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domenica 21 dicembre 2014

Una nuova stagione per i militari italiani

Forze Armate e capacità militari
Addestramento, è tempo di agire
Alessandro Ungaro
06/12/2014
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L’addestramento delle Forze Armate rimane uno dei pilastri fondamentali per uno strumento militare in grado di assolvere i propri compiti istituzionali.

Attualmente in Italia sono chiamate ad affrontare la progressiva riduzione dell’impegno all’estero, una costante contrazione degli impegni finanziari, nonché adattarsi e sfruttare adeguatamente ciò che il progresso tecnologico offre in termini di innovazione, prodotti e supporto.

L’attività addestrativa è fondamentale per diverse ragioni. È in gioco la capacità dell’Italia di proiettare e sostenere rapidamente adeguate capacità militari nell’eventualità si rendesse necessario, sia su base nazionale sia in missioni internazionali sotto egida Onu, Nato e Ue.

Da un adeguato addestramento dipende infatti l’efficacia e la credibilità dello strumento militare, in termini di protezione degli interessi nazionali, anche quando quest’ultimi potrebbero non coincidere del tutto con quelli dei principali partner europei e/o transatlantici.

Va da sé inoltre che un adeguato addestramento assicura la protezione dello spazio euro-atlantico, come forma di deterrenza per scoraggiare atti potenzialmente ostili. Ciò rende necessaria un’attività addestrativa costante, capace di coprire l’intero spettro delle possibili operazioni militari, comprese quelle ad alta intensità, ossia contro un avversario con capacità convenzionali equipaggiate e addestrate.

L’addestramento risulta determinante anche considerando il progresso tecnologico, il quale esige una formazione del personale militare e tecnico più articolata e costantemente aggiornata. Infine, la sperimentazione di nuovi sistemi d’arma, specie se tecnologicamente avanzati, rimane un’attività estremamente sensibile e strettamente legata alla sicurezza nazionale, con importanti implicazioni anche sul piano industriale.

Cenerentola della difesa italiana
Alla sua crescente rilevanza, tuttavia, non coincide un adeguato sostegno finanziario. L’addestramento figura come la “cenerentola” della difesa italiana, soprattutto - ma non solo - in termini di risorse assegnate.

Basti pensare che dal 2002 al 2013 le spese per l’esercizio sono passate da 3.590 milioni di euro a 1.335 milioni, con un impressionante taglio del 63%. Anche in termini percentuali, il peso di tale voce sulla Funzione Difesa ricalca in larga misura i dati assoluti. Mentre nel 2002 le spese dedicate assorbivano poco più del 25% (26,3), undici anni dopo non raggiungono il 10% (9,2%).

A questi dati va ad aggiungersi la progressiva riduzione del finanziamento alle missioni internazionali, utilizzato per coprire parte dei costi di esercizio riferiti all’addestramento del personale militare e alla manutenzione degli equipaggiamenti. Da 1,55 miliardi di euro del 2011 si è passati a 1,4 miliardi nel 2012, per poi diminuire ulteriormente nel 2013 toccando 1,25 miliardi. Per l’anno in corso il fondo missioni ha visto un taglio di 250 milioni di euro assestandosi a circa 1 miliardo.

Un combinato disposto che solleva un problema vitale per le Forze Armate italiane, ossia come mantenere le capacità operative faticosamente acquisite negli anni, assicurando adeguati standard di efficacia, prontezza, interoperabilità ed efficienza dello strumento militare. Sono questi i temi affrontati in un recente studio IAI, che verrà presentato durante una conferenza a Roma il prossimo 11 dicembre.

La dimensione Nato e Ue
L’addestramento può annoverarsi fra le aree dove risulta più agevole realizzare iniziative di cooperazione internazionale. L’impegno italiano ha un duplice obiettivo: mantenere adeguati standard delle capacità operative sia in termini tecnologici, dottrinari e procedurali; rimanere all’interno di un sistema d’alleanze che fornisce alla politica estera, di difesa e industriale italiana un capitale politico-diplomatico-commerciale da poter sfruttare nei confronti dei principali partner europei e internazionali.

Le attività di training costituiscono pertanto uno strumento di “diplomazia militare”. Guidare o partecipare in modo significativo a iniziative internazionali nel campo dell’addestramento significa rafforzare i rapporti bilaterali e la posizione dell’Italia e attesta la qualità degli equipaggiamenti italiani realizzati dall’industria nazionale, sostenendo indirettamente gli sforzi di esportazione verso Paesi alleati ed amici.

Credibilità Forze Armate
La condotta delle operazioni è divenuta via via sempre più complessa e multiforme, tanto da richiedere una padronanza non solo del sistema d’arma in sé, ma anche del funzionamento di un’articolata catena di comando e controllo, di specifiche manovre e tattiche da realizzarsi in spazi estesi e tempi prolungati, che includono tra l’altro l’integrazione tra diversi assetti navali, terrestri e aerei.

Ecco perché aree addestrative e poligoni sono uno strumento indispensabile per l’addestramento delle Forze Armate, senza rinunciare però alla ricerca di un migliore equilibrio tra le esigenze della difesa e il rispetto dell’ambiente territoriale e delle comunità locali ove tali attività si verificano.

Qui l’innovazione tecnologica potrebbe giocare un ruolo di primo piano. Infatti, con la possibilità di organizzare esercitazioni a simulazione “live”, “virtual” e/o “constructive” si potrebbero eliminare alcuni limiti imposti dal munizionamento reale.

Se le missioni internazionali rappresentano uno degli strumenti principali della politica estera e di difesa italiana, parte di questo risultato è da attribuirsi alla credibilità delle nostre Forze Armate nell’operare all’estero. Credibilità che a sua volta è il frutto di una costante, metodica ed efficace attività addestrativa, un vero e proprio patrimonio da salvaguardare e proteggere.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @AlessandroRUnga).
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mercoledì 3 dicembre 2014

Il nodo della Palestina. Prima o poi occorre scioglierlo

Medio Oriente
Italia vaga sul riconoscimento dello Stato di Palestina
Paola Caridi
02/12/2014
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Una ‘lunga marcia’, oppure una battaglia di rimessa? È una domanda forte, eppure necessaria, quella che bisogna porsi sulla questione del riconoscimento dello Stato di Palestina. Prima di porsela, però, occorre scendere nei dettagli.

Il riconoscimento dello Stato di Palestina viaggia da anni su binari paralleli, da un lato nelle organizzazioni internazionali, e, dall’altro, nei parlamenti nazionali. Spesso, però, protagonisti e strategie non sono gli stessi.

Riconoscimento e nuova asimmetria
Cominciamo dal riconoscimento dello Stato di Palestina da parte dell’Onu e delle sue agenzie. Il traguardo raggiunto il 29 novembre 2012 con l’ammissione della Palestina come Stato osservatore nelle Nazioni Unite ha avuto una singolare gestazione.

Cominciato quando, nel 2010, la presidenza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) e i negoziatori dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) hanno compreso di poter usare la carta del riconoscimento come elemento di pressione nei confronti di Israele e della comunità internazionale.

Un carta jolly. Cerchiamo di non far precipitare la situazione - questa la sintesi del messaggio lanciato dalla leadership palestinese. Dall’altra parte della barriera, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha usato la carta del riconoscimento come una giustificazione a intensificare le costruzioni dentro le colonie israeliane in Cisgiordania e nel cuore di Gerusalemme est.

Israele sa bene che il riconoscimento (effettivo, non solo formale) di uno Stato di Palestina comporterebbe un cambiamento importante nell’asimmetria del rapporto tra Israele e Palestina: uno Stato a tutti gli effetti, occupante e con il monopolio dell’uso della forza, da una parte, e dall’altra parte una entità cui viene legata l’identità di popolo, ma alla quale non vengono dati gli strumenti istituzionali tipici di uno Stato nazionale.

Se riconoscimento effettivo vi fosse, vi sarebbero due stati che devono regolare contese territoriali partendo da un confine riconosciuto dalla comunità internazionale, e cioè quello dell’armistizio del 1949. Israele diventerebbe potenza occupante su di un suolo sovrano, e le colonie israeliane sarebbero né più né meno città costruite sulla terra dello Stato palestinese.

Diplomazia imbarazzata
Quale, dunque, la differenza tra il riconoscimento dello Stato di Palestina nel sistema Onu e il riconoscimento da parte di singoli stati? A cambiare sono i protagonisti. Non è tanto l’Anp a spingere per le risoluzioni che si stanno affollando nei parlamenti europei. In campo ci sono pressioni interne palesi e sempre più diffuse nelle opinioni pubbliche nazionali in Europa.

E c’è anche il disagio - non evidente in pubblico, ma chiarissimo nei corridoi diplomatici e politici - delle cancellerie che sanno quanto sia delicata questa fase del conflitto israelo-palestinese, tra Gaza e Gerusalemme.

Il jolly del riconoscimento è nelle mani delle cancellerie e/o dei parlamenti europei. Non in quelle palestinesi. Non c'è niente che costringa gli stati a riconoscere la Palestina, ma la pressione è evidente. Chiara la pressione che il voto del parlamento britannico ha significato, e ancor più chiara la pressione sarebbe se in un altro paese dotato di potere di veto nel consiglio di sicurezza dell’Onu, cioè la Francia, il parlamento si esprimesse in modo simile.

Risoluzioni italiane sul riconoscimento della Palestina
La posizione italiana non ha la rilevanza di Londra o di Parigi. Quello che appare dalle due risoluzioni presentate alla Camera dei Deputati e dalla risoluzione presentata al Senato (non ancora calendarizzate) è che non abbiano quel peso necessario per essere considerate parte di una strategia-Paese.

Il contenuto delle risoluzioni non mostra una chiara strategia italiana sul Medio Oriente e sulla stessa, specifica questione. Si rischia, insomma, la genericità, quando non ci si arrischia di cambiare gli stessi punti della trattativa di pace.

Un esempio è contenuto nella mozione, prima firmataria Pia Locatelli, presentata alla Camera.

Questa contiene un passaggio ambiguo - “la necessità di rafforzare la leadership legittima del presidente palestinese Abbas e delle istituzioni palestinesi con capitale Ramallah, scongiurando il rischio di un rafforzamento di altre entità politiche che pretendano di rappresentare i palestinesi” - che rischia di far considerare Ramallah la futura capitale dello Stato di Palestina (e non Gerusalemme est), di bloccare i tentativi di riconciliazione tra Fatah e Hamas, e di considerare ormai definitiva la frattura tra Cisgiordania e Gaza.

È questo che l’Italia vuole? È questo che vuole, nel caso specifico, una parte della sinistra italiana in parlamento? Non si ritiene invece, all’interno delle classi dirigenti di questo paese, di riflettere seriamente sul paradigma di Oslo, che tutti sanno - nei circoli accademici tanto quanto nelle cancellerie - essere ormai superato?

Il riconoscimento dello Stato di Palestina è, per i suoi tempi, una lunga, lunghissima marcia. Dal punto di vista della cronaca e della storia recente, si sta invece trasformando in una battaglia di rimessa, proprio per il superamento - nei fatti e sul terreno - del paradigma di Oslo.

Le stesse élites politiche palestinesi - Fatah, Hamas, gli uomini dell’Olp e dell’Anp - sono protagoniste di questa battaglia di rimessa, che mette al centro la territorialità, lo Stato, lo Stato Nazionale, proprio in una fase in cui, dal basso, la richiesta poggia su altri pilastri: identità e diritti.

Questi non sono per forza di cose difendibili all’interno di uno Stato nazionale, definito secondo le linee dell’armistizio del 1949, per quanto concerne i palestinesi.

Se questa è la situazione, sul terreno e all’interno della società palestinese, la battaglia per il riconoscimento dello Stato di Palestina è di rimessa perché la storia è andata avanti, si è incanalata nei percorsi segnati dalla realtà. La politica, complessivamente intesa, non è ancora riuscita a introiettare e digerire il cambiamento.

Paola Caridi è analista e scrittrice, autrice di Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele (Feltrinelli 2013).
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Omosessualità: verso norme più accettabili

Corte europea dei diritti dell’uomo
Omosessuali europei, quali diritti?
Daniele Gallo
18/11/2014
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È sufficiente consultare i numerosi siti dedicati al tema dell’omosessualità in Europa per rendersi conto della tendenza, in atto in moltissimi paesi del continente, verso un progressivo riconoscimento giuridico dei diritti (unione registrata, matrimonio, adozione, ecc.) per i cittadini LGBTI (lesbiche, gay, bisessuali, transgender, intersessuati).

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha svolto un ruolo importante nella promozione e nella protezione dei diritti civili per la comunità LGBTI. Il contesto di riferimento è rappresentato dal Consiglio d’Europa (avente una membership molto più nutrita ed eterogenea dell’Unione europea, Ue), in particolare dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che la Corte è chiamata a interpretare e applicare.

Diritti della famiglia omosessuale
La Corte, a partire dagli anni ‘80, ha ravvisato la violazione dell’articolo 8 della Convenzione (Diritto al rispetto della vita privata e familiare), nella maggior parte dei casi letto congiuntamente con l’articolo 14 (Divieto di discriminazione), con riferimento sia a diritti patrimoniali (ad es. Karner v. Austria) che a diritti collegati allo status di genitore (ad es. X. V. Austria).

Per molti anni i giudici di Strasburgo sono pervenuti a riscontrare una tale violazione facendo perno sulla nozione di “vita privata”, anziché su quella di “vita familiare”. È solamente con la sentenza Schalk and Kopf del 24 giugno 2010, infatti, che la Corte qualifica come “vita familiare” la relazione di coppia omosessuale, con il risultato che il nucleo dei diritti conferiti alla famiglia eterosessuale viene riconosciuto anche alla famiglia omosessuale.

Tuttavia, con riguardo al diritto al matrimonio, salvaguardato dall’articolo 12 della Convenzione, la Corte, se da un lato, per la prima volta, chiarisce che tale norma può applicarsi, in principio, anche al matrimonio omosessuale, dall’altro, nel sottolineare che mancava, all’epoca, un “European consensus” in merito al riconoscimento del matrimonio same-sex, nega che i ricorrenti nel caso di specie fossero titolari di un effettivo diritto al matrimonio.

La Corte giunge alla stessa conclusione anche nella citata X. V. Austria, del 19 febbraio 2013, laddove viene ribadito che l’articolo 12 non può essere interpretato nel senso che esso imporrebbe, in capo agli Stati, l’obbligo di riconoscere i matrimoni omosessuali.

Interpretazione evolutiva della Corte Edu
Dall’analisi della giurisprudenza della Corte, pertanto, emergono due elementi. Il primo è che la Corte, ricomprendendo nella nozione di “vita familiare” e in quella di “matrimonio”, ai sensi degli articoli 8 e 12 della Convenzione, anche le relazioni e i matrimoni tra persone dello stesso sesso, opta per un’interpretazione evolutiva, dinamica e, in ultima istanza, inclusiva delle norme convenzionali.

In questo senso, essa coglie le trasformazioni sociali in atto in Europa, dà loro una veste giuridica e, nel farlo, agisce come agente di cambiamento, con l’ulteriore conseguenza di rappresentare un “modello” per legislatori e soprattutto corti nazionali, come dimostrano i continui riferimenti alla giurisprudenza della Corte europea per i diritti dell’uomo (Edu), svolti nelle sentenze delle corti italiane chiamate a pronunciarsi sul tema del riconoscimento giuridico delle coppie same sex (ad es. Corte di Cassazione, n. 4184, del 15 marzo 2012).

La condanna della Grecia, a opera della Corte europea, nella sentenza Vallianatos, del 7 novembre 2013, in merito alla normativa di quel paese che consentiva la registrazione delle unioni civili solamente alle coppie eterosessuali, mette in evidenza la compressione dei margini di sovranità degli Stati in una materia, come quella dei diritti LGBTI, un tempo riconducibile alla giurisdizione domestica dei paesi che sono membri del Consiglio d’Europa.

Si desume dalla pronuncia che qualora uno Stato, come l’Italia, decidesse di introdurre le unioni registrate e lo facesse solamente a favore delle coppie eterosessuali, violerebbe la Convenzione.

Matrimonio omosessuale, civil partnership e sovranità degli Stati 
Il secondo elemento che si desume dalla giurisprudenza della Corte Edu consiste nell’ancoraggio al diritto nazionale, cioè nel rinvio alla lex patriae del ricorrente: se lo Stato di cui ha la cittadinanza non riconosce il matrimonio same-sex, non si configura alcun diritto al matrimonio da lui/lei invocabile dinanzi alla Corte europea.

Non esiste, quindi, alcun diritto fondamentale, su un piano generale, al matrimonio omosessuale, a prescindere dallo Stato di origine del ricorrente.

Ciò è dimostrato dall’approccio, particolarmente cauto, adottato dalla Corte nella sentenza H. c. Finlandia, del 16 luglio 2014, laddove è stata riconosciuta come legittima la normativa finlandese che impone la trasformazione del matrimonio in una civil partnership quale effetto ex lege della rettificazione anagrafica del sesso, proprio perché la scelta rientra nel margine di apprezzamento del singolo Paese contraente.

In conclusione, la Corte dimostra, con la sua giurisprudenza, che un’interpretazione flessibile di concetti quali “family”, “spouse”, “marriage”, diversa da quella statica e rigida (originalist, per dirla alla Antonin Scalia) seguita per molti anni da giudici e legislatori nazionali, è certamente possibile e perfino auspicabile.

Tuttavia, la Corte essa è netta nel mostrare deferenza nei confronti dei legislatori (e delle corti) nazionali: fino a quando il consenso tra gli Stati (che sono parti del Consiglio d’Europa, non dell’Ue) a favore del riconoscimento delle coppie same-sex non sarà particolarmente significativo, sulla scorta di quanto affermato in Schalk and Kopf, alcun diritto fondamentale al matrimonio potrà essere azionato da cittadini LGBTI sul piano giurisdizionale.

Daniele Gallo è docente di EU Law e EU Internal Market nel Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli.
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Italia: il punto di situazione sulle tossicodipendenze

Traffico di droga
Anche eroina lungo la via della seta
Anna Paola Lacatena
20/11/2014
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Una diminuzione del consumo di eroina in Italia. Questo quanto emerso dalla relazione sullo stato delle tossicodipendenze del 2013, curata dal dipartimento per le politiche antidroga.

Al contempo però, i dati più recenti della direzione centrale per i servizi antidroga del Viminale su sequestri e denunce sembrano fotografare il fenomeno in crescita. Per il Viminale, infatti, nel corso del 2012, sono aumentati sia i sequestri di eroina (894chili rispetto agli 810 del 2011), che quelli di anfetaminici in dosi.

Tab. 1 - Consumatori di sostanze stupefacenti (prevalenza %) nella popolazione generale 15-64 anni negli ultimi 30 giorni. Anni 2010 e 2012 (fonte Dipartimento per le Politiche Antidroga).
È sufficiente guardare la relazione annuale della Guardia di Finanza del 2012 per rendersi conto che il contrasto appare più orientato verso le rotte marittime della cocaina (anche per fronteggiare lo sbarco di immigrati clandestini): 25,4 tonnellate tra hashish e marijuana, oltre 4 tonnellate di cocaina, 421 chili di eroina.

Inoltre, i mezzi sequestrati utilizzati per illeciti traffici vedono quelli marittimi nettamente superiori a quelli di terra. Eppure, secondo il World Drug Report del 2010, si sono stoccate nell'ultimo biennio oltre 12 mila tonnellate di oppio tra Afghanistan e Myanmar, attualmente le aree mondiali più importanti per la specifica produzione.

Mercato mondiale dell’eroina
Il mercato mondiale dell'eroina, stimato in 55 miliardi di dollari, ha in Russia, Iran e Europa occidentale la concentrazione più significativa del numero di consumatori, con l'Afghanistan al vertice dell'offerta (oltre il 90%).

Dati recenti del Centro di coordinamento regionale d'informazioni sull'Asia centrale segnalano la comparsa di una nuova rotta attraverso il Turkmenistan, paese leader dei precursori chimici sin dal 1990.

Nonostante il dato dei sequestri di eroina sia in crescita e non solo nel nostro paese, secondo il World Drug Report 2010, il numero ancora ridotto a fronte di una produzione in netta crescita potrebbe essere imputato all'individuazione di nuove rotte di scorrimento veloce via terra, ben organizzate e, spesso, lubrificate dalla corruzione di alcune polizie locali.

Peraltro, l'attività del servizio antidroga della polizia cantonale ticinese nel 2012 ha evidenziato che il forte aumento dei quantitativi di eroina intercettati potrebbe essere dovuto all'assenza di sequestri significativi nel 2011 (circa cinque chili di eroina nel 2012 a fronte di 870 grammi del 2011), per una contrazione delle risorse in campo.

Nuove rotte terresti per il traffico di droga
Trascurare le rotte terrestri potrebbe, nel tempo, favorire non solo il diffondersi dell'eroina, ma anche di quelle nuove droghe che giungono dall'est asiatico, come Mefedrone e Kfen.

Nella relazione congiunta dell'Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (Oedt) e dell'Europol sul mercato europeo degli stupefacenti (Bruxelles, 2013) si legge che la: “Turchia gioca ancora un ruolo centrale lungo la rotta dei Balcani, ma ci sono segnali di nuove rotte utilizzate dalla criminalità organizzata per rispondere ai successi di interdizione (ad esempio dei Balcani occidentali)”.

Da quanto analizzato è possibile concludere che la lotta al narcotraffico, non può registrare in alcun modo distrazioni e riduzioni dei livelli di attenzione.

Nel nostro paese non si può concludere di essere in presenza di una contrazione del consumo di eroina solo in ragione del numero più contenuto rispetto al passato di consumatori in carico ai Ser.D.. Si fanno necessarie politiche globali, a partire dall'attenzione nei confronti delle rotte sempre pronte a rinnovarsi per eludere controlli e sorveglianza.

Al momento, per quanto riguarda gli oppiacei, la cosiddetta Via della Seta, appare quella più utilizzata (il termine fu coniato dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen nel 1877, sebbene tra il 1271 e il 1295, il nostro Marco Polo la percorse da Venezia sino in Malesia, passando per la Cina).

Sarebbe opportuno, però, non trascurare la nuova Via della Seta. Fino al 2010, sui mercati del narcotraffico europeo ogni anno comparivano tra le quattro e le cinque nuove sostanze. Nel 2012 sono stati scoperti 73 nuovi “prodotti” in 690 diversi siti internet, molti dei quali cinesi e russi.

Conseguentemente, si fa necessario, un aumento dei finanziamenti per potenziare le operazioni delle forze di polizia e delle autorità doganali, i canali di comunicazione e informazione nonostante, e tutt'oggi, il grande nodo appaia il miglioramento della collaborazione tra posti di frontiera dell'Unione europea e paesi esterni all'Unione stessa.

È necessario ribadire, poi, la necessità di azioni di prevenzione e recupero in grado di coinvolgere l'intera comunità sotto il profilo socio-culturale e sanitario.

Anna Paola Lacatena e dirigente sociologa presso il Dipartimento Dipendenze Patologiche della ASL TA, giornalista pubblicista dal 1994. Pubblicazioni recenti: "Con i tuoi occhi. Donne, tossicodipendenza e violenza sessuale", Prefazione di Don Andrea Gallo, Franco Angeli Editore, 2012 ,"Resto umano. Storia vera di un uomo che non si è mai sentito donna", Chinaski Editore, 2014.
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martedì 18 novembre 2014

Forze Armate: prospettive a fronte della crisi Ucraina

L’Italia nell’Alleanza atlantica
Nato, dalle missioni alla trincea?
Carolina De Simone, Paola Tessari
15/11/2014
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“Siamo vicini a una nuova Guerra Fredda”, ha affermato Michail Gorbaciov durante le celebrazioni per il venticinquesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino.

La crisi scoppiata in Ucraina ha infatti riportato un conflitto armato in Europa a quindici anni da quello in Kosovo, richiamando l’attenzione sulla situazione di instabilità di alcuni paesi europei e dell’architettura di sicurezza regionale.

Considerate l’importanza della Russia come partner economico e la vicinanza ad aree di crisi quali il Mediterraneo e l’Est Europa, per l’Italia è opportuno chiedersi come tutelare gli interessi nazionali, in particolare in riferimento alla Nato come “polizza di assicurazione” per la sicurezza collettiva euro-atlantica, e come framework nel quale perseguire i propri obiettivi di politica estera e di difesa anche attraverso lo strumento delle missioni fuori area.

Partendo dall’analisi dei rapporti tra l’Alleanza e la Russia e dagli obiettivi della partecipazione italiana ad alcune missioni Nato, una conferenza organizzata dallo IAI e dal Centro studi americani il 20 novembre rifletterà sul rapporto tra interessi nazionali e Alleanza Atlantica.

Relazioni Nato-Russia 
La crisi ucraina ha riportato l’attenzione sul ruolo della Nato come garante della difesa collettiva dei suoi membri, ma le radici delle tensioni tra l’Alleanza e la Russia affondano nel quindicennio precedente.

Ad esempio, l’allargamento della Nato a est era inteso come uno dei mezzi a disposizione dell’Alleanza per contribuire alla stabilità dei paesi dell’Europa orientale. Anche se in parte ha svolto questa funzione, al tempo stesso è stato interpretato da Mosca come una minaccia, contribuendo a inasprire i rapporti con la Russia.

La questione degli interessi nazionali è in questo contesto particolarmente complessa per le sue ramificazioni economiche, in particolare riguardo alla sicurezza energetica dell’Italia e ai rapporti commerciali con Mosca.

A seguito della spirale di sanzioni adottate da Ue e Russia, l’export italiano verso Mosca ha registrato una perdita di circa 2,4 miliardi di euro nel biennio 2014-2015, mentre i profitti russi derivanti dalle esportazioni di gas risultano diminuiti del 41% nel primo trimestre del 2014.

La Nato non ha ovviamente responsabilità diretta per quanto riguarda le sanzioni, decise in ambito Ue, ma la dimensione di sicurezza della crisi è evidente e la sua soluzione richiede un approccio strategico dell’Alleanza verso Mosca.

L’Italia ha quindi un doppio interesse al mantenimento della pace e della sicurezza in Europa, in quanto obiettivi a se stanti e come presupposto per una crescita economica che beneficerebbe tutta l’economia europea.

Missioni Nato e politica estera italiana
Se nell’ultimo anno, almeno per molti dei suoi membri, l’Alleanza ha ridato priorità al suo obiettivo originario di difesa collettiva, dalla fine della Guerra Fredda la Nato ha svolto prevalentemente operazioni di gestione delle crisi al di fuori dal territorio degli stati membri, missioni tuttora in corso in Kosovo, Afghanistan e Golfo di Aden.

L’Italia ha preso parte a un significativo numero di queste missioni, nonché a una serie di operazioni Onu e Ue, prevalentemente nei Balcani, Medio Oriente, Afghanistan e Africa.

L’ingente impegno profuso dal paese in termini di uomini e mezzi ha rappresentato uno strumento fondamentale sia della politica di difesa, sia della politica estera italiana.

Gli obiettivi perseguiti sono stati diversi: alcuni specificatamente legati al teatro operativo e altri più generali, connessi al sistema di alleanze di cui l’Italia fa parte, bilanciati in combinazioni differenti a seconda delle diverse contingenze.

Ad esempio, nel caso della missione in Kosovo del 1999, la necessità di contrastare l’instabilità nel quadrante balcanico e di tutelare gli interessi specifici in termini di sicurezza relativi al contenimento dei flussi migratori provenienti dalle zone di crisi attraverso l’Adriatico ha giocato un ruolo decisivo nella scelta a partecipare presa dall’esecutivo italiano.

L’Italia ha contribuito in modo rilevante alle operazioni anche al fine di mantenere un solido rapporto con gli Stati Uniti e salvaguardare la posizione italiana all’interno della Nato e della comunità internazionale.

Isaf, l’Italia consolida la sua posizione internazionale
Queste ultime ragioni sono state fondamentali per la decisione da parte di diversi governi italiani di garantire dal 2002 al 2014 una significativa partecipazione alla missione Isaf in Afghanistan, l’operazione più impegnativa della storia dell’Alleanza in termini sia quantitativi che qualitativi.

Gli obiettivi di mantenere strette relazioni con Washington e di consolidare la posizione italiana nella Nato e nel consesso internazionale, sono stati infatti determinanti per la scelta italiana rispetto alla pur importante necessità di stabilizzare l’Afghanistan.

Le missioni fuori area e la funzione di “polizza di assicurazione” della sicurezza euro-atlantica sono due facce della stessa medaglia in quanto entrambi “core tasks” dell’Alleanza che i paesi membri devono bilanciare sul piano militare e politico.

È oggi ancor più necessario per l’Italia capire come la partecipazione alle missioni abbia pagato - e paghi tuttora - in termini politici, rispetto alla posizione italiana nell’Alleanza e al rapporto con gli Stati Uniti. Questo nell’ottica di capire come operare a partire da queste basi per la tutela degli interessi nazionali anche nel quadro dei rapporti Nato-Russia.

Paola Tessari (@paola_tessari) e Carolina De Simone (@_cdesimone) sono assistenti alla ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI.
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Europa: nuove prospettive per uscire dalla crisi

Unione europea
L’Italia traini la governance europea
Antonio Armellini
08/11/2014
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“Uscire dall’Europa” per recuperare una sovranità nazionale perduta, come reclama una schiera sempre più folta di euroscettici, non ha molto senso.

Per la semplice ragione che dell’Europa (a 28) siamo parte costituente ed attore primario: spesso neghittoso, è vero, ma pur sempre attore. È dunque all’interno e non contro l’Europa che dobbiamo esercitare la nostra sovranità.

Rincorrendo la locomotiva tedesca
L’euro ha imposto un difficile percorso di adattamento dei paesi membri, ma ha offerto importanti possibilità. La Germania le ha sapute cogliere, avviando una serie di riforme che hanno pagato, eccome: se oggi Berlino torreggia su tutti i partner è perché questi non sono stati capaci di introdurre nelle loro economie i cambiamenti che avrebbero potuto contenere il divario dalla locomotiva tedesca.

Di tutto ciò le responsabilità vanno ricercate in chi in questi vent’anni ha governato a Roma (e a Parigi): non certo nella Germania che ha fatto, legittimamente, il proprio interesse.

Il “vincolo esterno” dell’Europa è stato usato non solo dagli anni ottanta/novanta per far passare scelte altrimenti impraticabili. È stato lo strumento con cui i governi della Prima Repubblica riuscirono a superare resistenze e introdurre il paese alla modernità: l’integrazione delle economie era vista come la premessa condivisa di una unione politica dall’impianto federale.

Il progetto europeo originario è sbiadito man mano che in “Europa” entravano paesi dalle storie diverse, realizzando una unificazione geopoliticamente importante, ma disomogenea.

Il collante è diventato la razionalizzazione economica, di cui la politica doveva essere mezzo e non guida, e l’euro è assurto a simbolo di una Europa governata da tecnocrati senza volto né patria e appesantita da un “deficit di democrazia”. Una caricatura, senza dubbio, ma molto diffusa.

Unione monetaria
L’unione monetaria avrebbe dovuto imprimere un colpo d’ala all’integrazione politica dell’Europa; l’euro ne era stato concepito come uno strumento rivoluzionario e innovativo, non come un fine.

Anche per questo a Maastricht si procedette con un accordo che nasceva tronco, nella convinzione che la dinamica dell’integrazione avrebbe reso inevitabile il passaggio a una vera unione economica. Passaggio che avrebbe richiesto una volontà politica coesa che è venuta meno perché, nel frattempo, sono andate crescendo le differenze su cosa significhi e come debba avanzare l’Unione europea.

La salute dell’Eurozona è fondamentale per la stessa Germania e la sua posizione dominante dovrà essere riequilibrata: non attraverso ukaze di carta, bensì recuperando il ruolo della politica.

Solo una unione monetaria consentirebbe una gestione comune delle politiche nazionali, calmierando le gelosie ed eccessi nazionali attuali. Aldilà degli sforzi di Mario Draghi, senza un governo comune l’euro potrà difficilmente resistere alle tensioni e la sua fine sarebbe un disastro per l’economia mondiale.

È poco probabile che a un simile governo saranno disponibili a partecipare da subito tutti: ci vorrà una combinazione coraggiosa di inventiva politica e di sapienza istituzionale per trovare formule idonee.

Una presidenza italiana tesa a lasciare una traccia significativa del suo passaggio non dovrebbe lasciarsi sfuggire una simile occasione: sarebbe in linea con la tradizione del nostro paese, di avere sempre supplito alla scarsità di peso specifico grazie a una capacità di proposta politica di grande visione.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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lunedì 27 ottobre 2014

Si affronta il nodo energetico

Energia
L’Italia in campo per le politiche energetiche europee
Nicolò Sartori
18/10/2014
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Nei piani del governo italiano, il Consiglio europeo del 23-24 ottobre dovrebbe raggiungere un accordo sulla definizione della governance delle politiche energetiche e climatiche dell’Unione europea (Ue) al 2030.

Lo scopo è definire i poteri, le modalità, e i meccanismi per far rispettare gli obiettivi energetici dell’Europa post-2020. Il raggiungimento di un accordo sulla governance rappresenta una delle quattro priorità definite dalla presidenza italiana del semestre europeo in ambito energetico, insieme al completamento del mercato interno, il rafforzamento della sicurezza energetica e della dimensione esterna della politica energetica dell’Ue.

L’iniziativa italiana ha una portata significativa, soprattutto considerati gli sforzi europei di mettere in atto una politica energetica comune che sappia unire le esigenze di competitività economica e sicurezza degli approvvigionamenti agli ambiziosi obiettivi dell’Ue in materia di sostenibilità e lotta ai cambiamenti climatici.

Dal Pacchetto 2020 al Quadro 2030
Il ‘Quadro delle politiche per il clima e l'energia al 2030’ proposto dalla Commissione introduce una serie di aggiustamenti sia in termini di politiche che di obiettivi.

La principale novità è il passaggio dalla triade di obiettivi nazionali nei settori delle emissioni di gas a effetto serra, delle rinnovabili e dell’efficienza energetica prevista dal Pacchetto 2020, a un solo obiettivo vincolante per gli stati membri in materia di riduzione delle emissioni.

Alla base di questa scelta c’è la volontà dell’Ue di incoraggiare l’azione dei governi contro i cambiamenti climatici attraverso l’adozione di misure e strumenti ritenuti economicamente e tecnologicamente più adeguati (ed efficienti) in base alle caratteristiche e specificità di ciascuno stato membro.

La maggiore flessibilità prevista dal Quadro 2030, in particolare, risponde alla necessità - sancita dal Trattato di Lisbona - di garantire piena libertà ai governi nel determinare il loro mix energetico senza imposizioni da parte dell’Ue, come invece accade in base regime regolatorio attualmente in vigore in materia di rinnovabili.

Il Quadro 2030 fissa infatti obiettivi per le rinnovabili e l’efficienza energetica - rispettivamente al 27% e 30% - da perseguire unicamente a livello europeo, e quindi senza che vengano declinati in target nazionali vincolanti per gli stati membri.

Governance delle politiche energetiche e climatiche europee
Oltre ad aggiustare il tiro su ‘trilemma’ emissioni-rinnovabili-efficienza, il Quadro 2030 affronta per la prima volta il tema della governance, ovvero della definizione dei poteri, delle procedure, e dei meccanismi per stabilire e far rispettare gli obiettivi fissati da Bruxelles.

Se in precedenza la governance era assicurata attraverso meccanismi disomogenei e frammentari per ciascuno dei tre settori di riferimento, il Quadro 2030 propone una serie di innovazioni che dovrebbero rendere l’azione dell’Ue e degli stati membri più coerente e efficace.

La prima è l’introduzione dei ‘Piani nazionali per un'energia competitiva, sicura e sostenibile’, che accorpano in un unico documento le misure, gli strumenti e le traiettorie che gli stati membri sono chiamati a predisporre per raggiungere (o contribuire a raggiungere) gli obiettivi fissati dall’Ue in materia di emissioni, rinnovabili ed efficienza.

La seconda è la definizione di un processo iterativo in tre fasi, attraverso il quale la Commissione: sostenga gli stati membri nella definizione dei propri obiettivi e delle misure da attuare; garantisca il coordinamento tra governi interessati ad approfondire la cooperazione bilaterale e/o regionale; assicuri la valutazione degli sforzi nazionali verso il raggiungimento degli obiettivi.

Data l’assenza di obiettivi nazionali vincolanti nel settore delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, i meccanismi di governance e di coordinamento previsti dovrebbero giocare un ruolo fondamentale nell’assicurare il raggiungimento dei target del 27% e 30% fissati dalla Commissione attraverso misure ‘volontarie’ da parte degli stati membri.

Debolezze del Quadro 2030 
Nonostante le misure proposte per migliorare la coerenza degli obiettivi e la governance delle politiche energetiche e climatiche europee, il Quadro 2030 presenta alcune sostanziali debolezze.

La prima è l’incertezza determinata intrinsecamente dal passaggio da obiettivi obbligatori nazionali a target vincolanti esclusivamente a livello europeo. Una simile scelta potrebbe determinare forti dubbi tra gli investitori sul reale impegno dell’Ue e degli stati membri in particolare nel settore delle rinnovabili. Il rischio è che il vantaggio competitivo accumulato dall’Europa (e pagato a caro prezzo dai contribuenti europei) negli anni passati, venga dilapidato nel giro di poco tempo.

Questo rischio è ancor più elevato data la natura dei meccanismi di governance proposti dal Quadro 2030 che non prevedono nessun reale potere di guida, né tanto meno di enforcement, in capo alla Commissione, per garantire il raggiungimento degli obiettivi europei.

La sfida è quindi complessa, e ogni soluzione proposta dal governo italiano al Consiglio europeo dovrà tener conto da un lato della necessità di flessibilità richiesta a gran voce dagli stati membri, e dall’altro l’impegno sottoscritto dalla Commissione sui temi del clima e dell’ambiente.

Sforzo sottolineato con forza anche dal neo Presidente eletto Jean-Claude Juncker anche attraverso la creazione della posizione di Vice Presidente per l’Unione energetica e del nuovo Commissario per l’energia e il clima.

Nicolò Sartori è responsabile di ricerca del Programma Energia dello IAI (Twitter: @_nsartori).
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Juncker: un piano da 300 miliardi

Italia-Ue
Conti in bilico aspettando Godot
Giampiero Gramaglia
17/10/2014
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Questa volta, Godot arriverà. Ma bisognerà attendere la primavera, o quasi, perché il personaggio uscito dalla fantasia di ‘Becket’ Juncker compaia sulla scena dell’Unione: in carne ed ossa, anzi files e documenti, perché questa è la vera natura del piano da 300 miliardi d’investimenti che tutti aspettano e che nessuno ha finora visto.

Del ‘piano Juncker’, è stato il falco designato della nuova Commissione, l’ex premier finlandese Jyrki Katainen, a fornire finora più elementi, rispondendo alle domande del Parlamento europeo: "Voglio presentare il pacchetto lavoro, crescita, investimenti entro 3 mesi dall’inizio del mandato", il 1° novembre, se non ci saranno ritardi per la bocciatura dell’ex premier slovena Alenka Bratušek.

‘Piano da 300’ a parte, il nuovo Esecutivo non sarà certo tutto ‘rose e fiori’, sul crinale tra stabilità e flessibilità. Katainen in Parlamento è stato chiaro: dare slancio agli investimenti, ma senza aumentare il debito; e non lasciare che “i problemi di 2 o 3 Paesi” condizionino l’Eurozona - c’è chi si sente fischiare le orecchie?

In Italia, il premier Renzi dice d’aspettarsi che i vertici delle Istituzioni comunitarie “interpretino” la nuova fase della ‘sua’ Italia. Ma il primo esame della Legge di Stabilità trasmessa a Bruxelles la sera del 15 ottobre dal Consiglio dei Ministri toccherà all’attuale Commissione, la Barroso 2, che ha tempo fino al 29 ottobre per presentare le proprie osservazioni.

Il ‘piano Juncker’, soldi da spendere bene
Per Katainen, vice-presidente per lavoro, crescita, investimenti e competitività, il ‘piano Juncker’ è la prima priorità: vuole "mobilitare tutti gli strumenti a livello europeo e nazionale e migliorare l’uso dei fondi del bilancio Ue, massimizzare il ruolo della Bei e delle banche pubbliche nazionali d’investimenti e fare in modo che il consolidamento sostenga gli investimenti". Fin qui, più parole che cifre.

"A livello nazionale - prosegue Katainen -, bisogna migliorare la qualità della spesa pubblica". E il ruolo dei bilanci nazionali negli investimenti sarà subordinato al rispetto del Patto di Stabilità, aprendo, però, a un “miglior uso della flessibilità”.

Il vice-presidente intende assicurarsi che l'opera di riforma dei Paesi sia finalizzata a rimuovere gli ostacoli per gli investimenti e, a tal fine, vuole "rafforzare ancora di più la governance economica, per aumentare l'impegno e la responsabilità degli stati nell’attuare le riforme".

Questa la visione dell’ex premier finlandese, cui Juncker lascia, in questa fase, molto spazio. Ma Katainen dovrà lavorare a stretto contatto con gli altri commissari che si occupano di economia, specie il responsabile degli affari economici Pierre Moscovici, un francese, l’uomo della crescita. Lo schema suscita dubbi, ma il vice-presidente li smorza, descrivendosi come "team-leader, costruttore di ponti, coordinatore".

Il Parlamento di Strasburgo intende vigilare perché il ‘piano Juncker’ sia “reale e non una finzione" - soldi, non parole - e perché "si usi a pieno la flessibilità presente nelle regole, i Paesi in recessione devono poter beneficiare di un tempo più lungo per raggiungere gli obiettivi" di consolidamento del bilancio. Gianni Pittella, capogruppo S&D, invita Katainen a “smetterla di fare il falco”.

La ‘stagione di mezzo’ tra una Commissione e l’altra
Per l’Unione europea, questa è una ‘stagione di mezzo’: la Commissione Barroso fa i suoi addii, cercando di lasciare buoni ricordi; e la Commissione Juncker deve ancora entrare in funzione, ma già agita il bastone e la carota.

Nel vuoto di potere del passaggio delle consegne a Bruxelles, Renzi tira fuori riforme come fossero ciliegie e la Merkel non ha paura di vedersi crescere un naso da Pinocchio, dicendosi sicura che l’Italia e la Francia rispetteranno gli impegni europei.

Il tutto in un clima di reciproci salamelecchi. Per cui i leader dell’Ue salutano positivamente il ‘Jobs Act’, pur senza conoscerne il contenuto e la portata, e Barroso si dice sicuro che l’Italia d’ora in poi spenderà bene i fondi europei, che ha sempre usato poco e male.

Galvanizzato, il premier sposta subito l’attenzione su un’altra riforma, quella fiscale, senza fare caso a che nessuna di quelle finora impostate - legge elettorale, Senato, Province, P.A., lavoro - è stata portata a compimento: “Se faremo le scelte giuste - dice-, tra vent’anni saremo un Paese leader”. Viene il dubbio che i mille giorni stiano per diventare, nella narrativa renziana, un Ventennio.

Il ‘tira e molla’ sulla Legge di Stabilità
Intanto, sulla Legge di Stabilità, l’Italia si prepara a vivere il consueto ‘tira e molla’ con le autorità di Bruxelles. Il ministro Pier Carlo Padoan afferma con sicurezza: l’Ue non boccerà l’Italia, perché “abbiamo i numeri giusti e siamo tra i pochi che stanno sotto la soglia del deficit del 3%”.

Tra promesse ostentate, preoccupazioni smorzate, tentazioni di compiacimento (per il ‘Jobs Act’), le prossime due settimane saranno cruciali. Se la Legge di Stabilità italiana risultasse in contrasto con le regole dell’Ue, sarebbe certamente rispedita al mittente per modifiche parziali o sostanziali. E la Commissione potrebbe persino minacciare l’apertura di una procedura d’infrazione.

L’attenzione delle autorità comunitarie si concentra su due aspetti: le coperture, aleatorie tra lotta all’evasione e spending review; e i saldi della finanza pubblica, che portano il disavanzo al 2,9% (dal 2,2% previsto nel 2015) e rinviano il pareggio di bilancio al 2017. L’impostazione potrebbe non piacere agli alfieri del rigore. E la valutazione europea s’intreccia con l’iter parlamentare, che rischia di peggiorare il provvedimento, almeno in ottica Ue.

Gli elementi che paiono certi sono una manovra da 36 miliardi, con meno tasse per 18 miliardi, l’allargamento del deficit, 15 miliardi dalla ‘spending review’, 3,8 dalla lotta all’evasione. Renzi parla della riduzione delle tasse più grande nella storia italiana. Padoan ammette che “è possibile che le Regioni alzino le tasse”. Per i sindacati, la manovra non risponde all’emergenza del Paese. Per gli imprenditori, invece, va nella direzione giusta.

Grecia, borse, Fmi, il contesto economico
L’Italia chiede l’applicazione delle clausole di flessibilità previste in caso di congiuntura negativa. Ma la diffidenza degli eurocrati quando c’è di mezzo l’Italia è acuita dal contesto economico, bruscamente peggiorato: deterioramento della situazione in Grecia: giù le borse coi listini al minimo dal 2013 e su lo spread (risalito fino a 200 punti).

Le agenzie di rating mollano randellate a destra e a manca, ma, per il momento, risparmiano l’Italia. Che è invece tartassata dalle previsioni economiche dell’Fmi: Pil in calo dello 0,2% quest’anno, unico grande Paese in recessione. L’Italia resta vulnerabile - nota la Bce -, senza crescita né fiducia.

L’Istat sforna raffiche di cattive notizie: il Pil non cresce dal 2011, il potere d’acquisto è sceso dell’1,4%, la percezione di stagnazione si rafforza, la deflazione è peggiore del previsto. Ma, aspettando Godot, noi chiediamo comprensione all’Ue.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI (Twitter: @ggramaglia).
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Immigrazione: un nodo da sciogliere

Cittadinanza
Lo ius soli temperato di Renzi
Marco Gestri
11/10/2014
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Da qualche anno è in corso un dibattito sull’opportunità di modificare le norme sulla cittadinanza, soprattutto nel senso di favorirne l’acquisto da parte dei giovani d’origine straniera nati in Italia.

Lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha affermato che ciò corrisponderebbe, oltreché a una legittima aspettativa degli interessati, all’esigenza di “acquisire delle giovani nuove energie ad una società largamente invecchiata”.

Le norme sulla cittadinanza sono stabilite mediante legge ordinaria, la n. 91 del 1992. La Costituzione, salvo l’art. 22 che vieta la privazione della cittadinanza per motivi politici, non prevede alcuna regola in materia.

Ius soli e ius sanguinis in Italia
La legge n. 91/1992 adotta quale criterio principale per l’attribuzione della cittadinanza lo ius sanguinis: è cittadino il figlio di padre o madre italiani. Al criterio dello ius soli è attribuita diretta rilevanza solo eccezionalmente, per limitare l’apolidia: è cittadino chi è nato nel territorio della Repubblica “se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono”.

Negli altri casi, la nascita nel territorio assume comunque qualche rilievo: lo straniero nato in Italia diviene cittadino italiano qualora vi abbia risieduto fino al raggiungimento della maggiore età e dichiari, entro un anno, di voler acquistare la cittadinanza.

Anche il nostro ordinamento prevede poi la possibilità d’acquistare la cittadinanza per naturalizzazione (provvedimento discrezionale dello stato, che esprime una sorta di gradimento dello straniero). In base alla regola generale, può chiedere la naturalizzazione chi risieda da dieci anni nella Repubblica. Sono previsti anche termini abbreviati, in particolare per lo straniero nato in Italia, che può chiederla dopo tre anni di residenza.

Rischio turismo di cittadinanza 
La disciplina ora ricordata è ritenuta da più parti eccessivamente severa o “non inclusiva” (ma non mancano proposte per renderla più rigida..). Molti si sono pronunciati per modifiche fondate sul criterio dello ius soli “puro”, in virtù del quale ogni individuo nato in Italia diverrebbe cittadino italiano.

Si sostiene talora che si tratterebbe di scelta richiesta dall’Europa e largamente condivisa. In realtà, la normativa Ue lascia la materia alla disciplina nazionale e nessun paese europeo prevede lo ius soli puro. Risultava accolto sino al 2005 dall’Irlanda che lo ha però eliminato a seguito del dibattito suscitato dalla sentenza Zhu della Corte Ue.

Questa ha avallato la manovra di una coppia cinese, recatasi in Irlanda poco prima della nascita della figlia per farle acquisire la cittadinanza irlandese/europea e il conseguente diritto a risiedere in Gran Bretagna, nonostante sia Irlanda che Regno Unito la considerassero fraudolenta.

In effetti, la previsione dello ius soli puro (o accompagnato da condizionamenti minimi) favorirebbe un “turismo di cittadinanza” e potrebbe suscitare riserve in altri stati Ue: l’acquisto della cittadinanza italiana implicherebbe quello della cittadinanza europea e del diritto di soggiorno in tutta l’Unione.

Più realistica la proposta, più volte annunciata dal primo ministro Matteo Renzi, d’introdurre uno ius soli “temperato” (da ulteriori requisiti, quali frequenza scolastica o residenza). A ben vedere questo esiste già, dato che la legge vigente prevede per il nato in Italia la possibilità d’ottenere la cittadinanza per naturalizzazione dopo una residenza di tre anni, termine tutt’altro che lungo.

È peraltro vero che si tratta di possibilità condizionata da un atto discrezionale dello stato e che i tempi si dilatano per le lungaggini burocratiche (anche oltre due anni).

Integrare giovani nati o cresciuti in Italia
Per migliorare l’applicazione della legge potrebbe forse bastare uno snellimento delle procedure burocratiche. Modifiche sostanziali alle norme sulla cittadinanza dovrebbero a mio avviso esser il frutto di scelte largamente condivise: anche se stabilite da legge ordinaria, si tratta di regole fondamentali, che definiscono una componente essenziale dello stato (il “popolo” e conseguentemente il corpo elettorale), e appartengono dunque alla costituzione materiale.

Ciò ricordato, pare ragionevole intervenire per stabilire l’acquisto della cittadinanza da parte degli stranieri nati in Italia, o qui giunti in giovane età, al termine di un percorso che ne attesti l’effettiva integrazione nella nostra società (compimento di un intero ciclo di studi o frequenza scolastica pluriennale), anziché in virtù della mera residenza prolungata.

Tra l’altro, i giovani d’origine straniera possono rappresentare un ponte tra culture diverse (di provenienza e dello stato di residenza) e favorire l’integrazione dell’intera comunità familiare.

Potrebbe anche delinearsi un’abbreviazione del periodo di residenza generalmente richiesto per la concessione della naturalizzazione, tra i più lunghi in Europa (ad es. da 10 a 8 anni o anche a 5, come in diversi Stati europei e in Italia prima della riforma del 1992).

Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.
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Politica Estera: LO Stato Islamico e L'Italia

Casini e Cicchitto, l'Onu contro il Califfo
Si può intervenire anche senza le Nazioni Unite
Natalino Ronzitti
13/10/2014
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Per la politica estera italiana, questi sono giorni di transizione essendo il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, proiettata verso l’assunzione delle responsabilità a Bruxelles come Alto rappresentante della politica estera europea. Di fronte alla tragedia che si sta consumando in Iraq e soprattutto in Siria ad opera delle truppe del Califfato, l’Italia ha scelto un basso profilo.

Mentre gli alleati partecipano ai raid aerei della coalizione a guida Usa, noi ci siamo limitati a fornire qualche armamento, che da tempo si trovava nei nostri magazzini, ai peshmerga curdi e ad assicurare un non meglio specificato rifornimento in volo.

Di fronte alla sostanziale latitanza del nostro governo, bene hanno fatto i Presidenti delle Commissioni affari esteri del Senato e della Camera, Pierferdinando Casini e Fabrizio Cicchitto, a richiamare l’attenzione, con un intervento sul Corriere della Sera (11 ottobre), sulla tragedia che si sta consumando a Kobane e a sollecitare un’efficace azione internazionale. Ma con quali mezzi e quali iniziative?

Le Nazioni Unite
La proposta è di un’efficace azione delle Nazioni Unite. Ma, ahimè, le Nazioni Unite possono sì intervenire, ma con quale incisività è tutto da dimostrare. Un intervento armato dell’organizzazione mondiale, volto ad imporre la pace, è fuori discussione: esso sarebbe conforme allo spirito dello statuto, ma le relative disposizioni non hanno mai trovato una compiuta attuazione.

Operazioni di mantenimento della pace sono possibili, ma dipendono dal consenso delle parti e soprattutto dal consenso della Siria. La condicio sine qua non è una risoluzione del Consiglio di sicurezza (Cds), la cui adozione postula il voto positivo di nove membri sui quindici componenti l’organo, incluso il voto dei cinque membri permanenti, ognuno dei quali potrebbe porre il veto (vedi Russia, ma anche Cina) e paralizzare l’azione del Consiglio.

Le Nazioni Unite potrebbero proclamare un’area protetta intorno a Kobane e/o altre località. Ma anche in questo caso è necessaria una risoluzione del Cds, che rimarrebbe esposta al veto russo-cinese. Tra l’altro la proclamazione dell’area protetta senza l’invio di truppe che ne assicurino la difesa non ha nessuna efficacia, come dimostrano le esperienze del passato.

Prova ne sia l’area protetta di Srebrenica, dove le forze Onu presenti restarono impotenti e non riuscirono a prevenire il massacro della popolazione operato dai serbo-bosniaci. L’elenco potrebbe continuare.

L’esperienza dimostra che le Nazioni Unite, in quanto organizzazione, difficilmente possono attuare una politica d’intervento che comporti l’uso della forza armate. Esse, tramite il Cds, possono però autorizzare gli stati a farlo, com’è avvento per la Libia nel 2011 e come non si è potuto realizzare per la Siria, a causa del monopolio dei membri permanenti del Consiglio sulle questioni che comportano l’uso della forza armata.

Anche la pretesa della Turchia, secondo cui gli stati Uniti dovrebbero istituire una no-fly zone intorno a Kobane prima che l’esercito turco si decida ad attraversare il confine, richiederebbe in linea di principio una risoluzione del Cds, in assenza del consenso della Siria. Senza dimenticare che l’obiettivo della no-fly zone non sarebbe tanto la protezione contro le forze del Califfato, che non dispone di una aviazione, quanto un intervento contro il regime di Assad.

Intervento senza mandato delle Nazioni Unite
Non resta quindi che intervenire senza un mandato delle Nazioni Unite. Sarebbe giuridicamente fondato?

Vi potrebbe essere una duplice giustificazione:
a) L’intervento armato è stato richiesto dall’Iraq, per combattere le forze del Califfato presenti sul suo territorio. Ciò è perfettamente lecito. Il governo costituito può chiamare in soccorso altri stati per stroncare una ribellione. A prima vista questa esimente non sembrerebbe giustificare lo sconfinamento dei raid aerei in Siria. Ma così non è, poiché l’Iraq ha diritto di esercitare la legittima difesa nei confronti di attacchi provenienti dalla Siria ad opera dei combattenti del Califfato. La legittima difesa contro attori non statali è ormai nozione acquisita e si può intervenire in territorio altrui (in questo caso la Siria) per contrastare la minaccia. Gli Stati Uniti e i loro alleati, con i loro raid aerei in Siria, non fanno altro che esercitare il diritto di legittima difesa collettiva;

b) L’altra giustificazione è quella dell’intervento umanitario. A parere di chi scrive l’intervento umanitario è illecito senza l’autorizzazione del Cds, non condividendo neppure il sofisma per cui l’intervento sarebbe illecito ma legittimo. Tuttavia gli stati occidentali, Italia inclusa, hanno invocato questa esimente per intervenire in Kosovo e in altre occasioni.

Conclusioni
In conclusione, occorre realisticamente ammettere che non è sufficiente invocare l’intervento delle Nazioni Unite che, nell’attuale situazione, sono impotenti. Al massimo possono adottare, come hanno fatto, una risoluzione che obbliga gli stati ad impedire che loro cittadini si arruolino nelle truppe del Califfato.

Un’efficace politica d’intervento resta prerogativa degli stati, che possono vantare solide giustificazioni giuridiche. Si tratta quindi solo di volontà politica e di prendere atto che i raid aerei senza un impegno sul terreno servono a ben poco.

Quanto all’Italia e al suo basso profilo, il nostro paese non può trincerarsi dietro l’alibi delle Nazioni Unite. Tra l’altro un’azione più robusta non sarebbe contraria all’art. 11 della Costituzione, che condanna la guerra d’aggressione, mentre nel caso concreto si tratterebbe di un intervento in legittima difesa collettiva o, se si preferisce, di un intervento umanitario che, in quanto tale, non costituisce un atto di aggressione, qualora sia genuinamente motivato.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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lunedì 20 ottobre 2014

Questi curiosi svizzeri

Svizzera
Il Ticino chiude su Expo
Cosimo Risi
01/10/2014
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Nuova ondata di referendum a Berna e dintorni. Alcuni con portata federale e altri cantonale. Di rilievo per i rapporti con l’Italia è quello indetto - come gli altri il 28 settembre - nella Repubblica Cantone Ticino, su iniziativa della Lega Ticinese, che riguarda il finanziamento che il Cantone dovrebbe versare all’allestimento del padiglione svizzero all’Expo.

La cifra in questione è tutto sommato modesta, attorno ai 3 milioni di euro, ma il significato dell’iniziativa la dice lunga sull’atteggiamento del Cantone riguardo all’esposizione milanese.

Al voto ha partecipato poco più del 50% degli elettori, il 54% dei quali si è opposta al finanziamento del padiglione Expo. Il Consiglio di stato (governo) ticinese non può impegnare fondi pubblici per il padiglione all’Expo.

Lo stesso Consiglio di stato aveva però in serbo un “piano B”, scattato appunto con il voto, che prevede la copertura almeno parzialmente della spesa tramite privati assieme al fondo Swissloss, finanziato dalle lotterie. I privati metteranno a disposizione un milione di euro per essere presenti nel padiglione. Una somma che potrebbe crescere.

Il risultato del voto non ha conseguenze pratiche. Il Ticino partecipa all’Expo, sia pure in forma non strettamente ufficiale. La comunità d’affari si prepara a intercettare quella parte di traffico che guarderà alla Svizzera meridionale come al retrovia della Lombardia.

Corrente anti-italiana?
Il referendum ha però un significato politico da non sottovalutare. Nella presentazione dei sostenitori del referendum e ora della maggioranza degli elettori, Expo è la plastica rappresentazione di un’Italia che non funziona. Teatro di sprechi e malversazioni da cui è bene tenersi lontano.

Inoltre, è la seconda volta in pochi mesi che il Cantone si esprime in modo sfavorevole all’Italia. A febbraio votò massicciamente per il “no all’immigrazione di massa” e il voto lasciò trasparire in filigrana la riserva sull’afflusso dei nostri lavoratori frontalieri.

Pensare a una corrente anti-italiana nel solo Cantone totalmente italofono della Confederazione sarebbe eccessivo e fuorviante. L’analisi deve considerare i fattori interni del voto: la strisciante e ora aperta pressione nei confronti della Svizzera e della parte germanofona, responsabili di pensare al loro “particulare” trascurando le regioni di frontiera.

AlpTransit
Il tasso di sviluppo diverge fra la varie parti della Confederazione, ma quello di disoccupazione si sta riducendo fino a portare il Ticino vicino alla media nazionale del 3%. I collegamenti al di qua e al di là delle Alpi sono difficili. Il progetto AlpTransit (la più lunga galleria d’Europa) faciliterà gli spostamenti nord-sud su rotaia. Questi si fermeranno a Chiasso se il versante italiano non si attrezza.

I ticinesi completano per tempo le tratte di loro pertinenza, mentre quelle italiane si bloccano per qualsiasi motivo: dal fermo giudiziario alla mancanza di fondi.

Il messaggio che arriva a Berna sembra essere: “Noi in Svizzera facciamo quanto necessario per stare in un contesto sempre più europeo, voi dall’altra parte dichiarate molto e realizzate poco”.

Sullo sfondo è la grande questione dei rapporti con l’Unione europea. La critica all’Italia è mossa a uno stato membro fondatore che si schiera al fianco delle istituzioni europee per richiamare la Confederazione al rispetto dei patti. Non ha corso la richiesta svizzera di rinegoziare l’accordo sulla libera circolazione delle persone. La partita a tre prosegue.

Cosimo Risi è Ambasciatore d’Italia in Svizzera; ha servito a lungo a Bruxelles.
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mercoledì 15 ottobre 2014

Verso nuovi orizzonti cinesi

Italia-Cina
Come cambiano gli investimenti italiani in Cina
Marco Sanfilippo
23/09/2014
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Gli investimenti diretti esteri (Ide) in entrata e uscita dalla Repubblica popolare cinese (Rpc) rappresentano uno strumento di grande importanza dal punto di vista economico, perché legati alle dinamiche di produzione globale, e, più in generale, alle relazioni tra paesi.

Per questo sono spesso nell’agenda delle visite ufficiali, inclusa l’ultima del presidente del Consiglio italiano nella Rpc. Appare quindi opportuno riflettere proprio sul ruolo della Rpc nelle strategie di investimento all’estero dell’Italia.

Investimenti diretti esteri italiani
Rispetto al peso economico complessivo, l’Italia non è tra le principali fonti di Ide a livello globale. I flussi in uscita dal nostro paese oscillano in media tra l’1 e il 3% di quelli globali, un valore decisamente inferiore a quello dei principali paesi europei, inclusi alcuni competitor diretti quali Germania e Francia, entrambi con una media superiore al 6% nell’ultimo decennio.

Geograficamente, la gran parte degli investimenti italiani si distribuisce nei vicini paesi europei. L’assenza - con qualche eccezione - di vere e proprie multinazionali e la prevalenza di piccole e medie imprese ben spiega la riluttanza a esplorare contesti più distanti, e quindi rischiosi, seppure ricchi di opportunità.

La Rpc non fa eccezione: ha ricevuto finora solo circa il 2% dello stock degli investimenti all’estero italiani, anche se il valore appare più rilevante laddove si guardi al numero totale di affiliate estere (1.103) e, in particolare, al numero di addetti (85 mila) (Tabella 1).

Fonte: Elaborazione su dati Eurostat e ICE-Reprint (Mariotti e Mutinelli, 2012, Italia Multinazionale).
Nota: Lo stock rappresenta la somma degli investimenti all'ultimo anno disponibile.


Imprese italiane in Cina 
I dati dell’ultimo decennio gettano luce sulle dinamiche più recenti e sui cambiamenti in corso nelle strategie delle imprese italiane in Cina. Nel periodo 2003-2011, la quota di Ide italiani nella Rpc è risultata circa la metà di quella francese e un terzo circa di quella tedesca (Figura 1), a dimostrazione delle difficoltà strutturali nell’affrontare i mercati esteri più distanti rispetto ai principali competitor all’interno dell’Ue.

Figura 1
Fonte: Elaborazione su dati FDIMarkets.com e Amighini, A. e Sanfilippo, M. (2013) The changing pattern of Italian FDI in China, Review of Economic Conditions in Italy, Unicredit-CASS Special issue on EU-China FDI: 43-63.
*I dati fanno riferimento solo ai casi di investimenti greenfield e joint ventures (JV), ed escludono dunque le fusioni e acquisizioni.


Riguardo alla distribuzione settoriale, la gran parte degli investimenti in Cina ha interessato il comparto tessile, con il 44% del totale, seguito a larga distanza da macchinari e servizi finanziari (Tabella 2). È da segnalare anche che la scala media degli investimenti nel tessile risulta inferiore rispetto ad altri settori, a maggior intensità di capitale (Tabella 2).

Fonte: Elaborazione su dati FDIMarkets.com e Amighini, A. e Sanfilippo, M. (2013) The changing pattern of Italian FDI in China, Review of Economic Conditions in Italy, Unicredit-CASS Special issue on EU-China FDI: 43-63.
*I dati fanno riferimento solo ai casi di investimenti greenfield e joint ventures (JV), ed escludono dunque le fusioni e acquisizioni.
**Calcolato come media semplice degli investimenti nei settori rimanenti.


Per comprendere quali motivazioni guidino le scelte localizzative degli investitori italiani, è utile osservare la distribuzione degli investimenti per tipologia di attività svolta nella Rpc (Tabella 3). Emergono due fenomeni interessanti. Il primo è che, nella gran parte dei casi, le imprese italiane in Cina sono impegnate in attività commerciali o produttive, come d’altronde è stato evidenziato da lavori precedenti basati su indagini campionarie nel paese.

Fonte: Elaborazione su dati FDIMarkets.com e Amighini, A. e Sanfilippo, M. (2013) The changing pattern of Italian FDI in China, Review of Economic Conditions in Italy, Unicredit-CASS Special issue on EU-China FDI: 43-63.
*I dati fanno riferimento solo ai casi di investimenti greenfield e joint ventures (JV), ed escludono dunque le fusioni e acquisizioni.


Vi sono però notevoli differenze tra i vari settori. Mentre la gran parte (95%) degli investimenti nel tessile riguarda attività legate al commercio al dettaglio, l’80% circa degli investimenti nel settore dei macchinari è legato ad attività produttive. Le imprese investitrici sono chiaramente più propense ad affidare la produzione a fornitori e subcontraenti locali nel caso di produzioni - come quella tessile - a più basso contenuto tecnologico e, dunque, con minori rischi di violazione di patenti e diritti di proprietà intellettuale.

Cambiamenti nelle strategie di investimento
Il secondo fenomeno, più generale, è invece un progressivo ridimensionamento degli investimenti motivati dal basso costo dei fattori produttivi; crescono invece quelli volti all’acquisizione di spazi commerciali, anche su piccola scala, per sfruttare il potenziale dell’enorme mercato cinese.

Ciò segna una differenza rispetto a Francia e Germania - che sembrano scegliere ancora la Cina come destinazione per produzioni più economiche - ma mostra, soprattutto, un cambiamento strategico delle imprese italiane, che devono fare i conti, a causa della crisi, con l’esigenza di una razionalizzazione delle risorse.

A questo riguardo, si osserva anche una maggiore diversificazione geografica, con investimenti localizzati non più soltanto nelle provincie costiere, ma anche nelle più popolate aree centrali.

Se questi cambiamenti nelle strategie di investimento siano solo transitori, e dovuti agli effetti della crisi, è presto per dirlo, non essendo ancora disponibili i dati degli ultimi due anni. Tuttavia, considerando l’aumento dei costi di produzione in Cina, lo sviluppo dei consumi e le difficoltà della ripresa economica in Europa, è lecito attendersi che siano sempre più le opportunità di espansione commerciale a spingere le nostre imprese a scegliere la Cina come destinazione dei propri investimenti esteri.

Articolo in via di pubblicazione su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Marco Sanfilippo, research fellow, Robert Schuman Centre for Advanced Studies, Istituto Universitario Europeo.
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La cooperazione nell'ambito Italia Brasile

Andrea Capuani Armi e strategie 0 commentI
La cooperazione nell’ambito dell’industria della difesa: focus sulla relazione Italia – Brasile
Negli ultimi anni la crescita economica mondiale ha registrato un continuo rallentamento: dal 5,1% registrato nel 2010, si è passati ad un 3,3% nel 2012. I dati per l’anno in corso, purtroppo, non sono incoraggianti. Come noto, la crisi economica e finanziaria ha colpito con maggiore intensità nel vecchio continente e secondo il «World Economic Outlook» del Fondo Monetario Internazionale, il rapporto debito-PIL del gruppo G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti) continuerà a salire fino a raggiungere il 130% nel 2017. Viceversa, le statistiche indicano che i paesi BRIC (Brasile, Russia, India e China) non solo manterranno i propri livelli di crescita, ma che il loro debito-PIL dovrebbe addirittura diminuire fino ad attestarsi al 30%. Sulla base di questi trends macroeconomici, anche il global defence spending ha registrato nel 2012 un sostanziale calo del 3,5% rispetto al 2010. Da un punto di vista puramente quantitativo rimane per il momento saldamente ancorato alle economie più avanzate: risulta evidente il predominio degli Stati Uniti che detengono circa il 40% della spesa totale, nonostante la forte politica di contenimento e riduzione della spesa pubblica attuata dall’amministrazione Obama negli ultimi anni.
Il Governo brasiliano ha storicamente destinato al comparto della difesa circa l’1,5% del PIL. Tuttavia gli stipendi del personale hanno rappresentato circa il 75% della spesa complessiva, vanificando ogni tentativo di ammodernamento delle Forze Armate nel medio-lungo termine. Il Planalto – sede dell’esecutivo brasiliano – ha deciso, a partire dal 2009, di cambiare rotta e adeguare il proprio potenziale dissuasivo in base alle proprie esigenze politico-diplomatiche. In effetti il paese sta cercando di affermare, per quanto possibile, il suo ruolo di potenza emergente in virtù di alcuni avvenimenti importanti, come ad esempio il suo ingresso trionfale nel gruppo dei BRIC e la scoperta dei giacimenti petroliferi nella baia Tupi.
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Figura 1: spesa per la difesa delle singole nazioni latino americane
Va detto che gli appalti in Brasile sono gestiti dalle singole forze armate ma anche chiarito che le decisioni finali, specie per le grandi commesse, restano in capo ai politici di turno. Si parla spesso della necessità della riforma degli appalti, almeno nel comparto difesa, a causa dalle continue pratiche di «avvio e arresto» dei programmi d’acquisto di materiale bellico: ne sono esempi lampanti il programma fighters FX-2 per l’aeronautica militare brasiliana e il programma PROSUPER per la sua marina militare.
Da una parte si avverte la volontà di modernizzare lo strumento militare e, dall’altra, l’intenzione di colmare il crescente bisogno di sicurezza. Tuttavia Dilma Rousseff, rispetto il suo predecessore Luiz Ignacio “Lula” Da Silva, ha manifestato una certa riluttanza circa l’aumento delle spese per la difesa. La priorità del paese resta la sicurezza dei confini nazionali: il progetto SISFRON, risalente a gennaio del 2011, si propone infatti di monitorare i 16.000 chilometri di foresta terrestre a fronte di un investimento di 6 miliardi di dollari. Inoltre si possono annoverare in questo senso, la ristrutturazione dell’Agência Brasileira de Inteligência (ABIN) e le misure adottate contro la corruzione soprattutto fra le forze di sicurezza interna.
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Figura 2: spese per la difesa brasiliana (2013)
Vi sono poi segnali diplomatici incoraggianti verso i restanti paesi della regione: la cooperazione regionale in seno all’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR) ha allontanato definitivamente il fantasma del conflitto bellico. In effetti la politica estera del governo brasiliano può essere riassunta nel modo seguente:
■ Necessità di affermazione degli interessi economici del Brasile nella governance globale;
■ Potenziamento del ruolo di guida nei processi di cooperazione regionale (UNASUR e Consiglio di Difesa Sudamericano);
■ Bilanciamento della governance globale attraverso la formazione di nuove entità geopolitiche o poli regionali.
Il «Piano Strategico per la Difesa», risalente al 2008, spiega a grandi linee quali saranno le priorità nazionali nei prossimi decenni:
■ Ammodernare le tre Forze Armate;
■ Favorire l’autonomia per quanto attiene il controllo delle risorse naturali e la difesa dei confini nazionali;
■ Favorire lo sviluppo dell’industria nazionale della difesa tramite l’acquisizione di tecnologia (offset / trasferimento di tecnologia).
Tale piano sarà attuato in tre periodi diversi:
■ Dal 2010 al 2014 si prevede di dare seguito ai piani per la sicurezza;
■ Dal 2015 al 2022 assumere un ruolo di primo piano nelle missioni internazionali assicurando comunque la protezione del territorio nazionale;
■ Dal 2023 al 2030 competere con le maggiori potenze militari per ottenere un ruolo chiave nella governanceglobale
A livello internazionale il Brasile si muove su quattro direttrici principali. La prima direttrice è orientata verso le «alleanze regionali» che sono, tutt’ora, in fase di consolidamento. Le relazioni industriali del Brasile a livello sudamericano si propongono di far sempre meno affidamento ai fornitori stranieri. La propensione del gigante sudamericano alla collaborazione con i paesi vicini è visto anche come uno strumento di politica estera per stabilizzare la regione. Ciò nonostante Brasilia ammette che le sue ambizioni di crescita industriale possono essere più facilmente soddisfatte attraverso forme di partenariato con i paesi più industrializzati.
La seconda direttrice si basa sulle «alleanze alla pari» con i paesi aventi il medesimo grado di sviluppo tecnologico. L’obiettivo è quello di colmare le lacune tecnologiche che permetterebbero all’industria brasiliana di posizionare meglio i suoi prodotti nei mercati internazionali. Si tratta, in genere, di accordi bilaterali come quelli conclusi con Polonia e Ucraina.
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Figura 3: le «alleanze alla pari» del Brasile con Polonia e Ucraina
Nella terza direttrice troviamo invece le «alleanze strategiche». Il Brasile, infatti, ricerca partner industriali disposti non solo a garantire il trasferimento tecnologico, ma anche ad assicurare la produzione locale nell’ottica dell’autonomia tecnologica a lungo termine.
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Figura 4: le alleanze «strategiche» del Brasile
Infine, la quarta direttrice è orientata verso i paesi BRIC. Il Brasile si è allineato con la Russia, l’India e la Cina. Questa relativamente nuova entità geopolitica aspira a conseguire, nel lungo termine, una maggiore collaborazione industriale nel settore della difesa. Tale tipo di collaborazione è anche un valido strumento per ridurre il livello di dipendenza su specifici materiali provenienti dai paesi tecnologicamente più avanzati.
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Figura 5: le alleanze con i paesi dei BRICS
Gli accordi denominati government to government (G2G) e quelli relativi al trasferimento di tecnologia si stanno rivelando i principali vettori per la penetrazione del mercato sudamericano. Gli sforzi del Ministero della Difesa brasiliano per mantenere il pieno controllo sulle politiche di acquisizione del materiale bellico non hanno sinora sortito gli effetti sperati. Tali processi appaiono trasparenti, lo ricordiamo, sino a quando restano sotto il coordinamento delle rispettive Forze Armate. L’intervento politico, nelle commesse più ingenti, rende questi processi meno lineari.
A titolo meramente esemplificativo si può notare che la Força Aérea Brasileira (FAB) riceverà, tra il 2010 e 2014, il 52% dei fondi devoluti per l’acquisizione di nuovo materiale bellico. Il fornitore – magari italiano – desideroso di aggiudicarsi una commessa del settore aeronautico brasiliano, in assenza di un accordo G2G che permetta la trattativa diretta col governo, dovrà affidarsi necessariamente alla concorrenza del mercato. Le associazioni brasiliane di categoria in questo senso, hanno dimostrato di essere influenti nelle politiche di acquisizione nonché in grado di indirizzare gli ordinativi della difesa in virtù della maggiore o minore disponibilità dei fornitori a cooperare con l’industria locale al fine di assicurare un adeguato trasferimento tecnologico. Le recenti gare evidenziano come abbiano tratto beneficio dal mercato brasiliano soltanto quei fornitori stranieri che hanno già investito in società in loco, come nel caso di Elbit, Thales, EADS, DCNS.
Risulta doveroso porre in essere, al fine della nostra indagine, alcune premesse relativamente alla situazione in cui si trova il mercato brasiliano oggi.
Innanzitutto, la penetrazione francese, che è stata notevole in passato, non è detto che prosegua con i medesimi ritmi: l’asse Dilma – Hollande non si è rivelato solido come quello fra Lula e Sarkozy. In secondo luogo, gli Stati Uniti hanno registrato un incremento dell’esportazioni di materiali e di armamenti verso il Brasile, mostrando un + 125% dal 2007. Terza questione, l’allineamento del Brasile alla politica estera Argentina si ritiene possa portare ad un raffreddamento dei rapporti economici con la Gran Bretagna per via della nota vicenda delle Falkland/Malvinas. Ed infine, bisogna notare che Italia e Israele hanno preparato la strada verso un crescente successo nella regione.
Insomma, per l’ingresso nel mercato brasiliano, l’imprenditore italiano attualmente dispone di:
■ Supporto da parte del Governo italiano. L’Italia vede il Brasile come un possibile partner alternativo all’Unione Europea e alla NATO;
■ Un contesto legislativo favorevole soprattutto a seguito della ratifica dell’Accordo di Cooperazione Militare Italo-Brasiliano del 2008;
■ Tecnologia e know how ancora all’avanguardia, entrambi molto ricercati dalle Forze Armate brasiliane;
■ Possibilità di cooperare nelle diverse partnership strategiche attraverso la costituzione di joint venturelocali.
Di Paola Amorim
Foto: Gianpaolo Di Paola e Celso Amorim nel 2012
Da molti anni i paesi europei, soprattutto quelli maggiormente industrializzati, hanno perso gradi crescenti di autonomia tecnologica e produttiva, a partire dai sistemi più semplici fino ad arrivare agli equipaggiamenti più sofisticati. La risposta europea è consistita nel promuovere lo sviluppo di programmi di collaborazione intergovernativa attraverso i quali far fronte alle nuove esigenze determinate dai mutamenti dello scenario geopolitico e dal maggiore impegno in operazioni internazionali volte al mantenimento o al ristabilimento delle condizioni di sicurezza nelle aree calde del pianeta.
È recente l’avvio di una riflessione, in tutte le sedi europee, sulla possibilità di garantire un adeguato livello di affidabilità della struttura industriale del vecchio continente, attraverso un processo di interdipendenza basato sulle capacità specialistiche nazionali. In altri termini, la soluzione potrebbe essere cercata nell’avere in ogni paese tecnologicamente avanzato una parte, appunto, delle capacità tecnologiche e industriali europee, a beneficio di tutti ma con analogo livello di dipendenza dagli altri paesi. Il «dritto della medaglia» è costituito, quindi, dalla possibilità di fare pooling and sharing basandosi sulla tesi che per far fronte alla sfida della competizione internazionale, le imprese europee devono sempre più concentrarsi sulle proprie aree di eccellenza tecnologica.
Il «rovescio della medaglia» rivela che, in tempi di crisi economica, concentrarsi sulle eccellenze comporta un effetto secondario non irrilevante: la progressiva disincentivazione di tutto il resto con il rischio che anche l’indispensabile venga sacrificato insieme al superfluo. In un simile contesto è di fondamentale importanza individuare le Key Strategic Activities verso cui concentrare le limitate risorse umane e finanziarie disponibili, attraverso oculate politiche industriali e di sviluppo della ricerca, facendo convergere le due prospettive nel quadro di una riorganizzazione e di una specializzazione industriale e militare, nazionale ed europea.
Tenuto conto dell’attuale sbilanciamento tra il mercato europeo e quello statunitense, la possibilità da parte della filiera industriale italiana e europea di focalizzare su Key Strategic Activities, oltre a consolidare il comparto a livello nazionale e europeo, potrebbe permettere di aprire un dialogo funzionale con i possibilipartners, propedeutico all’avvio di una collaborazione su specifici programmi per quelle aree non ritenute prioritarie. In tale situazione, una volta definite le capacità che si vogliono mantenere completamente o parzialmente in Italia, analizzando concretamente le singole competenze, si assicurerebbe la continuità alle filiere produttive e il mantenimento delle attuali eccellenze nazionali, promuovendone la competitività e salvaguardando l’indipendenza nei settori ritenuti prioritari.
La condivisione di questa visione da parte del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) potrebbe costituire la condizione preliminare per ricercare collaborazioni e/o integrazioni con altri soggetti industriali: tale processo potrà assumere carattere strutturale, soprattutto in virtù della continua evoluzione del settore e della tendenza allo sviluppo di capacità duali. L’azione del MISE è orientata, lo ricordiamo, a fornire all’Industria nazionale l’agevolazione all’avvio o alla prosecuzione di progetti di ricerca per il comparto civile e militare (Legge 808/85) e di sviluppo/produzione di sistemi d’arma a valenza strategica (Legge 421/96) tenuto conto dell’esigenza di stimolare le imprese ad investire nello sviluppo di nuovi sistemi.
La necessità di coniugare le esigenze della difesa con quelle dell’esportazione, dovrebbe portare al perseguimento di linee d’azione tese a sviluppare prodotti che, pur soddisfacendo interamente le esigenze tecnico operative nazionali, siano predisposti per essere adattati alle richieste dell’esportazione, condizione indispensabile per conferire competitività ai sistemi e per garantire al paese il giusto ritorno economico degli investimenti.
Le risorse disponibili dovranno essere concentrate nello sviluppo di sistemi che associno elevata efficienza operativa ad un corretto rapporto costo/efficacia e un margine di sviluppo atto a garantirne l’integrabilità in sistemi complessi e net-centrici. Il mantenimento della competitività del comparto industriale italiano della difesa richiede, oltre all’adozione di un approccio cooperativo finalizzato a condividere 1′onere economico e massimizzare il rendimento degli investimenti, un incremento delle esportazioni nell’ambito di un coerente quadro autorizzativo, conforme alle esigenze complessive di sicurezza del paese. Oltre al supporto istituzionale che coniughi, ove necessaria, cessione di materiali e tecnologia con offerta di formazione, addestramento e supporto tecnico logistico, appare fondamentale concentrare gli investimenti sulle gamme di prodotti e sviluppi tecnologici nell’ambito dei settori ritenuti prioritari per la difesa del paese, mantenendo tuttavia un margine di attenzione alle opportunità di mercato.
Risulta dunque necessario porre in essere ogni sforzo possibile per operare in sinergia con tutte le realtà – pubbliche e private – che in Italia e nell’ambito degli accordi bi e multilaterali in essere, operano nel campo dell’innovazione tecnologica. Il patrimonio tecnologico acquisito nella ricerca applicata e nello sviluppo di sistemi costituisce il fattore più qualificante dell’industria della difesa. La value proposition che l’amministrazione della difesa (AD) potrebbe offrire nell’ambito di accordi bilaterali di cooperazione industriale presentandosi alla nazione partner come il destinatario finale di un «sistema di sistema» collaudato e validato in funzione dei propri bisogni operativi, disponibile a presentare i pro/contro delle proprie scelte tecnologiche e a fornire una visione critica top-down dei requisiti di missione richiesti dalla nazione partner, permetterebbe alla filiera industriale coinvolta di fornire un’offerta competitiva con un elevato valore aggiunto rappresentato dal know how dell’esperienza del destinatario finale.
Il programmi in atto in Brasile, come PROSUPER, SisGaz, SisFron, mettono in evidenza un comparto di industrie sostanzialmente focalizzate in settori definiti che potrebbero, in un contesto di aumentata competitività, rafforzare le proprie posizioni e relazioni consolidando il comparto stesso. Inoltre, il rafforzamento della Base Tecnologica e Industriale di Difesa Europea (EDTIB) è indispensabile per assicurare all’industria europea il livello di efficienza e di competitività necessaria per un’adeguata risposta alle sfide dello sviluppo tecnologico e della progressiva internazionalizzazione e globalizzazione del mercato della difesa. Va rilevato inoltre che il consolidamento delle capacita europee non deve essere letto in chiave antitetica all’Alleanza Atlantica, bensì come opportunità per preservarne e rafforzarne l’efficacia.
Una gestione evoluta da parte dell’AD dello strumento di G2G non potrebbe prescindere da un potenziamento di coordinamento tra gli organismi dell’AD e dei vari discasteri (per esempio Ministero Affari Esteri, Ministero Sviluppo Economico) che potrebbero essere interessanti, anche in visione duale. Oltre agli organismi istituzionalmente demandati alla cooperazione come Stato Maggiore della Difesa e Forze Armate, i principali attori che potrebbero essere particolarmente interessati a possibili sviluppi sono:
■ L’Ufficio di Coordinamento della Produzione di Materiali di Armamento (UCPMA), istituito dall’articolo 8 della Legge 9 luglio 1990, n.185, che fornisce supporto all’autorità politica nello sviluppo di tematiche afferenti la produzione nazionale dei materiali di armamento, sui problemi e sulle prospettive di questo settore produttivo in relazione all’evoluzione degli accordi internazionali. Tale ufficio contribuisce anche allo studio e alla individuazione di ipotesi di conversione delle imprese e, inoltre, identifica le possibilità di utilizzazione dei materiali di armamento per usi non militari;
■ Ministero degli Affari Esteri (UAMA): con la pubblicazione del decreto legislativo 22 giugno 2012, n. 105, di recepimento della direttiva europea 2009/43/CE, è stata modificata ed integrata la legge 9 luglio 1990, n.185. Il suddetto decreto attribuisce al Ministero degli Affari Esteri il compito di:
ed individua l’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento (UAMA), del Ministero degli Affari Esteri, quale Autorità Nazionale competente per il rilascio delle autorizzazioni per l’interscambio dei materiali di armamento e per il rilascio delle certificazioni per le imprese e per gli adempimenti connessi alla materia disciplinata dalla Legge 9 luglio 1990, n. 185;
■ L’Addetto Militare adempie istituzionalmente ai compiti seguenti:
a) consiglia il capo missione in merito a tutte le questioni riguardanti la politica di sicurezza e gli affari militari;
b) accoglie e analizza informazioni sugli sviluppi riguardanti la politica di sicurezza e gli affari militari negli Stati di accreditamento;
c) esercita la funzione di ufficiale di collegamento con il Ministero della Difesa e le Forze Armate e promuove le relazioni bilaterali e la cooperazione bilaterale in ambito militare;
d) funge da interlocutore per tutte le questioni militari e della politica di sicurezza e stringe contatti sia per armasuisse sia per le aziende che operano sul mercato degli armamenti;
e) organizza e gestisce le visite ufficiali di funzionari di alto rango e di militari all’estero.
Una gestione evoluta da parte dell’AD dello strumento di G2G potrebbe condurre ai seguenti benefici economici:
■ Una maggior competitività della proposta fornita potrebbe condurre ad un aumento del mercato accessibile del comparto industriale italiano e delle sue eccellenze tecnologiche, con conseguente ricadute sul PIL e a livello occupazionale;
■ Il possibile coinvolgimento delle istituzioni e imprese coinvolte nella ricerca e sviluppo su «piani duali» potrebbe permettere una maggior focalizzazione sulle tecnologie chiave e il mantenimento dell’eccellenza tecnologica nel medio-lungo termine;
■ A seguito della «Decreto del Fare» l’AD può svolgere per conto di altri Stati esteri con i quali sussistono accordi di cooperazione o di reciproca assistenza tecnico-militare, e tramite proprie articolazioni, attività di supporto tecnico-amministrativo per l’acquisizione di materiali di armamento prodotti dall’industria nazionale anche in uso alle Forze Armate e per le correlate esigenze di sostegno logistico e assistenza tecnica. Il reinvestimento di tali risorse per focalizzare sulle specializzazioni operative dell’AD potrebbe condurre ad efficienze interne e cicli virtuosi.
L’Europa e l’Italia stanno attraversando un momento di profonda ristrutturazione del comporto difesa guidato da drivers diversi quali la crisi finanziaria, che induce le amministrazioni e le industrie coinvolte a forti efficienze e scelte di specializzazione, e lo scenario internazionale che vede ingenti mutamenti nel settore della domanda. Sulla base di queste spinte il Ministero della Difesa, a seguito dell’approvazione del «Decreto del Fare» che ha reso operativo e ufficiale lo strumento dei G2G in Italia a supporto del comparto difesa (art. 48), potrebbe cogliere l’opportunità di usare tale strumento, evolvendo il proprio ruolo nella sua partecipazione alle attività di cooperazione industriale, trasformandosi in attore chiave della promozione del «Sistema Paese» nell’ambito della difesa, sia a supporto del comparto industriale e sia a vantaggio di un diretto payback utile per sostenere con risorse autonome parte dello spending per la difesa.
In un tale contesto, il Ministero della Difesa avrebbe il compito di coordinare il comparto industriale nelle fasi di lancio di programmi di lungo respiro – si pensi in Brasile al programma navale PROSUPER – che coinvolgono «sistemi di sistemi» e dove l’esperienza già maturata sul campo dal destinatario finale rappresenta per i paesi che richiedono un’offerta integrata il vero valore aggiunto. In sintesi, il Ministero della Difesa potrebbe presentare al Ministero della Difesa della nazione cooperante un’offerta integrata multipiattaforma, supportata dal pool di industrie nazionali (ed europee), con un approccio top down, dando una visione di come il requisito nazionale di missione è Stato, come dire, «taylorato» nel prodotto e validato sotto la sua supervisione.
Questo approccio oltre a rappresentare un benchmark di livello verso il paese richiedente, spesso in cerca guida in tale ambito, permetterebbe al Ministero della Difesa di offrire supporto logistico – ad esempiotraining – con un evidente ritorno economico. Un’ulteriore conseguenza potrebbe essere quelle di specializzare l’offerta dell’industria nazionale e dello stesso Ministero della Difesa comportando possibili concentrazioni e alleanze di settore. Tuttavia l’evoluzione di ruolo da parte dell’AD nella gestione di programmi di cooperazione bilaterale non potrebbe prescindere da un’attenta analisi organizzativa che assicuri le competenze necessarie per permettere un’integrazione con la filiera industriale. In questo contesto potrebbe ricoprire fondamentale importanza il ruolo degli addetti militari all’estero.
I gruppi brasiliani Odebrecht ed Embraer stanno adottando una strategia di espansione trasversale sul mercato della difesa, conquistando porzioni di mercato attraverso acquisizioni di aziende locali o creazione dijoint venture con imprese nazionali e straniere. Gli obiettivi primari sono non solo il consolidamento di unaleadership nazionale su definite aree di mercato, come ad esempio in quello navale, ma anche quello di meglio gestire l’offset e il trasferimento di tecnologia imposto alle aziende straniere.
Gruppo Odebrecht: Multinazionale settore costruzioni, ingegneria ambientale, immobiliare, energia, petrolio, gas e biocombustibili, ha 90.000 dipendenti in 17 paesi e un fatturato di 20 miliardi di dollari nel 2009. L’ingresso nel settore della difesa, avviato nel 2009 con la costituzione di una joint venture con DCNS per la costruzione dei sottomarini nucleari, procede con:
■ L’acquisizione del 67% della joint venture COPA Gestão em Defesa insieme ad Atech (27%) e Penta Prospectiva Estratégica (10%) per l’acquisizione e gestione di contratti nel settore della difesa;
■ La costituzione di una joint venture con quota di controllo, con la EADS Defence & Security (oggi Cassidian) per l’acquisizione di know how nel settore delle tecnologie militari;
■ La negoziazione finalizzata all’acquisizione della società brasiliana Mectron che produce sistemi missilistici terra-terra e terra-aria. La Mectron è una tra le principali medie imprese destinatarie di offset in quasi tutti i programmi della difesa;
Embraer Defence Systems: nasce il 1° gennaio 2011 la nuova business unit di Embraer (8% del totale attività di Embraer) con l’obiettivo di ampliare la propria sfera di attività dal settore avionico a quello navale e terrestre. Embraer intende perseguire l’iniziativa attraverso partnership strategiche con industrie straniere. E’ il principale fornitore della FAB e conta, su 1.500 dipendenti, ricavi per 850 milioni di dollari e fatturato di oltre 3 miliardi di dollari.
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Figura 6: presenza industriale straniera in Brasile
Le possibili evoluzioni degli accordi di cooperazione G2G tra Italia e Brasile – ma generalizzabili anche ad altre aree del mondo, in linea con le disposizioni ministeriali del 2013 confermate dai primi passi evidenziati dal «Decreto del Fare» e rafforzate da precedenti esempi in tale ambito (ad esempio FMS Americano) – potrebbero mostrare un graduale aumento del ruolo del Ministero della Difesa nella partecipazione alle attività di cooperazione industriale, in quanto promotore di primo livello del «Sistema Paese» nell’ambito di programmi bilaterali di cooperazione per la difesa, con tutti i possibili ritorni precedentemente evidenziati.
AA.VV “Progressive Intelligence, The Brazilian Defense Sector – Market Opportunity and Entry Strategy, Analyses and Forecasts to 2015“, 2010.
AA.VV. “Nomos & Khaos. Rapporto Nomisma 2012-2013 sulle prospettive economico strategiche“, Agra Editrice, Roma, 2013.
MINISTERO DELLA DIFESA, “Direttiva Ministeriale in merito alla Politica Militare per l’anno 2013“, Roma, 2013.
SUÁREZ JIMÉNEZ A.V., “La Industria de la Defensa y Seguridad en América Latina 2012 – 2013“, Madrid, 2013.
NONES M., “Le attività strategiche chiave: aspetti metodologici, giuridici, industriali e militari“, Roma, 2012.

Andrea Capuani è program manager in Elettronica S.p.A.