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venerdì 27 gennaio 2017

CINA. rapporti con la UE ed il programma Horizon

icerca & Sviluppo
Ue-Cina: obiettivi della cooperazione scientifica
Lorenzo Mariani
24/01/2017
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Il 2017 segna l’ingresso nel quarto anno del progetto Horizon 2020, il programma europeo per la ricerca e l’innovazione che punta a sviluppare una nuova eccellenza scientifica che garantisca ai Paesi membri e ai loro partner una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva.

Dopo il successo del VII Programma Quadro per la ricerca, che aveva visto la partecipazione di ben 383 istituti cinesi e lo stanziamento di 55,8 milioni di euro, ad oggi sono state presentate 227 proposte di ricerca provenienti dalla Cina per la partecipazione a 187 diversi progetti.

Per la Cina il partenariato scientifico-tecnologico con l’Europa è un obiettivo strategico di lungo corso. Le relazioni scientifico-tecnologiche tra i due partner, iniziate ufficialmente nel 1983, furono caratterizzate in principio da un rapporto unidirezionale in cui era unicamente l’Europa a mettere a disposizione le proprie conoscenze.

Il rapido sviluppo economico-industriale cinese, tuttavia, portò ben presto alla necessità per l’Unione di creare un quadro normativo che regolasse tale rapporto.

Trent’anni di cooperazione euro-cinese
Venne così siglato nel 1998 l’Accordo di cooperazione scientifica e tecnologica, rinnovato per la terza volta nel 2014, con lo scopo di favorire maggiormente l’interazione tra centri di ricerca, industrie, università e singoli ricercatori di entrambe le aree. A dimostrazione dell’interesse reciproco infuso in questo tipo di collaborazione venne anche istituito un comitato guida congiunto il quale, riunendosi con cadenza annuale, avrebbe aiutato a sviluppare ulteriormente il programma.

La creazione nel 2001 di un ufficio Ue-Cina per la ricerca scientifica con sede a Pechino favorì ulteriormente l’accesso ai progetti di finanziamento europei da parte dei ricercatori cinesi.

Nel processo di implementazione del partenariato venne siglata nel 2005 una dichiarazione congiunta che permise di individuare otto potenziali aree di comune interesse: protezione ambientale; informazione e comunicazioni; cibo, agricoltura e biotecnologie, trasporti e settore aerospaziale (incluso il programma Galileo, il programma di navigazione satellitare europeo alternativo al Gps americano); urbanizzazione; salute; scienze socio-economiche; database per la condivisione dei dati.

Nel 2008 inoltre venne sottoscritto l’Accordo tra la Comunità europea per l’Energia atomica (Euratom) ed il governo della Repubblica popolare cinese per la cooperazione per l’utilizzo pacifico dell’ energia atomica.

La ricerca scientifica in Cina
Nel corso degli ultimi dieci anni la Cina ha più che raddoppiato la propria spesa per la ricerca scientifica, investendo nel solo anno 2014 ben 186 miliardi di euro, il 2,05% del prodotto interno lordo del paese. Attualmente le imprese private contribuiscono per il 77,3% della spesa totale, mentre i finanziamenti da parte delle università e degli istituti di ricerca governativi contano rispettivamente per il 6,9% ed il 14,8%.

Nonostante la Cina sia oggi il secondo Paese per numero di pubblicazioni scientifiche dopo gli Stati Uniti sono ancora molti i problemi con cui la comunità scientifica cinese è costretta a confrontarsi. Nel 2015 è stata avviata dal governo la riforma del Programma nazionale per la ricerca e la tecnologia al fine di facilitare l’accesso ai fondi statali e diminuire le rispettive procedure burocratiche.

Il cambiamento più significativo è stato fino ad ora quello legato al ruolo riservato ai diversi ministeri governativi, i quali perdono il loro ruolo di controllo sui progetti.

Nell’ottobre 2016, inoltre, il Comitato centrale del Partito comunista cinese ed il Consiglio di Stato hanno presentato le linee guida per l’implementazione del 13° piano quinquennale (2016-2020), ponendo maggiore enfasi su quei campi di ricerca collegati ai problemi considerati contingenti nello sviluppo del Paese: agricoltura, urbanizzazione, ambiente ed invecchiamento della popolazione.

I due nuovi programmi di ricerca promossi dal governo di Pechino, Manufacturing 2025 e Internet +, avranno in questo senso lo scopo di promuovere l’integrazione delle nuove tecnologie all’interno del sistema produttivo cinese.

Il ruolo della cooperazione Italia-Cina
Sotto l’egida del progetto Horizon 2020 anche l’Italia ha rafforzato le proprie iniziative di cooperazione con la Cina. Dal 25 al 27 ottobre si è svolta nelle città di Bergamo, Bologna e Napoli, la Italy-China Science Innovation Week, evento unico che ha riunito sotto di sé la settima edizione del China-Italy Innovation Forum e la decima edizione del Sino-Italian Exchange Event.

A conclusione dell’evento, presieduto dall’allora ministro dell’Istruzione Stefania Giannini e dal suo omologo Wan Gang, è stato inaugurato il Centro Italia-Cina di Trasferimento tecnologico, istituto che avrà lo scopo di creare una piattaforma comune per la promozione della cooperazione tra centri di ricerca, università e aziende di entrambi i paesi.

Il crescente interesse mostrato verso il partenariato scientifico-tecnologico tra i Paesi dell’Unione e la Cina è sicuramente un passo avanti nell’integrazione tra i due sistemi. La Cina rimane oggi un attore chiave per lo sviluppo ed il successo dei programma Horizon 2020. Tuttavia tale partnership rappresenta anche una grande sfida per l’Europa, non solo in merito al futuro ruolo della Cina in ambito internazionale, ma soprattutto in relazione alla doppia natura, civile e militare, spesso legata al progresso scientifico.

Il vecchio continente sta anche contribuendo - indirettamente - all’ammodernamento militare della Cina ed in un momento come questo, caratterizzato da un clima di forte insicurezza sul futuro delle relazioni tra Pechino e Washington, la questione rischia di trasformarsi in un elemento di frizione nelle relazioni transatlantiche.

Lorenzo Mariani è assistente alla ricerca dell’area Asia dello IAI, dove si occupa di Relazioni internazionali dell’Asia orientale.

Roma: prospettive di concentrazione e Difesa

Fincantieri-STX Saint Nazaire
Un’industria navale europea più forte nel mondo
Jean-Pierre Darnis, Michele Nones
27/01/2017
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Il processo di concentrazione dell’industria europea dell’aerospazio, sicurezza e difesa, partito venti anni fa, non ha fino ad ora coinvolto il segmento navale.

La frammentazione della base tecnologica e industriale europea è stata ripetutamente indicata come un elemento di debolezza, sia perché spingeva inevitabilmente verso politiche di sostegno nazionale più o meno mascherate e verso una competizione durissima sul mercato internazionale, sia perché la domanda militare europea era insufficiente per sostenere tutti i cantieri.

È emblematico che gli unici due programmi intergovernativi navali significativi siano stati fatti fra Italia e Francia per le unità anti-missili Orizzonte e per le fregate multiruolo Fremm, ma che poi proprio queste ultime siano state al centro di un’accesa concorrenza italo-francese.

Le due versioni sono notevolmente diverse, con costi conseguentemente differenti. La vicenda conferma che nell’avviare una cooperazione intergovernativa bisogna definire fin dall’inizio una comune politica di esportazione, nella consapevolezza che per mantenere le capacità tecnologiche e industriali è indispensabile accedere al mercato internazionale.

Verso un nuovo gruppo europeo
In questo quadro va vista la proposta di Fincantieri di acquisire la maggioranza di STX France che opera nei Cantieri di Saint-Nazaire. Quest’asset era controllato da un gruppo coreano concorrente di Fincantieri. Potrebbe quindi tornare all’interno di un gruppo europeo.

Il cantiere francese opera su mercati civili e militari. È l’unico in grado di costruire portaerei e ha realizzato diverse unità portaelicotteri d’assalto della classe Mistral, di cui due vendute inizialmente alla Russia, ma poi in seguito all’embargo cedute all’Egitto. Questa valenza militare accentua da una parte il merito strategico dell’operazione di Fincantieri, ma dall’altra ne evidenzia inevitabilmente la sensibilità politica.

Non a caso la Francia utilizza, per tutelare i suoi interessi nazionali, non solo il controllo degli investimenti esteri nei settori strategici, ma anche il mantenimento di una quota pubblica significativa (abitualmente un terzo) del capitale.

L’Italia è, da questo punto di vista, il Paese europeo più simile alla Francia nell’utilizzare ambedue gli strumenti, anche se la presenza dello Stato italiano è stata in questi ultimi decenni più che altro di garanzia.

Non deve quindi meravigliare che il governo francese stia guardando con attenzione alla proposta di Fincantieri sia come azionista sia come garante dei legittimi interessi nazionali francesi. Su questa strada non dovrebbe essere difficile definire gli impegni che il gruppo italiano potrà assumere nei confronti delle Autorità francesi, analogamente a quanto avviene in casi analoghi anche in Italia.

Mercato militare e mercato civile
Ma il cantiere francese è molto attivo anche sul mercato civile e, in particolare, crocieristico. Ed è soprattutto a questa attività che punta Fincantieri. Il gruppo italiano è già il leader mondiale del settore, ma vuole rafforzarsi ulteriormente.

I cantieri francesi rappresentano un’occasione unica per farlo e diventare allo stesso tempo un’impresa transnazionale, mettendo a fattore comune competenze e capacità industriali con un modello di business fortemente proiettato verso una stretta collaborazione con i principali operatori nel settore delle crociere.

Su questa strada Fincantieri si sta muovendo da tempo, prima con l’acquisizione nel 2009 dei cantieri Marietta negli Stati Uniti (unità militari) e poi, nel 2012, con quella dei cantieri Vardin Norvegia (piattaforme off-shore), per altro usciti da una negativa esperienza nel gruppo STX.

L’esperienza americana rappresenta per Fincantieri un valido biglietto da visita per avere superato l’attenta valutazione delle autorità statunitensi e acquisito, fornendo le necessarie garanzie, la capacità strategica per diventare un importante fornitore del Dipartimento della Difesa.

Analogie socio-politiche tra Italia e Francia
La gestione degli aspetti socio-politici rappresenta un’altra analogia fra Italia e Francia. Il porto di Saint Nazaire rappresenta un bastione operaio ed è quindi oggetto di attenzione da parte dei vari candidati alle presidenziali francesi. Questo legame del territorio con l’azienda è ben percepibile nella rivendicazione di tornare al vecchio nome dell’azienda, ‘Les Chantiers de l’Atlantique’.

Anche da questo punto di vista Fincantieri può rassicurare le Autorità e la stessa opinione pubblica francese, dimostrando come, ovunque operi, ha sempre perseguito una politica di mantenimento dell’occupazione.

Tra l’altro per l’azienda italiana la presenza di sindacati forti nonché il necessario accompagnamento politico dell’operazione rappresentano un contesto normale, assolutamente paragonabile con quanto avviene in Italia. Da questo punto di vista il recente incontro fra sindacati francesi e italiani della cantieristica illustra le problematiche sociali legati a quest’accordo.

Il clima elettorale fa però pesare un rischio di strumentalizzazione e potrebbe ricordare la mancata Opa di Enel e Veolia su Suez nel 2006. Il fatto che François Hollande non si ripresenti alla corsa per le presidenziali dovrebbe favorire una certa stabilità dell’azione nelle prossime settimane.

Va rilevato un chiaro impegno a favore di una soluzione europea da parte di Christophe Sirugue, sottosegretario all’Industria, che segue il dossier incontrando le varie parti, dai sindacati ai rappresentanti di Fincantieri.

Un segnale d’integrazione europea
Un altro punto che viene spesso presentato come problematico da parte dei sindacati francesi è il rischio che l’accordo di Fincantieri con China State Shipbuilding possa pesare in termini di trasferimenti di tecnologia verso Oriente.

Anche da questo punto di vista, non soltanto si possono utilizzare all’interno di un accordo meccanismi di controllo delle tecnologie ritenute strategiche, ma Fincantieri può anche fare valere la sua esperienza di produzione di tecnologia in Europa e di espansione commerciale su mercati nuovi come quello cinese. Si tratta di una logica ben presente nell’insieme dei gruppi ad elevata tecnologia, come ad esempio Airbus.

Per concludere, questa operazione potrebbe portare ad un rafforzamento delle capacità navali europee e rappresentare l’avvio di un processo di ulteriore futuro consolidamento, dando un forte segnale di come l’Europa abbia ripreso a muoversi verso una maggiore integrazione.

Infine la riuscita di questa operazione potrebbe essere uno sprone significativo per le relazioni bilaterali fra Italia e Francia. Bisogna, infatti, risalire all’ATR per trovare un esempio di programma tecnologico bilaterale di successo.

Negli ultimi tempi, gli investimenti francesi in Italia sono stati spesso percepiti come aggressivi. L’operazione Fincantieri STX rappresenta anche l’opportunità di dare una lettura diversa, un fattore da non sottovalutare per rinforzare la cooperazione europea.

Jean Pierre Darnis è direttore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI, Michele Nones è consigliere scientifico dello IAI.

giovedì 26 gennaio 2017

Il nodo ella difesa italiana.



Trump, Cameron, M5S
Nato: i dubbi occidentali sull’Alleanza
Alessandro Marrone
20/01/2017
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La Nato è “obsoleta”? Si merita David Cameron come segretario generale? L’Italia deve uscire dalla Nato? Gli interrogativi sollevati rispettivamente da Donald Trump, dalla stampa britannica (che li attribuisce al governo di Londra) e dal Movimento 5 Stelle testimoniano il bisogno di ripensare e quindi riaffermare il ruolo dell’Alleanza atlantica nel contesto attuale.

La Nato per Trump: “obsoleta” ma “importante”
Gli Stati Uniti sono la guida della Nato, mettendo in campo tra la metà e i due terzi delle capacità militari alleate, assicurando la deterrenza nucleare ed essendo dal secondo dopoguerra il garante della pace in Europa. È quindi ovvio che ruolo attuale e futuro della Nato dipendano in gran parte - ma non esclusivamente - da Washington e in particolare - ma non solo - dalla Casa Bianca.

Durante la campagna elettorale Trump ha giudicato la Nato “obsoleta”, giudizio ribadito in una recente intervista durante la quale ha anche affermato che l’Alleanza “resta molto importante”. L’obsolescenza deriva, secondo il nuovo presidente americano, dal fatto che i Paesi membri (europei) “non pagano quello che dovrebbero pagare”, e che la Nato “non ha saputo occuparsi di terrorismo”.

La critica di Trump alla Nato non è del tutto nuova, poiché la questione degli scarsi investimenti europei in capacità militari è stata più volte posta dall’Amministrazione di Barack Obama - così come dalle precedenti sin dalla fondazione dell’Alleanza. La novità politicamente rilevante sta piuttosto nel riferimento forte ed esplicito al terrorismo.

Se è vero che la Nato non si è occupata finora direttamente di contrasto al terrorismo islamista, è anche vero che i 14 anni di impegno militare alleato in Afghanistan sono serviti principalmente ad evitare che il Paese asiatico fosse di nuovo un rifugio sicuro per Al Qaeda dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 - attentati per i quali la Nato ha attivato, per la prima volta nella sua storia, l’articolo 5 sulla difesa collettiva.

Di certo, oggi elettorato e opinione pubblica in Europa e Nord America chiedono più sicurezza nei confronti del terrorismo internazionale di matrice islamica. L’Alleanza potrebbe fare di più per soddisfare questa domanda di sicurezza, ad esempio sostenendo concretamente da un lato i Paesi musulmani che contrastano lo Stato islamico e lo jihadismo internazionale e dall’altro l’Ue nel sorvegliare i confini esterni e impedire infiltrazioni terroriste tra i migranti in rotta verso l’Europa.

La critica di Trump risponde ad una logica sempre più chiara della sua presidenza: un mix spinto di nazionalismo e realismo, che giudica irrilevanti attori sovranazionali come l’Ue, considera le alleanze come mero strumento per soddisfare gli immediati interessi nazionali e basa i rapporti internazionali su accordi bilaterali tra gli Stati Uniti e le singole controparti - Russia in primis.

Il rischio Cameron per la Nato
Un altro punto interrogativo sulla Nato, di ben minore importanza ma non per questo marginale, viene da Londra. Le indiscrezioni su una possibile candidatura dell’ex premier David Cameron al vertice dell’Alleanza sono probabilmente un balloon d’essai, ma l’Italia e gli alleati membri anche dell’Ue non dovrebbero sottovalutarle.

In primo luogo, la Nato non si merita un leader che ha creato il problema Brexit che affliggerà l’Europa per i prossimi anni. Né conviene alla sicurezza europea e alla relativa cooperazione tra Nato e Ue porre al comando della prima il rappresentante di un Paese che vuole uscire dalla seconda.

Inoltre, nel campo della difesa, Cameron è corresponsabile, insieme a Nicolas Sarkozy, di aver voluto un intervento militare per rovesciare il regime di Muhammar Gheddafi senza farlo seguire da una missione di stabilizzazione del Paese nordafricano: il risultato è stato una Libia a pezzi, che ha alimentato il flusso di migranti verso l’Italia e le infiltrazioni del terrorismo islamico in Nord Africa, mettendo nel frattempo a rischio la sicurezza energetica italiana ed europea.

Infine, durante la Guerra Fredda vi era la prassi di una rotazione del segretario generale tra Paesi europei di diverse aree geografiche, mentre dagli anni ’90 le quattro personalità che hanno ricoperto l’incarico sono venute tutte dal Nord Europa (Gran Bretagna, Olanda, Danimarca e Norvegia) rappresentando giocoforza meno le istanze degli Stati mediterranei del fianco sud - inclusa l’Italia che dal 2012 ha perso anche il posto di Vice-segretario generale mantenuto ininterrottamente dal 1978.

Italia e Nato, c’è movimento
Proprio in Italia è stata di recente riproposta l’idea di ridiscutere la presenza nazionale nella Nato, da parte del Movimento 5 Stelle che critica in particolare l’allargamento dell’Alleanza all’Europa orientale, l’innalzamento della tensione con la Russia e gli interventi militari in Paesi terzi, ventilando un referendum sulla partecipazione italiana all’organizzazione.

Come nel caso di Trump, alcune delle critiche alla Nato sono già state rivolte da altre voci italiane, politiche e non, seppur in termini molto più costruttivi, ad esempio riguardo la necessità di evitare un’escalation con la Russia.

La novità politicamente rilevante sta piuttosto nell’ipotesi di uscire dall’Alleanza. Dopo che sia il Pci ed suoi eredi a sinistra, sia gli eredi del Msi a destra, avevano accettato la Nato come un necessario ed utile framework per la politica di difesa italiana, nessuna forza politica di rilievo aveva rimesso in discussione tale scelta di campo.

Il dibattito aperto da e nel Movimento merita dunque attenzione, in quanto la Nato è servita e serve a soddisfare gli interessi di sicurezza comuni ai suoi stati membri, e la sua utilità strategica dipende quindi dalla capacità di adattarsi sia alle minacce esterne sia alle domande politiche interne - da Washington e dalle altre capitali occidentali. Una capacità che la Nato ha dimostrato in 68 anni di vita, contribuendo ad uno dei periodi di pace più lunghi nella storia del continente europeo, e che può e deve rinnovare oggi.

Alessandro Marrone, Responsabile di Ricerca Programma Sicurezza e Difesa; Twitter @Alessandro__Ma.

Nuove prospettive per il Parlamento Europeo

Parlamento europeo
Tajani, presidente italiano per salto di qualità
Gianni Bonvicini
19/01/2017
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Malgrado qualche titolo in più sui giornali per la (ri-) elezione del proprio presidente, il Parlamento europeo continua ad essere un oggetto misterioso e lontano dagli interessi dei cittadini.

Certamente l’Italia può essere soddisfatta di avere finalmente portato sul più alto scranno dell’Assemblea di Strasburgo un proprio rappresentante. Era dal lontano 1979 (prime elezioni dirette) che si attendeva questo evento. Ciò avviene per di più in un momento in cui il paese è tornato ad essere marginale e a subire pressioni da parte di Bruxelles sui propri conti pubblici e perfino sul software di controllo delle emissioni su alcune vetture della Fiat-Chrysler.

Ma al di là di questo successo rimane l’interrogativo di fondo, valido per l’intera Unione europea, Ue, sul senso di queste elezioni di “mid term”.Lo scambio di presidenze fra i due maggiori raggruppamenti europei, popolari e socialisti, nel bel mezzo della vita parlamentare ha il sapore di qualcosa di artificioso e in qualche modo ‘burocratico’.

Un Parlamento che per tutti i cinque anni della legislatura non può essere sciolto da nessuno e che per di più sceglie i propri presidenti sulla base di un semplice accordo di alternanza per fare contenti i due maggiori partiti fa nascere almeno qualche dubbio sulla sua valenza politica.

L’anomalia politica dell’Assemblea europea
È questo un vecchio discorso, che però continua a denunciare una certa anomalia del Pe rispetto ai modelli nazionali che i cittadini europei sono abituati a conoscere. Vero che la costruzione dell’Ue non ha caratteri federali ed è quindi lontana dai sistemi politici dei singoli Paesi. Purtuttavia il Parlamento europeo rappresenta, o dovrebbe rappresentare, una rottura nella struttura essenzialmente intergovernativa del sistema decisionale dell’Unione.

Dovrebbe, in teoria, essere l’istituzione politica per eccellenza, dove il gioco delle parti si esprime attraverso gli orientamenti ideologico-politici di ciascun raggruppamento, mentre la presidenza dell’Assemblea spetterebbe alla maggioranza parlamentare espressa attraverso le elezioni. Invece, questa spartizione delle responsabilità nel corso della legislatura inquina parzialmente la lotta politica a vantaggio dei compromessi e delle grandi coalizioni fra gli stessi partiti.

La minaccia degli euroscettici
La ragione, si dice, è che le forze politiche tradizionali devono difendersi dai movimenti euroscettici che minacciano la vita stessa del Parlamento. Ma se questo può essere vero oggi, non lo era anni fa quando nel Parlamento l’unica, o quasi, eccezione partitica controcorrente era rappresentata dai conservatori inglesi che facevano gruppo a parte. Eppure lo scambio di presidenze si faceva ugualmente.

Per di più, in questa legislatura la prassi dell’alternanza alla presidenza ha subìto un’ulteriore anomalia. Pur avendo vinto le elezioni del 2014, il Partito popolare europeo ha ceduto il primo turno della presidenza al socialista Martin Schulz: la ragione va ritrovata nella sperimentazione del meccanismo degli “spitzencandidaten” per la nomina alla presidenza della Commissione.

Con la vittoria dei popolari e la conseguente cooptazione da parte del Consiglio europeo del candidato leader, il popolareJean Claude Juncker, alla testa della Commissione, si è ben pensato di mettere alla presidenza del Pe il candidato dei socialisti, sconfitto nella corsa alla Commissione e rappresentante della minoranza parlamentare. Insomma un gioco di poltrone che risponde sempre alla logica di condivisione di compiti e responsabilità.

L’illusione degli ‘spitzencandidaten’
Peccato davvero, perché ci si era illusi che il meccanismo degli ‘spitzencandidaten’ avesse la forza di politicizzare molto di più sia la Commissione e il suo presidente, sia il Parlamento europeo, aprendo la strada ad un confronto duro fra maggioranza e opposizione nel controllare le azioni politiche di Juncker. Nulla di tutto ciò è avvenuto e le vecchie prassi compromissorie all’interno del Pe sono continuate senza alcun vero cambiamento.

Ad essere sinceri, la candidatura del socialista Gianni Pittella in contrapposizione al popolare Antonio Tajani aveva il significato di rompere questo anomalo accordo e di fare emergere una logica politica normale di gara per l’elezione del presidente del Parlamento. Si è voluto quindi dare il segnale che le cose possono cambiare e che le vecchie prassi compromissorie non sono scritte nella pietra.

Detto questo, la sfida che il nuovo presidente dovrà affrontare nei prossimi due anni e mezzo sarà principalmente politica. Il problema da risolvere non è tanto quello di contrastare i gruppi euroscettici all’interno del Parlamento, ma piuttosto di dare maggiore enfasi alla volontà del Pe di occuparsi delle politiche dell’Unione, di orientarle e controllarle usando al meglio i pochi ma significativi poteri a disposizione.

La lotta politica va portata quindi all’esterno dell’Assemblea, moltiplicando i rapporti con i Parlamenti nazionali e cercando sempre di più il contatto con i cittadini ormai profondamente disamorati di un’Unione lontana e incomprensibile. Azione politica che non può prescindere dalla crisi interna dell’Ue, ma neppure dal radicale modificarsi dello scenario internazionale di cui l’elezione di Donald Trump è l’ultima manifestazione.

Il Pe e il suo nuovo presidente hanno quindi il dovere di occuparsi meno delle logiche interne e molto di più di escogitare nuove forme di lotta e di un diverso modo di operare per rifondare un’Unione che di procedure e meccanismi anomali può morire. Ci vuole davvero un salto di qualità nel ruolo e nell’immagine del Pe ed è questa la vera sfida che Antonio Tajani dovrà lanciare nella seconda parte di questa legislatura.

Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.

mercoledì 25 gennaio 2017

Roma: il nodo della immigrazione dalla quarta sponda

Immigrazione
Italia, l’accordo con la Libia non decolla
Enza Roberta Petrillo
15/01/2017
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Per l’Italia, il 2017 si è aperto con la sfida della gestione dei flussi dei migranti. Proprio il 30 dicembre, una circolare ministeriale siglata dal neoministro dell’Interno Marco Minniti e dal capo della polizia Franco Gabrielli ha sollecitato l’impellenza di dare “massimo impulso all’attività di rintraccio dei cittadini dei Paesi terzi in posizione irregolare”.

Stando alle anticipazioni diffuse dal Viminale, il corollario operativo del documento dovrebbe implicare la riapertura in ogni regione di Centri di identificazione ed espulsione, Cie, il potenziamento degli accordi con i Paesi d’origine per la riammissione dei migranti respinti e il rafforzamento del controllo delle frontiere esterne.

Il flop della politica dei rimpatri
Piano non proprio avveniristico, si dirà, e che sembra riproporre, seppur con alcuni correttivi in via di definizione, quanto già sperimentato con scarso successo negli ultimi venti anni.

Caso lampante, in tal senso è il controverso rilancio dei Cie. Un sistema bollato da più parti come inefficace e descritto da un rapporto di Medici per i Diritti Umani come “congenitamente incapace di garantire il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali della persona”.

Sono state proprio le violazioni e le malversazioni riscontrate in gran parte delle strutture a far sì che, progressivamente, dai 15 centri aperti a partire dal 1999 si arrivasse ai 4 rimasti attivi nell’ultimo anno.

Un’agonia decretata anche dall’ultimo rapporto stilato dalla Commissione diritti Umani del Senato che ha evidenziato come il modello Cie abbia disatteso persino il suo principale obiettivo: il rimpatrio dei migranti irregolari.

Nel 2015 - evidenzia la commissione - su 34.107 migranti sottoposti a un provvedimento di espulsione dal territorio italiano, 15.979 (circa il 46%) sono stati effettivamente allontanati, mentre 18.128 non hanno mai lasciato il Paese. Un buco nell’acqua che si spiega alla luce della scarsa applicabilità dei pochi accordi bilaterali di riammissione stipulati dall’Italia con i paesi di origine.

I costi esosi, la necessità del riconoscimento dell’autorità consolare del Paese di provenienza e i limiti per l’uso coercitivo delle misure di rimpatrio posti dalla direttiva ‘rimpatri’, hanno reso, nei fatti, la politica sui rimpatri un flop.

Criticità già espresse dalla roadmap diffusa dal Viminale nel 2015 e che spiegano, in parte, la svolta muscolare del ministero dell’Interno, che ha promesso di presentare in parlamento un Disegno di Legge su immigrazione e sicurezza entro la fine del mese.

Nella ridda di anticipazioni e smentite circolate negli ultimi giorni, alcuni elementi sembrano tuttavia definire la linea futura dell’esecutivo sull’immigrazione. Innanzitutto dialogo interistituzionale. Come evidenziato dal recente vertice interministeriale su sicurezza, immigrazione e Libia, indetto dal Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, la priorità politica è un’azione multilivello che si snodi tanto a livello interno quanto a livello di politica estera.

Il ritorno dei Cie e la nascita dei Centri di coordinamento sulla radicalizzazione 
Sul fronte politica interna, l’appuntamento decisivo è quello della conferenza Stato-Regioni fissata per il 19 gennaio. Il rilancio del modello Cie ha messo sul piede di guerra molti governatori, la cui collaborazione è decisiva sia per far decollare le ambizioni di accoglienza diffusa storicamente caldeggiate dal Viminale, sia per garantire una base operativa ai venti Centri di coordinamento sulla radicalizzazione che secondo i piani del governo dovrebbero insediarsi a livello regionale per monitorare la radicalizzazione e l’estremismo jihadista.

Una rete territoriale, che secondo la proposta della Commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista risponderebbe ad una centrale operativa insediata permanentemente a Palazzo Chigi.

Tema, quello del dialogo con i territori, che torna anche nella strategia identificata dal Consiglio per le relazioni con l’islam italiano, un organo insediato al Viminale per rilanciare il dialogo con la comunità musulmana e far sì che moschee e ministri diventino presidi contro la radicalizzazione soprattutto nelle periferie urbane, area critica su cui stanno convergendo anche le attività della Commissione di inchiesta sulle periferie insediata alla Camera dei Deputati lo scorso agosto.

La missione di Minniti a Tripoli
Se, al netto delle riottosità degli enti locali, il piano del governo a livello interno sembra piuttosto definito, il fronte dell’azione esterna pare invece essere più claudicante e soprattutto più imprevedibile. Soprattutto perché a oggi il buco nero dell’immigrazione verso l’Italia resta la Libia.

Stato fallito uno e trino che vede il generale Khalifa Haftar spadroneggiare in Cirenaica, mentre il presidente incaricato dall’Onu Fayez Al Sarraj tenta di controllare la Tripolitania, cercando di arginare l’espansione delle organizzazioni islamiste che da mesi infiltrano la regione del Fezzan.

In un quadro di questo tipo la recente missione di Minniti a Tripoli per definire bilateralmente un’intesa con il governo di unità nazionale di Al-Sarraj volta a stabilizzare il Paese e contenere le migrazioni irregolari e il traffico di esseri umani conferma, per l’ennesima volta, la solitudine dell’Italia nella gestione dei flussi migratori.

Persino il golpe tentato soltanto un giorno dopo la riapertura dell’ambasciata italiana a Tripoli da un manipolo di miliziani fedeli al vecchio governo islamista di al-Ghawil non ha provocato alcuna reazione congiunta da parte dei Paesi europei.

Un’inerzia resa più pesante dalle poche frasi di rito espresse dal Commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos, che, in visita alla Farnesina, si è limitato ad elogiare l’accordo siglato da Minniti con al-Sarraj, senza fare alcun riferimento alle prospettive politiche e operative del piano per Bruxelles.

Così mentre dalla Libia, l’ex premier al-Ghawil lancia strali contro l’Italia e bolla la riapertura della rappresentanza diplomatica come una occupazione militare, dalla Farnesina il ministro degli esteri Angelino Alfano lascia intendere, tra le righe, che l’essenza della dimensione esterna della politica migratoria nazionale resta sempre la stessa: il solipsismo.

“L’Italia sta lavorando con grande impegno per rafforzare la collaborazione bilaterale sul fronte del controllo dei punti di transito migratorio alla frontiera sud fra Libia e Niger e nel contrasto alla immigrazione illegale e al traffico di essere umani. Quando la Libia sarà in grado di collaborare pienamente su questi temi, ci aspettiamo che l’Unione europea e la comunità Internazionale siano pronte a lanciare programmi di sostegno e iniziative comuni, poiché la partita che si gioca, la giochiamo tutti insieme, nessun Paese escluso”.

Scenario futuribile, quello del gioco di squadra, visto che per ora, se fossero confermate le agenzie che si rincorrono da Bruxelles, il piano italiano per la Libia sembrerebbe essersi concluso con il no di al-Sarraj alla proposta di intesa dell'Italia. Tema intricato su cui dovrebbe riferire già lunedì il ministro degli Esteri di Malta George Vella, il cui governo ha la presidenza di turno dell'Unione europea.

Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università “Sapienza” di Roma. Esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it).

lunedì 16 gennaio 2017

Europa: 5 Stelle: turbolenze ed interrogativi

Parlamento europeo
Grillo incassa lo schiaffo di Verhofstadt e corre da Farage
Eleonora Poli
11/01/2017
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Il fallito accordo tra l’Alleanza dei Liberali e Democratici per l’Europa, Alde, e il Movimento 5 Stelle, M5S, ha comprensibilmente suscitato molti interrogativi. Ci si domanda in particolare come un gruppo liberale e sostanzialmente pro-europeo possa aver preso in considerazione di accettare al proprio interno un partito anti-establishment and eurocritico come l’M5S.

Nel testo dell’accordo Alde e M5S dichiaravano di condividere i valori di libertà, uguaglianza e trasparenza, e di voler promuovere un’economia aperta, la solidarietà e la coesione sociale.

Differenze più che affinità
Ma in effetti i programmi dei due gruppi hanno ben poco in comune. In materia di politica estera, in particolare, divergono su molti punti rilevanti. Come le relazioni con la Russia: laddove il Movimento auspica un rapprochement con Putin, la maggioranza dei membri di Alde è per la linea dura.

Anche le politiche europee promosse o sostenute dai due gruppi sono sostanzialmente diverse. Ad esempio, a parte la green economy e il mercato unico digitale, temi cari sia ad Alde che al Movimento, non ci sono molti altri punti in comune, nemmeno sul fronte delle politiche economiche.

Alde è a favore di privatizzazioni e liberalizzazioni per favorire la competitività e una redistribuzione delle risorse più efficiente. Il Movimento 5 Stelle pone invece una maggiore attenzione alla dimensione sociale promuovendo sia in Italia che nel Parlamento europeo proposte come il reddito universale di cittadinanza.

Inoltre, l’Alde, sostiene la necessità di costruire un’Unione europea, Ue, più democratica tramite il rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo anche per consolidare un’identità europea comune. Anche il M5s punta a un’Europa più democratica, ma attraverso l’utilizzo di forme di democrazia diretta che possano favorire la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali europei.

Quest’ultimo punto, che è centrale nel programma del M5S, sarebbe alla base del nuovo gruppo politico che il Movimento potrebbe tentare di lanciare alle prossime elezioni europee, il Movimento di Democrazia Diretta. Inoltre, il M5s è contrario a una maggiore integrazione europea che comporti politiche di austerità e, come da programma, punta non solo a creare un’alleanza anti-austerità fra i Paesi del Sud Europa, ma anche a tenere in Italia un referendum sull’euro.

Divorzio e ripensamento
Di primo acchito non è facile capire perché Grillo e Guy Verhofstadt, leader di Alde, si siano accordati sull’entrata del M5s nel gruppo liberale e il leader del M5S abbia deciso di abbandonare gli euroscettici dell’Europa per la Libertà e Democrazia Diretta, Efdd, guidati dal partito britannico Ukip di Nigel Farage. È degno peraltro di nota che l’aggettivo “Diretta”, era stato voluto proprio da Grillo, dopo le elezioni europee del 2014, come condizione per entrare nel gruppo Efdd.

In realtà il tentativo del M5s di divorziare dall’Efdd aveva varie motivazioni. I pentastellati hanno votato in linea con l’Efdd solo il 20% delle volte.

Inoltre, il gruppo Efdd rischia di sfaldarsi alle prossime elezioni europee. Infatti, con la Brexit e la conseguente uscita di Ukip dal Parlamento europeo, il gruppo non avrebbe più un numero di rappresentanti sufficienti per continuare ad esistere. Secondo il regolamento del Parlamento europeo, infatti, ogni gruppo politico necessita di almeno 25 Parlamentari provenienti da almeno un quarto dei Paesi membri.

L’Ukip conta oggi il maggior numero di parlamentari nel gruppo Efdd (22), seguito dal M5s che ne ha 17. Il resto sono rappresentanti singoli di partiti euroscettici di opposizione di Francia, Svezia, Repubblica Ceca e Lituania.

È proprio per garantire l’esistenza del gruppo e mantenere i finanziamenti parlamentari che il leader di Efdd, Nigel Farage ha deciso, dopo il rifiuto della maggioranza degli eurodeputati Alde di aprire le porte ai pentastellati, di riammettere nel gruppo i 5 stelle.

Questi ultimi, da parte loro, hanno dovuto reiterare la promessa di sostenere un referendum sull’euro. I cinque stelle sono stati costretti anche a rinunciare alla co-presidenza del gruppo, con una secca perdita di influenza politica a livello europeo.

Verhofstadt indebolito
Il tentativo del M5S di allearsi con Alde aveva invece proprio l’obiettivo di accrescere il peso politico del movimento in Europa e di rafforzarne l’immagine in Italia. Con 68 Parlamentari, Alde è infatti il quarto gruppo del Parlamento europeo e avrebbe potuto fornire al Movimento un più efficace palcoscenico politico, oltre a consentirgli di prendere le distanze dalle frange radicalmente euroscettiche dell’Efdd.

Per esempio, come da accordo, Alde avrebbe concesso all'eurodeputato pentastellato, David Borrelli, una delle tre cariche da vicepresidente esecutivo e la presidenza di un gruppo di lavoro sulla democrazia diretta. Forse il connubio con Alde avrebbe anche consentito al Movimento 5 Stelle di attrarre più elettori moderati a livello nazionale.

Infatti, se è vero che Alde è un gruppo in linea con l’establishment europeo, è vero anche che si pone come terza forza, alternativa tanto al S&D, il gruppo socialdemocratico di cui fa parte il Pd, quanto al Partito popolare europeo, di cui fanno parte sia Forza Italia che il Nuovo Centro Destra.

Dal canto suo Alde, con l’entrata del M5S, si sarebbe rafforzato numericamente, acquisendo maggior peso politico all’interno del Parlamento. Il Movimento avrebbe anche sostenuto la candidatura del leader di Alde, l’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, alla presidenza del Parlamento europeo, una carica su cui i membri del PE saranno chiamati a votare il 17 gennaio.

Il fallimento dell’intesa ha indubbiamente indebolito Verhofstadt anche in vista della battaglia per la presidenza. I 5 stelle, dal canto loro, sono stati oggetto di diffuse ed aspre critiche in Italia, e non solo, per aver tentato un’alleanza con l’ “establishment”. Nonostante il 78,5% dei membri del M5S si sia espresso a favore dell’alleanza con Alde, la fallita mossa di Grillo viene ora usata per screditare la natura anti-establishment ed eurocritica del Movimento.

Tuttavia, il Movimento 5 Stelle può ancora contare, stando ai sondaggi, sul 30% delle preferenze degli italiani. Se la partita europea per il momento è persa, quella nazionale rimane più che mai aperta.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.