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giovedì 3 luglio 2014

Italia: i fatasmi germanici

Relazioni Roma-Berlino
L’ossessione tedesca per la slealtà italiana
Gian Enrico Rusconi
03/07/2014
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Nel giro di pochi giorni sui principali quotidiani tedeschi abbiamo letto due commenti di segno opposto con titoli forti: “Il tradimento dell’Italia” (Frankfurter Allgemeine Zeitung) e “Renaissance dell’Italia” (Süddeutsche Zeitung). A firmarli due giornalisti “esperti di cose italiane”, rispettivamente Tobias Piller e Stefan Ulrich.

I pezzi all’interno sviluppano i loro argomenti in modo meno perentorio della loro titolazione, ma forse segnalano l’aprirsi un nuovo capitolo della percezione dell’Italia in Germania. Con la ripresa dei tenaci indistruttibili pregiudizi - negativi e positivi - naturalmente ricambiati dagli italiani.

Tradimento dell’Italia
Da parte tedesca c’è la dichiarata sfiducia verso l’Italia per la sua costante, storica inaffidabilità nel mantenere quanto promette. Ad essa si affianca però (minoritariamente) anche una benevola attesa per le sue straordinarie risorse latenti. È la scommessa di sempre, non solo dai tempi dei mitizzati rapporti tra Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, ma da ancora prima, si può addirittura risalire a Bismarck e alla classe politica italiana post-cavouriana.

Lasceremmo perdere volentieri quel passato più o meno remoto, se dal suo profondo non provenisse un modo di sentire e di esprimersi che porta con sé l’odiosa parola “tradimento”. Oggi è appena corretta o tenuta a bada dal “politicamente corretto”. Lo si vede in questi mesi di celebrazioni internazionali dell’inizio della Grande Guerra che registrò il passaggio dell’Italia dall’alleanza con la Germania e Austria al fronte opposto franco-inglese.

Molta storiografia internazionale continua a trattare con una benevola supponenza questo “cambio di alleanze”, come se non si fosse trattato di un legittimo (magari discutibile) atto di sovranità nazionale, ma appunto di un tradimento più o meno mascherato “all’italiana”.

È un discorso impegnativo naturalmente, a metà tra riflessione storiografica e psicologia collettiva. Ma è assolutamente scorretto parlare di “ tradimento” per criticare l’atteggiamento italiano di oggi. È fortemente equivoco affermare polemicamente che “l’Italia riceve aiuti immediati contro vaghe promesse, e la Germania ha motivo di sentirsi raggirata” (come scrive Tobias Piller, utilizzando con un’acrobazia interpretativa, un’espressione di Carlo Azeglio Ciampi).

Monti, il “tedesco” che chiede flessibilità
Non si tratta di fare una patetica difesa d’ufficio patriottica o di attenuare le responsabilità italiane, ma di giudicare con realismo la situazione.

Emblematica è l’esperienza di Mario Monti. Contiene quasi tutti gli ingredienti di altre esperienze storiche: iniziale simpatetica convergenza di intenti con la Germania, adesione alle sue posizioni virtualmente egemoniche, poi graduale emergere di prospettive e propositi diversi se non alternativi, che portano i tedeschi a denunciare una fraudolenta rottura italiana degli accordi presi.

È accaduto appunto con Monti, il premier inizialmente salutato con entusiasmo e gratificato dall’epiteto di “tedesco” (in sottile antagonismo con “l’italiano” Mario Draghi). L’anomalia istituzionale del governo “tecnico” - un autentico “governo del Presidente” - è stata accolta con assoluta benevolenza perché il programma da lui enunciato e in parte realizzato era in sintonia con la linea tedesca.

Quando Monti però ha tentato di modificare la rotta comune, chiedendo alla Germania “maggiore elasticità” in tema di patto fiscale, sistema di stabilità finanziaria e riforma bancaria, ha subito incontrato l’ostilità tedesca. Come scrive Stefan Kornelius nella sua apprezzata biografia sulla cancelliera, all’indomani del summit del giugno 2012 e della conferenza notturna di Monti, “Merkel era furiosa. Monti aveva rotto le regole”.

Anziché entrare nel merito delle misure proposte da Monti, contro di lui è scattata la sindrome tedesca della slealtà italiana, l’accusa agli italiani di essere congenitamente incapaci di mantenere i patti.

Renzi, faccia della “sorprendente Italia”
Una presunta lettura antropologica ha preso il posto dell’analisi politica. Non c’è stata nessuna seria analisi se la politica di Monti, al di là del suo stile tecnocratico e della sua problematica “strana maggioranza”, fosse quella più adatta per un’Italia economicamente stremata.

La crescente alienazione della popolazione dalla politica (che alle elezioni si sarebbe tradotta in un’elevatissima astensione), la crescita esponenziale del grillismo, la persistenza del berlusconismo e quindi il flop elettorale di Monti, sono stati letti in Germania come conferma della cronica instabilità italiana. Quindi come antropologica inaffidabilità degli italiani. Non come segni di colossali problemi oggettivi da affrontare con un nuovo approccio razionale ed economico.

Poi inatteso arriva il fenomeno Renzi - l’altra faccia della “sorprendente Italia”. Ricomincia il gioco. Angela Merkel sfoggia la sua benevola simpatia per il giovane premier italiano che dichiara la Germania non un nemico da battere, ma un modello da imitare. Ma la cautela politica è d’obbligo e la cancelliera è maestra in questo.

Nessuno sa ancora come andrà a finire.

Rimane un punto importante: smettiamola con gli stereotipi su italiani e tedeschi. In particolare è tempo che le classi politiche tedesca e italiana, invece di baloccarsi con reciproci luoghi comuni, imparino a conoscersi e a parlarsi più seriamente.

Gian Enrico Rusconi è professore emerito di Scienza politica dell’Università di Torino. Per alcuni anni Gastprofessor presso la Freie Universitaet di Berlino. Tra le sue pubblicazioni: Germania Italia Europa. Dallo Stato di potenza alla ‘potenza civile’ (Einaudi 2003, trad. tedesca, 2006); Berlino. La reinvenzione della Germania (Laterza 2009). Cavour e Bismarck (il Mulino 2011; trad. tedesca 2013).
 
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martedì 1 luglio 2014

A sei anni dalla crisi: Europa verso la ripresa?

Presidenza italiana dell’Ue
Italia architetto della politica fiscale europea
Alessandro Giovannini, Umberto Marengo
01/07/2014
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Il semestre italiano di presidenza del Consiglio dell’Unione europea non è un ruolo esecutivo, ma darà l’opportunità al governo italiano di coordinare l’agenda dell’Ue in un periodo di delicati passaggi politici e istituzionali.

L’Italia esce dalle elezioni europee rafforzata e può imprimere una svolta al processo di integrazione europea, rendendolo più vicino alla vita concreta dei cittadini e più solido da un punto di vista economico.

Il primo punto dell’agenda del semestre, così come delineato dai documenti ufficiali, è la maggiore crescita economica e occupazionale. Un obiettivo che la presidenza vuole raggiungere anche attraverso una sempre più intensa integrazione dell'Unione monetaria europea, possibilmente grazie alla creazione di nuovi strumenti fiscali comuni.

È quindi importante comprendere perché tali strumenti possono essere così importanti e quale potrebbe essere il loro eventuale funzionamento.

L'importanza di una politica fiscale europea
A oltre sei anni dall’inizio della crisi, l’Europa avanza lentamente verso la ripresa. In termini di deficit di bilancio e crescita del Pil reale le differenze tra i paesi europei si stanno lentamente riassorbendo.

Più di cinque anni di crisi hanno però lasciato un’eredità pesante: alti tassi di disoccupazione nei paesi periferici che non si stanno riallineando alla media europea. È possibile stabilire a livello di Eurozona un modello più efficiente per gestire questo shock?

L’introduzione dell’Euro e la conseguente definizione di una politica monetaria unica hanno ridotto l’abilità di quest’ultima di controbilanciare shock economici che colpiscono solo alcuni paesi e non altri: la risposta alla crisi non può dunque venire da una migliore definizione della politica monetaria comune, ma deve arrivare dalla politica fiscale.

L’Europa non ha una politica fiscale davvero comune. Ma che cosa si intende con questo termine e perché essa sarebbe è così rilevante?

Una politica fiscale pienamente federalista richiederebbe un permanente trasferimento di poteri e risorse economiche dai governi nazionali alle istituzioni europee. I vincoli di bilancio per gli stati nazionali sarebbero ancora maggiori e le più importanti decisioni di spesa sarebbero prese a Bruxelles.

Al momento non ci sono né le istituzioni necessarie per un trasferimento di poteri di questa portata, né il consenso politico.

Ciò che serve all’Ue è un modello intermedio e realistico: una “politica fiscale anti-shock” che riduca i costi economici e sociali dovuti alla mancanza di politiche monetarie nazionali e alla forte integrazione commerciale e finanziaria tra paesi membri.

Un’opzione concreta: il fondo europeo di assicurazione contro la disoccupazione
Nonostante i benefici di una capacità fiscale comune siano evidenti dal punto di vista economico, i passi avanti in questo senso sono stati pochi.

Nel 2013, la Commissione europea ha lanciato una serie di proposte che mirano a creare un’unione fiscale che possa assicurare contro shock asimmetrici. Fino ad ora non si è visto però alcun risultato concreto.

Il Consiglio europeo dello scorso giugno ha rimandato ogni decisione a quest’anno. In tale prospettiva, il semestre di presidenza dell’Italia offre un’opportunità unica per portare avanti quest’agenda.

Le proposte su come realizzare concretamente una qualche forma di capacità fiscale comune a livello europeo sono diverse e non richiedono necessariamente una modifica dei trattati. Come elaborato dai think tank Centre for European Policy Studies e Notre Europe, una delle idee in discussione prevede la creazione di un fondo di assicurazione contro la disoccupazione a livello europeo, l’European Unemployment Insurance Fund.

Questo fondo sosterrebbe i fondi nazionali coprendo per un periodo determinato fino alla metà dei costi degli assegni di disoccupazione. In aggiunta, il fondo fornirebbe anche risorse per potenziare i servizi all’impiego, così da favorire un più efficiente incontro domanda/offerta di lavoro per assorbire più velocemente la disoccupazione.

Per vincere le resistenze dei paesi del nord, l’European Unemployment Insurance è stata pensata come un sistema assicurativo e non come un programma di trasferimenti diretti di risorse da un paese all’altro.

Il fondo dovrebbe essere disegnato in modo tale che i singoli paesi si alternino sia come contribuenti che come beneficiari a seconda della posizione nell'arco del ciclo economico. In questo modo nell’ottica del singolo paese il costo netto potrebbe essere pari a zero nel medio periodo, mentre i benefici in termini di riduzione degli shock economici sarebbero positivi per tutti gli stati.

La creazione di un fondo europeo contro la disoccupazione rappresenterebbe un primo concreto esempio di politica fiscale europea e sarebbe un atto di enorme significato simbolico: un nuovo modo di fare politica europea che parte dalle esigenze dei cittadini e in cui tutti gli europei possono immediatamente identificarsi.

Alessandro Giovannini è Associate Researcher al Centre for European Policy Studies;
Umberto Marengo è PhD candidate in EU Public Policy all’Università di Cambridge
.
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LA burocrazia europea imperversa.

Ricorsi per infrazioni Ue
Tajani-Governo, l’ennesimo pasticcio italiano
Marco Gestri
30/06/2014
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La decisione della Commissione europea di chiedere chiarimenti all’Italia quanto all’applicazione della Direttiva dell’Ue sui ritardi nei pagamenti, annunciata dal Commissario Antonio Tajani il 18 giugno, ha aperto uno scontro politico senza precedenti tra il nostro governo e il membro italiano della Commissione. La polemica investe delicati aspetti di diritto e politica dell’Unione europea (Ue) sui quali è bene fare chiarezza.

Lettera di messa in mora per l’Italia
La Commissione ha deciso d’inviare al Governo italiano (così come a quello della Slovacchia) una lettera di messa in mora che costituisce il primo passo di una complessa procedura che potrebbe sfociare in un ricorso per infrazione di fronte alla Corte di giustizia Ue e in un’eventuale condanna dell’Italia.

La lettera contesta all’Italia di non applicare correttamente la direttiva 2011/7/Ue relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, le cui disposizioni sono state recepite nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 192/2012 (per una volta in anticipo rispetto ai termini previsti dalla legislazione europea!).

A quanto risulta dalle denunce ricevute dalla Commissione, la pubblica amministrazione italiana pagherebbe alle imprese le somme dovute per beni e servizi in media dopo 170 giorni, che diventano ben 210 nel caso di lavori pubblici. molto più tardi rispetto ai termini di pagamento imposti dalla direttiva (30 giorni o, in circostanze eccezionali, 60 giorni). L’Italia è all’ultimo posto nella classifica europea della tempestività dei pagamenti alle imprese.

In aggiunta, secondo la Commissione,alcuni enti pubblici italiani applicherebbero interessi legali di mora inferiori a quelli imposti dalla direttiva. Nel settore dei lavori pubblici sarebbe infine diffusa la prassi di posticipare l’emissione delle relazioni sullo stato di avanzamento dei lavori, così da ritardare i pagamenti.

Il problema dei ritardi nei pagamenti risulta di particolare gravità per le piccole e medie imprese e per gli artigiani, ossatura del nostro tessuto produttivo. Lo stesso è poi amplificato dalla lentezza e inefficienza del sistema giudiziario che rende la tutela del creditore alquanto aleatoria.

Infelici accuse contro Tajani
Il fatto che ha scatenato le reazioni più accese è che l’iniziativa della Commissione sia stata promossa dal Commissario italiano, prossimo alle dimissioni in quanto eletto al Parlamento europeo. Tajaniè stato accusato di remare contro il proprio paese.

Al di là d’ogni considerazione su eventuali motivazioni politiche interne dell’iniziativa di Tajani e sulla scelta di comunicare l’iniziativa nel quadro d’una conferenza stampa convocata allo scopo, le reazioni “a caldo” da parte di alcuni esponenti governativi appaiono formulate in termini piuttosto infelici.

Che la pubblica amministrazione continui a pagare con inammissibile ritardo è innegabile. Come rilevato dal presidente di Confartigianato, basto chiederlo a qualunque fornitore! Che senso ha, dunque, accusare un commissario d’irresponsabilità contro l’Italia, in pratica invitandolo a “chiudere un occhio” nei confronti di un problema di tale gravità? La Commissione è l’istituzione che incarna per definizione l’interesse generale dell’Ue.

Ogni commissario deve agire in assoluta indipendenza, soprattutto nei confronti dei governi, i quali devono astenersi da ogni azione volta a influenzarli. Inoltre, la Commissione opera secondo uno stretto principio di collegialità, per il quale ogni sua azione, anche se intrapresa da un singolo commissario, impegna l’istituzione nel suo insieme.

Italia in tempo per evitare il ricorso per infrazione
Anziché fare come gli allenatori che addossano tutte le responsabilità all’arbitro, il governo e la maggioranza avrebbero dunque fatto meglio a limitarsi a sottolineare gli (indubbi) sforzi che stanno facendo per risolvere il problema dei ritardi nei pagamenti e a minimizzare lo stesso.

Tra l’altro, la lettera di messa in mora è soltanto il primo passo della procedura di infrazione, che solo in una percentuale ridottissima di casi sfocia in un ricorso alla Corte, extrema ratio a disposizione della Commissione nei riguardi di stati recalcitranti. Basti pensare che nel 2012 sono state risolte senza deferimento più di mille procedure aperte dalla Commissione, a fronte di meno di 50 deferimenti alla Corte.

C’è dunque tutto lo spazio per evitare il ricorso per infrazione. Il nostro Governo ha due mesi di tempo per presentare le proprie osservazioni alla Commissione e per convincerla della serietà dei propri sforzi per affrontare la questione.

Inoltre la Commissione, diversamente dai nostri magistrati in materia penale, non ha l’obbligo d’esercitare l’azione per infrazione, godendo di un margine di discrezionalità nel valutare i comportamenti intrapresi dagli stati per conformarsi al diritto dell’Ue.

Del resto, nessuno dubita che occorra fare qualcosa, a partire da una revisione del Patto di stabilità interno che, secondo quanto affermato dal ministro Pier Carlo Padoan, è comunque nell’agenda del governo.

Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.
 
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Eurpa: la presidenza Italiana Il sito italia2014.eu

Presidenza italiana
Ue, Renzi chiede 1000 giorni, ma ne ha solo 180
Giampiero Gramaglia
01/07/2014
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All'indirizzo italia2014.eu, il sito ufficiale della presidenza di turno italiana del Consiglio dell'Unione europea (Ue) è online: il 1° luglio, proprio all’inizio del semestre. Nel rispetto di italiche tradizioni, tutto si realizza in extremis, ma si realizza.

Il portale doveva essere solo in italiano e in inglese, ma è stato allestito anche in francese, dopo che Palazzo Chigi aveva registrato qualche malumore transalpino: di qui, l’uscita pubblica all’ultimo momento.

Il sito, che vuole essere la fonte principale d’informazioni sul semestre italiano, non è l’unica novità del 1° luglio: ci sono pure la moneta e il francobollo dedicati alla presidenza. Ad aprire la sezione News, il messaggio di saluto del premier Matteo Renzi, che s’iscrive con disinvoltura alla 'generazione Erasmus'.

Online, c’è pure il programma del Trio di Presidenze - Italia, Lettonia, Lussemburgo - approvato dal Consiglio dei ministri degli affari generali il 24 giugno.

I ministri degli esteri dei tre paesi - Federica Mogherini, Edgars Rinkevics e Jean Asselborn - hanno discusso la staffetta in un incontro alla Farnesina il 30 giugno, esprimendo “la volontà comune di aprire una nuova stagione. Il piano - si legge in una nota della Farnesina - ha al centro iniziative per la crescita e l'occupazione e vuole rafforzare il ruolo dell'Ue nel mondo attrezzandola ad affrontare le sfide della globalizzazione.

Tra il pieno uso e il buon uso dei margini di flessibilità
Fin qui, nulla da dire. Eppure, le conclusioni del Vertice europeo del 26 e 27 giugno, che ha chiuso la presidenza greca e fatto da viatico a quella italiana, sono subito diventate terreno di polemica tra il governo, che le presenta come un successo che apre margini di flessibilità all’Italia, e l’opposizione, che le legge come una disfatta che condanna l’Italia, di qui a pochi mesi, a un’ulteriore ennesima manovra.

In realtà, il Vertice europeo è stata la solita manfrina del tutti insieme al minimo comune denominatore, mascherando le differenze dietro la genericità delle formule - con un’eccezione, tutta da verificare, per l’energia. Senza volere dimenticare il balletto delle bozze, con l’arretramento - ed è solo un esempio - tra “il pieno uso” ed “il buon uso” dei margini di flessibilità previsti da Trattati e impegni esistenti.

Leggetevi, anzi leggiamoci, il comunicato ufficiale del Vertice sulla “agenda strategica dell’Ue in una fase di cambiamento”: “Il Consiglio europeo ha concordato cinque priorità a lungo termine che guideranno il lavoro dell’Ue nei prossimi cinque anni: economie più forti e più posti di lavoro; società capaci di consentire ai cittadini di realizzarsi e di proteggerli; un futuro sicuro per l’energia e per il clima; un’area affidabile di libertà fondamentali; un’azione congiunta efficace nel Mondo”.

Ora, qual è il governo o l’istituzione che non sottoscrive obiettivi del genere? E in che modo averli accettati e condivisi può costituire una vittoria o una sconfitta?

Priorità italiane alla presidenza europea
Sulle priorità italiane alla presidenza europea, indicazioni più concrete verranno dal discorso che il premier Renzi farà il 2 luglio all’Assemblea di Strasburgo, che oggi inaugura la sua VIII legislatura. La sostanza del programma Renzi l’ha però già presentata al Parlamento italiano, spostando l’obiettivo ben al di là del semestre e pure del trio. Mille giorni per fare le riforme in Italia e per cambiare l’Ue. Tempi più brevi, invece, per dare una dimensione più europea all’emergenza immigrazione / accoglienza.

L’Italia avvierà un robusto programma triennale di riforme nazionali. E, in cambio, chiederà all’Ue di abbandonare l’immobilismo e l’atteggiamento ipertecnocratico che l’ha segnata negli ultimi anni.

Partendo dal voto di maggio, il premier rivendica all’Italia maggior peso europeo: “Non accettiamo da nessuno lezioni di democrazia e democraticità, qui e fuori dai confini nazionali … Se milioni d’italiani hanno votato perché l'Europa cambiasse rotta, abbiamo la responsabilità di farlo, non una medaglia da appuntarci al petto”.

Sul Patto di stabilità, l’Italia non chiede di sforare il tetto del 3%, “come fece la Germania, ma “vogliamo smettere di ricevere un elenco di raccomandazioni che siano come una lista spesa che capita fra capo e collo”.

Per Renzi, con l’eccesso di burocrazia non è possibile guidare un processo di sviluppo: “Abbiamo sempre detto che rispettiamo le regole. Non è in discussione: le abbiamo sempre rispettate e continueremo a farlo, ma c'è modo e modo di affrontare le regole”. L’Italia si presenta alla presidenza con 117 procedure d’infrazione aperte: un record, nell’Ue, nessun paese, neppure la Grecia, fa peggio.

“La stabilità senza crescita - dice ancora il premier - diventa immobilismo … O l’Unione cambia direzione di marcia o non esiste più una possibilità di sviluppo e crescita”. Per avviare il processo, l’Italia intende “presentarsi al semestre con un pacchetto di riforme unitario”, da sviluppare - e qui la scelta delle date pare rispecchiare più scadenze italiane che europee- dal 1º settembre 2014 al 28 maggio 2017.

Le riforme nazionali sono la moneta di scambio con cui ‘acquistare’ l’utilizzo dei margini di flessibilità europei: è questa, per Renzi, la chiave per uscire dalla “logica kafkiana di un'Europa che apre una procedura di infrazione perché non paghiamo i debiti alle imprese, ma contemporaneamente ti impedisce con il Patto di Stabilità di saldare quel debito … è un film dell'orrore”. Il formalismo eccessivo va abbandonato, perché l’Ue “non può diventare terra di mezzo di cavilli e norme dove si perde il senso del reale”.

Nomine e rinnovo istituzioni europee
Infine, c’è il capitolo delle nomine e del rinnovo delle Istituzioni europee, in parte alleggerito dopo le decisioni del Vertice europeo di fine giugno: il popolare lussemburghese Jean-Claude Juncker va alla presidenza della Commissione europea, il socialista tedesco Martin Schulz resta alla presidenza del Parlamento europeo.

Ma le scelte da fare restano numerose: la presidenza del Consiglio europeo ed eventualmente dell’Eurogruppo, la designazione dei commissari e, fra di essi, dell’Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, dove c’è un’ipotesi Mogherini. Al Parlamento italiano, Renzi dice “siamo a un bivio” e prospetta “un metodo”: “Prima di decidere chi guida decidiamo dove andare”, cioè prima l’agenda strategica e poi Juncker. E, fin qui, tutto bene.

Ma il premier prospetta “un’intesa complessiva” con dentro “tutte le nomine e metodo di governo”: “Non basta sapere chi sarà il presidente della Commissione se non si decide anche chi guiderà l'Eurogruppo o il Consiglio europeo”. Però, è andata proprio così: Juncker c’è; il dopo van Rompuy e il dopo Dijsselbloem no.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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Patto di Stabilità: trattative a largo raggio

Politica economica europea
Il vero sconto che l'Italia dovrebbe chiedere alla Germania
Daniel Gros
25/06/2014
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Torna a scaldarsi il dibattito sull’eventuale sconto dal Patto di stabilità che l’Italia potrebbe chiedere alla Germania in cambio del suo appoggio alla candidatura di Jean Claude Juncker alla presidenza della Commissione europea.

Si tratta in fondo soltanto della manifestazione più recente di un approccio che, alla lunga, non è stato pagante per l’Italia: da quasi 15 anni il paese chiede regolarmente di poter mantenere il deficit un po’ più alto di quanto previsto dalle regole europee e gli impegni assunti dall’Italia stessa nei suoi programmi di stabilità si rivelano, ex post, quasi sempre troppo ottimisti.

Debito pubblico italiano
Il risultato di questo approccio è un debito così alto che ha portato l’Italia alla soglia di dover chiedere nel 2012 l’aiuto dei suoi partner e accettare l’invasione degli ‘uomini in nero’.Questa volta l’Italia si presenta con più credibilità visto che il nuovo governo sembra veramente intento ad intraprendere delle riforme strutturali. Ma conviene veramente all’Italia aumentare ancora di più, anche se di poco, il suo debito pubblico?

Il ragionamento a sostegno di questo approccio è che le riforme si fanno più difficilmente e potrebbero avere un effetto negativo a breve termine se l’economia italiana rimanesse in recessione. Un sostegno alla domanda potrebbe facilitare le riforme e rafforzarne gli effetti positivi sull’offerta.

Esiste effettivamente un problema di scarsa domanda all’interno della eurozona che rende la vita più difficile a qualunque governo italiano che vuole fare delle riforme. Ma se è cosi, l’approccio da seguire dovrebbe essere capovolto: l’Italia dovrebbe prometter di fare le riforme in cambio di una politica espansiva degli altri, soprattutto quei paesi a debito relativamente basso che possono ancora permettersi di aumentare la spesa.

Patto con la Germania
Il patto da proporre alla Germania dovrebbe allora essere il contrario di quello di moda oggi. In cambio del suo sostegno a Juncker, l’Italia dovrebbe domandare a Berlino di impegnarsi ad aumentare sostanzialmente la domanda interna tedesca. Invece di chiedere il solito sconto dal Patto di stabilità, l’Italia dovrebbe chiedere qualche cosa che comunque è necessaria per ridurre gli squilibri all’interno dell’ eurozona.

Spetterebbe alla Germania scegliere lo strumento più idoneo per raggiungere il risultato. Un aumento massiccio dell’investimento in infrastrutture sarebbe probabilmente la via più diretta. Insomma, invece di chiedere uno sconto per sé l’Italia dovrebbe chiederne uno per la Germania.

Dell’aumento della domanda interna tedesca andrebbe a beneficio dell'Italia (e di tutti i paesi periferici). L’Italia potrebbe allora mantenere i suoi impegni sia in termini di riforme strutturali che di riduzione del debito pubblico.
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