Translate

mercoledì 26 aprile 2017

Le lezioni che vengono dall'estero

Primo turno presidenziali
Francia: l’Europa “En Marche”? E l’Italia…
Riccardo Perissich
24/04/2017
 più piccolopiù grande
Salvo sempre possibili incidenti di percorso, il 7 maggio Emmanuel Macron sarà eletto presidente della Repubblica francese. Da questa campagna elettorale, giustamente definita storica, si possono trarre una serie d’indicazioni importanti per l’Europa e l’Italia.

La prima è che le famigerate élites possono battere i populisti misurandosi con i problemi che ne alimentano il consenso, ma affrontandoli a viso aperto e senza rincorrerli sul loro terreno. La seconda è che si è probabilmente avviata una profonda ricomposizione del quadro politico, a sinistra ma non solo, i cui effetti si faranno sentire ben oltre la Francia. La terza è che il confronto per il secondo turno si giocherà sul fronte “nazionalismo-apertura al mondo”; in altri termini principalmente sull’Europa e sull’euro.

La candidata dell’estrema destra ha scelto questo terreno, spostando l’accento dalla sicurezza e l’ostilità all’immigrazione verso le questioni sociali, nella speranza di rompere l’isolamento e ottenere il consenso di ceti popolari ostili alla globalizzazione. È stato un errore strategico: i tradizionali elettori di sinistra sono ancora in maggioranza fedeli ai valori democratici e quelli di destra, anche se insoddisfatti del funzionamento dell’Ue, non vogliono abbandonare l’euro. Il risultato è stato che ha prevalso il candidato più europeista fra tutti quelli presenti. Con l’elezione francese e dopo quella olandese, la minacciosa marea populista che ha invaso l’Occidente negli ultimi tempi ha forse cominciato a regredire.

In Germania, grado d’incertezza inferiore
Le elezioni previste in settembre in Germania presentano un grado d’incertezza inferiore. Avranno certo un effetto sul piano interno, ma non muteranno di molto la politica europea del Paese. Dopo una lunga fase d’immobilismo, l’Europa sarà quindi in grado di ripartire, ma bisogna valutarne realisticamente le prospettive. La ripresa del processo d’integrazione dovrà riguardare vari aspetti, come l’immigrazione e la sicurezza, ma sarà centrata sulla governance dell’euro-zona. Sarà però condizionata da una doppia isteresi dovuta alla difficoltà di rimettere in moto processi a lungo arrugginiti.

La svolta rappresentata da Macron avrà bisogno di tempo per materializzarsi sia nell’applicazione del programma di riforme, sia per l’emancipazione dal tradizionale e sempre radicato sovranismo francese; molto dipenderà dal risultato delle prossime elezioni legislative e dalla possibilità di riunire una maggioranza presidenziale sufficientemente solida. Inoltre la sfiducia reciproca e i pregiudizi accumulati tra Francia e Germania non si dissiperanno facilmente, anche perché negli ultimi anni sono cresciute anche in Germania resistenze verso una maggiore integrazione.

Da Macron lezioni per l’Italia
Molto dipenderà dall’effettiva capacita di Macron di attuare il programma di riforme annunciato e dalle proposte concrete che presenterà a Berlino e agli altri partner. Quali lezioni per l’Italia? Un po’ di lucidità dovrebbe suggerire che sono molto diverse da quelle che sembra trarne Matteo Renzi.

Con la Francia che esce dallo stallo e la Spagna che continua la sua traiettoria positiva, non ha più nessun senso parlare di frattura Nord/Sud. Per prima cosa dovremmo convincerci che esiste ormai uno specifico problema italiano, politico ed economico. Ne consegue che nulla potremo ottenere senza la garanzia di una stabilità politica e della ripresa del processo di riforme interne.

In secondo luogo, l’Italia fa bene a mantenere la sua bussola federalista. Tuttavia la ripresa del processo d’integrazione non dipende da un grande rivolgimento del modello istituzionale. Chi continua a sostenere questa ipotesi ottiene solo il risultato di denigrare ulteriormente l’Europa che c’è a beneficio esclusivo dell’euroscetticismo dei populisti. Non ha dunque senso accarezzare fantasie palingenetiche come l’elezione diretta di un presidente, o la convocazione di un’assemblea costituente sul modello di quella americana di Filadelfia.

Il funzionalismo, cioè l’idea che le istituzioni si adattano alla soluzione dei problemi e non viceversa è connaturato alla politica. Gli stessi ex coloni americani fecero Filadelfia per risolvere un problema concreto: la fragilità della struttura confederale di fronte alle ingerenze rapaci delle grandi potenze europee. Lo fecero creando inizialmente un minimo di centralizzazione; poi ci vollero 33 emendamenti e una guerra civile per arrivare gradualmente alle istituzioni federali che conosciamo.

Tutti concordano che ci vuole più legittimità e capacità d’azione politica nell’Ue. Tuttavia il termine “unione politica” così spesso declamato in Italia evoca l’araba fenice di mozartiana memoria: “che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”. Perché la discussione possa divenire concreta, bisognerebbe chiarire almeno due cose: una larga disponibilità a consentire importanti condivisioni di sovranità e la possibilità di trovare una sintesi convincente fra la concezione tedesca di “governo delle regole” (esecutivo limitato e Parlamento forte) e quella francese di “governo del Principe” (esecutivo forte con grande potere discrezionale). Gli stessi interrogativi si pongono anche per un “governo economico” dell’euro-zona, ipotesi più limitata e realistica che Macron ha adombrato nel suo programma.

Sognare la fine dell’austerità
Il terzo errore sarebbe di credere che il nuovo contesto potrà finalmente segnare “la fine dell’austerità”. Prima di tutto, perché l’Italia non ne è mai stata vittima e il nostro grave ritardo nella ripresa economica e occupazionale è prevalentemente dovuto a fattori domestici. Contrariamente alla vulgata prevalente, nel relativo immobilismo che ha caratterizzato il dibattito europeo, l’Italia ha potuto beneficiare largamente della supplenza della Bce nel compensare i vuoti della politica e di una larghissima flessibilità nella gestione dei conti pubblici concessa dalla Commissione (gli abominevoli euroburocrati).

Questa situazione è malsana e non può durare. Da un lato genera crescente insofferenza in Germania e in altri Paesi e contribuisce a diminuire la credibilità della Commissione. Dall’altro, non ha contribuito a risolvere i problemi italiani e forse ha addirittura contribuito al rilassamento della pressione per le riforme. Peggio, l’abuso dello scudo europeo è stato accompagnato da un continuo stillicidio di attacchi a Bruxelles che hanno finito per screditare la stessa idea di Europa agli occhi dell’opinione pubblica.

Sia la supplenza della Bce, sia la flessibilità sono però destinate a diminuire. È quindi indispensabile che l’Italia partecipi con autorevolezza a un nuovo dibattito che dovrebbe condurre a un sistema più strutturato di governance dell’euro-zona, probabilmente a partire di una troppo ritardata discussione del rapporto dei “5 presidenti”; quel documento, arricchito da altre proposte fra cui forse anche quella di un ministro del Tesoro dell’area euro, resta comunque una base molto utile. Dobbiamo però essere coscienti che il punto d’arrivo sarà forse un sistema più efficiente e orientato alla crescita, ma anche più intransigente nel controllo dell’applicazione delle regole.

Il quarto errore è credere che la nostra condizione di padre fondatore e di terza economia dell’area euro ci conceda un diritto di veto e ci renda in un certo senso “indispensabili”. Siamo certamente molto importanti e possiamo essere interlocutori ascoltati, ma ci stiamo avvicinando a un momento in cui il ventaglio delle soluzioni possibili è destinato a restringersi.

La comprensibile soddisfazione per la probabile svolta in Francia e la conseguente fine dell’immobilismo, dovrà quindi essere accompagnata da una seria riflessione sulle priorità della nostra politica sia interna sia europea. Immobili, possiamo sognare uno spazio con scelte illimitate; nel momento in cui riprende il movimento, la libertà della fantasia cede il passo alle opzioni più limitate offerte dalla realtà.

Riccardo Perissich, già direttore generale alla Commissione europea, è autore del volume “L'Unione europea: una storia non ufficiale”, Longanesi editore.

Servizio Militare per tutti. Obbligatorio.

Donne e sicurezza internazionale
Svezia: torna il servizio militare universale
Ester Sabatino
18/04/2017
 più piccolopiù grande
Il servizio militare obbligatorio per tutti i giovani di entrambi i sessi nati dal 1999 verrà reintrodotto in Svezia, secondo Paese in Europa dopo la Norvegia a estendere l’obbligatorietà della leva alle donne. Già a seguito della decisione di Oslo, Stoccolma aveva paventato la possibilità di reintroduzione della legge in vigore fino al 2010 (ma all’epoca solo per gli uomini) per la riattivazione del servizio militare obbligatorio.

La legge che poneva fine alla coscrizione obbligatoria prevedeva infatti la possibilità di reintroduzione della leva in caso di condizione deficitaria delle Forze Armate e della sicurezza in Svezia. Si tratta comunque di una decisione significativa per un Paese la cui politica militare è improntata alla neutralità.

Lo stato delle Forze Armate
Nel 2015 il governo aveva promosso una commissione d’inchiesta sulla sostenibilità del servizio militare volontario. Secondo i risultati dell’indagine, le Forze Armate svedesi hanno subito un deficit di arruolamenti di circa 1500 persone l’anno. Se lo scorso 2 marzo il governo non avesse preso la decisione di ripristinare il servizio militare, le riserve si sarebbero esaurite entro il 2025, senza considerare il deficit di personale di alto grado che si sarebbe parallelamente prodotto.

Alla luce dell’esito negativo dell’inchiesta, non è risultata sufficiente la parziale riattivazione della leva per le ex reclute, per condurre prove ed esercitazioni. Sempre secondo lo studio, la Svezia dovrebbe semmai aumentare il numero di personale da inserire nell’esercito - attualmente vi è un bisogno di circa 4000 reclute all’anno fino al 2019 - fino ad arrivare a 8000 tra uomini e donne nel periodo 2022-2025.

Come per il caso norvegese, la Svezia terrà conto, al momento della selezione dei 4000 giovani che inizieranno l’addestramento dalla metà di quest’anno, non solo dell’effettiva capacità fisica dei singoli, ma anche della volontà degli stessi di intraprendere una carriera nell’esercito, con l’intento di coadiuvare le esigenze delle Forze Armate con quelle della fascia di popolazione chiamata.

Il ministero della Difesa dovrà certamente tenere in considerazione il livello di paga medio che un giovane lavoratore potrebbe guadagnare qualora decidesse di rimanere nell’esercito. Infatti, ad oggi in Svezia la retribuzione media di un giovane soldato è più bassa di quella di un lavoratore medio della stessa fascia d’età con un impiego civile.

Un più basso livello di retribuzione rappresenta un disincentivo per i giovani che si trovano a dover decidere, dopo il periodo di addestramento obbligatorio, se continuare in armi o meno, con la conseguenza che le posizioni di rango superiore potrebbero non essere coperte adeguatamente.

La militarizzazione dell’isola di Gotland
La decisione di reintrodurre la coscrizione universale arriva a poca distanza da quella relativa alla militarizzazione dell’isola di Gotland. La disposizione del governo è stata annunciata al vertice Nato di Varsavia del luglio 2016 - al quale la Svezia, che dell’Alleanza non è membro, ha partecipato per invito - e prevede lo stanziamento permanente di un battaglione meccanizzato sull’isola.

Gotland non è solo l’isola più grande della Svezia, ma anche la più vicina al confine con la Russia e per questo strategicamente importante. Il battaglione, operativo a partire dal 2018, sarà verosimilmente in grado di controllare lo spazio aereo e marittimo, nonché le linee di comunicazione nella parte sud del Baltico.

Secondo quanto affermato dal ministro della Difesa Peter Hultqvist ad Oslo lo scorso febbraio, la Svezia sta modificando il proprio apparato di difesa tramite non solo la reintroduzione dell’obbligo del servizio militare, ma anche attraverso modernizzazioni e addestramenti specializzati, come lo stanziamento del battaglione a Gotland. Tutti segnali di risposta alla minaccia percepita da Stoccolma e proveniente dalla Russia.

Sicurezza regionale e neutralità
Nel formulare le raccomandazioni sul personale, Il resoconto della commissione tiene in considerazione motivazioni di sicurezza nazionale e regionale. La modifica dell’atteggiamento svedese in ambito di difesa è stato reso esplicito già con la decisione di qualche mese fa sull’ampliamento del budget dedicato alla difesa del Paese di circa 500 milioni di corone svedesi. Questa decisione è in linea con il trend svedese degli ultimi anni di incremento della spesa per la difesa.

A seguito dell’annessione della Crimea da parte russa, la Svezia, allarmata anche dalla presenza russa nella regione, ha deciso di cambiare la propria postura difensiva. Ad ogni modo, la tradizione di neutralità di Stoccolma non viene intaccata. Neutralità, infatti, non significa impreparazione alla difesa del proprio territorio.

Sebbene membro dell’Ue ma non della Nato, il Paese è considerato un partner affidabile dell’Alleanza transatlantica, con la quale Stoccolma ha incentrato la cooperazione nelle missioni di peace-building peace-keeping in Kosovo e Afghanistan, pur rimanendo il Mar Baltico il principale luogo di interesse per la sicurezza.

Data la sua partecipazione attiva nelle operazioni congiunte, la Svezia rientra in uno dei cinque Enhanced Opportunities Partners, cioè uno dei cinque partner con cui l’Allenza intrattiene rapporti di collaborazione bilaterale privilegiati, dando anche la possibilità al Paese di rendere esplicite le sue esigenze di sicurezza.

La cooperazione internazionale in materia di difesa è per Stoccolma una garanzia di sicurezza e la presenza della Nato nella regione del Baltico risponde non solo alle esigenze dei membri dell’Alleanza prossimi al vicino orientale, ma anche a quelle del partner svedese.

Ester Sabatino è Junior Fellow presso il programma Sicurezza e Difesa dello IAI (@Ester_Sab1).

mercoledì 19 aprile 2017

Un G7 da preparare bene

Verso il Vertice G7
Salviamo l’alleato Trump
Stefano Silvestri
14/04/2017
 più piccolopiù grande
Le 30 pagine del comunicato approvato alla fine del G7 dei ministri degli Esteri si contrappongono all’assenza di accordo finale del G7 dei ministri dell’energia. Questo e altri segnali fanno pensare che il prossimo Vertice del G7, a Taormina il 26 e 27 maggio, potrebbe avere una grande importanza. Poiché molto probabilmente la parte economica dell’incontro sarà molto difficile, assume maggior rilievo la parte politica, che la riunione dei ministri degli Esteri doveva preparare.

Il G7, si diceva, ha perso la sua prominenza da che è stato inventato il G20, dove siedono anche le importantissime nuove potenze e l’Asia conta forse più dell’Europa. Certamente i Sette non possono più pretendere di rappresentare il mondo, o anche solo di poterlo guidare, senza la cooperazione degli altri.

Ma in compenso, da che la Russia è stata esclusa dal Vertice (che da 8 è tornato a 7), questa è nuovamente la riunione tra gli Usa e i loro maggiori alleati: quella in cui il vecchio, ma pur sempre importantissimo, ‘Occidente’ può decidere quali siano i suoi interessi comuni e se ha una strategia unitaria per affermarli.

Ancora alleati?, fin dove e come?
Questa insomma rischia di essere la riunione in cui scopriremo fino a che punto e come siamo alleati con Donald Trump.

Intanto sappiamo che sui dossier energetici non c’è accordo. Abbiamo ancora alcune settimane per vedere se al Vertice riusciremo a fare di meglio, ma tutto fa pensare che potrebbe essere più produttivo occuparsi di altro, a cominciare da quello che è stato discusso al G7 degli Esteri.

Il lungo comunicato contiene cose che piacciono di più agli alleati ed altre che piacciono di più agli americani. Così, ad esempio, i ministri hanno approvato senza riserve l’attacco americano contro la base aerea siriana di Shayat, definendolo “attentamente calibrato, limitato negli obiettivi e rivolto contro siti militari direttamente coinvolti nell’attacco chimico”.

Allo stesso tempo, hanno anche sottolineato più volte l’importanza delle Nazioni Unite e in particolare del Meccanismo investigativo congiunto dell’Onu e dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, che ha più volte accusato il governo siriano di averne fatto uso e che ora è invitato a proseguire nella sua missione di indagine. Peccato che al successivo incontro tra Rex Tillerson e Sergey Lavrov a Mosca, questo tema si sia esaurito in uno sterile muro contro muro.

I paletti di un accordo con Trump
Nel complesso il G7 degli Esteri ha cercato di individuare alcuni paletti di un possibile accordo ‘occidentale’ con Trump. Tralasciamo molti punti che non sembrano contenere novità di grande rilievo e limitiamoci a sottolineare alcuni aspetti di maggiore interesse.

Tutto il comunicato è percorso dalla necessità di dare priorità alla lotta al terrorismo, anche al di là delle sezioni a ciò specificamente dedicate. Semmai una curiosità, che potrebbe nascondere qualche problema politico, deriva dal fatto che a parte il sedicente Stato islamico, cui è dedicata grande attenzione, nel comunicato non si fa mai riferimento diretto ad Al Qaida, neanche quando si tratta di Siria, di Yemen o di Africa, dove pure questa organizzazione terroristica svolge ruoli di rilievo.

Molto esplicite e ripetute sono invece le critiche alla Russia, nei cui confronti si riconferma il mantenimento delle attuali “misure restrittive” (sanzioni), per spingerla a “tornare all’interno di un ordine di sicurezza basato su regole” condivise.

Nel complesso, pur riconoscendo alla Russia di essere un importante protagonista internazionale e di condividere con Mosca molti comuni interessi, quali la lotta al terrorismo e la non proliferazione nucleare, i Paesi del G7 non accettano in alcun modo l’annessione della Crimea e ritengono che la Russia abbia grandi responsabilità sia in Ucraina che in Siria, che non usa come dovrebbe, o di cui, al contrario, abusa.

Poche novità anche per quel che riguarda la Corea del Nord, dove però si riconosce che la sfida lanciata dal regime nord-coreano ha raggiunto nuovi livelli e richiede quindi una “reazione decisa ed efficace”. Poiché sembra impossibile che quel regime si adegui alle richieste di apertura, disarmo e rispetto dei diritti umani avanzate dai paesi del G7, rimane aperta la questione di quale dovrebbe essere la “reazione” di cui sopra.

Più tranquilla la posizione sull’Iran dove si conferma l’importanza dell’accordo raggiunto sul nucleare (che dovrà però essere integralmente attuato) e ci si limita a deplorare i test di missili balistici effettuati da Teheran.

Piuttosto decisa, anche se di tono nettamente diverso rispetto a quello usato con Mosca, anche la reazione alle rivendicazioni marittime cinesi, ad Est e a Sud. Ci si riferisce ad esempio al giudizio emesso dal Tribunale arbitrale il 12 luglio 2016, sfavorevole alle tesi cinesi, come ad una “utile base” per andare avanti pacificamente, e si ribadisce l’opposizione a iniziative unilaterali.

Il comunicato tocca molti altri punti: ad esempio, è interessante una sezione sul cyber (anche se insiste sulla ricerca di regole non obbligatorie), ed è importante una sezione sulla opportunità di rafforzare il sistema Onu di gestione delle crisi. Ma complessivamente questo testo sembra soprattutto voler offrire un ramoscello d’ulivo da parte degli alleati alla nuova Amministrazione americana. Esso suggerisce un possibile compromesso che può consentire all’Occidente di proseguire insieme: salviamo l’alleato Trump (per la nostra stessa tranquillità). Vedremo come andrà a Taormina.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.