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mercoledì 31 maggio 2017

Agroalimentare italiano

Sistema Nutri-Score
Ue: Made in Italy contro etichette francesi
Antonio Scarazzini
29/05/2017
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Mentre è ancora fresco il giubilo europeo per l’avvento alla presidenza francese di Emmanuel Macron, gli ultimi giorni del governo Hollande hanno lasciato eredità che spaventano l’agroalimentare italiano.

Nutri-Score, un sistema di etichettatura d’informazione alimentare lanciato dall’ormai ex ministro della Salute Marisol Touraine, è stato infatti notificato alla Commissione europea il 24 aprile ed entrerà in vigore a partire dal 25 luglio se da Bruxelles non perverranno richieste di modifica.

Le caratteristiche del Nutri-Score
Basato su una scala alfabetica e cromatica a cinque tonalità tra il verde e il rosso per classificare il valore nutrizionale di ogni prodotto, il Nutri-Score si ispira alle cosiddette etichette a semaforo lanciate nel Regno Unito nel 2013. Identica è la base giuridica, il Regolamento Ue 1169 del 2011, che ha infatti modificato la normativa in materia di indicazioni nutrizionali obbligatorie, aprendo alla possibilità di utilizzare «pittogrammi o simboli» per il loro inserimento sulle confezioni.

I due sistemi differiscono in realtà per la loro definizione, l’uno misurando il tenore di grassi, grassi saturi, zuccheri e sodio in rapporto alla porzione, l’altro in base al contenuto per ogni 100 grammi di prodotto. Tuttavia, come già in Gran Bretagna, il coinvolgimento delle principali catene distributive è stato immediato: Intermarché, Leclerc, Auchan eFleury Michon hanno infatti annunciato la conclusione di un’intesa con il ministero francese per l’immediata applicazione in via volontaria del sistema di etichettatura.

In difesa del Made in Italy
La notifica di Nutri-Score ha trovato una pronta e sonora reazione nel mondo dell’agroalimentare italiano. Il timore, come già nel caso dei semafori britannici, è che il sistema di etichettatura finisca per fornire un’indicazione negativa anche a prodotti tradizionali tipici che pure godono di denominazioni di origine protetta.

L’anno scorso furono sei (Spagna, Cipro, Slovenia, Grecia, Portogallo e Romania) i Paesi che appoggiarono l’Italia nell’opposizione alle etichette britanniche, culminata con l’approvazione di una risoluzione del Parlamento europeo proposta dalla Commissione ENVI, guidata sino allo scorso febbraio dall’italiano Giovanni La Via, che invitava a ripensare la validità dell’etichettatura nutrizionale.

Ora l’Italia prova invece a rispondere con una task force presieduta dal ministro degli Esteri Alfano, in cui i ministeri delle Politiche agricole, della Salute e dello Sviluppo economico lavoreranno per la tutela del Made in Italy, con l’intento di spingere la Commissione e il nuovo governo Macron al ripensamento.

In ballo c’è la tenuta delle esportazioni verso un mercato, quello francese, che è secondo per la destinazione dei prodotti agroalimentari italiani dopo la Germania, con un valore di 4,1 miliardi di euro nel 2016. Tra i settori più a rischio per il tipo di indicazione nutrizionale, secondo le stime di Assolatte, vi è quello caseario: un business da oltre 450 milioni di euro in Francia nel 2016, in crescita del 7,5% rispetto all’anno prima e che nel febbraio 2017 ha fatto segnare un +9,6% rispetto allo stesso periodo nel 2016.

I timori delle associazioni di categoria hanno una base fattuale, come rilevato da uno studio del think tank Nomisma pubblicato nella primavera del 2016: dal dicembre 2013, cioè dall’introduzione dei semafori nella grande distribuzione britannica, al settembre 2015 prodotti italiani DOP come il Parmigiano Reggiano o il Prosciutto di Parma avevano perso il 13% ed il 14% delle vendite. Le grandi federazioni dei produttori italiani (Federalimentare, Confagricoltura e Coldiretti in primis) fanno quindi scudo comune per chiedere regole europee uniche ed evitare distorsioni di mercato.

Geopolitica del food
La difesa degli interessi dell’agroalimentare non è una novità per il governo italiano: non è mistero che il tiepido supporto del governo Renzi alle sanzioni contro la Russia per le aggressioni in Ucraina sia da addebitarsi anche ai malumori dei produttori italiani che, secondo stime Coldiretti, avrebbero perso circa 850 milioni di export.

Non stupisce, infatti, che la stessa federazione degli agricoltori abbia plaudito al recente incontro tra Putin e Gentiloni, auspicando un pronto disgelo tra i due Paesi. Favorito, perché no, dalla forte ascesa all’interno del Partito democratico del ministro per l’agricoltura Maurizio Martina. Spetterà anche a lui, inoltre, sorvegliare l’avvio dei negoziati per la Brexit, con 3,2 miliardi di export alimentare italiano che potrebbe venire penalizzato da altre iniziative simili al semaforo introdotte dalla Gran Bretagna al di fuori del mercato unico.

Da ultimo, alla bagarre sulle etichette si aggiunge anche un’iniziativa non governativa: sei grandi multinazionali del settore, Coca-Cola, Mars, Mondelez, Nestlé, PepsiCo e Unilever, stanno infatti mettendo a punto un proprio sistema di etichette per i mercati europei, che faranno riferimento ai nutrienti presenti per ciascuna porzione anziché in 100g, con l’intento di contribuire al controllo dei comportamenti alimentari scorretti. Un cambio di tattica rispetto al 2013, quando le majors dell’alimentare si scagliarono contro il sistema di etichettatura britannico, che rischia di prendere in contropiede i piccoli produttori italiani.

Antonio Scarazzini è direttore di Europae – Rivista di Affari Europei.

martedì 30 maggio 2017

Roma: Prospettive positive verso la Cina

Al Forum di Pechino
Nuova Via della Seta: Italia fra porti e investimenti
Lorenzo Bardia
25/05/2017
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Con il viaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella in Cina nel febbraio scorso e la recente partecipazione del premier Paolo Gentiloni al Belt and Road Forum for International Cooperation di Pechino, torna al centro dell’interesse italiano la nuova Via della Seta, la strategia di sviluppo promossa da Pechino volta a stimolare gli scambi commerciali, gli investimenti e la costruzione di infrastrutture nel territorio euroasiatico.

L’iniziativa, lanciata dal presidente cinese Xi Jinping all’inizio del suo mandato e articolata in Silk Road Economic Belt sul piano terrestre e in Maritime Silk Road sul piano marittimo, vede infatti nell’Italia la destinazione ideale di investimenti e potenziali infrastrutture. Quali saranno quindi le sfide che nei prossimi anni l’Italia dovrà affrontare?

Da Shanghai a Venezia 
Nel settore infrastrutturale, la penisola si prepara ad accogliere i flussi della Maritime Silk Road con il progetto dei “cinque porti”, l’alleanza tra cinque dei maggiori scali del Nord Adriatico pianificata dalla North Adriatic Ports Association (Napa).

Il consorzio interesserà le strutture portuali italiane di Venezia, Trieste e Ravenna e i porti di Capodistria, in Slovenia, e di Fiume, in Croazia, con l’obiettivo di attrarre le navi cargo cinesi che percorreranno il Mediterraneo attraverso il Canale di Suez e indirizzarle fino a Malamocco, località marittima nei pressi di Venezia dove è prevista la costruzione di una piattaforma off-shore.

Se la tratta Shanghai-Amburgo è lunga 11 mila miglia, il viaggio necessario per collegare Shanghai al Mar Adriatico del nord sarebbe di circa 8.600 miglia, con un tempo di percorrenza inferiore di 8 giorni rispetto al porto tedesco. Una volta operativo, il complesso portuale dovrebbe quindi essere in grado di gestire tra 1,8 e 3 milioni di TEU all’anno; numeri importanti, se consideriamo che, ad oggi, la totalità dei porti italiani può gestire fino a 6 milioni di TEU l’anno.

Il flusso di capitali cinesi
Come ha però sottolineato Xi nel discorso di apertura del Forum, nell’iniziativa non rientrano soltanto progetti di “infrastructure connectivity”, ma anche gli investimenti. In Italia si conta infatti che gli investimenti diretti esteri provenienti dalla Cina, nel periodo 2000-2016, si aggirano intorno ai 13 miliardi di euro, cifra che fa della penisola il terzo Paese europeo – dopo Regno Unito e Germania – destinatario dei flussi di capitali cinesi.

Tuttavia, è a partire dal 2014, pochi mesi dopo la proposta di Xi, che il cambio di passo della strategia cinese è diventato evidente. La People’s Bank of China ha rilevato il 2% di alcune tra le più grandi industrie italiane: Fiat Chrysler Automobiles, le partecipate Eni ed Enel e, nel campo delle telecomunicazioni, Telecom Italia e Prysmian, per un investimento totale di 3,2 miliardi di euro. Nel settore energetico, ricordiamo l’acquisizione da parte di Shanghai Electric del 40% di Ansaldo Energia, per un esborso totale di 400 milioni di euro, seguita dall’acquisto da parte di State Grid Corporation of China del 35% di Cassa Depositi e Prestiti Reti per 2,1 miliardi di euro.

Il 2015 si è aperto con la People’s Bank of China che, complice il periodo del sistema bancario italiano, ha rilevato il 2% di UniCredit, Monte dei Paschi di Siena e Intesa Sanpaolo, ed è terminato con la più grande operazione registrata fino a questo momento, la scalata per il controllo di Pirelli da parte di Chem China, per un totale di 7 miliardi di euro.

Tra gli investimenti, la Cina ha di recente iniziato a guardare al calcio. Dopo il passaggio di proprietà dell’Inter, che nel giugno 2016 è diventata asset del gruppo Suning, è di aprile la notizia della vendita da parte di Fininvest del Milan, rilevato dalla cordata guidata dall’uomo d’affari Yonghongh Li. Infine, sempre del mese scorso è la cessione da parte di Atlantia del 5% del capitale di Autostrade per l'Italia al Silk Road Fund.

L’Italia nella strategia di Pechino
Diverse sono le ragioni che hanno condotto in Italia il flusso di investimenti cinesi: il Paese è infatti la seconda manifattura d’Europa, con settori altamente all’avanguardia ed eccellenze che possono, con il loro alto know-how, aiutare lo sviluppo delle industrie cinesi. In secondo luogo, è chiara la volontà di Pechino di porsi nel mercato italiano come attore non aggressivo, ma partner presente e affidabile; in tale direzione vanno interpretate le acquisizioni cinesi di quote delle principali società italiane ma soprattutto i recenti passaggi di proprietà delle società calcistiche Inter e Milan.

Se, quindi, nei prossimi anni si prevede un incremento dei flussi per gli investimenti cinesi, è il piano infrastrutturale a vivere una situazione di incertezza. Il progetto dei “cinque porti”, a quattro anni dal lancio della Belt and Road Initiative, è ancora fermo alla fase di pianificazione: al momento sono stati stanziati per l’inizio dei lavori 350 milioni di euro da parte del governo, a fronte di un costo stimato di 2,2 miliardi di euro.

L’Italia sconta da una parte la concorrenza del porto del Pireo, per il quale la China Ocean Shipping Company già a partire dal 2008 ha investito più di 4,3 miliardi di dollari. Da allora, la capacità del porto greco è quadruplicata ed ha raggiunto nel 2015 un traffico di 3,36 milioni di TEU.

Dopo il Forum di Pechino e il Congresso del Partito comunista cinese di quest’anno, molti dei progetti della nuova Via della Seta entreranno nella fase di realizzazione: tocca ora all’Italia coglierne le potenzialità e non lasciare che la “win-win cooperation” evocata da Xi resti un’occasione mancata.

Lorenzo Bardia è assistente alla ricerca dell’area Asia dello IAI.

giovedì 25 maggio 2017

Taormina: opportunità sostanziali

Presidenza italiana
G7 all’italiana, un’occasione da non perdere
Simone Romano
02/11/2016
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Maggio 2017. Questo l’appuntamento per il quarantatreesimo summit del gruppo dei Sette, meglio noto come G7. I capi di Stato e di Governo che si riuniranno nel vertice si troveranno davanti una situazione tutt’altro che semplice da diversi punti di vista.

Ai problemi economici strutturali e di lungo periodo, quali una crescita sempre più anemica della produttività e la carenza ormai endemica di domanda aggregata, si vanno ad aggiungere problemi nuovi, come l’incertezza politica e finanziaria dovuta alle delicate elezioni in Francia e Germania, all’avvio del processo di uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, Ue, e alle crisi geopolitiche, prima fra tutte quella siriana.

Il compito di scegliere i temi al centro del prossimo summit che si prospetta innanzi alla presidenza italiana diviene così tanto fondamentale quanto arduo. La speranza è che ci si concentri sulle questioni comuni che sono alla base di questi molteplici problemi, senza focalizzarsi su ognuno di essi in modo singolo, ricercando soluzioni concrete ed effettive di lungo periodo, non solo palliativi di breve periodo, per quanto urgenti e necessari.

L’economia globale cresce meno del suo potenziale
Il quadro macroeconomico globale che emerge dai recenti annual meeting tenuti a Washington dal Fondo monetario internazionale, Fmi, è, a dir poco, scoraggiante. Alla perdurante recessione seguita alla crisi del 2008, non ha fatto seguito il “rimbalzo” sperato ed è ormai chiaro che l’economia globale stia crescendo al di sotto del suo potenziale da troppo tempo. Inoltre, le stime negli ultimi semestri sono state costantemente e ripetutamente riviste al ribasso.

Le risposte politiche messe in campo sino ad ora non hanno sortito gli effetti sperati ed è per questo che, ormai da mesi, gli esperti del Fmi sollecitano l’adozione di un mix di politiche economiche potente che faccia leva non solo sulla politica monetaria, ma usi anche gli strumenti fiscali e completi le riforme strutturali.

Il messaggio che viene lanciato da Washington è che non si può più aspettare: bisogna agire in fretta e in modo deciso, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione. Questo perché la stagnazione economica, che coinvolge la maggior parte delle economie mature ormai da lunghi anni, ha creato le condizioni perfette per la crescita del malcontento e della sfiducia, concretizzatisi poi nell’ascesa di movimenti populisti e xenofobi in Europa e nella storica decisione presa dai cittadini britannici di abbandonare l’Ue.

Anche negli Stati Uniti la recente campagna elettorale ha evidenziato come il malcontento popolare, critico delle élite e del sistema politico attuale, sia cresciuto in modo preoccupante.

Occorre dunque che i governi facciano ricorso sì a tutte le armi a loro disposizione per risollevare al più presto la situazione economica globale, allo stesso tempo però le dinamiche descritte esprimono con forza la necessità sempre più urgente di una riflessione che vada al di là dei rimedi di breve e medio periodo, concentrandosi sulle cause ultime che hanno reso questo periodo così difficile e delicato a livello economico, politico e sociale.

Crescente sperequazione nella distribuzione delle risorse e pessimismo diffuso
Come aveva già fatto notare Carlo Cottarelli nel suo intervento ad un convegno IAI, il problema fondamentale da risolvere riguarda la sperequazione nella distribuzione dei redditi e della ricchezza. Tale fenomeno si è venuto ingigantendo dagli anni ‘80 ad oggi, creando delle vere e proprie fratture sociali all’interno delle quali sono proliferate la sfiducia nelle élite, nelle istituzioni e nella classe politica.

Una distribuzione sempre più iniqua del reddito non è solo un problema etico e di uguaglianza, ma è un problema economico reale che è alla base di molte delle problematiche attuali. La dinamica che ha lentamente concentrato il reddito nella parte più ricca della popolazione ha colpito maggiormente la classe media, spina dorsale delle economie di mercato più mature, facendone crollare i consumi e con essi la domanda aggregata, con i conseguenti problemi di disoccupazione ormai tipici di molte economie europee.

Questa crescente disuguaglianza, insieme con la crisi e la lunga recessione, ha comportato la perdita di fiducia nella maggior parte della popolazione, che guarda ora al futuro con timore e non più con speranza. Questo spiega perché, anche in un periodo di tassi di interesse a zero e di prezzi in stallo da tempo, i consumi e gli investimenti non diano alcun segnale di ripresa.

Creare attraverso la politica monetaria le condizioni per un rilancio dei consumi e degli investimenti privati senza ridare risorse e fiducia alle famiglie e alle piccole e medie imprese è una strategia sterile, come d’altronde hanno pienamente dimostrato gli ultimi anni.

La presidenza italiana tra breve e lungo periodo
Considerando la difficoltà della situazione attuale a livello economico, politico e sociale, la presidenza italiana dovrebbe mirare sia a favorire soluzioni efficaci e concrete di breve periodo, quantomai urgenti, sia, nel contempo, a mettere l’accento sui problemi strutturali di lungo periodo.

In entrambi i casi sarà fondamentale che il governo italiano insista nel promuovere un approccio condiviso a livello internazionale. Il coordinamento delle politiche economiche, soprattutto in seno a un forum più ristretto e omogeneo quale quello del G7, è assolutamente irrinunciabile: pensare di risolvere problemi globali con approcci nazionali sarebbe quantomeno miope e non c’è davvero più tempo da perdere.

Simone Romano è ricercatore dello IAI.

martedì 23 maggio 2017

Italia: il 2% del PIL alla Difesa

Bilanci della difesa
Nato: Vertice, verso roadmap per 2%
Ester Sabatino, Paola Sartori
20/05/2017
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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump parteciperà al Vertice della Nato a Bruxelles il 25 maggio. L’incontro sarà il primo tra il nuovo presidente Usa e tutti i leader dei Paesi membri dell’Alleanza atlantica.

Trump intende riproporre le richieste americane per una maggiore partecipazione degli alleati alla ripartizione degli oneri (burden-sharing). Lo scorso mese il segretario di Stato Rex Tillerson ha chiesto ai Paesi della Nato di formulare una road map per raggiungere il livello di spesa del 2% del Pil, road map da discutere proprio nel prossimo Vertice alleato.

Il tema della ripartizione degli oneri - ovvero il raggiungimento della soglia di spesa per la difesa del 2% del Pil - sarà quindi argomento di confronto il 25 maggio, insieme a quelli di una maggiore assunzione di responsabilità e della definizione delle modalità di lotta al terrorismo.

I limiti di un target solo quantitativo
Nonostante il target del 2% abbia assunto un ruolo di primo piano nel dibattito attuale sulla difesa europea e transatlantica, questo parametro va comunque valutato con cautela per una serie di ragioni.

Innanzitutto, la difficoltà di applicare i parametri Nato alle diverse contabilità nazionali rende problematica una comparazione coerente e precisa delle effettive spese nazionali per le Forze Armate.

Inoltre, il riferimento al 2% fornisce una fotografia parziale delle capacità di difesa di un Paese.Questo parametro, infatti, non tiene conto di prontezza operativa, capacità di dispiegamento e sostenibilità delle Forze Armate. Inoltre, non fornisce indicazioni rispetto alla ripartizione delle spese all’interno dei bilanci nazionali, non valutando qualità ed efficienza degli investimenti.

Infine, il legame diretto con il Pil - che varia considerevolmente tra gli Stati membri - rende questo target poco sostenibile nel lungo periodoper alcuni Paesi. Ad esempio, la Germania dovrebbe sostenere una spesa di oltre 70 miliardi per raggiungere il 2% del proprio Pil.

Il quadro europeo
In Europa solamente Estonia, Grecia, Polonia e Regno Unito rispettano questo target; gli altri Stati se ne discostano, nonostante negli ultimi anni si registri una tendenza verso un aumento generale delle spese per la difesa.

Analizzando i piani di spesa relativi all’anno corrente, in Europa solamente Finlandia, Grecia e Romania hanno previsto, nelle rispettive leggi finanziarie, delle diminuzioni di spesa. Tutti gli altri hanno invece proposto aumenti che, in alcuni casi, raggiungono le due cifre percentuali.

Più nello specifico, Paesi come Francia e Germania sono ancora lontani dal raggiungimento della soglia. Parigi spenderà circa 40.3 miliardi nel 2017, circa l’1,8% del Pil nazionale. La percentuale include però anche la spesa per le pensioni - attorno ai 7,82 miliardi - che incide positivamente sulla proporzione con il Pil.

Berlino, per contro, che pure ha stanziato per il 2017 un aumento corrispondete a circa l’8% rispetto al budget della difesa del 2016, è ancora all’1,2% del Pil nazionale, prevedendo di raggiungere la soglia del 2% entro il 2024. Le prossime elezioni potrebbero però influenzare le tempistiche previste.

Il contesto italiano
In un quadro europeo generalmente positivo, anche l’Italia sembra seguire questo trend. Secondo il rapporto Nato pubblicato a marzo 2017, la spesa militare è aumentata tra il 2015 e il 2016, passando da 17,642 a 19,980 miliardi. Quest’incremento, che equivale ad un aumento del 10%, fa crescere la percentuale di spesa per la difesa in rapporto al Pil, dall’1,01% all’1,11%. Questi dati vanno tuttavia ridimensionati e valutati alla luce di due precisazioni.

In primo luogo, le cifre Nato includono anche la Funzione Sicurezza e Difesa del Territorio (Carabinieri), le Funzioni Esterne, e le pensioni provvisorie del Personale in Ausiliaria. Una valutazione più accurata dovrebbe considerare la Funzione Difesa unitamente alle spese relative agli investimenti stanziati dal MiSE, le risorse per il fondo missioni internazionali e una minima parte della Funzione Difesa e Sicurezza del Territorio relativa alle missioni Difesa e Polizia Militare dei Carabinieri.Secondo questa logica la spesa italiana per le Forze Armate nel 2016 si assesterebbe sui 17 miliardi, pari a circa l’1% del Pil nazionale.

In secondo luogo, considerando nello specifico la Funzione Difesa, l’aumento registrato tra il 2015 e il 2016, da 13.186 milioni a 13.360 milioni, è in realtà riconducibile all’incremento dei costi per il personale e solo marginalmente alla voce esercizio. Inoltre, le previsioni per le risorse destinate alla Funzione Difesa nel 2017 prevedono un lieve calo rispetto all’anno precedente, da 13,36 a 13,212 miliardi. Questo riduzione, nonostante un concomitante aumento degli investimenti MiSE - che nel 2017 dovrebbero assestarsi attorno ai 2,7 miliardi -, condurrebbe ad un ulteriore allontanamento del bilancio della difesa nazionale dal target del 2%.

L’importanza politica del 2% e l’Italia
Nonostante le sue limitazioni è importante sottolineare come questo target rimanga un valido punto di riferimento in termini politici. In questo senso, l’obiettivo del 2% ha valore programmatico e costituisce uno stimolo se non ad aumentare le risorse quantomeno ad arrestare i tagli. In effetti, esso fornisce una sorta di obbligazione esterna per i governi che spesso faticano a giustificare le spese per la difesa di fronte alle proprie opinioni pubbliche.

Anche nel caso italiano, benché questo parametro non valorizzi l’impegno nazionale in termini di prontezza operativa e partecipazione alle iniziative Nato, costituisce comunque un impegno politico sottoscritto in ambito alleato. È importante, quindi che anche l’Italia mostri la volontà di invertire la rotta attraverso l’elaborazione di una road map credibile e sostenibile nel lungo termine. Proprio il Vertice di Bruxelles potrebbe essere un buon punto di partenza.

Ester Sabatino e Paola Sartori sono Junior Fellow presso il programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter @Ester_Sab1, @SartoriPal)).

venerdì 19 maggio 2017

Taormina: il vertice

Presidenza italiana
G7: Trump, ‘gran finale’ di prima missione 
Giampiero Gramaglia
15/05/2017
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Il Vertice del G7 a Taormina sarà, per Donald Trump, il ‘gran finale’ della sua prima missione all’estero da presidente degli Stati Uniti. Il viaggio comincerà fra una settimana in Arabia Saudita e proseguirà – il 22 e 23 maggio - in Israele e nei Territori palestinesi. La mattina del 24, Trump sarà in Vaticano e a Roma e incontrerà Papa Francesco e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella – è quello che il consigliere per la Sicurezza nazionale H.R. McMaster ritiene “un omaggio al popolo italiano”.

Fascino per gli uomini forti
Basta uno sguardo all’agenda del presidente statunitense per rendersi conto dell’incertezza e dell’imprevedibilità delle relazioni internazionali dell’attuale Amministrazione.

Il viaggio di Trump - la mappa del tour presidenziale

Prima di partire, Trump incontrerà, questa settimana a Washington, il presidente turco RecepTayyipErdogan, uno degli uomini forti – come il presidente egiziano Abd al-Fattahal-Sisi, già ricevuto alla Casa Bianca – per cui mostra una certa fascinazione. Si sono raffreddati, invece, gli entusiasmi per il presidente filippino dai modi spicci Rodrigo Duterte, che fa sapere che potrebbe non andare negli Stati Uniti perché ha “troppi impegni”.

Il primo faccia a faccia col presidente russo Vladimir Putin non è invece stato ancora annunciato: reso più ostico dal colpo di freno al miglioramento dei rapporti tra Washington e Mosca legato al Russia-gate sul fronte interno e alla Siria su quello esterno, l’incontro potrebbe avvenire a margine del G20 di Amburgo a luglio, anche se un anticipo non è escluso, almeno secondo fonti di stampa russe.

Il percorso in Medio Oriente
Prima tappa della prima missione all’estero di Donald Trump sarà, dunque, l’Arabia Saudita: scelta che suscita subito sorpresa e interrogativi, perché si tratta sì di un tradizionale alleato degli Stati Uniti, ma anche di un Paese dal ruolo non limpido nella lotta contro il terrorismo e divisivo nella regione, nella chiave del persistente confronto tra le monarchie sunnite e il regime teocratico sciita iraniano, che si riflette anche nelle situazioni in Iraq e in Siria, oltre che nel conflitto nello Yemen.

Ma la tappa più attesa nella regione è quella tra Israele e Palestina; un passo – per alcuni esperti – verso la nuova iniziativadi pace degli Stati Uniti per la soluzione del conflitto israelo-palestinese annunciatada Trump il 3 maggio scorso, dopo aver ricevuto il presidente palestinese Abu Mazen. L’iniziativa, che pareva azzardata, improvvisatae in contrasto con l’approccio apertamente filo-israeliano fino ad allora tenuto dalla sua Amministrazione, potrebbe dunque concretizzarsi.

I palestinesi anzi cavalcano - e forse mettono alla prova - la disponibilità statunitense, prospettando addirittura nell’occasione un vertice a tre. Gli israeliani sono più riservati e fanno sapere che Trump, appena sbarcato in Israele, andrà al Muro del Pianto con la figlia Ivanka e il genero Jared Kushner, entrambi ebrei religiosi – Kushner è pure suo consigliere per il Medio Oriente -. Non si attendono, invece, sviluppi nel tormentone dello spostamento dell’ambasciata degli Usa a Gerusalemme.

Cruciale nella missione potrebbe diventare il discorso che Trump farà alla Rocca di Masada, antica e fascinosa fortezza ebraica sul Mar Morto: il discorso di Masada starà alla politica mediorientale dell’Amministrazione Trump come il discorso del Cairo del 4 giugno 2009 stette a quella dell’Amministrazione Obama. Resta da vedere se, contrariamente a quello di Obama, sarà poi seguito da fatti concreti.

A Bruxelles tra Ue e Nato
Nel pomeriggio del 24, Trump sarà a Bruxelles, dove sarà ricevuto da re Filippo nel Palazzo Reale, nel cuore della capitale belga. Il 25, il presidente americano incontrerà nell’Europa Building i leader delle istituzioni Ue, specie il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. A seguire, Trump parteciperà al Vertice Nato: un’occasione per riaffermare l’importanza dell’Alleanza, che da obsoleta è ora ritenuta essenziale nella lotta contro il terrorismo, ma anche per ribadire che i partner devono fare di più – leggi, pagare di più – per la sicurezza comune.

La tappa di Bruxelles è segnata, in qualche misura, almeno nella sua preparazione, dal fatto che, durante i suoi primi cento giorni, ormai abbondantemente superati, Trump s’è ‘dimenticato’, o ha semplicemente trascurato, di nominare i rappresentanti permanenti degli Stati Uniti presso la Ue e la Nato. Alla Nato, l’ambasciatore Douglas Lute, un ex generale nominato da Barack Obama e insediatosi nel 2013, ha lasciato la guida della delegazione all’incaricato d’affari Earle Litzenberger. All’Ue, l’ambasciatore Anthony Gardner s’è dimesso a gennaio e la Rappresentanza è attualmente retta dall’incaricato d’affari Adam Shub.

S’era parlato, all’Ue, di Ted Malloch, uno che dovunque spara a zero contro l’Unione e l’euro, suscitando reazioni piccate al Parlamento europeo e nelle capitali dei 27. In una lettera pubblicata dalla rivista londinese ‘The Parliament Magazine’, Malloch sostiene che l’Ue “è diventata non democratica, gonfia di burocrazia e di anti-americanismo rampante”; e afferma che “gli Usa dovrebbero praticare con l’Europa maggiore commercio bilaterale e dichiarare la propria ferma opposizione a un’Europa federale, dicendo un preciso ‘no’ a un unico euro-governo”. E, prima, intervistato da ‘Der Spiegel’, Malloch aveva definito l’euro “un esperimento imperfetto” – “se sedessi al tavolo d’una banca d’investimenti, ci punterei contro” – e la Brexit la prima di altre uscite. Perchégli Usa devono “collaborare in bilaterale coi singoli Stati Ue”? Perché così “ci troveremmo in vantaggio”.

Un G7 ‘gente che va, gente che viene’
Il giorno dopo, il presidente raggiungerà la Sicilia, dove, a Taormina, si svolgeranno i lavori del G7. Fra i temi controversi, la libertà degli scambi – un valore che l’Amministrazione Trump subordina all’interesse commerciale degli Stati Uniti – e il rispetto degli accordi di Parigi del 2015 sul clima, per rallentare il riscaldamento globale.

Sui cambiamenti climatici, le ultime indicazioni sono che gli Stati Uniti non prenderanno posizione fin dopo il G7: “Il presidente continuerà ad ascoltare i pro e i contro”, sul rispetto o meno dell’accordo di Parigi, per arrivare a definire “quel che è il miglior interesse degli Stati Uniti”, fa sapere il suo portavoce Sean Spicer. Un modo anche per evitare che Taormina si trasformi in una ‘sfida all’Ok corral’ ambientale.

Un Vertice degli esordienti – ben quattro, oltre a Trump il presidente francese Emmanuel Macron, la premier britannica Theresa May e il padrone di casa e presidente di turno, il premier italiano Paolo Gentiloni – e, nello stesso tempo, di leader che potrebbero essere alla loro ultima esperienza: la May l’8 giugno e Gentiloni tra l’autunno e la primavera sono attesi da scadenze elettorali, come pure l’indiscussa decana di questi Vertici, Angela Merkel – il 23 settembre.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.

sabato 13 maggio 2017

L'Italia efficente al lavoro

Presidenza italiana 
G7: a Taormina ancora senza Putin
Ugo Tramballi
11/05/2017
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Stringendo fra le sue mani quelle di George W. Bush e Vladimir Putin, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, annunciò al mondo la fine della Guerra fredda. Era il 2002, al vertice Nato-Russia di Pratica di Mare.

In realtà, la Guerra fredda era finita da oltre un decennio. Non Berlusconi, entusiasta di natura, né gli altri partner di quel vertice potevano immaginare che entro un altro decennio sarebbero tutti tornati a qualcosa di simile a una seconda Guerra fredda.

Guerra fredda, capitolo due
Sul “what went wrong” gli analisti, e con una certa fretta anche alcuni storici, hanno già scritto pagine e pagine. In genere, il giudizio è di parte: fu colpa degli americani, è colpa dei russi; difficile trovare posizioni intermedie, spesso nemmeno fra le diplomazie coinvolte. La differenza è anche sull’uso dei tempi: furono le amministrazioni Clinton e Bush junior a umiliare la Russia in declino, rifiutando di riconoscerne la vocazione imperiale (seguì poi la relegazione a “potenza regionale” di Barack Obama); è il comportamento revanscista e vetero-imperialista di Putin a rendere oggi l’Europa e il mondo più instabili.

La verità, se ne esiste una, è probabilmente nel convergere delle due tesi: entrambe riflettono il reale andamento della storia e delle cronache. Un Paese i cui interessi incominciano al confine ucraino e finiscono nelle isole Curili difficilmente può essere considerato una potenza regionale: è giusto trattarlo con rispetto perché se non ha più mezzi economici da superpotenza, ne possiede ancora gli arsenali nucleari.

Allo stesso tempo, l’annessione armata della Crimea e le violazioni russe degli accordi legati al nucleare (l’ultima riguarda il trattato Inf sulle forze nucleari a medio raggio in Europa) hanno spazzato ciò che restava della sicurezza collettiva continentale. Per i comportamenti di Putin non c’è più un ordine internazionale: un Congresso di Vienna, una Yalta, una Helsinki cui riferirsi per risolvere i problemi prima che diventino crisi.

Le sensibilità dei Grandi verso Mosca
Fino a che una delle due parti o miracolosamente entrambe non decidono di tornare a un punto zero (la parola “reset” porta male), fino a che russi e americani non rinunciano ad accusarsi fra chi ha cominciato per primo e chi ne ha approfittato dopo, Vladimir Putin non sarà a Taormina e il G7 continuerà a essere solo G7. Era diventato G8 nel 1998, quando l’impero benevolente di Clinton sembrava non conoscere tramonti; è tornato G7 nel 2014, quando, rivendicando diritti sull’Ucraina, Putin ha svelato definitivamente la sua ambizione di ripristinare una versione leggermente più moderna della sfera d’influenza sovietica sull’Europa orientale.

Esiste un certo paradosso nell’assenza causa-sanzioni della Russia all’incontro di Taormina. Osserviamo i Paesi del G7. Francesi, tedeschi e italiani fanno a gara nel dichiarare con più convinzione la loro amicizia per Mosca e nel mostrare rassegnata ostilità per sanzioni economiche che sembrano quasi subire di dover imporre.

Con la presidenza Trump, mai gli Stati Uniti sono stati così poco ostili alla Russia: fra Fbi, Cia e Campidoglio, la storia è ancora tutta da raccontare. Il Canada di Justin Trudeau è sostanzialmente agnostico sulla materia, se non sono minacciati i suoi interessi nell’Artico. Il Giappone ha ben altre preoccupazioni. Solo la Gran Bretagna è convinta della minaccia russa, come il George Smiley di Le Carré lo era dell’esistenza di una talpa di Karla dentro l’MI6.

Quattro dichiaratamente o potenzialmente amichevoli; uno non ostile, quasi amichevole; uno disinteressato; uno solo contro. Eppure, nonostante un’assemblea mai così favorevole, a gennaio il ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha fatto ufficialmente sapere che la Russia avrebbe lasciato “in modo permanente” il G8.

A meno che a Taormina non venga formalizzata la sua uscita, infatti, la partecipazione russa alla struttura del gruppo allargato a otto Paesi era solo congelata. Una porta sbattuta in faccia a tutti, dunque: anche al ministro degli Esteri italiano Angelino Alfano, che aveva esortato una riapertura a Mosca.

Nessuno spazio per un ritorno al G8
Il comportamento russo è forse duro, ma coerente. Al momento non esistono gli spazi per un ritorno nella grande casa del G8, che non è un’istituzione, ma una mega-lobby globale con valori comuni: democrazia e libero mercato. Si possono fare molti distinguo, ma è difficile sostenere che la Russia pratichi con la stessa trasparenza l’una e l’altro.

Quello che a Washington viene considerato il “new normal” delle relazioni internazionali vede una Russia che hackera, disinforma e mesta nei sistemi occidentali, cercando di orientarne le elezioni. Una posizione dichiaratamente ostile alle democrazie rappresentative e di sostegno ai populismi ovunque si formino e abbiano forza per contendere il potere.

In questa forma adulterata di Guerra fredda, probabilmente i russi fanno il loro mestiere. Ma è un mestiere non meno pericoloso per l’Occidente di quanto non lo fosse l’immensa forza militare sovietica di un tempo.

Quegli arsenali la Russia oggi non se li può più permettere. Non è un Paese che rischia il tracollo economico, ma vive una forma di eterna stagnazione. Il Pil americano è superiore ai 18mila miliardi di dollari, quello russo è di circa 1,3. Le Forze Armate americane contano un milione e 400mila donne e uomini, le russe 750mila.

Putin non può più permettersi le stesse spese militari dei tempi in cui il barile di petrolio superava i cento dollari. I 65 miliardi recentemente stanziati da Mosca, dollaro più dollaro meno, equivalgono al solo aumento della spesa per la difesa americana previsto da Donald Trump per il 2018.

Come dice Dmitri Trenin del Carnegie Moscow Center, Vladimir Putin è “an autocrat with the consent of the governed”. Sa come stimolare il patriottismo innato dei russi. E se l’hard power necessario per conquistare spazio geopolitico non è più applicabile dispiegando divisioni corazzate e caccia di ultima tecnologia, la Russia usa i mezzi meno costosi, ma forse più efficaci, del web. È per questo che non parteciperà al vertice di Taormina. Ed è per questo che subito dopo l’Occidente dovrà ingaggiarla in un dialogo essenziale per il futuro suo e nostro.

Ugo Tramballi è editorialista del Sole 24 Ore.

mercoledì 10 maggio 2017

Roma: una eccellenza italiana

Migranti
Soccorsi in mare, titanismo dell’Italia
Fabio Caffio
06/05/2017
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L’Italia giganteggia nel Mediterraneo per gli sforzi profusi, in gran parte da sola, nel salvataggio dei migranti e nella loro accoglienza. La comunità internazionale plaude al nostro sacrificio, ma l’Unione europea lo vede come un dissonante approccio alla sicurezza delle proprie frontiere marittime aggravato dalla prassi della flottiglia delle Ong che cooperano nel soccorso (Sar, dall’acronimo inglese).

Unilateralismo italiano
È oramai di dominio pubblico, dopo l’audizione del Comandante generale della Guardia costiera alla Commissione Difesa del Senato del 4 maggio, che il Centro nazionale Sar (Mrcc, dall’acronimo inglese) coordina tutte le operazioni nel Mediterraneo centrale, comprese quelle delle Ong, in un’area di circa 1.000.000 di Kmq.

Tale area va ben al di là della zona Sar italiana prevista dal Dpr 662-1994 e, scavalcando quella maltese, arriva sino alle coste libiche. Nessuno ha regolamentato una simile situazione, ma essa si è creata di fatto, giorno per giorno, sulla spinta della necessità di salvare migliaia di vite umane.

Siamo stati dunque noi a presentarci - di fronte all’indifferenza o all’incapacità di altri - come il principale riferimento nel Sar mediterraneo anche in considerazione degli obblighi giuridici che ricadono sul primo Mrcc che è informato di una situazione di pericolo.

È così che l’Italia è giunta a coordinare tutte le operazioni di soccorso davanti alla Libia ed è divenuta l’unico Paese a ricevere nei propri place of safety (1) (Pos) le persone salvate da navi private e da quelle di EunavforMed e Triton.

Fonte: Maricogecap.

Frontiere marittime europee
Frontex è stata trasformata in Agenzia europea della guardia costiera e di frontiera con poteri rafforzati per preservare la libera circolazione nello spazio Schengen minacciata dagli ingressi irregolari. Frontex era nata per attuare respingimenti in mare, ma, mentre la Spagna e la Grecia si sono avvalsi di questa funzione, l’Italia non l’ha mai richiesta pur attuandola per un breve periodo con la Libia.

L’impiego in prossimità dell’Italia e di Malta di mezzi di Frontex con l’operazione Triton è stato attuato su nostra richiesta per avere sostegno al Sar, dopo il termine di Mare Nostrum cui l’Ue, come chiarito da Marco del Panta su queste pagine, non aveva voluto partecipare considerandola un “pull factor”. Le navi di Triton, paradossalmente, non differiscono perciò da quelle delle Ngo, se non fosse per i compiti di identificazione dei migranti.

Guardia costiera Ue
Ben altra sarebbe la situazione del Mediterraneo centrale, se si fosse istituita una forza europea, civile e militare, incentrata sulla Funzione Guardia Costiera, con compiti Sar secondo regole ed assetti comuni.

In effetti, il Parlamento europeo - pur non affrontando la questione in tali termini - con la Risoluzione del 12 aprile 2016 sulla situazione nel Mediterraneo ha considerato il Sar nel quadro della politica di asilo, ritenendo che il rafforzamento dei servizi nazionali sia prioritario per esigenze umanitarie e per specifici obblighi giuridici. Secondo la stessa Risoluzione, l’impiego di mercantili ed Ong nel soccorso non può comunque essere un’opzione alternativa all’organizzazione di un servizio Sar con assetti pubblici.

Incertezza zone Sar
La necessità per il Mrcc italiano di agire oltre la zona Sar nazionale deriverebbe anche dal fatto che la Libia e la Tunisia non hanno mai istituito proprie zone Sar e che Malta ha difficoltà a definire con noi i limiti della sua zona. Sappiamo della Libia, in cui è in corso un grande sforzo internazionale per dotare il Paese di un’organizzazione statuale, Guardia costiera compresa.

Conosciamo le radicate pregiudiziali di Malta che sinora hanno impedito ogni soluzione negoziata per risolvere la sovrapposizione della sua zona Sar con la nostra e stabilire una collaborazione secondo i canoni della Convenzione di Amburgo del 1979.

Ma ci meravigliamo che esista un problema con la Tunisia da sempre nostro interlocutore privilegiato, che nel 2011 concordò di riaccompagnare nei porti di partenza le persone salvate al largo delle proprie coste. Perché, allora, non adire l’Organizzazione Marittima Internazionale per ottenere, sotto la sua egida e con la mediazione dell’Ue, una definizione concordata delle zone Sar mediterranee che elimini ogni residua incertezza e faciliti la cooperazione ?

Le zone Sar mediterranee.

Armonizzazione norme Ue
Tra le iniziative che l’Italia dovrebbe considerare vi è anche l’armonizzazione delle norme Ue sugli obblighi di soccorso, sulle sanzioni penali in caso di omissione e sull’organizzazione del Sar.

Non si tratterrebbe di attribuire all’Ue una competenza non prevista, ma solo raggiungere standard comuni nello svolgimento di un servizio che la citata Risoluzione del Parlamento europeo considera essenziale.

Chiaramente, in parallelo bisognerebbe affrontare il tema della scelta del Pos, in caso di operazioni condotte in zone Sar di Paesi che non possono o non vogliono accettare le persone salvate, anche prevedendo deroghe volontarie al sistema di Dublino.

Centralità Italia
Le operazioni multinazionali Triton ed Eunavformed ( e domani quella Nato ‘Sea Guardian’) continueranno a trasportare in Italia le persone salvate davanti alla Libia, sotto il coordinamento di Roma. Anche le Ong continueranno a svolgere il loro apprezzato lavoro in ausilio della nostra Guardia costiera, magari agendo in una cornice di verifiche da parte italiana e dei Paesi di bandiera.

L’Italia non può tuttavia lasciar perdere l’occasione che le recenti polemiche sul Sar delle Ong hanno creato. S’impone ora una regolamentazione realistica dei limiti delle zone di intervento italiano, degli assetti pubblici disponibili e dei costi necessari, senza fare affidamento eccessivo sulle risorse private di Ong e mercantili che non possono essere considerati un fattore sistemico.

Ma soprattutto è necessaria una forte iniziativa euromediterranea per coinvolgere attivamente nel Sar tutti i Paesi rivieraschi secondo principi di condivisione delle risorse e delle responsabilità.

(1)La regolamentazione IMO stabilisce che le persone salvate debbano essere portate al più presto in un “place of safety”, luogo sicuro dove siano loro garantiti assistenza, cure, cibo e protezione dei diritti personali, in vista del raggiungimento della meta finale.

Fabio Caffio è Ufficiale della Marina Militare in congedo, esperto in diritto marittimo.