) ed è chiamato a esprimere il proprio parere consultivo su tutti gli atti legislativi adottati dalle istituzioni dell’Unione nell’attuazione delle politiche che incidono su tali interessi.

I pareri del Cese non sono vincolanti per le istituzioni dotate di potere decisionale, ma queste ultime hanno l’obbligo di richiederli e, una volta ricevuti, di esaminarli.

Per svolgere la sua funzione, secondo il tipico strumento amministrativo europeo della rete, il Cese si pone in relazione con le analoghe strutture nazionali - il Cnel nel caso italiano - al fine di tenere conto in modo più incisivo e capillare delle diverse articolazioni della società civile e delle diverse esigenze economiche degli Stati membri.

Con l’abolizione del Cnel al Comitato economico e sociale dell’Unione europea verrà a mancare una maglia in questa rete di relazioni, e probabilmente l’Italia dovrà trovare una diversa struttura cui attribuire le indicate funzioni di raccordo oppure crearne un’altra simile.

Una sia pur rapida comparazione con l’architettura costituzionale europea mostra che il progetto di riforma costituzionale manca di coordinamento con gli organi dell’Unione europea stessa riguardo all’abolizione del Cnel, ma soprattuttodisegna un equilibrio istituzionale incoerente riguardo al Senato che, con una limitata legittimazione democratica, è equiparato alla Camera elettiva per un cospicuo numero di funzioni costituzionali fondamentali, mentre non sempre coopera all’esercizio della funzione legislativa relativa agli interessi che rappresenta.

In conclusione, mentre nella struttura dell’Unione si può riscontrare una coerenza nell’applicazione dei principi della democrazia rappresentativa (Parlamento europeo e Consiglio) e della democrazia partecipativa (Comitato economico e sociale e Comitato delle regioni), una simile visione d’insieme sembra mancare del tutto nel progetto di riforma costituzionale.

Alessandra Mignolli è professore associato di Diritto dell'Unione europea presso l'Università Sapienza di Roma, dottore di ricerca in Diritto internazionale dell'economia (università di Bergamo e Milano Bocconi), Fulbright scholar presso la Law School della Colorado University at Boulder. È autrice di numerose pubblicazioni in materia di relazioni esterne dell'Unione europea, di commercio internazionale e di tutela dei diritti umani.
 

lunedì 22 agosto 2016

Il problema delle Banche

Economia Ue
Italia e titoli tossici, esame per l’Unione bancaria
Antonio Scarazzini
20/07/2016
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Quanto è reale il rischio di una crisi bancaria in Italia? Abbastanza per imprimere un deciso cambio di direzione alla gestione del dossier “Unione bancaria” da parte delle istituzioni dell’Unione europea (Ue).

Dopo aver battagliato sul salvataggio dei quattro istituti italiani posti in risoluzione a fine 2015 e sulla creazione della bad bank per gestirne gli asset tossici, la Commissione ha infatti autorizzato garanzie di Stato per 150 miliardi di euro a favore delle banche italiane solventi, aprendo alla possibilità di ricapitalizzazioni pubbliche a tutela del settore.

Con alle viste gli stress test dell’Autorità bancaria europea, che faranno miglior luce sullo stato dei crediti deteriorati nei bilanci delle banche italiane, è stata indubbia l’abilità del governo italiano nello sfruttare l’incertezza post-Brexit per adempiere un duplice obiettivo: ottenere il placet ad un piano che pari i colpi della svalutazione deinon-performing loans ed evitare agli istituti in sofferenza l’attivazione del contestato principio di burden sharing, la compartecipazione privata alle perdite che ha stravolto il consueto rapporto tra banche e risparmiatori all’indomani del caso Banca Etruria.

Intimorita dalla possibilità di una nuova crisi sistemica dopo il “Leave” britannico, la Commissione è inoltre apparsa troppo debole per confutare la consistenza del rischio paventato dall’Italia (non condivisa, ad esempio, dal presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem) e arginare quello che appare, in gergo renziano, un vero cambio di verso.

Bailout e bail in
Pur variegata nella forma - garanzie pubbliche su emissione di nuovi bond, ricapitalizzazioni, aumenti di capitale coperti dal fondo Atlante o sofferenze acquistate dal suo gemello Atlante 2 - l’operazione di sistema profilata dall’Italia riapre infatti la stagione dei bailout pubblici che, durante la crisi finanziaria, ha pesato sui deficit di bilancio e limitato la leva fiscale per altri provvedimenti anti-ciclici.

Ad uscirne dunque indebolita è la finalità stessa dell’Unione bancaria, ossia la rottura del cosiddetto doom loop, la compenetrazione viziosa dei rischi tra sistema bancario e finanze pubbliche, alimentata dai canali dell’esposizione ai bond sovrani e della crescita dei deficit pubblici gonfiati dai salvataggi bancari.

L’enfasi, forse eccessiva, sulla ricapitalizzazione pubblica limita altre opzioni di coinvolgimento di capitali privati come, ad esempio, la conversione di obbligazioni in azioni accompagnata da una risoluzione “leggera” tramite bail in che compensi i risparmiatori non istituzionali.

È tuttavia l’architettura stessa dell’Unione bancaria a lasciare uno spiraglio aperto al rientro in scena dello Stato come ultimo garante. Il Fondo unico di risoluzione (Srf), con una dotazione di soli 55 miliardi di euro, non pare in grado di reagire a vere crisi sistemiche, né è contemplato - se non in via di principio - un ruolo del Meccanismo europeo di stabilità (Esm) come prestatore di ultima istanza da sostituire alle casse nazionali.

Rimangono peraltro inesplorate opzioni in questa direzione, quali l’istituzione di linee di credito a favore del Fondo unico, come da proposta italo-francese circolata in consiglio Ecofin, o la rivisitazione dello strumento di ricapitalizzazione diretta che il Meccanismo europeo può attivare, per i soli istituti considerati sistemici, unicamente a seguito di un’iniezione di fondi pubblici e solo qualora il bailout non deteriori la situazione fiscale del paese interessato.

Principi generali vs opportunità politica
Eppure, si badi, non siamo in presenza di una ritrattazione tout court delle regole europee ma piuttosto di un’ulteriore dimostrazione della porosità di un impianto normativo frutto di un compromesso fra governi e costantemente soggetto all’interpretazione politica.

Se, appunto, l’Unione bancaria pareva poggiarsi sul principio (apparentemente) condiviso di una più equa distribuzione delle perdite, la sua applicazione pratica - ilbail in - rischia invece ora di essere indebolita da un utilizzo discrezionale delle eccezioni contenute nella direttiva Ue “Brrd”, sul risanamento e la risoluzione degli enti creditizi e delle imprese di investimento.

La direttiva disciplina infatti un sostegno finanziario pubblico straordinario come rimedio a una grave perturbazione dell’economia di uno Stato membro, al fine di preservare la stabilità finanziaria.

La questione va dunque focalizzata non tanto sulla natura dello strumento utilizzato quanto sull’indeterminatezza del principio di stabilità finanziaria, la cui definizione da parte di governi e regolatori varia in funzione delle sensibilità nazionali.

Valga da esempio l’inserimento dello stesso bail in nell’elenco dei potenziali rischi stilato dal rapporto della Banca d’Italia sulla stabilità finanziaria, per via delle forti esposizioni dei risparmiatori italiani verso le obbligazioni subordinate.

Ragione per cui i negoziatori italiani mirano a evitarne la conversione, secondo l’eccezione contemplata dalla comunicazione del 2013 sugli aiuti di Stato al settore bancario in presenza di “potenziale rischio sistemico”.

Un primo test di credibilità 
Evidente dunque il rischio di un’eccessiva discrezionalità da parte dei regolatori nazionali nell’invocare “perturbazioni eccezionali” che inibiscano l’innesco di un fallimento ordinato delle banche in sofferenza.

Il complesso meccanismo d’azione della risoluzione gioca inoltre a loro favore: è infatti facoltà del Consiglio - dunque degli Stati membri - bloccare un piano di risoluzione proposto dall’agenzia deputata, il Comitato di risoluzione unico (Srb), qualora la stabilità finanziaria sia considerata a rischio.

Sul campo italiano l’Unione bancaria affronta quindi il primo vero test di credibilità dalla sua entrata in funzione ma la sensazione è che principi generali e opportunità politica della loro applicazione ancora non viaggino di pari passo.

Antonio Scarazzini è direttore della rivista Europae e MA Graduate presso il Collège d’Europe di Bruges.