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venerdì 30 novembre 2018
martedì 27 novembre 2018
Materiali per il Master di I Livello "Storia Militare Contemporanea
Pubblicità e alimenti nel Ventennio italiano
di Alessia Biasiolo*
La Germania non poteva non guardare anche
all’Italia per le proprie scelte alimentari in epoca nazista.
La ricaduta del giovedì nero statunitense
sull’Europa, influì fortemente anche sul Belpaese: nel 1929 eravamo nella
seconda decade dell’autarchia e in periodo di forte protezionismo doganale.
La piazza più importante per la vetrina dei
prodotti italiani, e autarchici, era senz’altro Milano, in cui le merci
venivano propagandate più ampiamente.
La propaganda evidenziava una vita moderna,
emancipata, simbolo di una borghesia che stava vivendo, almeno sulla carta, un
periodo favorevole. Le tasse aumentavano e le crisi produttive erano sempre
dietro l’angolo, ma l’idea di avere una classe borghese imprenditorialmente
forte, era suffragata da forti prese di posizione della Confindustria, dalla
nascita o crescita di gruppi industriali, dal forte aumento di adepti dei
gruppi sindacali. Su tutto, una visione futurista del prodotto e della
pubblicità, che porterà alla sostituzione del cartellonista come interprete
delle necessità commerciali delle aziende, con artisti scelti o selezionati
dalle aziende stesse per pubblicizzare i propri prodotti secondo una visione
aziendale frutto di strategia messa in atto a tavolino, ancor prima di
realizzare il prodotto stesso. Le aziende cominciarono proprio a cavallo tra le
due guerre mondiali a cercare una propria identità distintiva sugli altri
prodotti, a volere creare un segno per lasciarlo. Risorsa indiscussa per le
aziende italiane fu proprio il Futurismo, determinato auto-promotore, i cui
seguaci erano profondamente consapevoli dell’importanza della pubblicità,
soprattutto per abbattere le barriere tra alta e bassa società. I futuristi che
lavorarono per la pubblicità furono molti, da Marinetti che creò pubblicità per
Snia Viscosa, oppure Farfa che creò per Ferrania, mentre Fiat Balilla scelse di
essere rappresentata dal Futurismo di Diulgheroff. Fu però Fortunato Depero ad
essere il più innovativo grafico del movimento: collaborò con la Davide Campari
dal 1924 al 1939, creando per l’azienda di bevande non soltanto pubblicità, ma
anche oggetti, come pupazzi, lampade, vassoi e la bottiglia icona Campari Soda.
Inoltre, Depero ha progettato per la Campari chioschi e architetture
pubblicitarie, ideando delle vere e proprie opere d’arte con l’aiuto
dell’azienda: il libro bullonato, ad esempio, venne realizzato proprio grazie
all’aiuto di Davide Campari. L’insegnamento l’artista lo traeva dai musei,
dalle grandi opere del passato, sosteneva, perché tutta l’arte dei secoli
passati, secondo Depero, era improntata all’esaltazione (del guerriero, del
religioso, delle cerimonie, delle vittorie), in chiave pubblicitaria, per fare
restare nella memoria dei contemporanei e dei posteri qualcosa. Sempre secondo
Depero, “i prodotti nostri hanno bisogno di un’arte nuova altrettanto
splendente, altrettanto meccanica e veloce, esalatrice della dinamica, della
pratica, della luce, delle materie nostre”. L’arte pubblicitaria, secondo il
futurista, poteva poi essere piazzata dovunque, per terra, sui muri, nei treni,
nelle vetrine, ed essere colorata, moltiplicata, non sepolta nei musei, ma
viva. Quindi le aziende dovevano avere l’intelligenza strategica di usare il
valore artistico della funzione pubblicitaria per costruire qualcosa di unico
sul mercato e distinguersi in ogni dove. Depero teneva presente, poi, che anche
le persone erano cambiate, non camminavano più avendo il tempo di leggere un
manifesto sul muro, ma sfrecciavano veloci in treno e in automobile o su un
autobus, di certo più veloce del tram. Quindi bisognava creare pubblicità
belle, colorate, veloci da leggere e da capire, funzionali al prodotto. La
scuola dell’Art Decò fu fondamentale: le linee potevano e dovevano essere
diagonali, le lettere grandi e maiuscole, la novità doveva catturare
l’attenzione. Depero applicò queste innovazioni per la Campari, ma anche per
Unica, Strega, San Pellegrino, Presbitero, Schering, non limitandosi al
disegno, ma a riflettere gli umori politici del Paese, le nuove prospettive
verso un’arte unica. Spesso nelle pubblicità venivano ricordati l’esotico, il
dogma, le teorie sulla razza, testimoniando il complesso rapporto tra aziende,
politica e arte futurista. Gli oggetti delle pubblicità diventano grandi,
ingombranti: devono colpire lo spettatore, il visitatore delle fiere. Colpire
l’immaginario della persona comune, piccola, con un’immagine di grandezza che,
se è vero che era politica in quel tempo in Italia, era quanto più la
raffigurazione di come si poteva diventare se si acquistava, se ci si
impossessava proprio di quel prodotto. Alla Fiera di Milano, ad esempio,
accanto ai prodotti alimentari si esponevano opere che avevano lo scopo di
stupire e impressionare positivamente: carri armati, maschere antigas, apparati
antiaerei, aerei, camere-rifugio antiaereo, ma anche i più moderni mezzi per
comunicare come la macchina per scrivere e, soprattutto, il telefono. Anche
questo grande, come nella pubblicità della Stipel. L’oggetto doveva e poteva
fare sentire potenti, grandi come doveva esserlo l’Italia in quei frangenti
storici. Quali erano i prodotti alimentari pubblicizzati in Italia? Possiamo
darne solo qualche esempio, scelto tra quelli che richiamano i cibi citati nei
precedenti capitoli. Un grande fermento ruotava attorno alle proteine animali:
molti stand fieristici o manifesti pubblicitari erano dedicati ai grassi, sia
per l’alimentazione che non, in modo da studiarne le proprietà e gli usi, e di
sostenere la diffusione di grassi animali come di surrogati. È il caso della
margarina, che ebbe vasta diffusione dalla seconda metà degli anni Venti,
soprattutto quando era necessaria per sostituire il carente burro. Achille
Luciano Mauzan aveva curato, nel 1926, una pubblicità per la Società Anonima
Angelo Arrigoni di Crema. Le società anonime erano pullulate in Italia
soprattutto dai primi anni del Novecento, quando la quasi improvvisa ripresa
economica aveva convinto della bontà del tramutare imprese anche di stampo
artigianale in Società Anonime appunto, poi in Società per Azioni. Non che il
burro non si usasse più, certo, come recitavano le cremerie Zatti Verderi
Chiesi di S. Ilario D’Enza nel 1935: “Esigete Super Burro”, di pura panna,
mentre c’era il patriottico “Burro Vittoria”, sempre finissimo di pura panna.
Era il momento dell’estratto per brodo, salutare, economico e capacissimo di
sostituire spese per acquistare la carne e per cuocerla. Le ditte produttrici
erano molte, dalla Liebig che aveva messo a punto la ricetta per il mitico dado
per brodo, al “Vero estratto di carne australiano Arrigoni” di Genova, in
vasetti e dadi (1925), all’estratto di carne “Food” del 1925, che diverrà ben
presto troppo “straniero”; al “Nutreina” dei Laboratori Scientifici di Milano
(1925), al “Bovis” della ditta Luciani (1930), all’estratto di carne “Texas”
(1935), che rispondeva ai migliori requisiti fissati dalle norme vigenti,
prodotto dalla ditta Italiana Texas a Milano. Molto successo l’ebbe anche
l’estratto Wührer (1924, 1931), dell’omonima ditta produttrice di birre di
Brescia. L’estratto, infatti, di brodo di manzo o di pollo, veniva prodotto
accanto allo stabilimento birrario di Viale della Bornata nella Leonessa d’Italia.
La produzione di birra in Italia aveva, in quel momento, andamento altalenante:
l’aumento delle accise indeboliva le vendite della bevanda, ma allo stesso
tempo convincevano lo Stato che l’incasso in tasse era penalizzato se si
esagerava nella tassazione anche per rispondere alla domanda di maggiori
controlli verso l’abitudine di ubriacarsi di molti operai durante i giorni
liberi. La birra italiana Wührer, che aveva incamerato molte altre aziende tra
cui la Birra Italia, era in grado di competere con le birre straniere,
soprattutto bavaresi e austriache, pertanto ben si piazzava nelle vendite, e
anche l’estratto per brodo omonimo ebbe un notevole successo. Accanto alle
birre italiane, soprattutto dalla seconda metà degli anni Trenta e fino al
1941-1942, proprio alla Fiera di Milano, la quarta per importanza mondiale, si
trovarono le birre tedesche, esposte in interessanti stand dove la mescita e
l’assaggio erano seguiti da un folto pubblico di giornalisti. La presenza degli
stand tedeschi non era stata vista di buon occhio da tutti, specialmente da
chi, già non essendo allineato alla politica fascista, ma troppo in vista per
subirne le conseguenze, aveva contestato o comunque non aveva digerito affatto
la presa di posizione sulle leggi razziali. La visita dei padiglioni fieristici
milanesi che, appunto, costituivano quanto di più interessante e moderno
circolava sulle piazze mondiali, avveniva sempre anche da parte delle autorità,
tra le quali il re Vittorio Emanuele III, il duca d’Aosta, molti ambasciatori
stranieri, molte autorità civili e militari, tra cui spiccavano annualmente il
ministro Starace, Vittorio Mussolini e altri, accompagnati da gerarchi fascisti
e poi anche nazisti. Se è vero che il Re prediligeva visitare gli stand
dell’aeronautica, ad esempio, o delle bellissime vetture Balilla, è anche vero
che per la Fiera giravano bellissime signorine, vestite in tailleur, che
portavano con sé cestini di caramelle al miele Ambrosoli (1939); che
pubblicizzavano i tortellini o la stessa birra. L’Amaretto di Saronno o i
biscotti Lazzaroni divennero i testimoni dell’evoluzione della società in
corso: la famosa scatola Lazzaroni di biscotti, molto inglese nella fattezza
così come era inglese il sapore dei biscotti stessi, non doveva mancare nei
salotti buoni delle città italiane. I biscotti e le caramelle cominciarono a
spopolare, simbolo proprio della rinascita economica del primo dopoguerra:
aziende come Saiwa, fondata a Genova da Pietro Marchese, o Elah nata da
Francesco Ferdinando Moliè nel 1909, sempre più producevano preparati per
budini, creme da tavola e dessert vari. Lazzaroni veniva pubblicizzata, nel
1934, da trampolieri, mentre Elah scelse l’abitudine degli animali esotici,
come l’elefante. Magnesia S. Pellegrino aveva invece scelto lo struzzo, mentre
altri si accontentavano delle più caserecce capre. Animali che circolavano per
le fiere vivi, naturalmente, con la pubblicità montata addosso (1935), oppure
su eleganti calessini che essi stessi tiravano. Sempre per restare in tema,
quasi l’Italia non fosse toccata dalla miriade di ricerche scientifiche sulle
carie da zuccheri, oppure sulla necessità della dieta povera di zuccheri che
spesso venivano sbandierate nell’alleata Germania, Unica, che produceva la
famosissima caramella Nougatine ricoperta di cioccolato fondente, utilizzava la
sagoma di un nero delle colonie (1931) per la propria pubblicità. Avevamo poi
Pernigotti (dal 1868) per il torrone, Venchi dal 1878 per la produzione di
praline, Perugina (fondata nel 1907) che negli anni Venti si affermerà con il
famoso Bacio. Battaglie per la conquista dei mercati a suon di cioccolatini, ma
anche di panettone: nel 1919, Angelo Motta apre a Milano un piccolo laboratorio
che diverrà un’industria e anche questo tipo di produzione diverrà campo di
battaglia, contro Gioacchino Alemagna nel 1921 e con il figlio di questi
Alberto poi, per conquistare sempre più acquirenti. Sarà la Perugina a
scegliere di investire, per prima, nella radio per la propria pubblicità.
Finanzierà con Buitoni la realizzazione di due serie di puntate di una rivista
radiofonica intitolata “I quattro moschettieri”, liberamente tratta dal libro
di Alexandre Dumas. L’idea ebbe un successo clamoroso, tanto che diverrà “I
quattro moschettieri in pallone”: quattro personaggi in maschera scenderanno
sulla Fiera di Milano in pallone e circa centomila persone si raduneranno
intorno agli stand delle due aziende ideatrici dell’iniziativa. Il clamore fu
tale che le produzioni si moltiplicarono, e a queste si unì quella del famoso
feroce Saladino (personaggio molto amato dalla retorica di regime), il quale
ebbe la sua fetta di successo grazie soprattutto alla raccolta di figurine, con
le quali si doveva appunto dare la caccia a quella che raffigurava il mitico
personaggio da battere con le novelle “crociate”. I tempi volevano poi, oltre
ad un popolo italiano forte (grazie al riso, ad esempio, alla pastina all’uovo,
alla pasta glutinata, al VOV, all’olio d’oliva Sasso, alla farina alimentare
Carlo Erba, al massimo ricostituente per bambini “Eutrofina”, al vital
nutrimento ROM, e molto altro) delle donne dedite alla casa, alla cura della
prole, al decoro che poteva garantire una nazione forte e con solide basi.
Rivolta alle donne era la pubblicità delle macchine per scrivere, dato che il
lavoro di segretaria ben si addiceva ad un signorina, e così Marcello Dudovich
disegnerà il manifesto per la Olivetti nel 1925, mentre lo studio Boggeri
curerà quello per la stessa azienda nel 1934. Passiamo da una ragazza semplice,
dal rossetto rosso e abito immacolato, all’avvenente e seducente, elegante
signora degli anni Trenta, in cappello a larga tesa blu, capace di guardare al
futuro. Naturalmente erano rivolte prevalentemente alle donne le pubblicità
della moda, quando le novità si ammiravano a La Rinascente, dal nome
dannunziano del 1917, con pubblicità sempre con lo scopo di illustrare una sana
morale borghese. Le donne erano eleganti, benestanti, quasi mai massaie,
lavoratrici o contadine e gli uomini erano sicuri di sé, appartenenti ad una
classe borghese dominatrice. Come nei film degli anni Venti, le giovinette
delle immagini erano snob, studiavano in collegio privato, vivevano in ville
lussuose e bevevano champagne telefonando alle amiche per organizzare partite a
tennis o gite a prendere il sole, in automobili decappottabili dai motori
rombanti. Andava mitizzata la vita vista dal basso, dal provincialismo di gran
parte d’Italia che doveva guardare alla borghesia fascista, in questo caso,
come a simbolo a cui aspirare. Da un lato la modernità e dall’altro l’autarchia,
la miseria delle piccole città e delle campagne, il mito della guerra,
pubblicizzato da slogan come “Ali fasciste sul mondo”, “Lavoro e armi”. La moda
doveva non solo colpire e incuriosire, attirare acquirenti con le novità, ma
anche trovare soluzioni sempre nuove, soprattutto con la difficoltà di
approvvigionamento di tessuti a seguito dell’embargo. Proprio questo momento fu
foriero per l’Italia di ulteriore creatività: venne prodotta la seta
artificiale, il rayon, ma anche lo sniafiocco (il cotone nazionale), l’albene,
il selenal, il tessile per l’indipendenza, il lanital, fibra prodotta dalla
Snia Viscosa, tratta dalla caseina e pubblicizzata come la “nostra lana” o i
“tessuti dell’impero”. Nel 1937, tutte queste nuove fibre tessili venivano prodotte
in 7 milioni di chili in Italia, ad indicare come l’impegno all’indipendenza
dagli altri Paesi avesse creato un volano per l’industria. Il rayon utilizzato
per la produzione delle calze da donna, divenne idea anche per i manifesti,
come quelli del 1934 ritraenti una figura di donna in poltrona a cui venivano
messe in risalto le lucentissime gambe, seducenti grazie alle calze di rayon.
Che arrivava con le “5000miglia del Rayon” (Federico Seneca, 1935).
Interessante l’insegna della De Angeli-Frua, produttrice di tessuti, che
dichiarava che i loro prodotti “Vincono le sanzioni”. Mano a mano che la
creazione pubblicitaria si approfondiva, più gli stili si intersecavano.
Futurismo e Cubismo si intrecciavano e i contrasti cromatici diventavano
eleganti, la sintesi creava una magia unica, teatrale.
La pubblicità italiana del Ventennio ritraeva
un Paese dedito a crearsi nazione forte, autoritaria più che autorevole, per
imporsi sugli altri e nelle colonie come punto di riferimento e faro di cultura
in senso stretto e politico. Di certo, una propensione a dettare legge a tavola
c’era e, per questi versi, per fortuna è anche rimasta.
* Collegio degli Scrittori della Rivista "Quaderni" del nastro Azzurro.
(abiasiolo@tin.it
lunedì 19 novembre 2018
venerdì 9 novembre 2018
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