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lunedì 28 aprile 2014

La fonte energetica russa per l'Italia

Gas russo per noi

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carta di Laura Canali
Le carte a colori di Limes 4/14 "L'Ucraina tra noi e Putin"


[Per ingrandire la carta scarica il numero su iPad]
Esiste Nord Stream, ma che ne sarà di South Stream? 

Una delle partite aperte dalla crisi ucraina riguarda il gas e le reti di gasdotti che collegano (o potrebbero farlo in futuro) la Russia con l'Europa occidentale. 

Il 50% del gas russo importato in Europa passa per l'Ucraina:transitano qui molti gasdotti di età sovietica (in arancione nella mappa), tra cui Brotherhood.

Le pipeline più recenti tuttavia, Nord Stream e Blue Stream (in rosa nella carta), sono lontane da Kiev: passano rispettivamente per il Mar Baltico e il Mar Nero.

Le recenti tensioni tra Russia e Occidente mettono in dubbio la realizzazione di South Stream (in rosa tratteggiato nella carta), che pure non passerebbe per l'Ucraina.

Nella carta sono rappresentati i paesi dell'Unione Europea, quelli extra-Ue e i territori sotto il controllo di Mosca.

Carta tratta da "Lo specchio ucraino",
editoriale di L'Ucraina tra noi e Putin
(23/04/2014)
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mercoledì 16 aprile 2014

Prato: orizzonti cinesi

Cinesi in Italia
Il dragone sommerso a Prato
Marco Sanfilippo
07/04/2014
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Un centro di ricerca a Prato per lo scambio tecnologico con la Cina nel settore tessile e dei nuovi materiali. Una collaborazione con alcune delle maggiori università e centri di ricerca cinesi. Un volo diretto Pisa-Shangai per collegare, senza intermediari, la storia del tessile italiano con una delle più importanti città dell’Asia e con la vicina Zhejiang, una delle più attive provincie della Repubblica Popolare nel campo dell’abbigliamento.

Sono i progetti che la Regione Toscana e le amministrazioni di Pisa, Prato e Firenze stanno mettendo in campo per dare sempre più corpo e basi legali a una partnership tanto proficua quanto problematica, che oggi ancora divide nell’analisi dei vantaggi e dei danni arrecati al settore tessile italiano dall’avvento del “Made in Italy cinese”.

Processo di agglomerazione
La prima vera ondata migratoria cinese a Prato si registra intorno all’inizio degli anni Novanta. Ciò coincide con una fase di declino e successiva ristrutturazione del distretto tessile, dovuta a una crisi del tipo di specializzazione locale (la lavorazione della lana rigenerata) e a una successiva ripresa accompagnata dallo sviluppo di un comparto a minor valore aggiunto (quello della maglia), che ha portato con sé un incremento della domanda di forza lavoro poco qualificata, specialmente per l’attività di cucitura.

Attratti dalla possibilità di inserirsi in un comparto lasciato libero dai lavoratori locali e caratterizzato dalla semplicità del processo produttivo e dal basso capitale necessario per mettersi in proprio, molti cinesi provenienti da altre parti d’Italia o d’Europa o direttamente dalla Cina (specialmente dalla cintura della città di Wenzhou, provincia dello Zhejiang) diedero vita a un rapido processo di agglomerazione, che nel giro di pochi anni ha visto aumentare esponenzialmente sia il numero di individui che il numero di nuove imprese.

Pronto moda
A livello imprenditoriale, è stato osservato come l’ascesa cinese a Prato sia interessante perché non va ad inserirsi all’interno della specializzazione che più caratterizzava il - distretto - quella tessile - ma in un tipo di produzione al tempo minore - l’abbigliamento - che si sviluppa su larga scala proprio grazie all’arrivo dei cinesi.

Ed è soprattutto grazie all’arrivo dei cinesi, tra l’altro, che a Prato si sviluppa un nuovo sistema produttivo, quello del cosiddetto “pronto moda”, che meglio si adatta alle nuove dinamiche dei mercati internazionali.

Ben presto, i primi gruppi di cinesi seppero crescere trasformandosi da semplici sub-fornitori a basso costo per le imprese locali a vere e proprie piccole imprese finali in contatto diretto con il mercato. L’esempio di questi primi nuovi imprenditori ha messo in moto un processo imitativo da parte di altri piccoli fornitori e nel giro di poco tempo ha sviluppato un vero e proprio modello di divisione del lavoro a livello locale che ha coinvolto un numero ancora maggiore di imprese cinesi.

Tra la fine degli anni Novanta e gli anni più recenti il numero di imprese cinesi è quasi quintuplicato, non solo grazie a un nuovo incremento di imprese finali e sub-fornitori nel settore, ma anche grazie allo sviluppo di attività complementari, specialmente nei servizi al commercio.

Lavoro sommerso
Oggi, a oltre vent’anni dall’insediamento cinese a Prato, molto ancora si dibatte sugli effetti economici, sulla componente sommersa e sulle questioni legate all’integrazione. Riguardo all'impatto economico, si rilevano almeno due tesi contrapposte: la prima è che l’arrivo dei cinesi a Prato abbia contribuito in modo significativo al declino del sistema produttivo locale; la seconda è che - al contrario - proprio grazie all’arrivo dei cinesi il distretto sia riuscito a ristrutturarsi in modo tale da poter affrontare al meglio le dinamiche dei mercati globali - e che quindi l’esistenza stessa del comparto sia stata salvata dall’arrivo dei cinesi.

Come spesso accade, la verità sta nel mezzo, ed è molto più complessa di quanto si possa derivare da queste semplici proposizioni. La componente “sommersa” della presenza cinese - quella delle migliaia di lavoratori giunti illegalmente (stimati in circa 7.000 unità) e impegnati in attività lavorative fuori controllo e spesso in situazioni estreme - è innegabilmente il fulcro della questione. È soprattutto a causa del sommerso che le statistiche tradizionali non sono finora riuscite a quantificare il peso reale della quota cinese sull’economia di Prato.

A questo riguardo, è da segnalare un recente lavoro a cura di un gruppo di ricercatori dell'Irpet che - combinando statistiche ufficiali con metodi di stima basati sul consumo delle risorse (come la quantità di acqua utilizzata nel processo produttivo) - ha stimato che l’attività delle aziende cinesi contribuisca per 14,3% della produzione totale e per il 10,3% del valore aggiunto della provincia, con un picco del 45% per il solo settore tessile.

Oltre agli aspetti prettamente economici, il caso di Prato merita attenzione anche per gli aspetti legati al processo di integrazione sociale di una comunità cinesi oggi tra le più grandi d’Europa. Se fino a poco tempo fa vi era una netta separazione tra la comunità locale e quella cinese, l’espandersi all’interno del secondo gruppo di una generazione di nuovi nati nella provincia (un quinto degli attuali residenti, non potrà far altro che contribuire positivamente al processo di integrazione culturale, sociale ed economica negli anni a venire.

Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Marco Sanfilippo, research fellow, Robert Schuman Centre for Advanced Studies, Istituto Universitario Europeo.
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martedì 8 aprile 2014

Italia: non poteva andare diversamente.

Nato
Stoltenberg segretario, l’Italia aspetta ancora
Mario Arpino
04/04/2014
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Per terza volta negli ultimi dieci anni, il Segretario generale della Nato verrà dai paesi del nord. Nel pomeriggio del 28 marzo, il North Atlantic Council (Nac - organo permanente di governo formato dagli ambasciatori dei Paesi aderenti) ha infatti designato l’ex primo ministro norvegese Jens Stoltenberg al vertice della Nato.

Il 1° ottobre avvicenderà il danese Anders Fogh Rasmussen, che cesserà dalla carica di vertice dell’Alleanza dopo cinque anni e due mesi di mandato.

Tra i dodici stati fondatori, il mandato è stato affidato tre volte a Gran Bretagna ed Olanda, due volte al Belgio, una sola volta all’Italia (Manlio Brosio,1964-1971) e alla Danimarca e, oggi, per la prima volta alla Norvegia.

Particolare curioso: la Danimarca è anche nell’Unione europea, ma con l’option out (rinuncia) alla partecipazione militare, mentre la Norvegia, che non fa parte della Ue, aderisce alla Nato previe alcune riserve (mai armi nucleari sul territorio). Tra gli stati non fondatori, solo Germania e Spagna hanno sinora avuto il mandato. È giusto aggiungere, per completezza, che per oltre quarant’anni consecutivi (1971-2012) la silenziosa carica di vice Segretario generale è stata affidata ad un diplomatico italiano. L'ultima volta però il posto è andato ad un americano.

Italia maglia nera nelle spese per la difesa
Al di à delle statistiche, che pure sono indicative di una tendenza, la designazione di Stoltenberg si presta a considerazioni di ordine vario. Il Segretario generale esprime la voce della Nato, con un ruolo che - pur nel rispetto delle prerogative degli Stati membri - può influenzare in modo anche determinante il processo decisionale dell’Alleanza.

La quale - è bene non dimenticarlo - vive e si sviluppa con il contributo finanziario e di forze degli stati membri. Gli Stati Uniti - nonostante le recenti riduzioni - sono ancora il principale “azionista”, rendendo disponibile, da soli, poco meno del 50% di forze e risorse, mentre gli altri si dimostrano sempre più riluttanti a spendere.

Al contrario la Norvegia, che con il laburista Stoltenberg, per due volte primo ministro, ha gradualmente incrementato le proprie spese per la difesa, è oggi uno dei paesi membri con il più alto indice pro-capite.

L’Italia, maglia nera, si era stabilizzata attorno a un misero 0,8%. Pur rimanendo ancora il quinto contributore al bilancio Nato dopo Usa, Germania, Regno Unito e Francia, agli occhi del principale azionista potrebbe quindi non godere di altissima credibilità.

Questo in un momento critico in cui, da un lato, gli Stati Uniti stanno orientando altrove la propria attenzione e, dall’altro, spirano venti di crisi proprio ai confini di quell’Europa dove lascerebbero volentieri Nato e Ue a presidiare sicurezza e stabilità.

L’inconsueta fretta con la quale il Nac ha designato Stoltenberg, producendosi anche in un annuncio ufficiale che normalmente viene lasciato ad una seduta ministeriale del Nac, non può non collegarsi, oltre alle considerazioni appena fatte, alla recente e fugace visita del presidente Barack Obama.

Fallita la candidatura di Frattini
L’Italia aveva covato a lungo l’ambizione di acquisire questa carica di vertice e, cinquant’anni dopo la nomina di Manlio Brosio, riteneva che il momento fosse ormai maturo. Sull’esclusione della candidatura Franco Frattini si può dire tutto e di tutto, tranne che gli osservatori più attenti non se l’aspettassero. I segnali c’erano, bastava volerli leggere.

In primo luogo, la designazione della candidatura era sembrata prematura: non avevamo capito, o abbiamo finto di non capire, che questo lungo intervallo si sarebbe prestato molto bene a preparare altri giochi.

Secondo, le cariche internazionali, Nato e Unione europea (Ue) vanno sempre guardate in modo cumulativo. Ad esempio, la presenza di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea può aver contribuito a stimolare la cancelliera Angela Merkel ed altri europei a non favorire il candidato italiano.

Terzo, in cinque anni abbiamo cambiato cinque governi: non è una buona pubblicità. Quarto, era indicativa la doppia proroga di Rasmussen, tesa a consentirgli di presiedere il summit del 4 e 5 settembre a South Wales (Galles), dove, ancora una volta, la Nato rifletterà sulla propria identità.

Infine, sulla candidatura Frattini, a suo tempo annunciata in Italia a colpi di grancassa, da diversi mesi era calato un silenzio alquanto strano.

Niente paura, e nessun problema strategico: sotto questo profilo, Stoltenberg alla Nato invece di Frattini non è cosa destinata a cambiare il mondo. Anzi, insegnerà qualcosa a tutti. A noi, per esempio, ad essere un po’ più seri.

Giornalista pubblicista, Mario Arpino collabora con diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. Èmembro del Comitato direttivo dello IAI. *
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martedì 1 aprile 2014

Fucilieri di Marina: verso una soluzione?

Caso Marò
Per i fucilieri di marina meglio diplomazia che arbitrato 
Natalino Ronzitti
01/04/2014
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Dopo aver escluso l’applicazione della legge antiterrorismo al caso dei due Marò, la Corte suprema indiana ha ammesso il ricorso italiano volto ad impedire che la polizia dell’antiterrorismo (Nia, National Investigation Agency) prosegua le indagini e formuli i capi di accusa.

La Corte suprema si è però riservata di udire le controparti e ha fissato una nuova udienza tra quattro settimane. Con il rischio che il periodo feriale prolunghi di nuovo una decisione sulla vicenda.

Ma non è questo il punto. Occorre finalmente chiarire se l’Italia voglia difendersi nel processo oppure dal processo. Finora ha contestato la giurisdizione indiana nel processo, presentandosi alle udienze insieme ai due fucilieri di marina e di tanto in tanto ha sollevato la questione nei fori internazionali, ma senza ottenere risultati rilevanti.

Ora si punta sull’internazionalizzazione della vicenda e addirittura si adombra qualche mossa “segreta”, che le autorità competenti non hanno voluto rivelare per evitare di fornire all’India la possibilità di preparare una contromossa!

Cosa vuol dire in concreto internazionalizzazione della vicenda?

Difendersi dal processo indiano
In primo luogo, il rifiuto di presentarsi alle udienze di fronte alla Corte suprema o di fronte ad altro tribunale indiano. “Nessun processino”, ha dichiarato il rappresentante speciale del governo italiano. Mettersi su questa strada significa non solo impedire che i due fucilieri si presentino in tribunale, ma anche ordinare che essi non si presentino più alle autorità indiane per la firma settimanale.

Questo, ovviamente, potrebbe comportare la revoca della libertà di movimento di cui attualmente godono. I Marò, quindi, dovrebbero starsene chiusi nella nostra ambasciata, luogo sicuro, dal momento che gli indiani non oserebbero invaderne i locali come fecero gli iraniani nel 1979 nei confronti dei locali diplomatici degli Stati Uniti a Teheran.

Non credo, d’altro canto, che l’India acconsentirebbe all’invio dei due Marò in Italia in attesa che si definisca la vicenda, come ha chiesto a gran voce il nostro governo.

Una volta rifiutato il processo in India, l’internazionalizzazione ha davanti due strade: l’arbitrato internazionale o il negoziato diplomatico, da condurre in un quadro multilaterale. Ambedue dovrebbero stabilire a chi spetti la giurisdizione, senza entrare nel merito della vicenda, senza stabilire cioè se i due fucilieri siano effettivamente responsabili della morte dei pescatori indiani.

Arbitrato internazionale
L’arbitrato è quello previsto dall’Annesso VII alla Convenzione del diritto del mare. Omettendo i dettagli tecnici, esso potrebbe essere azionato dall’Italia mediante un ricorso unilaterale. Nello stesso tempo l’Italia potrebbe chiedere al Tribunale internazionale del diritto del mare (Amburgo) una misura provvisoria volta al ritorno in patria dei due marò in attesa della decisione finale.

Richiesta sul cui esito positivo sono da nutrire seri dubbi, ma vorremmo essere smentiti. Quanto al Tribunale arbitrale, si tratta di un collegio di cinque giudici, due dei quali possono avere la nazionalità delle parti, cui spetta la nomina; gli altri tre stranieri, tranne che si decida diversamente.

L’annesso prevede una procedura in caso di stallo, incluso l’intervento del Presidente del Tribunale del diritto del mare. L’appello è escluso, ma le parti potrebbero preliminarmente ammetterlo. La Corte permanente di arbitrato, con sede all’Aja, potrebbe fungere da ufficio di cancelleria e mettere a disposizione le proprie “facilities”, inclusi i locali.

Gli handicap dell’arbitrato sono due: il merito e i tempi della procedura.

Le argomentazioni italiane fanno essenzialmente perno su due punti: il fatto che la sparatoria sia avvenuta in alto mare e l’immunità funzionale dei due marò. La prima argomentazione è debole. Esiste un concorso di giurisdizione poiché le vittime sono di nazionalità indiana ed è speciosa l’argomentazione secondo cui la giurisdizione spetti esclusivamente all’Italia, come sarebbe avvenuto se si fosse trattato di collisione o altro incidente della navigazione.

La seconda argomentazione è invece quella più convincente. I due Marò, anche se imbarcati su nave commerciale, hanno agito per una funzione pubblica e i loro atti devono essere imputati allo stato italiano che, eventualmente, ne risponderà secondo canoni della responsabilità internazionale.

L’unico problema è che si tratta di norma consuetudinaria, quindi non scritta, e che la questione dell’immunità funzionale è attualmente allo studio della Commissione del diritto internazionale delle Nazione Unite.

Il secondo handicap dell’arbitrato riguarda il tempo. Finora sono stati azionati nove procedimenti arbitrali nel quadro della Convenzione sul diritto del mare. Gli arbitrati terminati hanno richiesto almeno tre anni di tempo. Altri non si sono ancora conclusi, come quello tra Bangladesh ed india, iniziato nel 2009.

È vero, peraltro, che, durante la procedura, le parti potrebbero continuare a negoziare e trovare una soluzione prima che si giunga a sentenza.

L’alternativa della diplomazia 
L’alternativa all’arbitrato, sempre restando nel quadro dell’internazionalizzazione e rifiutando il processo indiano, è la negoziazione in un quadro multilaterale, facendo leva sugli alleati e presentando il caso nei fori multilaterali , a cominciare dalle Nazioni Unite, sollecitando anche l’intervento del Segretario generale.

Passi in questa direzione sono stati già fatti, ma occorre fare di più e, soprattutto, con costanza e coerenza, cioè abbandonando definitivamente il processo indiano. Strategie di natura tecnico-giuridica possono costituire un valido supporto al negoziato politico-diplomatico.

Ad esempio, in occasione del dibattito annuale in Assemblea Generale sui lavori della Commissione del diritto internazionale, occorre sollevare la questione dell’immunità funzionale degli organi dello stato impegnati in missione antipirateria, come i nostri marò.

L’Italia potrebbe inoltre farsi promotrice di una convenzione internazionale sulla disciplina del personale armato imbarcato sulle navi mercantili, dove dovrebbe essere inserite disposizioni ad hoc per il personale militare, volte a ribadire il loro status secondo il diritto internazionale attualmente in vigore. In materia esiste già un primo articolato, che potrebbe essere rinvigorito ed opportunamente adattato.

In conclusione, l’alternativa della soluzione diplomatica e della chiamata in causa della comunità internazionale sembra preferibile alla soluzione dell’arbitrato, a causa dei tempi lunghi che questo comporta e dell’alea del risultato finale.

La pirateria non è stata completamente sconfitta, ma gli attacchi pirateschi sono significativamente diminuiti da quando personale armato è stato imbarcato sui mercantili. L’Italia ha dato un contributo fondamentale alla lotta alla pirateria. Un merito da far valere al cospetto della comunità internazionale per porre fine ad una triste vicenda.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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