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giovedì 29 settembre 2016

Referendum: interpretazioni

Referendum costituzionale
Nessun allarmismo per l’esito del referendum italiano
Gianfranco Pasquino
03/10/2016
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Dissento fortemente dall’analisi di Gianni Bonvicini “I rischi per l’Italia se vince il NO” e ancor più dalla sua conclusione: “Dire no alla riforma significherebbe negare il nostro interesse europeo e internazionale a giocare un ruolo da grande nazione”. L’accusa di disfattismo e di antipatriottismo mi pare davvero fuori luogo.

Riforme inutili e inefficaci
Credo che sia praticamente impossibile dimostrare che uno qualsiasi dei capi di governo che contano nell’Unione europea, Ue, conosca le riforme costituzionali imposte da Matteo Renzi e sia in grado di valutarne, compito difficile anche per gli italiani, l’utilità e l’efficacia.

Tanto per cominciare la riforma del bicameralismo italiano, che non è affatto “perfetto” come scrive Bonvicini, produrrà un Senato di consiglieri regionali e sindaci che si occuperanno, certamente senza farne sfoggio durante le loro campagne elettorali regionali, (con quale preparazione e con quali conoscenze?), della politica europea. È una scelta assolutamente fuori luogo.

Secondo, nel momento in cui sarebbe opportuno valorizzare le regioni e le autonomie locali, anche per attuare compiutamente il principio di sussidiarietà, le riforme approvate reintroducono la “supremazia statale” in molte materie. Avrebbero, invece, se miriamo congiuntamente a rappresentanza ed efficienza, dovuto mirare a un accorpamento delle regioni e a un’incentivazione della loro efficienza anche in tutti gli ambiti nei quali, a cominciare dall’utilizzo dei fondi europei, debbono operare.

Un bicameralismo non “perfetto”, ma produttivo
Nulla di tutto questo. Bonvicini sembra credere alla non-produttività del Parlamento italiano e alla sua presunta lentezza e farraginosità. Invece i dati, che ho riportato nel mio volumetto NO positivo. Per la Costituzione. Per buone riforme. Per migliorare la politica e la vita (Edizioni Epoké 2016) indicano tutt’altro. Il bicameralismo italiano ha regolarmente “fatto”, ovvero approvato, più leggi e in tempi comparativamente più brevi dei bicameralismi tedesco, francese e inglese.

Inoltre, il governo, anche quello di Matteo Renzi, ha regolarmente ottenuto le leggi che voleva, spesso nei tempi da lui desiderati, magari ricorrendo alla decretazione d’urgenza e imponendo il voto di fiducia. Semmai, il problema italiano è che le leggi sono quantitativamente troppo e qualitativamente malfatte. Per colpa dei governi, dei ministri, dei direttori generali dei ministeri.

Governi deboli o inaffidabili?
Governo “debole”, Presidente del Consiglio ingabbiato? Supponendo che qualcuno possa credere, senza dati, a queste fattispecie, dovrebbe allora interrogarsi sul perché nelle riforme costituzionali che saranno sottoposte a referendum non si trovi nulla che riguardi direttamente e specificamente né il governo né il suo capo.

Rimanendo in Europa sarebbe stato semplicissimo e auspicabilissimo introdurre il voto di sfiducia costruttivo la cui esistenza tantissimo ha giovato alla stabilità dei Cancellieri tedeschi e delle loro compagini governative.

Allo stesso modo, una forte Camera delle regioni avrebbe dovuto essere impostata come il Bundesrat tedesco. Naturalmente, punto che, ne sono certo, Bonvicini condivide con me, la “forza” di un capo di governo nell’Ue non dipende tanto e neppure essenzialmente dalla struttura del suo Parlamento, dall’organizzazione del potere locale, da una legge elettorale che contempli un cospicuo premio di maggioranza (che i greci avevano, to no avail, e che hanno recentemente abolito).

Quasi tutte le democrazie europee meglio funzionanti hanno sistemi elettorali proporzionali e governi di coalizione, più rappresentativi delle preferenze dei loro elettorati e con programmi in grado di accogliere in maniera più soddisfacente interessi e preferenze diversificate.

La forza di quel capo di governo dipende dalla sua credibilità politica e personale che implica non fare promesse che non può mantenere e non farsi paladino di riforme costituzionali controverse le quali, creando conflitti interistituzionali e confusione di competenze, renderanno le sue promesse ancora più difficili da mantenere.

Unità d’intenti
Infine, un “sistema-paese” diventa e rimane un interlocutore affidabile, non soltanto per e nell’Ue, anche quando non solo, ma in primis, i suoi politici e poi gli intellettuali e gli istituti di ricerca non fanno allarmismo, quando dichiarano convintamente (e cooperano a fare sì che…) che l’esito di consultazioni democratiche sarà comunque governabile. Che i nostri partner europei non hanno nulla di cui preoccuparsi. Che l’allarmismo interno ed esterno non è affatto giustificato.

Che i sostenitori del NO non sono nemici del loro Paese, ma pensano semplicemente che altre riforme siano possibili e migliori e sanno anche quali riforme introdurre.

Questo, soltanto, questo è il messaggio da inviare ai quotidiani economici stranieri, alle grandi banche d’affari, all’ambasciatore Usa, che avrebbe fatto meglio a parlare dopo avere ascoltato i rappresentanti dei due fronti, ai partner europei.

Gianfranco Pasquino è Professore Emerito di Scienza politica nell’Università di Bologna.

domenica 25 settembre 2016

Lanzarotto MAlocello

Oggi, 24 settembre 2016, giornata commemorativa dedicata al navigatore italiano, di Varazze, Lanzarotto Malocello,

 precursore di Cristoforo Colombo, sicuri di fare cosa gradita a quanti hanno a cuore la ricorrenza del “Lanzarottus Day” e vedono in questo evento una valida promozione turistico-culturale per la città di Varazze, proponiamo un breve sunto, di notizie ed immagini, delle prime 4 edizioni (2012 > 2015) con indicazioni per eventuali approfondimenti. L’appuntamento con l’edizione 2016 è fissata per le ore 17.00 presso la Civica Biblioteca, dove il C.L.C.Stefano Giacobbe terrà una originale conferenza a tema: “Varazze e la sua intrepida Gente di Mare”.
Lanzarottus  Day  Story – Una giornata commemorativa dedicata al navigatore italiano, di Varazze, Lanzarotto Malocello, precursore di Cristoforo Colombo: in pdf scaricabile >>
Varazze celebra il – Lanzarottus Day – 2016: …versione in pdf scaricabile >>
Cordiali saluti
Per la segreteria di www.ponentevarazzino.com
Domenico Romano

Comitato per le Celebrazioni del VII Centenario della scoperta di Lanzarote e delle Isole Canarie da parte del navigatore italiano Lanzarotto Malocello

venerdì 23 settembre 2016

Verso uno snodo importante: il referendum

Referendum costituzionale
I rischi per l’Italia se vince il No
Gianni Bonvicini
22/09/2016
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Accantoniamo per un momento la non-diplomatica “interferenza” per il sì dell’ambasciatore americano John Philipps o le fosche previsioni dell’agenzia di rating Fitch in caso di vittoria del no. Nessuno tuttavia può davvero negare che in Europa non serpeggi una certa preoccupazione in vista del referendum sulla riforma costituzionale italiana.

Sembrerebbe un argomento di cucina domestica, di interesse per i soli italiani. Ma da alcuni anni, per non dire decenni, i fatti interni di un Paese si riflettono direttamente sui destini dell’intera Unione europea, Ue. Basti vedere l’ansia con cui sono state seguite nel recente passato le elezioni in Grecia o quelle ancora oggi pendenti in Austria.

Per non parlare poi dell’attenzione parossistica sul referendum inglese, che in effetti ha rimesso in gioco l’intera struttura dell’Unione, oggi alle prese con la prima uscita di un proprio membro dal club comune. Vi sono quindi buone ragioni per comprendere il nervosismo dei mercati finanziari sul futuro dell’Italia (e dell’Euro), nonché il fiato sospeso di Bruxelles (e Berlino) sul risultato del voto italiano.

Ma questi timori sono solo una parte, forse la più piccola, di un dibattito italiano poco attento alle ragioni europee e internazionali che giustificano la sostanza di una riforma costituzionale che il governo di Matteo Renzi ha portato a termine attraverso sei letture nel nostro Parlamento.

Un presidente del consiglio più forte in ambito internazionale
Come è noto, alcuni costituzionalisti hanno arricciato, a dire poco, il naso davanti al testo varato dalle camere. Una delle obiezioni, sostenuta perfino dalla minoranza del PD (magari dalla memoria corta), è di un eccessivo accentramento di poteri nelle mani del Presidente del Consiglio. A parte il fatto che anche la proposta di riforma varata dalla bicamerale Berlusconi-D’Alema (1997) sosteneva l’urgente necessità di rafforzare il Premier,vi è una chiara esigenza europea e internazionale a giustificarla.

La nascita e il sempre maggiore ruolo assunto dai Consigli europei all’interno del sistema decisionale dell’Ue impone una presenza continua e attenta dei primi ministri. Con la crisi finanziaria del 2008 e con il conseguente rischio di fare saltare l’Euro, il Consiglio europeo si è riunito con cadenza quasi mensile per diversi anni.

Ma al di là degli aspetti economici, i capi di stato dell’Ue decidono ormai su tutto, dalla lotta al terrorismo alle problematiche relative all’immigrazione. Lasciamo stare la valutazione sull’efficacia o meno di questa forma di “governo” dell’Ue (fra il resto prevista dal trattato di Lisbona), ma è evidente a tutti che il premier nazionale deve essere in grado di dirigere e coordinare tutte le competenze del governo che lo impegnano al tavolo del Consiglio europeo.

Lo stesso discorso vale, in termini più generici, per quanto riguarda la nostra partecipazione nei vari G7 o G20 che siano (di qui le preoccupazioni americane). Quindi accentrare i poteri nella Presidenza del Consiglio è un’esigenza dettata dall’evoluzione istituzionale dell’Ue e da un diffuso “verticismo” multipolare nelle relazioni internazionali.

D’altronde, quella di gestire in prima persona i dossier internazionali è una caratteristica di tutte le principali democrazie europee, dal Cancelliere in Germania al Primo ministro in Inghilterra. Forse, quindi, al di là degli aspetti di equilibrio interno fra diversi ruoli istituzionali, varrebbe la pena dare un’occhiata a quelli che sono gli interessi italiani nel contesto europeo e internazionale.

L’inefficienza del bicameralismo perfetto
A seguire, le obiezioni sulla riforma puntano l’attenzione sui rischi per la democraticità del futuro sistema istituzionale. È un tema un po’ sfuggente, poiché nessuno sembra mettere in dubbio i guasti prodotti dal bicameralismo perfetto, ma molti si attaccano nuovamente allo sbilancio degli equilibri di potere verso il Presidente del Consiglio con la sopravvivenza di una sola camera.

Anche in questo caso agli scettici o bastian contrari va ricordato come nel resto d’Europa laddove esiste il sistema bicamerale si preveda una distinzione di competenze e che nessun rischio alla democrazia si è per ciò palesato.

Al contrario, vale forse la pena valutare come questo farraginoso e ormai antistorico sistema di poteri perfettamente coincidenti di Camera e Senato abbia generato numerose deficienze anche rispetto ai nostri obblighi nei confronti dell’Ue.

Basti pensare ai ritardi cumulati nell’adozione delle direttive comunitarie o alle numerose condanne che quei ritardi hanno fatto subire al nostro Paese, sempre nella lista dei paesi reprobi dell’Ue.

Non si confonda quindi democrazia con inefficienza: quest’ultima semmai è all’origine proprio delle disuguaglianze e del diverso trattamento che i nostri cittadini hanno vissuto rispetto a quelli di altri paesi dell’Ue.

Per un Paese più efficiente vi è quindi estremo bisogno di rivedere l’intera catena di comando fra potere esecutivo e legislativo. I contrappesi, è evidente, devono funzionare, ma questo non vuol dire che ciò deve avvenire a scapito dell’efficienza. In un mondo sempre più competitivo e in un’Unione che ha bisogno di decisioni radicali per potere sopravvivere ai venti dell’antipolitica è necessario chiarire meglio la distinzione di ruoli fra esecutivo e legislativo.

Per troppi anni l’Italia ha vissuto nella confusione e sovrapposizione dei due ruoli, che se avevano qualche senso ai tempi del compromesso storico, con un governo democristiano e con un parlamento affidato alla direzione dei comunisti, oggi il paese necessita di efficienza, autorevolezza e credibilità.

I partner europei sperano in un’Italia più forte
Tutte qualità di cui non solo noi, ma anche i nostri partner europei sentono estremo bisogno: un’Italia più forte è una delle poche speranze per quel che resta del disegno unitario europeo.

Cedere alla malafede di una certa opposizione interna, che prima approva e poi respinge la riforma istituzionale, o allo scetticismo, per quanto rispettabile, di qualche costituzionalista sarebbe deleterio.

La riforma va vista in tutti i suoi aspetti e riflessi, sia interni che internazionali. Ci vuole uno sguardo un po’ più lungo rispetto a un dibattito interno per slogan o per posizioni preconcette. Dire no alla riforma significherebbe negare il nostro interesse europeo e internazionale a giocare un ruolo da grande nazione.

Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.

Questo articolo è stato pubblicato sull’Adige del 20 settembre.

martedì 20 settembre 2016

Bratislava: altre incognite

Unione europea
L’inutile strappo di Renzi a Bratislava
Riccardo Perissich
19/09/2016
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Ci sono casi in cui, quando la situazione è disperata, è difficile dire se non sia preferibile non fare nulla. Per esempio, a cosa serviva il vertice di Bratislava convocato per dare un senso all’Europa post Brexit? Anche un marziano sapeva che nessun governo è oggi pronto a dare a quella domanda una risposta convincente.

La riunione, che si è tenuta non a caso nella capitale della Slovacchia, aveva una sola ragion d’essere: affermare una sia pur fittizia unità a 27 di fronte alla sempre più evidente fronda dei Paesi del gruppo di Visegrad.

Essi vogliono essere rassicurati che non si farà nessuna concessione ai britannici sulla libera circolazione delle persone. D’altro canto, senza apparentemente vedere il paradosso, rifiutano solidarietà sulla crisi dei rifugiati, chiedono “meno Europa” e soprattutto “meno Bruxelles” e accentuano la deriva nazionalista e autoritaria al loro interno. Vista la loro posizione strategica, non è un problema che possiamo prendere alla leggera.

È facile dire che la risposta sta in un’Ue a cerchi concentrici; tuttavia se non sono chiare le caratteristiche del nucleo centrale, l’affermazione resta confinata al dibattito accademico.

I principali Paesi fondatori non sono ancora pronti a rispondere a questa domanda; non perché non siano coscienti che sia necessario, ma perché mancano ancora le basi di un accordo solido e duraturo e nessuno s’impegnerà in una discussione seria alla vigilia di una tornata elettorale che potrebbe cambiare radicalmente il profilo politico dell’Europa. Per il momento i governi sembrano ovunque paralizzati dall’offensiva di movimenti populisti profondamente diversi fra loro, ma accomunati dall’euroscetticismo.

Direttorio di Ventotene precocemente dissolto
In queste condizioni, per quale ragione la Germania, forse meno instabile e più attenta di altri alle questioni geopolitiche, dovrebbe provocare una crisi a oriente senza sapere se a occidente gli interlocutori fra un anno saranno affidabili?

A Bratislava la parola ventisette contava ancora più della parola unità. Era quindi normale che si dissolvessero sia l’effimera formazione mediterranea che si era riunita ad Atene, sia il “direttorio” di Ventotene. Per evitare il contagio del trauma di Brexit, la partita principale per l’Ue si gioca a est e il tema principale è quello degli immigrati più che l’economia.

Non è un caso che la Merkel subito dopo Ventotene si sia precipitata a Varsavia. È sorprendente che Renzi non abbia capito il copione del film al quale stava partecipando, come pure che abbia scoperto a Bratislava che mancava la parola Africa in un testo sicuramente discusso da parecchi giorni.

Il dibattito si sta avvitando, anche all’interno di molti Paesi, su due idee che rischiano di condurre allo stallo. La prima è che la prospettiva di un’Europa più sovranazionale è definitivamente tramontata.

La seconda, speculare alla prima, è che la ragione della crisi risiede invece nel fatto che si è abbandonata quella prospettiva in favore di un’Europa intergovernativa. Come se le cessioni o condivisioni di sovranità fossero un fine in sé e non valessero in funzione delle cose da fare insieme.

Costretti a navigare a vista
Facendo uno strano amalgama fra Monnet e Spinelli, si dimentica infatti che l’Ue non è una federazione; tutti i poteri attribuiti alle istituzioni derivano dai governi e nulla di concreto può succedere se non c’è un accordo fra di essi sugli obiettivi e sui principi che devono guidare le politiche comuni. Il potere d’iniziativa della Commissione può essere a volte risolutivo, ma solo se esiste già una predisposizione all’accordo almeno fra i governi principali.

Molto dipende anche dall’autorevolezza della Commissione: c’è stata quella di Delors e quella di Barroso. Ciò è tanto più vero quando, come ora, i problemi da affrontare toccano da vicino il cuore della sovranità nazionale e in un certo senso navighiamo in terra incognita.

Da questo punto di vista, l’Ue è ancora strutturalmente intergovernativa. È anche vero, come ripetono in molti, che l’opinione pubblica, sottoposta da anni a una sistematica denigrazione di “Bruxelles”, ha un’istintiva riluttanza a trasferire nuovi poteri alle istituzioni; se leggiamo attentamente i sondaggi, vediamo però che la disaffezione verso l’Ue è dovuta a una moltitudine di ragioni fra cui primeggia la mancanza di risultati concreti delle decisioni che vengono annunciate con gran fracasso.

La storia degli ultimi sessant’anni ci dice peraltro che nessun accordo può produrre effetti duraturi se la sua gestione non è affidata a istituzioni comuni. La crisi attuale, con il contrasto fra l’efficacia dell’azione della Banca centrale europea e le insufficienze dell’azione dei governi lo dimostra in modo drammatico.

Il continuo riferimento alla difficoltà politica di trasferire poteri al centro, è quasi sempre un argomento pretestuoso che maschera l’incapacità di mettersi d’accordo su cosa fare, come e con chi.

La distinzione fra metodo intergovernativo e sovranazionale è quindi buona per dibattiti accademici, ma nella realtà le due cose sono complementari. Il primo è la premessa perché il secondo abbia senso; il secondo è la condizione perché i risultati auspicati siano raggiunti.

Altrettanto fallace è la diffusa convinzione che l’Ue abbia conosciuto un’epoca d’oro della sovranazionalità; basterebbero i nomi di De Gaulle e Thatcher per ricordare che i governi sono sempre stati riluttanti ad attribuire poteri alle istituzioni e l’Europa si è mossa fra i due approcci in un continuo movimento pendolare.

Per il momento dobbiamo accettare di essere obbligati a navigare a vista, nella speranza che gli avvenimenti ce ne diano la possibilità.

D’altro canto è vero, come ha ricordato Juncker, che l’Ue vive una crisi esistenziale e ha bisogno di una nuova visione convincente; non è più sufficiente difenderla con gli argomenti del secolo scorso, o con la paura della catastrofe che ci aspetterebbe in caso di dissoluzione. Né si può costruire consenso su una nuova visione denigrando l’Europa che esiste o con lo stucchevole riferimento alla tecnocrazia.

Bisogno italiano per la coppia franco tedesca
Quando, dopo il ciclo elettorale e nella speranza che non abbia provocato disastri irreparabili, sarà possibile riprendere un dialogo impegnativo, alcune idee dovranno già essere state discusse, di preferenza fuori dal circuito mediatico.

Molte sono già sul tavolo, alcune di esse italiane. Renzi fa bene a difenderle; tuttavia lo strappo di Bratislava non gli sarà utile. Come pure basta una fuggevole occhiata al calendario per capire che sarebbe un errore caricare di eccessive aspettative la celebrazione dei trattati di Roma prevista nella capitale italiana per la prossima primavera. La pazienza pagherà più dell’irruenza.

L’Italia non ha bisogno di farsi avanti a gomitate; tutti sanno che accanto alla sempre indispensabile coppia franco-tedesca c’è bisogno anche di noi.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.

domenica 18 settembre 2016

UE: alla ricerca di una soluzione

Unione europea
Ue: come non farci governare dalle crisi
Nicoletta Pirozzi, Piero Tortola, Lorenzo Vai
14/09/2016
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Fare luce sui problemi politico-istituzionali del processo decisionale dell’Unione europea, Ue. È questo l’obiettivo diGoverning Europe, il progetto lanciato un anno fa dall’Istituto Affari Internazionali, Iai, e il Centro Studi sul Federalismo, Csf, dopo una riflessione sulle diverse crisi (economica, migratoria, di sicurezza e di consenso) che attanagliano l’Unione e svelano i limiti del suo sistema di governo, caratterizzato - nel bene e nel male - da un’architettura istituzionale unica al mondo.

L’assenza o il ritardo di risposte politiche europee, e la loro inadeguatezza di fronte alle sfide poste dai tempi nascono spesso da un’insufficiente volontà politica dei governi nazionali, alla quale si affiancano però numerose deficienze strutturali, non di rado generate da compromessi al ribasso tra i Paesi membri.

Un circolo vizioso da cui è possibile uscire solo attraverso dei cambiamenti politico-istituzionali che tengano conto dell’alto livello di complessità ed interconnessione a cui è giunto il processo di integrazione europea. Governing Europe ha così prodotto unostudio finale che avanza una serie di proposte tese a rendere le decisioni prese dall’Ue più efficienti e democratiche.

Una nuova narrazione per una politica europea virtuosa
Perché gli Stati europei hanno deciso di unirsi, rinunciare a pezzi di sovranità e condividere spazi politici e decisionali? Le ragioni sono cambiate negli anni, e il grado di complessità raggiunto oggi dall’Ue ha reso più difficile illustrarle ai cittadini.

Nel tempo le istituzioni europee hanno provato a rilanciare un nuovo discorso sull’Europa, ma senza grandi successi. Il risultato è stato quello di lasciare terreno ai movimenti euroscettici e ai loro racconti. In questa situazione, le istituzioni dell’Ue dovrebbero lavorare per imbastire una nuova narrazione politica, fondata sui suoi successi passati, e sulle opportunità future, in quattro ambiti: pace e sicurezza; democrazia e libertà; competitività e crescita sostenibile; welfare e giustizia sociale. Lo scopo di queste tematiche non dovrà essere solo quello di “aprire” l’Ue all’opinione pubblica, ma altresì indirizzarne i programmi politici negli anni a venire.

Negli ultimi anni la politicizzazione delle questioni europee è stata interpretata (specialmente dalle forze politiche tradizionali) soprattutto come una minaccia. L’arrivo delle crisi e l’incapacità dell’Ue di offrire risposte politiche tempestive hanno aperto la porta a movimenti euroscettici, populisti e nazionalisti, uniti nell’attaccare la mancanza di legittimità democratica della tecnocrazia di Bruxelles.

La politicizzazione può e deve, però, trasformarsi in un’opportunità per avvicinare i cittadini europei al processo d’integrazione, rendendoli più partecipi sia dello sviluppo di un senso di comunità che della competizione politica.

Avvicinare i cittadini all’Ue non è semplice perché essa stessa è oltremodo complessa. Una semplificazione della sua architettura istituzionale (e soprattutto dei suoi meccanismi di rappresentanza democratica) e una più facile comprensione dei benefici generati dalla sua legislazione sono due aspetti sui quali i decisori pubblici devono investire.

Integrazione differenziata per scongiurare la disintegrazione
L’Ue è “unita nella diversità”, ma il suo accresciuto livello di eterogeneità (soprattutto dopo l’allargamento del 2004-07) ha dato vita a numerose richieste di differenziazione che rischiano di mettere in discussione la sua tenuta. Come insegna la Brexit, è ormai necessario che l’Unione si doti di un modello di integrazione differenziata chiaro e formalizzato, in grado di soddisfare in tempo le richieste di “diversità” da parte di alcuni Stati membri, salvaguardando al contempo i suoi valori e principi fondamentali.

Uno schema, questo, a cui dovrebbe fare da contraltare un sistema a sostegno “dell’unità”, che permetta a un nucleo centrale di Stati di aumentare il loro livello di integrazione attraverso cooperazioni rafforzate in ambiti tematici (es. sicurezza e difesa) e istituzionali (es. Eurozona).

L’intero processo di integrazione potrebbe risentire anche dall’eventuale fallimento dell’eurozona. Per questa ragione è necessario agire in quattro aree fondamentali per rafforzare la sua governabilità e resilienza rispetto alle crisi: politiche fiscali integrate; convergenza delle politiche economiche; strumenti di condivisione del rischio; legittimità democratica.

Il completamento dell’unione bancaria, la riforma e la comunitarizzazione del Meccanismo europeo di stabilità, l’istituzione di un ministero del tesoro dotato di poteri esecutivi e fiscali, un maggior coinvolgimento del Parlamento europeo nei processi decisionali sono alcune delle proposte avanzate per rendere le politiche europee nei paesi dell’Eurozona più efficienti e democratiche.

Un’Unione più sociale e globale
La crisi economica ha ampliato le diseguaglianze tra i cittadini dell’Ue, minacciando la sostenibilità dell’intero progetto europeo e aprendo nuove fratture sociali e politiche sia tra gli Stati che al loro interno.

Le ricette economiche “ordoliberali” si sono dimostrate incapaci di rilanciare la crescita, ragion per cui all’Ue viene richiesta l’adozione di un nuovo paradigma economico che riporti al centro dell’agenda europea programmi pubblici in materia di investimenti e politiche sociali.

In tal senso il Piano Juncker è stato un buon inizio, ma va attuato in pieno, potenziato e affiancato a nuove iniziative. All’Ue dovrebbero spettare maggiori responsabilità nella promozione di diritti quali l’occupazione, soprattutto giovanile, l’educazione, la salute e la casa, in modo da sopperire alla mancanze dei governi nazionali laddove si presentino.

Il ruolo dell’Ue sulla scena internazionale non è mai stato adeguato al suo peso economico-commerciale e al suo potenziale diplomatico. Le motivazioni di questo squilibrio sono svariate e in buona parte riconducibili all’incoerenza dell’architettura istituzionale dell’Unione.

Quest'ultima è stata parzialmente mitigata con le innovazione introdotte dal Trattato di Lisbona, innovazioni che, se sfruttate appieno, potrebbero aiutare l’Ue a perseguire le priorità che si è data nella sua Global Strategy, presentata dall’Alto Rappresentante lo scorso giugno.

Se una semplificazione dei processi decisionali della Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) richiederebbe una riforma dei Trattati, più facile è immaginare nel breve termine il lancio di una cooperazione strutturata permanente tra Stati desiderosi di avanzare la loro integrazione nei settori della politica di difesa, insieme al rafforzamento delle capacità d’intervento al di fuori dei confini dell’Ue.

Il 2017, anniversario della firma dei Trattati di Roma, potrebbe costituire l’occasione di un vero rilancio dell’Ue, che parta dall’Italia e si fondi su un’agenda capace di riportare le ambizioni dell'integrazione europea all’altezza delle sue potenzialità.

Nicoletta Pirozzi è responsabile di ricerca presso lo IAI. Piero Tortola è un ricercatore dell'Università di Milano e dirige l'osservatorio EuVisions (www.euvisions.eu). Lorenzo Vai è ricercatore dello IAI e del Centro Studi sul Federalismo.

mercoledì 14 settembre 2016

Brexit: le conseguenze e L'Italia

Ue/Italia
Brexit: le teste che non cadranno
Giampiero Gramaglia
04/09/2016
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Un’ecatombe! Pareva dovesse essere un’ecatombe! E invece sono rimasti tutti al loro posto e, probabilmente, continueranno a restarvi. ‘Ercolini sempreinpiedi’ dell’Unione? Manco tanto, perché a buttarli giù nessuno ci ha davvero provato.

A conti fatti, fra i pezzi da novanta dell’Ue la Brexit ha finora fatto un’unica vittima: il sì britannico a uscire dall’Unione europea, Ue, ha indotto a dimettersi Jonathan Hill, già responsabile dei Servizi finanziari nell’Esecutivo comunitario.

Al suo posto, perché un commissario britannico v’ha da essere, fin quando il Regno Unito non sarà proprio fuori dall’Ue - e la Commissione Juncker sarà nel frattempo giunta a fine mandato -, ecco sir Julian King, sorta di commissario dimezzato: è responsabile della sicurezza dell’Unione (il che suona bene, ma suona pure vuoto, perché la sicurezza è responsabilità degli Stati); e deve agire “sotto la guida” del vice-presidente vicario Frans Timmermans e “a supporto” del commissario all’Immigrazione e agli Affari interni Dimitris Avramopoulos. “Un commissario junior”, come l’ha definito senza cortesie diplomatiche il presidente della Commissione Esteri del Parlamento europeo Elmar Brok.

L’esito del referendum ha invece riportato in primo piano sullo scacchiere europeo Michel Barnier, ex ministro degli Esteri francese - solo per dirne una - ed ex uomo forte al Mercato interno durante la Commissione Barroso, nominato capo negoziatore per l’Esecutivo comunitario.

Barnier, ovviamente, entrerà in scena all’avvio della trattativa, quando Theresa May, premier britannica, farà scattare il negoziato per l’uscita dall’Ue, come previsto dall’articolo 50 del Trattato. Prima, nulla si muoverà; forse, perché una teoria in voga a Bruxelles è che i britannici apriranno la trattativa solo quando avranno già avuto assicurazioni su dove si andrà a parare.

Lo stormire di foglie della stampa tedesca
A innescare l’ipotesi di sommovimenti nelle Istituzioni comunitarie era stata la stampa tedesca: ennesima dimostrazione della sudditanza psicologica dalla Germania dell’Europa tutta. La Faz e poi Die Welt avevano giudicato “inadeguato” il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che pure era stato voluto a quel posto in primis dalla Cancelliera Merkel.

E siccome, a fine anno, ci sarà da rinnovare il mandato del presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, che è nell’infelice posizione di non essere in sintonia con il suo governo, e neppure con i Grandi dell’Unione, e del Parlamento europeo, dove il tedesco Martin Schulz giunge al termine del suo secondo mandato, erano subito partite voci d’ogni genere: fra le più accreditate, una prevedeva Schulz al posto di Juncker - e del resto Schulz era il candidato socialista a quel posto, nel 2014.

Il ‘valzer delle poltrone’ non è neppure durato il tempo di un’estate bruxellese, che spesso coincide con una settimana di luglio. Juncker ha chiarito di non avere intenzione di dimettersi; alcuni governi gli hanno offerto un sostegno non entusiastico, ma solido, magari per assenza di alternative (per Sandro Gozi, sottosegretario italiano agli Affari europei, Juncker “va sostenuto, non attaccato”) e popolari e socialisti al parlamento europeo si sono messi a lavorare all’ipotesi di una conferma di Shulz alla guida dell’Assemblea - soluzione avallata dallo stesso Juncker.

Insomma, la Brexit non sconquassa gli organigrammi istituzionali; e neppure i calendari, tranne che la Gran Bretagna esce dalla rotazione delle presidenze di turno del Consiglio dell’Unione - funzione che doveva assumere il 1° luglio 2017, quando, presumibilmente, il negoziato per l’uscita sarà stato almeno avviato.

Il vuoto sarà riempito dal Belgio, Paese di sicura militanza ed esperienza europee, che non suscita né gelosie né sospetti e i cui costi d’esercizio si riducono al minimo: Bruxelles ha avuto la presidenza di turno semestrale per l’ultima volta nel 2010, quando seppe condurla senza inconvenienti nonostante il governo gestisse solo gli affari correnti, nella più lunga crisi politica di una democrazia occidentale dei tempi moderni, ben 535 giorni.

Il giro di valzer italiano tra politica e diplomazia
Il rientro dalle vacanze europee non è dunque contrassegnato da volti nuovi. Uno dei pochi può ancora essere considerato il rappresentante permanente dell’Italia presso l’Ue, ambasciatore Maurizio Massari, che ha assunto l’incarico il primo giugno e che ha quindi giusto esaurito quelli che erano i tre mesi del tradizionale rodaggio.

Diplomatico di grande esperienza, abituato alle sedi importanti e difficili - è stato a Mosca ed a Washington e, come ultimo incarico, era ambasciatore al Cairo nei giorni drammatici e non superati dell’omicidio Regeni. Buon conoscitore dei media, Massari è stato capo del servizio stampa e informazione e portavoce del ministro. Arrivando a Bruxelles, ha sanato l’anomalia creatasi, a gennaio, con la nomina di un politico, e non di un diplomatico, a rappresentante dell’Italia presso l’Ue - era quasi mezzo secolo che l’Italia non ricorreva più ad ambasciatori politici.

Quando Carlo Calenda prese il posto di un eccellente ambasciatore e profondo conoscitore dell’Ue, Stefano Sannino, lo scossone fu forte: più alla Farnesina che al Berlaymont, a dire il vero. La scelta dell’allora vice-ministro allo Sviluppo economico fu - scrisse Stefano Feltri, un giornalista che segue bene le vicende europee - “una mossa drastica del governo italiano per dare all’Esecutivo Juncker un interlocutore con forte legittimità politica, nel momento del massimo scontro tra Italia e Bruxelles”.

E poco importa che quella stagione di pugni sul tavolo e di voci grosse, in cui Juncker era “un burocrate”, fosse ad uso e consumo dell’opinione pubblica interna: prova ne sia il fatto che, oggi, il ‘burocrate’ “va sostenuto, non attaccato”.

A sanare l’anomalia è poi venuto, nel giro di quattro mesi, il richiamo di Calenda a Roma come ministro dello Sviluppo, poco dopo la pubblicazione delle ‘previsioni economiche di primavera’ della Commissione, che avevano sancito una tregua di almeno sei mesi tra Italia e Bruxelles in tema di conti pubblici. La memoria corta della stampa italiana era un colpo di spugna alle contraddizioni tra le decisioni di gennaio e di maggio.

In tre mesi, Calenda, fama di decisionista, s’era accreditato come l’unico titolato a parlare a nome del governo italiano, garante degli impegni di Roma verso una Commissione tradizionalmente diffidente nei confronti dell’Italia e non rasserenata dalle sceneggiate renziane. Ma non aveva certo potuto risolvere i problemi che, ora, aggravati dal peggioramento della situazione economica e pure dal terremoto, l’ambasciatore Massari si trova sulla scrivania.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.

venerdì 2 settembre 2016

Italia: verso nuovi ruoli in Europa

Politica estera italiana
Dopo Brexit l’Italia pesa di più
Matteo Brunelli
27/08/2016
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La Brexit è la più grande sfida per l'Unione europea, Ue, dalla caduta del muro di Berlino. Il 23 giugno 2016 segna l'inizio di un importante spostamento negli equilibri di forza non solo in Europa, ma anche nella più ampia regione euro-atlantica. L'uscita del Regno Unito dai processi decisionali della Ue crea un vuoto di potere significativo all’interno del blocco, ma anche opportunità per l’Italia.

Un vuoto da riempire
Il concetto di equilibrio di potere ha a che fare con la distribuzione di forze e risorse nelle relazioni internazionali. Nell’Ue, che è a sua volta un sistema regionale di equilibri di potere, l’Italia è stata storicamente considerata come fuori dall’influente ed esclusivo club composto da Germania, Francia e Regno Unito.

Questi tre Paesi hanno avuto un ruolo fondamentale nel dare forma e direzione all’’integrazione europea, sebbene in modo diverso (il polo franco-tedesco come motore dell’integrazione, quello britannico come freno). Con il Regno Unito avviato verso la porta d’uscita, ora l'Italia, in futuro la terza economia dell’Ue, ha l’opportunità di rafforzare il suo status e la sua influenza in seno all’Ue.

Questo certamente non vuol dire che l'Italia può sostituire il Regno Unito a tutti gli effetti. In realtà, la Brexit rischia di provocare una perdita complessiva di potenza in tutti gli stati membri dell'Ue e di indebolire l’ordine liberale occidentale nel quale l'Ue è profondamente radicata.

Da questo punto di vista, l’Italia non è in nessun modo avvantaggiata. La Brexit, infatti, si aggiunge alla serie di crisi che l’Ue deve affrontare, tra cui la mancata ripresa economica, il terrorismo, l’incremento dei flussi migratori ed il revisionismo russo in Europa orientale.

La Brexit acuisce tutti questi elementi di crisi, visto che può determinare un indebolimento della posizione comune europea verso la Russia e dare nuova vita ai timori sulla tenuta del sistema finanziario dell’eurozona, mettendo ulteriore pressione sul già precario sistema bancario italiano.

Vincitori e sconfitti nell’Europa post-Brexit
Tuttavia, analizzando le dinamiche intra-Ue in termini di relativa perdita di potere si possono distinguere vincitori e sconfitti nell’Europa post-Brexit. Gli sconfitti sono soprattutto gli stati dell'Europa orientale, in particolare le repubbliche baltiche e la Polonia, che condividono con il Regno Unito un orientamento fortemente atlantico e un approccio più intransigente nei confronti della Russia.

Altri stati che perdono un alleato importante con la Brexit sono quelli economicamente più liberali come i Paesi Bassi, la Finlandia e soprattutto l'Irlanda (a causa dei suoi forti legami commerciali). Infine, Svezia e Danimarca ora si trovano senza un importante alleato con cui condividono un certo scetticismo verso gli slanci integrazionisti di altri stati membri.

Francia e Germania sono invece nel campo dei vincitori. La Francia diverrà la principale potenza militare dell'Ue, il solo stato membro con un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza Onu e l'unico paese dell’Unione con un deterrente nucleare indipendente.

Tuttavia lo spostamento dell’equilibrio di potere intra-Ue provocato dalla Brexit premia soprattutto la Germania. Berlino vedrà la sua posizione di leadership nelle istituzioni europee e il suo ruolo di prima potenza economica ulteriormente rafforzati.

Francoforte può diventare il più importante centro finanziario continentale e Berlino il leader delle start-up tecnologiche. La Brexit potrebbe anche spingere il governo federale ad incrementare le spese per la difesa. Non c’è dubbio che la Brexit darà alla Germania l’opportunità di consolidare il suo ruolo d’interlocutore primario degli Stati Uniti su tutte le principali questioni europee.

Italia, ago della bilancia tra Germania e Francia
Anche per l'Italia, che diventerà la terza economia dell’Ue,si presentano diverse opportunità. La Brexit ne aumenta infatti l’importanza sistemica in seno all’Ue, dal momento che l’Italia potrebbe svolgere un ruolo di bilanciamento sia tra la Francia e la Germania sia tra il duopolio franco-tedesco e gli altri stati membri.

In questo specifico frangente, Roma può usare la sua posizione di terza potenza per cercare di limitare al minimo il rischio che il rafforzamento del direttorio franco-tedesco finisca per dominare l’Ue, alleandosi con altri stati membri come la Polonia e la Spagna.

La Brexit ha messo in luce che sono necessarie riforme rilevanti del modello Ue, soprattutto per quanto riguarda la politica economica e la gestione della questione migratoria. L'Italia è ben posizionata per poter svolgere un ruolo chiave in entrambi i casi.

Né l’economia italiana né quella francese sono in buone condizioni di salute, il che diminuisce l’autorità di Roma e Parigi nella governance dell’eurozona. Ma se dovessero unire le forze, Italia e Francia avrebbero maggiori possibilità di contrastare la linea tedesca improntata al rigore fiscale e favorire invece politiche di crescita.

In materia di immigrazione, invece, l’Italia ha proprio nella Germania, favorevole ad un approccio europeo al problema, il più prezioso alleato potenziale. Il Migration Compact - un insieme di regole volte a migliorare il controllo delle frontiere e la gestione dei flussi migratori su base europea - è una buona base su cui il governo italiano può imbastire un dialogo diretto con quello tedesco.

La Brexit aumenta infine il peso specifico dell’Italia in materia di politica estera. L'Italia è storicamente un paese filo-americano. Deve quindi cercare di diventare un interlocutore primario degli Stati Uniti per quanto riguarda le questioni europee. Anche in campo militare, l'Italia è ben posizionata per aumentare la sua influenza: insieme alla Francia ha ora la Marina più grande d’Europa che sarà sempre più importante vista l'instabilità nel vicino bacino meridionale.

Per quanto i rischi e i costi associati alla Brexit siano rilevanti, e in alcuni casi inevitabili, l’uscita del Regno Unito dall’Ue rappresenta per l'Italia anche un importante opportunità per aumentare la sua influenza e prestigio in seno all’Unione.

Matteo Brunelli, Oxford European Affairs Society, Istituto Affari Internazionali.

UE: i problemi da discutere e chiarire

Unione europea
Tutti a Bratislava, ma senza lo spirito giusto
Gianni Bonvicini
13/09/2016
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Milleduecento giornalisti accreditati e tv da tutta Europa, e non solo, stanno per assediare il castello di Bratislava. L’attesa c’è, ma la sostanza sembra di là da venire. Di cosa si vuole discutere il 16 nel primo vertice informale a 27 dopo il risultato negativo del referendum inglese?

Tutti o quasi negano che si parlerà di Brexit. Ma la realtà è che l’ombra dell’Inghilterra condizionerà, molto di più di quanto avveniva prima, il dibattito europeo poiché lo strappo di Londra è avvenuto su un tema, l’immigrazione, su cui tutti si stanno oggi confrontando.

Già la mossa del governo di Sua Maestà di erigere un bel muro a Calais (con l’ovvio sostegno e accordo di Parigi) fa comprendere come i cattivi esempi continuino a influenzare le opinioni pubbliche europee. Ed in effetti tutti oggi guardano con preoccupazione un po’ più in là, al 2 ottobre e 4 dicembre, quando ungheresi e austriaci rispettivamente saranno chiamati alle urne.

Austria e Ungheria al voto
Il 2 ottobre a Budapest si terrà il referendum sul rifiuto del sistema delle quote di rifugiati proposto dalla Commissione. Fatto che in realtà nasconde un’insidia ben più grande: quella di respingere in toto il metodo comunitario di voto a maggioranza nel Consiglio dei ministri e dell’approvazione del Parlamento europeo, che con questa procedura democratica avevano varato l’iniziativa della Commissione, che oggi Budapest vuole respingere. E c’è da scommettere che i risultati daranno ragione al razzista Viktor Orban

In Austria, dove il voto previsto per il 2 ottobre è stato posticipato al 4 dicembre, si rigioca la partita presidenziale e i sondaggi danno fino ad oggi in testa un altro dichiarato razzista, Norbert Hofer. Aggiungiamo a questo clima la sconfitta di Angela Merkel nel Mecklenburg ad opera degli ancora-più-razzisti rappresentanti di Alleanza per la Germania e il quadro che ne risulta è quanto di più preoccupante si possa immaginare. L’anima dell’Europa sta perdendosi proprio nel suo cuore e solo un soprassalto di rinnovato impegno per l’Unione può bloccare la frana.

Nessuna proposta di rafforzamento post-Brexit
Ma a Bratislava si arriva con lo spirito giusto? C’è da dubitarne. Nessuno, neppure la Germania, se la sente di avanzare grandi disegni. Nessuna proposta istituzionale di rafforzamento dell’Unione in risposta alla Brexit sembra farsi strada, anche se diversicentri di studio europei, fra cui lo IAI in cooperazione con il CSF hanno diligentemente sfornato idee e proposte concrete sui nodi politico-istituzionali da affrontare.

Neppure l’iniziativa italiana di riattribuire una responsabilità primaria ai Sei fondatori sembra avere la forza di concretizzarsi. Né le simbologie renziane di ridare anima all’Unione con il varo del progetto Ventotene riescono per ora ad andare al di là delle buone intenzioni.

Se questa è la situazione reale nell’Europa dei 27, a Bratislava ci si muoverà con enorme prudenza e solo su argomenti che possano mettere d’accordo tutti, almeno a parole. Poiché nelle preoccupazioni dei cittadini i temi prioritari sono immigrazione e terrorismo, con qualche accenno anche all’incertezza economica, la questione sul tappeto è quella della sicurezza. O meglio, per usare le parole del Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, la responsabilità dell’Ue è di “protezione” dei propri cittadini. Discorso che non fa una piega, sempre che poi ci siano anche proposte concrete sul tappeto.

Sicurezza dalle immigrazioni e lotta al terrorismo
Quale sicurezza dunque? In questi giorni si parla del piano franco-tedesco nel campo della difesa, volto ad avviare una specie di cooperazione strutturata permanente, come previsto dal Trattato di Lisbona (art. 42 e 46). Si propone addirittura la creazione di un quartiere generale comune, tema che fino a qualche tempo fa era assolutamente da evitare, per il coordinamento delle missioni ed iniziative dell’Ue.

Emerge quindi l’idea di una specie di “Schengen della Difesa” come proposto anche dai nostri ministri degli Esteri e Difesa, Paolo Gentiloni e Roberta Pinotti, qualche mese fa. Un gruppo di paesi “willing and able”, che si assumerebbero il compito di agire da avanguardia, lasciando il tempo agli incerti di aderire o meno a questo primo nucleo.

Apparentemente la proposta potrebbe interessare anche i paesi dell’Est Europa che su tutto il resto, immigrazioni e poteri di Bruxelles, sono invece sulla difensiva. Tuttavia sullo sfondo rimane la loro scarsa fiducia sulla credibilità dei progetti europei di difesa, in un momento in cui si sentono più che mai esposti di fronte al risveglio dell’Orso russo.

La loro propensione va ancora alla Nato, più attrezzata e impegnata a creare strutture in funzione antirussa. Bisognerà quindi vedere quale è la reale volontà di Francia e Germania di portare avanti con determinazione questo ennesimo progetto di difesa europea.

Tutti sembrano infatti rendersi conto, anche ad est, che il futuro della la Nato non è per nulla sicuro, soprattutto nel caso di vittoria di Donald Trump che già dichiara di volersene disinteressare e che strizza l’occhio a Putin. Se quindi la difesa comune sarà in ogni caso sul tavolo, bisognerà in seguito valutare se anche questo piano non sia destinato ad essere presto accantonato come è successo troppe volte in passato.

Vi sono poi altri aspetti sul tema della sicurezza. Sicurezza dalle immigrazioni, in primo luogo. Le proposte già ci sono: costituire una forza di frontiera comune, ma da schierare dove? Sui confini dell’Ue si dice. Ma come si difendono i confini di Grecia e Italia?

L’esperienza ci ha fatto comprendere che l’immigrazione si blocca portando la frontiera nei Paesi di transito o origine. È stato così nel ‘98 con l’Albania, quando l’Ue sotto guida italiana, ha occupato i porti di quel Paese. Succede oggi con la Turchia che trattiene i rifugiati all’interno del proprio territorio.

Ma che cosa si fa con la Libia? L’operazione Sophia giunta alla sua seconda fase non ha dato certo risposte soddisfacenti. Finché non si potranno occupare le coste libiche da cui partono i disperati, essa sembra più una missione di salvataggio che di distruzione delle reti di trafficanti.

L’altra preoccupazione riguarda la lotta al terrorismo. Si parla da decenni di intelligenceeuropea, di Europol più efficace e di uso coordinato degli strumenti, anche informatici, di contrasto al terrorismo. Ma anche se ciò si realizzasse (e vi è da dubitarne) bisognerebbe dare vita anche ad un’unica procura europea, a mandati di cattura comuni e ad estradizioni immediate. Di là da venire.

Per di più il terrorismo, soprattutto quello a carattere territoriale dell’autoproclamatosi “stato islamico”, si combatte anche con strumenti di proiezione militare al di fuori dei confini dell’Ue. Inutile illudersi che ad operare in questa direzione siano sempre e quasi solo gli Usa. L’Ue deve assumersi responsabilità dirette e comuni e non attraverso i singoli Paesi (sempre i soliti).

Si dice che Bratislava sarà solo l’inizio di una road map che attraverso Malta, in febbraio, ci porterà a Roma nel marzo del prossimo anno alle celebrazioni per il 60° dei Trattati. Ecco, vorremmo augurarci che non si trattasse solo di celebrazioni, ma di atti concreti. Le celebrazioni sono troppo spesso dedicate ai morti!

Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.