Blog di sviluppo per l'approfondimento della Geografia Politica ed Economica attraverso immagini, cartine, grafici e note.Atlante Geografico Statistico Capacità dello Stato.Parametrazione a 100 riferito all'Italia. Spazio esterno del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro. (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
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venerdì 27 gennaio 2017
Roma: prospettive di concentrazione e Difesa
giovedì 26 gennaio 2017
Il nodo ella difesa italiana.
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Nuove prospettive per il Parlamento Europeo
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Certamente l’Italia può essere soddisfatta di avere finalmente portato sul più alto scranno dell’Assemblea di Strasburgo un proprio rappresentante. Era dal lontano 1979 (prime elezioni dirette) che si attendeva questo evento. Ciò avviene per di più in un momento in cui il paese è tornato ad essere marginale e a subire pressioni da parte di Bruxelles sui propri conti pubblici e perfino sul software di controllo delle emissioni su alcune vetture della Fiat-Chrysler. Ma al di là di questo successo rimane l’interrogativo di fondo, valido per l’intera Unione europea, Ue, sul senso di queste elezioni di “mid term”.Lo scambio di presidenze fra i due maggiori raggruppamenti europei, popolari e socialisti, nel bel mezzo della vita parlamentare ha il sapore di qualcosa di artificioso e in qualche modo ‘burocratico’. Un Parlamento che per tutti i cinque anni della legislatura non può essere sciolto da nessuno e che per di più sceglie i propri presidenti sulla base di un semplice accordo di alternanza per fare contenti i due maggiori partiti fa nascere almeno qualche dubbio sulla sua valenza politica. L’anomalia politica dell’Assemblea europea È questo un vecchio discorso, che però continua a denunciare una certa anomalia del Pe rispetto ai modelli nazionali che i cittadini europei sono abituati a conoscere. Vero che la costruzione dell’Ue non ha caratteri federali ed è quindi lontana dai sistemi politici dei singoli Paesi. Purtuttavia il Parlamento europeo rappresenta, o dovrebbe rappresentare, una rottura nella struttura essenzialmente intergovernativa del sistema decisionale dell’Unione. Dovrebbe, in teoria, essere l’istituzione politica per eccellenza, dove il gioco delle parti si esprime attraverso gli orientamenti ideologico-politici di ciascun raggruppamento, mentre la presidenza dell’Assemblea spetterebbe alla maggioranza parlamentare espressa attraverso le elezioni. Invece, questa spartizione delle responsabilità nel corso della legislatura inquina parzialmente la lotta politica a vantaggio dei compromessi e delle grandi coalizioni fra gli stessi partiti. La minaccia degli euroscettici La ragione, si dice, è che le forze politiche tradizionali devono difendersi dai movimenti euroscettici che minacciano la vita stessa del Parlamento. Ma se questo può essere vero oggi, non lo era anni fa quando nel Parlamento l’unica, o quasi, eccezione partitica controcorrente era rappresentata dai conservatori inglesi che facevano gruppo a parte. Eppure lo scambio di presidenze si faceva ugualmente. Per di più, in questa legislatura la prassi dell’alternanza alla presidenza ha subìto un’ulteriore anomalia. Pur avendo vinto le elezioni del 2014, il Partito popolare europeo ha ceduto il primo turno della presidenza al socialista Martin Schulz: la ragione va ritrovata nella sperimentazione del meccanismo degli “spitzencandidaten” per la nomina alla presidenza della Commissione. Con la vittoria dei popolari e la conseguente cooptazione da parte del Consiglio europeo del candidato leader, il popolareJean Claude Juncker, alla testa della Commissione, si è ben pensato di mettere alla presidenza del Pe il candidato dei socialisti, sconfitto nella corsa alla Commissione e rappresentante della minoranza parlamentare. Insomma un gioco di poltrone che risponde sempre alla logica di condivisione di compiti e responsabilità. L’illusione degli ‘spitzencandidaten’ Peccato davvero, perché ci si era illusi che il meccanismo degli ‘spitzencandidaten’ avesse la forza di politicizzare molto di più sia la Commissione e il suo presidente, sia il Parlamento europeo, aprendo la strada ad un confronto duro fra maggioranza e opposizione nel controllare le azioni politiche di Juncker. Nulla di tutto ciò è avvenuto e le vecchie prassi compromissorie all’interno del Pe sono continuate senza alcun vero cambiamento. Ad essere sinceri, la candidatura del socialista Gianni Pittella in contrapposizione al popolare Antonio Tajani aveva il significato di rompere questo anomalo accordo e di fare emergere una logica politica normale di gara per l’elezione del presidente del Parlamento. Si è voluto quindi dare il segnale che le cose possono cambiare e che le vecchie prassi compromissorie non sono scritte nella pietra. Detto questo, la sfida che il nuovo presidente dovrà affrontare nei prossimi due anni e mezzo sarà principalmente politica. Il problema da risolvere non è tanto quello di contrastare i gruppi euroscettici all’interno del Parlamento, ma piuttosto di dare maggiore enfasi alla volontà del Pe di occuparsi delle politiche dell’Unione, di orientarle e controllarle usando al meglio i pochi ma significativi poteri a disposizione. La lotta politica va portata quindi all’esterno dell’Assemblea, moltiplicando i rapporti con i Parlamenti nazionali e cercando sempre di più il contatto con i cittadini ormai profondamente disamorati di un’Unione lontana e incomprensibile. Azione politica che non può prescindere dalla crisi interna dell’Ue, ma neppure dal radicale modificarsi dello scenario internazionale di cui l’elezione di Donald Trump è l’ultima manifestazione. Il Pe e il suo nuovo presidente hanno quindi il dovere di occuparsi meno delle logiche interne e molto di più di escogitare nuove forme di lotta e di un diverso modo di operare per rifondare un’Unione che di procedure e meccanismi anomali può morire. Ci vuole davvero un salto di qualità nel ruolo e nell’immagine del Pe ed è questa la vera sfida che Antonio Tajani dovrà lanciare nella seconda parte di questa legislatura. Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI. | ||||||||
mercoledì 25 gennaio 2017
Roma: il nodo della immigrazione dalla quarta sponda
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Stando alle anticipazioni diffuse dal Viminale, il corollario operativo del documento dovrebbe implicare la riapertura in ogni regione di Centri di identificazione ed espulsione, Cie, il potenziamento degli accordi con i Paesi d’origine per la riammissione dei migranti respinti e il rafforzamento del controllo delle frontiere esterne. Il flop della politica dei rimpatri Piano non proprio avveniristico, si dirà, e che sembra riproporre, seppur con alcuni correttivi in via di definizione, quanto già sperimentato con scarso successo negli ultimi venti anni. Caso lampante, in tal senso è il controverso rilancio dei Cie. Un sistema bollato da più parti come inefficace e descritto da un rapporto di Medici per i Diritti Umani come “congenitamente incapace di garantire il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali della persona”. Sono state proprio le violazioni e le malversazioni riscontrate in gran parte delle strutture a far sì che, progressivamente, dai 15 centri aperti a partire dal 1999 si arrivasse ai 4 rimasti attivi nell’ultimo anno. Un’agonia decretata anche dall’ultimo rapporto stilato dalla Commissione diritti Umani del Senato che ha evidenziato come il modello Cie abbia disatteso persino il suo principale obiettivo: il rimpatrio dei migranti irregolari. Nel 2015 - evidenzia la commissione - su 34.107 migranti sottoposti a un provvedimento di espulsione dal territorio italiano, 15.979 (circa il 46%) sono stati effettivamente allontanati, mentre 18.128 non hanno mai lasciato il Paese. Un buco nell’acqua che si spiega alla luce della scarsa applicabilità dei pochi accordi bilaterali di riammissione stipulati dall’Italia con i paesi di origine. I costi esosi, la necessità del riconoscimento dell’autorità consolare del Paese di provenienza e i limiti per l’uso coercitivo delle misure di rimpatrio posti dalla direttiva ‘rimpatri’, hanno reso, nei fatti, la politica sui rimpatri un flop. Criticità già espresse dalla roadmap diffusa dal Viminale nel 2015 e che spiegano, in parte, la svolta muscolare del ministero dell’Interno, che ha promesso di presentare in parlamento un Disegno di Legge su immigrazione e sicurezza entro la fine del mese. Nella ridda di anticipazioni e smentite circolate negli ultimi giorni, alcuni elementi sembrano tuttavia definire la linea futura dell’esecutivo sull’immigrazione. Innanzitutto dialogo interistituzionale. Come evidenziato dal recente vertice interministeriale su sicurezza, immigrazione e Libia, indetto dal Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, la priorità politica è un’azione multilivello che si snodi tanto a livello interno quanto a livello di politica estera. Il ritorno dei Cie e la nascita dei Centri di coordinamento sulla radicalizzazione Sul fronte politica interna, l’appuntamento decisivo è quello della conferenza Stato-Regioni fissata per il 19 gennaio. Il rilancio del modello Cie ha messo sul piede di guerra molti governatori, la cui collaborazione è decisiva sia per far decollare le ambizioni di accoglienza diffusa storicamente caldeggiate dal Viminale, sia per garantire una base operativa ai venti Centri di coordinamento sulla radicalizzazione che secondo i piani del governo dovrebbero insediarsi a livello regionale per monitorare la radicalizzazione e l’estremismo jihadista. Una rete territoriale, che secondo la proposta della Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista risponderebbe ad una centrale operativa insediata permanentemente a Palazzo Chigi. Tema, quello del dialogo con i territori, che torna anche nella strategia identificata dal Consiglio per le relazioni con l’islam italiano, un organo insediato al Viminale per rilanciare il dialogo con la comunità musulmana e far sì che moschee e ministri diventino presidi contro la radicalizzazione soprattutto nelle periferie urbane, area critica su cui stanno convergendo anche le attività della Commissione di inchiesta sulle periferie insediata alla Camera dei Deputati lo scorso agosto. La missione di Minniti a Tripoli Se, al netto delle riottosità degli enti locali, il piano del governo a livello interno sembra piuttosto definito, il fronte dell’azione esterna pare invece essere più claudicante e soprattutto più imprevedibile. Soprattutto perché a oggi il buco nero dell’immigrazione verso l’Italia resta la Libia. Stato fallito uno e trino che vede il generale Khalifa Haftar spadroneggiare in Cirenaica, mentre il presidente incaricato dall’Onu Fayez Al Sarraj tenta di controllare la Tripolitania, cercando di arginare l’espansione delle organizzazioni islamiste che da mesi infiltrano la regione del Fezzan. In un quadro di questo tipo la recente missione di Minniti a Tripoli per definire bilateralmente un’intesa con il governo di unità nazionale di Al-Sarraj volta a stabilizzare il Paese e contenere le migrazioni irregolari e il traffico di esseri umani conferma, per l’ennesima volta, la solitudine dell’Italia nella gestione dei flussi migratori. Persino il golpe tentato soltanto un giorno dopo la riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli da un manipolo di miliziani fedeli al vecchio governo islamista di al-Ghawil non ha provocato alcuna reazione congiunta da parte dei Paesi europei. Un’inerzia resa più pesante dalle poche frasi di rito espresse dal Commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos, che, in visita alla Farnesina, si è limitato ad elogiare l’accordo siglato da Minniti con al-Sarraj, senza fare alcun riferimento alle prospettive politiche e operative del piano per Bruxelles. Così mentre dalla Libia, l’ex premier al-Ghawil lancia strali contro l’Italia e bolla la riapertura della rappresentanza diplomatica come una occupazione militare, dalla Farnesina il ministro degli esteri Angelino Alfano lascia intendere, tra le righe, che l’essenza della dimensione esterna della politica migratoria nazionale resta sempre la stessa: il solipsismo. “L’Italia sta lavorando con grande impegno per rafforzare la collaborazione bilaterale sul fronte del controllo dei punti di transito migratorio alla frontiera sud fra Libia e Niger e nel contrasto alla immigrazione illegale e al traffico di essere umani. Quando la Libia sarà in grado di collaborare pienamente su questi temi, ci aspettiamo che l’Unione europea e la comunità Internazionale siano pronte a lanciare programmi di sostegno e iniziative comuni, poiché la partita che si gioca, la giochiamo tutti insieme, nessun Paese escluso”. Scenario futuribile, quello del gioco di squadra, visto che per ora, se fossero confermate le agenzie che si rincorrono da Bruxelles, il piano italiano per la Libia sembrerebbe essersi concluso con il no di al-Sarraj alla proposta di intesa dell'Italia. Tema intricato su cui dovrebbe riferire già lunedì il ministro degli Esteri di Malta George Vella, il cui governo ha la presidenza di turno dell'Unione europea. Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università “Sapienza” di Roma. Esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it). |
lunedì 16 gennaio 2017
Europa: 5 Stelle: turbolenze ed interrogativi
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Nel testo dell’accordo Alde e M5S dichiaravano di condividere i valori di libertà, uguaglianza e trasparenza, e di voler promuovere un’economia aperta, la solidarietà e la coesione sociale. Differenze più che affinità Ma in effetti i programmi dei due gruppi hanno ben poco in comune. In materia di politica estera, in particolare, divergono su molti punti rilevanti. Come le relazioni con la Russia: laddove il Movimento auspica un rapprochement con Putin, la maggioranza dei membri di Alde è per la linea dura. Anche le politiche europee promosse o sostenute dai due gruppi sono sostanzialmente diverse. Ad esempio, a parte la green economy e il mercato unico digitale, temi cari sia ad Alde che al Movimento, non ci sono molti altri punti in comune, nemmeno sul fronte delle politiche economiche. Alde è a favore di privatizzazioni e liberalizzazioni per favorire la competitività e una redistribuzione delle risorse più efficiente. Il Movimento 5 Stelle pone invece una maggiore attenzione alla dimensione sociale promuovendo sia in Italia che nel Parlamento europeo proposte come il reddito universale di cittadinanza. Inoltre, l’Alde, sostiene la necessità di costruire un’Unione europea, Ue, più democratica tramite il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo anche per consolidare un’identità europea comune. Anche il M5s punta a un’Europa più democratica, ma attraverso l’utilizzo di forme di democrazia diretta che possano favorire la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali europei. Quest’ultimo punto, che è centrale nel programma del M5S, sarebbe alla base del nuovo gruppo politico che il Movimento potrebbe tentare di lanciare alle prossime elezioni europee, il Movimento di Democrazia Diretta. Inoltre, il M5s è contrario a una maggiore integrazione europea che comporti politiche di austerità e, come da programma, punta non solo a creare un’alleanza anti-austerità fra i Paesi del Sud Europa, ma anche a tenere in Italia un referendum sull’euro. Divorzio e ripensamento Di primo acchito non è facile capire perché Grillo e Guy Verhofstadt, leader di Alde, si siano accordati sull’entrata del M5s nel gruppo liberale e il leader del M5S abbia deciso di abbandonare gli euroscettici dell’Europa per la Libertà e Democrazia Diretta, Efdd, guidati dal partito britannico Ukip di Nigel Farage. È degno peraltro di nota che l’aggettivo “Diretta”, era stato voluto proprio da Grillo, dopo le elezioni europee del 2014, come condizione per entrare nel gruppo Efdd. In realtà il tentativo del M5s di divorziare dall’Efdd aveva varie motivazioni. I pentastellati hanno votato in linea con l’Efdd solo il 20% delle volte. Inoltre, il gruppo Efdd rischia di sfaldarsi alle prossime elezioni europee. Infatti, con la Brexit e la conseguente uscita di Ukip dal Parlamento europeo, il gruppo non avrebbe più un numero di rappresentanti sufficienti per continuare ad esistere. Secondo il regolamento del Parlamento europeo, infatti, ogni gruppo politico necessita di almeno 25 Parlamentari provenienti da almeno un quarto dei Paesi membri. L’Ukip conta oggi il maggior numero di parlamentari nel gruppo Efdd (22), seguito dal M5s che ne ha 17. Il resto sono rappresentanti singoli di partiti euroscettici di opposizione di Francia, Svezia, Repubblica Ceca e Lituania. Questi ultimi, da parte loro, hanno dovuto reiterare la promessa di sostenere un referendum sull’euro. I cinque stelle sono stati costretti anche a rinunciare alla co-presidenza del gruppo, con una secca perdita di influenza politica a livello europeo. Verhofstadt indebolito Il tentativo del M5S di allearsi con Alde aveva invece proprio l’obiettivo di accrescere il peso politico del movimento in Europa e di rafforzarne l’immagine in Italia. Con 68 Parlamentari, Alde è infatti il quarto gruppo del Parlamento europeo e avrebbe potuto fornire al Movimento un più efficace palcoscenico politico, oltre a consentirgli di prendere le distanze dalle frange radicalmente euroscettiche dell’Efdd. Per esempio, come da accordo, Alde avrebbe concesso all'eurodeputato pentastellato, David Borrelli, una delle tre cariche da vicepresidente esecutivo e la presidenza di un gruppo di lavoro sulla democrazia diretta. Forse il connubio con Alde avrebbe anche consentito al Movimento 5 Stelle di attrarre più elettori moderati a livello nazionale. Infatti, se è vero che Alde è un gruppo in linea con l’establishment europeo, è vero anche che si pone come terza forza, alternativa tanto al S&D, il gruppo socialdemocratico di cui fa parte il Pd, quanto al Partito popolare europeo, di cui fanno parte sia Forza Italia che il Nuovo Centro Destra. Dal canto suo Alde, con l’entrata del M5S, si sarebbe rafforzato numericamente, acquisendo maggior peso politico all’interno del Parlamento. Il Movimento avrebbe anche sostenuto la candidatura del leader di Alde, l’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, alla presidenza del Parlamento europeo, una carica su cui i membri del PE saranno chiamati a votare il 17 gennaio. Il fallimento dell’intesa ha indubbiamente indebolito Verhofstadt anche in vista della battaglia per la presidenza. I 5 stelle, dal canto loro, sono stati oggetto di diffuse ed aspre critiche in Italia, e non solo, per aver tentato un’alleanza con l’ “establishment”. Nonostante il 78,5% dei membri del M5S si sia espresso a favore dell’alleanza con Alde, la fallita mossa di Grillo viene ora usata per screditare la natura anti-establishment ed eurocritica del Movimento. Tuttavia, il Movimento 5 Stelle può ancora contare, stando ai sondaggi, sul 30% delle preferenze degli italiani. Se la partita europea per il momento è persa, quella nazionale rimane più che mai aperta. Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI. |
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