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martedì 23 settembre 2014

Da mare Nostrum a Frontex Plus

mmigrazione 
Mare Nostrum davanti a una svolta
Fabio Caffio
16/09/2014
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Ambiziosa nei fini, coraggiosa nelle scelte, realistica nella valutazione della situazione del Mediterraneo, l'Operazione Mare Nostrum (Omn) è giunta ad una svolta.

Proprio nelle settimane in cui le vittime nel Mediterraneo toccano cifre record, Mare Nostrum dovrebbe essere affiancato da una missione dell'Unione europea (Ue) cosiddetta Frontex Plus dedicata alle nostre frontiere marittime.

Per sopravvivere a se stessa dopo un anno di intensa (e costosa) attività e dopo aver subito l'accusa di pull factor, dovrà alimentare altre iniziative. Varie sono le possibili opzioni: la vera sfida per la Ue sarebbe utilizzarne l'esperienza per stipulare un accordo tra gli Stati membri in forma di Patto per il Mediterraneo.

Salvataggio in mare e lotta agli scafisti
L'indubbia rivoluzione di Omn è stata mettere da parte tutto il farraginoso regime giuridico internazionale del salvataggio in mare che ha generato un'interminabile disputa con Malta.

Salvare in mare rifugiati e profughi è altra cosa che soccorrere una qualsiasi imbarcazione in difficoltà. Bisogna aspettare una chiamata di soccorso per intervenire? Può restare inerte di fronte a possibili rischi di naufragio lo stato responsabile della zona Search and Rescue (Sar)?

E soprattutto: in quale "luogo sicuro" (nozione internazionale relativa alle condizioni personali ed ai diritti individuali) trasportare le persone salvate tenendo conto che a parere di Malta esso non è nella propria zona Sar, ma in un porto italiano, se più vicino ?

Dopo anni di enormi sforzi nello svolgimento del Sar in tutto il Mediterraneo, anche in zone altrui, l'Italia ha alla fine deciso di dare assistenza umanitaria a tutti le persone che rischiano la vita nei barconi che attraversano il Mediterraneo, trasportandoli sul territorio nazionale (ad oggi più di 130 mila). Senza tralasciare gli aspetti di ordine pubblico relativi all'identificazione di trafficanti, scafisti (circa 300 arrestati) ed eventuali cellule terroristiche, e all'interdizione delle navi madre (4 sequestrate).

Indietro non si torna
Come nota Marco del Panta non ci sono alternative all'assistenza a persone suscettibili di protezione internazionale.

Ormai è chiaro che i respingimenti in mare sono illegittimi a meno che a prestare assistenza nella sua zona Sar, rimorchiando i barconi verso il porto di partenza, sia un paese africano che operi autonomamente, mantenga il controllo delle proprie coste e rispetti i diritti umani.

Non sappiamo quale sarà la politica Ue portata avanti dal nuovo Commissario greco all'immigrazione, ma potrebbe essere improntata al tradizionale approccio di Atene alla linea dura per impedire ingressi illegali.

Questo orientamento è comprensibile, ma è troppo rigido per poter risolvere tutti i complessi problemi legati al Sar e al "luogo sicuro", alla concessione dell'asilo e alla circolazione nel territorio europeo delle persone assistite in mare cui il Nord Europa si oppone.

Area operazione OMN (fonte MM).

Patto per il Mediterraneo
Si dice che alla Ue non si possa chiedere quello che non può dare. Non a caso la Strategia europea di sicurezza marittima approvata dal Consiglio lo scorso giugno, per quanto citi le minacce legate ai traffici di migranti ed esseri umani, non si pone il problema delle tragedie del mare legate a tali traffici.

Eppure basta leggere il rapporto del Consiglio d'Europa redatto dalla senatrice olandese Tineke Strik per comprendere che cosa il Parlamento europeo potrebbe fare se volasse alto: un Patto per il Mediterraneo da formalizzare in un protocollo che affronti problematiche Sar, "luogo sicuro" e asilo prevedendo, ad esempio, la concessione nei punti di partenza, da parte di singoli paesi Ue, di protezione con visto temporaneo.

Attivismo italiano sull’immigrazione
Molte sono le carte che l'Italia ha sinora giocato con Omn. Senz'altro positivo è aver ottenuto il lancio di Frontex Plus che copre il nostro fronte costiero. È rimasta invece inascoltata, per mancanza di unanimità, la proposta di organizzare nell'ambito della Politica comune europea di difesa e sicurezza una missione navale dedicata alla lotta ai traffici di migranti ed esseri umani; ciò non toglie che possa essere riproposta su nuove basi.

La Difesa ha anche richiesto di estendere il mandato dell'operazione mediterranea Nato Active Endeavour per contrastare tali traffici. Cosa possibile a condizione di considerare con realismo i limiti dell'azione che il Trattato Nato impone o di immaginare una forma di collaborazione operativa tra Alleanza Atlantica e Ue.

Una Risoluzione Onu, a iniziativa italiana, dedicata all'interdizione dei traffici di migranti ed esseri umani sarebbe la cornice giuridica ideale per favorire la transizione di Omn verso una nuova operazione Nato/Ue.

Mare Nostrum, che tanto sta costando all’Italia in termini economico-sociali, non è un problema da risolvere in fretta, ma una straordinaria opportunità per convincere la Ue ad aprirsi verso nuovi orizzonti, uscendo dalla miope visione di alcuni dei suoi membri.

Fabio Caffio è Ufficiale della Marina Militare in congedo, esperto di diritto internazionale marittimo.
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lunedì 22 settembre 2014

Portare i soldi in Svizzera?

Svizzera, Italia e Ue
Pochi, maledetti e subito non basta più
Cosimo Risi
28/08/2014
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Il negoziato fiscale fra Italia e Svizzera è vecchio di alcuni anni. Gli svizzeri amano ricordare che cominciò col Governo Monti per proseguire col Governo Letta, e hanno la speranza di chiuderlo col Governo Renzi.

Al negoziato bilaterale s’intreccia la pista multilaterale, con Ocse e Unione europea. La Svizzera accetta i parametri generali Ocse in materia di scambio automatico delle informazioni sui conti bancari. Sancisce cosi la fine del segreto bancario, dopo il progressivo avvicinamento agli standard internazionali cominciato con la stratégie de l’argent propre.

Lo scambio automatico scatterà nel 2016. Cadranno di conseguenza alcune restrizioni, mentre rimarranno altre legate alla fiscalità agevolata sulle imprese. L’insieme delle black list che sovrintende agli scambi con la Confederazione si semplifica e non si azzera. Almeno non ancora.

Multilaterale o bilaterale?
Rimangono in piedi i contenziosi miliardari fra alcune banche svizzere da una parte e Stati Uniti e Francia dall’altra. Oggetto della contesa è la pretesa responsabilità delle banche, e personalmente di alcuni dirigenti, nell’incoraggiare l’evasione fiscale nei paesi considerati.

E d’altronde proprio dal contenzioso cogli Stati Uniti che la Confederazione trasse motivo per giungere alla soluzione generale del problema. L’accordo Fatca, dal nome della legge americana poi estesa a livello internazionale con una serie di stati, prevede precise disposizioni per lo scambio d’informazioni bancarie e fiscali.

Prosegue il negoziato con l’Italia. Il Parlamento italiano discute la proposta di legge sulla cd voluntary disclosure, volta ad incoraggiare quanti detengano capitali fuori a emergere volontariamente.

Poiché la misura non discrimina i paesi terzi, quanti abbiano capitali non dichiarati in Svizzera potranno emergere senza subire particolari appesantimenti. Il clima volgerebbe al bello anche in questo campo e l’Italia potrà recuperare un certo ammontare di capitali. E allora perché continuare a negoziare bilateralmente con scambi di visite fra i due paesi a vari livelli?

La principale ragione sta nell’iniziativa costituzionale del 9 febbraio 2014 sul “no all’immigrazione di massa”. L’iniziativa impegna il Consiglio federale (il Governo) ad adottare le conseguenti misure legislative. E non solo.

A notificare all’Unione europea (Ue) che la stessa iniziativa, con la normativa che ne verrà, contrasta con l’accordo sulla libera circolazione delle persone. Questo andrà rinegoziato.

Bruxelles respinge la domanda svizzera a stretto giro di posta, con l’argomento che se cade la libera circolazione delle persone, cadono gli altri accordi: viene messo in discussione l’intero impianto dei rapporti Ue - Svizzera in materia di partecipazione al mercato unico. I danni per la Svizzera sarebbero considerevoli. La sua integrazione nel sistema europeo è tale da avere superato il punto di non ritorno.

Respingere la domanda svizzera non significa chiudere alle trattative. Altre porte possono aprirsi, ad esempio con l’accordo istituzionale in via di negoziazione. La Commissione sta per cambiare, dovremo aspettare la nuova per una discussione ravvicinata.

Frontalieri, tasse e referendum
La proposta legislativa conseguente all’iniziativa pone paletti quantitativi e di principio alla libera circolazione dei lavoratori, frontalieri compresi. Nel 2017, quando scadrà il periodo di grazia, se qualcosa non cambia nell’ordinamento, la Confederazione sarà meno aperta riguardo ai lavoratori stranieri ed ai frontalieri.

Il Cantone Ticino, dove prevalentemente si dirigono i nostri frontalieri, ne chiede la riduzione. Il loro numero, cresciuto a dismisura negli anni sotto i colpi della crisi economica, preme sul mercato ticinese del lavoro e lo rende meno accessibile ai lavoratori locali. A causa certamente del differenziale fra le economie di provenienza e di accoglienza.

A causa pure - secondo gli Svizzeri - della fiscalità sui frontalieri che, risalendo ad accordi conclusi negli anni settanta, agevolerebbe il fenomeno degli spostamenti brevi. Bisogna inserire in priorità la fiscalità sui frontalieri nel negoziato fiscale generale. Anzi, quello dei frontalieri diventa “il capitolo”, senza il quale l’intero pacchetto non passerebbe in Svizzera.

Da una parte è la richiesta svizzera di rivedere l’accordo del 1974 sul ristorno fiscale e la convenzione del 1976 contro la doppia imposizione. Dall’altra è la riluttanza italiana a rivedere l’acquis mentre in Svizzera pendono mutamenti sullo status dei lavoratori e sui rapporti con l’Unione. Legislazione costante o legislazione in divenire? Come una volta a Giurisprudenza: de jure condito o de jure condendo?

Il Presidente del Ticino lancia la proposta che dovrebbe sparigliare il gioco. Prima che scada il periodo di grazia, allestiamo un referendum sul complesso dei rapporti Ue-Svizzera riscattandoli dal solo tema della libera circolazione delle persone. Un modo per riaprire il gioco con un rilancio. Un azzardo nella regione dei molteplici casinò? Non è detto.

Cosimo Risi è Ambasciatore d’Italia in Svizzera; ha servito a lungo a Bruxelles.
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Missioni Militari: un utile ripensamento

Missioni militari
L’Italia potrebbe anche dire no, qualche volta
Giuseppe Cucchi
12/09/2014
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Commentando le conclusioni del vertice della Nato, alcuni notano che, per l'Italia, sarebbe forse bene concentrare attenzione e risorse su problemi di suo reale interesse, come la Libia, anziché disperderli a pioggia sull'intero ventaglio delle crisi.

Sul Corriere della Sera, Francesco Battistini si meraviglia del fatto che il nostro paese si sia impegnato a lasciare ben ottocento soldati in Afghanistan, con compiti di addestramento, nel periodo successivo alla conclusione ufficiale della operazione Nato-Isaf, e dopo che molti dei principali protagonisti, primi fra tutti gli Usa, avranno definitivamente chiuso quella avventura.

Battistini definisce il nostro impegno in Afghanistan “generosità” senza contropartite", ricorda il pesante costo della operazione in vite italiane (più di cinquanta morti!) e pone un interrogativo estremamente delicato: ne è valsa la pena?

Abbiamo giocato la carta militare
Per molte ragioni, in un periodo di crisi economica e di eclissi politica del nostro paese, le Forze Armate erano rimaste più o meno l'unico gettone valido che l'Italia poteva spendere con onore sui tavoli della politica internazionale. Negli ultimi trenta anni noi abbiamo quasi sempre risposto sì a tutte le richieste di partecipare a forze di peace-keeping o a coalitions of the willing che ci sono state rivolte.

Il processo è iniziato con le due operazioni in Libano dell'inizio degli anni Ottanta,è proseguito con lo sminamento degli sbocchi del Canale di Suez e con la prima di quelle operazioni nel Golfo Persico che sono poi cresciute di importanza negli anni successivi, ed ha continuato in crescendo sino a portarci oggi ad essere "fra i maggiori contributori di truppe per le necessità delle Organizzazioni Internazionali".

Una frase che a prima vista suona come un riconoscimento positivo, e che certamente lo è per tutti i militari che in questi trenta e passa anni di impegno hanno lavorato all'estero con silenziosa efficienza contribuendo a ricostruire una immagine dell'Italia che altri avvenimenti ed altri protagonisti si accanivano invece a tentar di distruggere.

Un bilancio serio della nostra partecipazione alle avventure militari "oltralpe ed oltremare" non è però mai stato fatto. Allorché se ne parla le risposte restano sempre molto vaghe.

Siamo andati per solidarietà, perché non potevamo lasciare soli i nostri alleati, perché c'erano violazioni intollerabili dei diritti umani, perché l’incendio nel campo del vicino avrebbe potuto estendersi, perché il rifornimento di energia doveva essere garantito, perché altrimenti non avremmo partecipato alla spartizione della torta della ricostruzione, perché non si poteva lasciare un paese nel medio evo alla vigilia del XXI secolo, perché ce lo imponevano i trattati, perché ci eravamo già impegnati in altra sede e via di questo passo.

Una serie di affermazioni abbastanza generiche, tali da a giustificare anche le scelte più assurde.

Sono stati commessi errori
Un esempio: la scelta di partecipare alla guerra del Kosovo, con cui abbiamo ribaltato una politica che era stata valida per cento anni ed aveva visto Italia e Francia alleate alla Serbia nello sforzo di fermare all'altezza della Croazia la penetrazione della influenza tedesca nei Balcani.

Come risultato finale di quel conflitto ora l'influenza tedesca si estende sino alla Turchia e noi siamo tra quelli che più hanno pagato e più stanno ancora pagando (quante truppe italiane rimangono oggi nei Balcani?) per questa estensione.

Oppure la scelta di associarci alla guerra contro Gheddafi, dimenticando trattati internazionali firmati poco tempo prima, rifiutando di vedere come il Colonnello (pur con tutti i suoi imperdonabili peccati di dittatore) fosse ormai divenuto un elemento di stabilità per il Maghreb e il Sahel.

Queste scelte sono state effettuate senza avere una visione complessiva dei problemi. Una dimostrazione di come, in questo settore, l’Italia stia pagando l'assenza di quel National Security Council di cui, purtroppo senza alcun risultato, è stata più volte richiesta la costituzione. È giunto però il momento in cui si impone anche in questo settore una seria "spending review ".

Costi più che benefici?
Le missioni all'estero costano care, non solo in termini di sangue, ma anche in termini economici. Un documento serio a riguardo non è mai stato pubblicato. Esiste la documentazione ufficiale che viene presentata al Parlamento in occasione del voto per il finanziamento delle missioni, che copre una parte della realtà.

Manca però la parte che riguarda il logoramento di uomini e mezzi nonché il calcolo di altre spese indirette. C'è la naturale tendenza a minimizzare i totali nella paura che il budget non venga approvato.

Altrettanto assente è la valutazione di quanto abbiamo, o non abbiamo, guadagnato dalle missioni. Pochissimo certo in campo economico, poiché non abbiamo mai pienamente partecipato ad una supposta spartizione della “torta della ricostruzione” (a fronte di altri alleati più forti e preparati).

Dal punto di vista politico il bilancio è più complesso, anche se a volte abbiamo dovuto ricorrere addirittura alle maniere dure per farci riconoscere quanto ci spettava. Per entrare nel "Gruppo di contatto" per la Jugoslavia Susanna Agnelli, allora ministro degli Esteri, dovette minacciare di interdire al rischieramento della flotta aerea Nato il nostro territorio nazionale.

Nel complesso però un bilancio serio risulterebbe probabilmente in pari, anche se evidenzierebbe impietosamente come alcune delle operazioni siano state ad essere ottimisti superflue e pesino quindi sui conti soltanto dal lato delle uscite.

Infine il bilancio militare, positivo come già detto per molti aspetti, ha evidenziato i soldati italiani come i migliori peace-keepers del mondo. Per partecipare alle operazioni oltremare le nostre Forze Armate hanno però dovuto dimenticare tutto il resto, penalizzando le spese di addestramento ed esercizio. In sostanza, questi impegni stanno da troppo tempo drenando le risorse disponibili, a scapito degli altri settori di interesse.

Si può continuare così? È arrivato il momento di domandarsi se valga la pena continuare come si è fatto sino ad ora, rispondendo prontamente si ad ogni richiesta e mantenendosi pronti a partire per difendere interessi spesso soltanto o principalmente altrui anche su fronti lontani e per noi trascurabili.

O se non sia invece arrivato il momento di fare scelte precise, di chiederci chi siamo e cosa vogliamo. E di decidere di conseguenza avendo la dignità ed il coraggio di rispondere di no ogniqualvolta ciò si riveli necessario.

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
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Guardando all'Europa: crisi politica e crisi economica

Renzi, Vallas, Sanchez
I non cloni europei di Renzi 
Riccardo Pennisi
08/09/2014
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La crisi che l'Europa sta vivendo è effettivamente sistemica. Dopo l'economia non ne è restata immune la politica: i cambiamenti che stiamo vivendo sono di ampiezza e profondità inattese – non solo in Italia, ma anche dove il sistema dei partiti appariva meno mutevole.

Ce ne accorgiamo se confrontiamo l'attuale panorama dei leader e dei partiti nei paesi europei con quello di solo una decina d'anni fa. Il sentimento di distacco della cittadinanza dalla classe politica è esploso; la crisi latente di molte forze si è aggravata; la domanda di una nuova rappresentanza è cresciuta; parole d'ordine come rinnovamento, rapporto diretto con il popolo, cancellazione radicale delle vecchie pratiche, si sono imposte.

Italia avanguardia dell'evoluzione

Ovviamente, gli elementi di novità non hanno avuto in ogni luogo la stessa forma, dimensione, conseguenze. La Germania, il cui sistema politico presenta caratteristiche ancora simili al passato, è una delle eccezioni. In ogni caso, il processo di cambiamento è comune a tutta Europa. L'Italia, spesso paradossalmente all'avanguardia nell'evoluzione – positiva o negativa che sia – del rapporto tra i cittadini e la politica, è stata osservata anche questa volta a livello internazionale come produttrice di novità - in particolare grazie a due figure 'di successo': Beppe Grillo e Matteo Renzi.

Le caratteristiche personali e il movimento fondato dal primo sono difficilmente riproducibili all'estero, benchè parti del lessico e del metodo di Grillo siano state letteralmente saccheggiate da molti partiti schierati contro il bipolarismo: dalla sinistra di Podemos in Spagna alla destra di Marine Le Pen in Francia, arrivando ai nazionalisti di Nigel Farage nel Regno Unito.

Socialisti europei a Bologna 

Sono di più invece gli uomini politici che, in giro per il continente, vogliono richiamarsi in maniera diretta all'esperienza di Renzi. Ciò è avvenuto in special modo dove i partiti tradizionali della sinistra attraversano una seria crisi. Basta pensare all'incontro di domenica a Bologna tra Renzi, il primo ministro francese Manuel Valls, il segretario del partito socialista europeo Achim Post, il leader del partito laburista olandese Diederik Samsom e il segretario del partito socialista spagnolo Pedro Sanchez.

Un avvicinamento tra il partito socialista francese e il partito democratico italiano era già avvenuto con le primarie che il Ps aveva organizzato a fine 2011, citando il Pd come modello. L'arrivo al potere di Valls, sindaco fino al 2012 di una città satellite di Parigi, non coincide però con una scalata personale all'interno del partito. Si tratta al contrario di una cooptazione dall'alto.

Valls ottenne solo poco più del 5% dei voti alle primarie del 2011. La sua proposta politica – qui il primo parallelo con il renzismo – rappresentava la destra del partito: molta attenzione al mondo delle imprese piccole e grandi, fine del regime obbligatorio delle 35 ore, cambio del nome del partito da socialista a democratico. Un programma che ebbe i complimenti dal giornale della City di Londra, l'Economist.

Soluzione renziana per Hollande

Hollande, giunto all'Eliseo nel maggio 2012, lo nominò ministro dell'Interno nel governo di Jean-Marc Ayrault; all'Economia andava Arnaud Montebourg, campione della sinistra interna, che alle primarie aveva raccolto il 17%. Due anni dopo, tutto cambia. I consensi del partito e del presidente sono in picchiata: più impopolari che mai, devono risolvere il problema della formidabile ascesa del Front National di Marine Le Pen.

La soluzione di Hollande è di marca renziana. Ayrault è congedato a inizio 2014 e al suo posto viene nominato Valls, con il compito riavvicinarsi alla destra moderata dell'UMP (il partito di Sarkozy), in modo da arginare gli estremisti e mantenere il dominio parlamentare. A sigillare queste larghe intese di fatto, la recente cacciata di Montebourg dal ministero dell'Economia e la sua sostituzione con Emmanuel Macron, banchiere d'affari alla Rothschild fino al 2012.

Rottamare per sopravvivere

I livelli di popolarità e i risultati elettorali di Renzi sono davvero ammirati dai politici europei, impauriti dall'avversità dell'opinione pubblica. Questo renzismo per cooptazione dovrebbe avere un doppio vantaggio: garantire i vecchi capi del partito dalla rottamazione; e allo stesso tempo promuovere presso l'opinione pubblica una figura più giovane, informale e non compromessa, capace di occupare il centro dell'arena politica e di assicurare la sopravvivenza del partito – non importa se al costo di un accordo con gli antichi avversari.

La stessa logica ha portato recentemente i maggiorenti del malridotto partito socialista spagnolo a scegliere il giovane e semisconosciuto Sánchez come segretario, con l'obiettivo di resistere all'arrembaggio della sinistra e siglare con la destra del Partido Popular un patto di governo per la prossima legislatura. Sánchez si è affrettato a nominare il premier italiano tra i suoi modelli.

Nella sinistra classica europea manca però un vero e proprio emulo di Renzi; qualcuno cioè anche capace di trasformare forma e sostanza del proprio partito - come seppe fare l'antesignano Tony Blair dopo aver stravinto le primarie (e le elezioni nazionali).

Riccardo Pennisi è collaboratore di Limes, ISPI, Il Mattino e coordinatore delle tematiche europee presso Aspenia.
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martedì 16 settembre 2014

Guardando la sponda sud

Politica euro-mediterranea
Renzi a metà tra nazionalismo e Europa
Roberto Aliboni
05/08/2014
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Con la sua visita al Cairo il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha ribadito con forza la priorità che l’Italia assegna alla politica mediterranea dell’Europa.

Il nuovo regime egiziano suscita però in Europa molte perplessità per il suo carattere marcatamente autoritario, e la legittimazione fornita dall’Italia ad al-Sisi con una visita di stato dal carattere estremamente amichevole prefigura un realismo estraneo ai criteri di promozione della democrazia che hanno fin qui presieduto alla politica euro-mediterranea.

Una forte e rinnovata politica euro-mediterranea deve necessariamente basarsi sulla coesione dell’Unione europea e ispirarsi a una concezione unificante del vicinato che tenga conto delle diverse esigenze dei paesi membri nei suoi confronti.

Mediterraneo cuore dell’Europa
Dopo le cosiddette “primavere arabe” e il progressivo inasprimento delle relazioni dell’Unione europea (Ue) con la Russia, la politica di vicinato sta diventando un altro fattore di frammentazione dell’Ue.

La visita di Renzi ribadisce giustamente l’interesse italiano per il Mediterraneo in una prospettiva europea, ma perché questa prospettiva sia unificante e non divisiva occorre che il governo italiano la collochi nel contesto di una politica estera che metta i nostri interessi in equilibrio con quelli degli altri membri dell’Ue.

Se non lo farà, il Mediterraneo rischia di diventare, futilmente, un altro pericoloso motivo di divisione e frustrazione nei rapporti dell’Ue e di debolezza per l’Italia.

Se la frase - molto in linea con la tradizione retorica della Prima Repubblica - attribuitagli a conclusione della visita: “Il Mediterraneo non è la frontiera, ma il cuore dell’Europa” (Corriere della Sera, 3 agosto 2014) restasse fuori da una prospettiva europea più ampia, l’emergente politica mediterranea dell’Italia si rivelerebbe velleitaria.

Essa non sarebbe, a ben vedere, tanto diversa dall’unilateralismo geopolitico dei paesi centro-orientali dell’Ue che criticano il preteso carattere filo-russo della politica dell’Italia e la candidatura di Federica Mogherini come Alto rappresentante.

Un paese chiave dell’Ue come l’Italia deve proporre una politica valida per l’intero vicinato, anche se dovutamente articolata per tenere conto delle differenze al suo interno. Impegnato nella sfida per l’Alto rappresentante, Renzi deve enunciare per l’Europa una prospettiva strategica ad ampio respiro, evitando di attestarsi su un vacuo “neo-mediterranismo” di stampo blandamente nazionalista.

Renzi si è presentato nei suoi interventi al Cairo con il manto europeo della presidenza di turno, il che non l’autorizza però a parlare di politica estera anche per gli altri.

Perplessità europee sull’Egitto
Oggi l’Egitto è un paese molto controverso agli occhi dei membri dell’Ue. La feroce repressione contro i Fratelli Mussulmani, i giornalisti, gli sparuti e sprovveduti liberali del paese e l’emergere di un regime chiaramente autoritario, per molti aspetti più chiuso e autoritario di quello dell’ex presidente Hosni Mubarak, lasciano l'Europa come minimo perplessa su cosa fare nei confronti di questo paese: deve chiudere gli occhi e considerare l’Egitto un utile alleato contro l’islamismo oppure persistere nella politica di condizionalità democratica e premere sul Cairo perché non faccia di ogni erba un fascio fra islamisti moderati ed estremisti e cessi di violare i diritti umani e civili dei suoi cittadini?

A livello europeo questa è una questione apertissima.

Occhi chiusi davanti all’autoritarismo egiziano
La visita di Renzi, pervasa di amicizia e volontà di cooperazione verso l’ex generale e ora presidente Abdel Fattah al-Sisi e il suo nuovo Egitto sotto il manto della presidenza di turno europea, non solo appare un po’ abusiva, ma pone anche interrogativi sulla direzione della nostra politica estera ed europea.

Essendo l’Italia il terzo paese per importanza nei rapporti commerciali ed economici con l’Egitto, Renzi ha fatto bene a ribadire con la sua visita i rapporti di amicizia dell’Italia con l’Egitto, ma il tono generale della visita ha fatto trasparire una solidarietà e un’intesa politica che è certamente prematura e poco in linea coi sentimenti e le perplessità che circolano nell’Ue.

Dalla visita si potrebbe arguire che l’Italia suggerisce di chiudere realisticamente gli occhi di fronte all’autoritarismo egiziano in nome di una indiscriminata lotta all’islamismo, cioè nella stessa ottica che guida la politica mediorientale e mediterranea del presidente Vladimir Putin.

È davvero questa la direzione della politica mediterranea dell’Italia? Un maggiore realismo della politica europea è opportuno, ma ne devono essere attentamente definite le modalità. E lo si deve fare assieme ai colleghi europei.

Altrimenti, dietro la retorica europeistica di Renzi rischia di far capolino una politica divisiva che magari pretende pure di mettere l’Ue al servizio degli interessi specifici dell’Italia.

Si cadrebbe così in quella politica blandamente nazionalista cui si accennava più sopra e che difficilmente può costituire una solida base per rilanciare la politica euro-mediterranea.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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Nessuna luce in fondo al tunnel

Disputa Italia-India
Marò, la storia infinita
Natalino Ronzitti
04/08/2014
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Ennesimo rinvio dei tribunali indiani sulla questione dei nostri fucilieri di marina, trattenuti in India ormai da circa due anni e mezzo. Questo è quanto avvenuto il 31 luglio. Il 4 agosto la Corte Suprema indiana ha poi autorizzato il rinnovo della cauzione a garanzia della libertà provvisoria dei due Marò.

La Corte speciale che era stata incaricata dalla Corte suprema indiana di giudicare il caso si è aggiornata al 14 ottobre 2014 a causa dell’indisposizione di uno dei giudici. Qualcuno, a quanto sembra a livello governativo, ha affermato che si tratta di un mero fatto tecnico. Altri hanno scritto che il rinvio gioca a nostro favore.

Nei fatti, la questione dei Marò sta cadendo nel dimenticatoio, sommersa da altre notizie internazionali (Libia, Gaza, Ucraina, etc.). Non si capisce bene come si stiano muovendo la nostra diplomazia e le autorità di governo. Che cosa stanno facendo? L’opinione pubblica vuole saperlo e non mi sembra che, in questo caso, la riservatezza sia l’arma della buona diplomazia.

Attualmente sulla questione dei Marò sono pendenti in India quattro procedimenti, tre dinanzi alla Corte suprema, uno dinanzi alla Corte speciale. Addirittura è stato presentato dal proprietario del peschereccio, colpito secondo la tesi dell’accusa dai nostri Marò, un ricorso volto a statuire l’incompetenza della Corte speciale e a riportare il caso dinanzi ai tribunali del Kerala.

Dopo De Mistura, la fase dell’internazionalizzazione
Con grande clamore era stato annunciato dal nuovo governo e dai ministri degli Esteri e della Difesa una “nuova fase”. Dato il ben servito a Staffan De Mistura, che aveva praticamente seguito la vicenda fin dalle origini, la nuova fase sarebbe consistita nell’internazionalizzazione del caso, sia a livello diplomatico sia a livello giurisdizionale internazionale, con l’eventuale ricorso all’arbitrato.

L’internazionalizzazione a livello diplomatico non ha finora fatto registrare iniziative incisive. Uno dei punti su cui ha insistito l’Italia è quello dell’immunità funzionale dei due Marò, in quanto organi dello stato italiano. Tesi cui il sottoscritto crede fermamente, ma non pacifica (tra l’altro disconosciuta, sia pure in altro contesto, dalla nostra Corte di cassazione in una recente sentenza).

La Presidenza italiana dell’Unione europea (Ue) è iniziata senza che il Presidente del consiglio o il Ministro degli affari esteri abbiano fatto della questione dei Marò una priorità, quantunque la lotta alla pirateria interessi tutti i paesi membri. Della questione dell’immunità funzionale si sta occupando la Commissione del diritto internazionale (Cdi), organo di codificazione delle Nazioni Unite.

Ebbene, non sembra che la tesi dell’immunità funzionale sia stata adeguatamente affrontata nella VI Commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, dove vengono discussi i progetti della Cdi, tranne qualche sporadico intervento.

Della scarsa attenzione dedicata dalla nostra diplomazia alla tesi dell’internazionalizzazione è stato di recente testimone anche chi scrive, che era stato chiamato, in quanto esperto indipendente, a relazionare sulla questione delle Compagnie militari di sicurezza private nell’ambito del corrispondente Gruppo di lavoro presso il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni unite a Ginevra.

Avendo il sottoscritto trattato il tema sotto il profilo del personale imbarcato su navi commerciali in funzione antipirateria, sarebbe stato facile per il rappresentante italiano (silente) sollevare la questione del personale militare e dell’immunità funzionale. Niente di tutto questo è stato fatto.

Tra arbitrato e inchiesta internazionale
La scelta dell’arbitrato, più volte evocata come una delle possibili soluzioni dell’internazionalizzazione della vicenda, langue. Sulle insidie e, soprattutto, sui tempi lunghi che questa soluzione comporta ci siamo già espressi e non è necessario ripetersi.

Una volta promosso l’arbitrato, disciplinato dall’Annesso VII alla Convenzione sul diritto del mare, sarebbe anche possibile, come misura provvisoria, chiedere al Tribunale internazionale del diritto del mare, l’invio in Italia dei due Marò, in attesa che si pronunci il tribunale arbitrale. Soluzione possibile, ma non certa.

La questione dei due Marò è complicata, sotto il profilo tecnico, dall’incastro tra competenze dell’esecutivo e competenze dei tribunali, di non facile soluzione in uno stato dove vige il principio della separazione dei poteri. Probabilmente anche per l’India la controversia si trascina ormai da troppo tempo.

Occorre quindi trovare, a livello diplomatico, un meccanismo che, nella salvaguardia del principio della separazione dei poteri, consenta di addivenire a una rapida soluzione della questione. Questo potrebbe concretarsi in una Commissione d’inchiesta di cui esistono molti precedenti nel campo marittimo.

L’accordo dovrebbe consistere nel far rientrare i Marò in Italia, con l’obbligo di punirli qualora l’inchiesta accertasse che effettivamente essi siano responsabili dell’uccisione dei pescatori indiani. In tal caso verrebbe in considerazione anche il risarcimento del danno alle famiglie. Ma questo è già stato corrisposto, sia pure a titolo “grazioso”, senza cioè ammissione di responsabilità alcuna da parte italiana.

Giurista britannico
Per seguire la questione dei Marò è stato installato presso il Ministero affari esteri, sotto la presidenza di un avvocato londinese, un team di giuristi. Nessuno ne contesta la competenza ed è consuetudine in un affare internazionale ampliare il team con presenze straniere. Nominare capo del team un avvocato straniero è però un'altra cosa. Qualcuno avrà pensato che un giurista britannico avrebbe impressionato gli avvocati indiani, essendo stato il Regno Unito la potenza coloniale che per secoli ha governato l’India.

Tuttavia, l’attuale fase nazionalista che ha investito l’India avrebbe dovuto far pensare il contrario. L’esperienza insegna che sono i paesi del terzo mondo carenti di giuristi di valore che ingaggiano avvocati occidentali. L’Italia non è un paese del terzo mondo e ha eccellenti giuristi in grado di difendere le sue ragioni!

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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Il rovo di spine delle spese per la Difesa

Italia ed Europa
Difesa, come spendere poco e male
Alessandro Marrone, Alessandro Ungaro
30/07/2014
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Negli ultimi anni in Europa si è registrato un taglio costante e piuttosto drastico delle spese in ricerca e sviluppo (R&D) tecnologico nel campo della difesa, mentre l’Italia - le cui spese in R&D sono ridotte da tempo ai minimi - ha tagliato soprattutto gli stanziamenti per l’esercizio, fondamentali per l’efficacia dello strumento militare.

Secondo i dati dell’Agenzia europea per la difesa, nel 2012 i paesi Ue hanno speso nel complesso 4,8 miliardi di euro in R&D, contro i 50,2 degli Stati Uniti: meno di un decimo. Il dato è ancora più allarmante se si considera che nel 2006 i governi europei spendevano in R&D il doppio del 2012.

Se questo trend continua, le Forze Armate europee vedranno ridurre il vantaggio tecnologico sperimentato negli ultimi decenni, visto che in tutto il mondo al di fuori della Nato le spese militari aumentano a ritmo sostenuto ormai da anni - specialmente in Russia e Cina.

Riduzione del vantaggio tecnologico vuol dire più rischi per il personale in missione, che sarà più vulnerabile rispetto a sistemi d’arma avversari dall’efficacia sempre più paragonabile a quella europea.

L’Italia spende meno e peggio degli altri
Vi è però una novità nell’andamento delle spese dei principali Paesi Ue rispetto alla funzione difesa, ovvero i costi di funzionamento delle Forze Armate: stipendi del personale, acquisizione degli equipaggiamenti, ricerca e sviluppo di nuove tecnologie, investimenti in infrastrutture militari, addestramento e formazione delle truppe, manutenzione dei mezzi.

La Germania, che già nel 2011 aveva superato la Francia per entità della funzione della difesa, nel 2012 ha aumentato ulteriormente quest’ultima a da 31,5 a 31,8 miliardi di euro.

Dopo il taglio del 6% nel 2011, nel 2012 anche Parigi ha lievemente incrementato la spesa per la funzione difesa da 30,2 a 30,3 miliardi. Incremento più significativo per la Gran Bretagna, passata da 38,1 a 40 miliardi.

Nello stesso periodo in cui Berlino, Parigi e Londra hanno aumentato la propria spesa militare, Roma ha effettuato un taglio drastico di 747 milioni di euro, ovvero -5% da 14.360 a 13.613 milioni, spendendo nel 2012 meno della metà di Francia o Germania, e un terzo rispetto alla Gran Bretagna.

Nel 2013 la funzione difesa italiana è tornata a crescere riavvicinandosi alla media del quinquennio precedente, con 14.413 milioni di euro a bilancio. Non è però cresciuta bene dal punto di vista qualitativo, come in precedenza era decresciuta male.

Come evidenziato dallo studio IAI Bilanci e industria della difesa: tabelle e grafici tra il 2010 ed il 2013, nell’ambito della funzione difesa, la spesa per gli stipendi del personale è cresciuta costantemente, da 9.347 a 9.683 milioni di euro.

Nello stesso periodo, la spesa per la formazione, l’addestramento e le esercitazioni delle Forze Armate, nonché per la manutenzione degli equipaggiamenti - la voce “esercizio” - è scesa da 1.760 a 1.335 milioni. Risultato? Nel 2013, l’Italia ha speso ben il 67,2% della funzione difesa per gli stipendi del personale, e solo il 9,2% per mantenere lo strumento militare operativo, efficace ed efficiente, mentre il benchmark a livello europeo è 50% della funzione difesa per il personale e 25% per l’esercizio.
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Renzi: solo un mese fa

Italia-Ue
Per Renzi, l'ora dei dubbi
Giampiero Gramaglia
31/07/2014
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La novità. La simpatia. Il dinamismo. Queste caratteristiche sono valse a Matteo Renzi credito e fiducia nell’Unione europea (Ue) nei suoi primi cento giorni alla guida dell’Italia.

Ma, ora, i partner s’aspettano risultati. E non si lasciano impressionare dai modi italici del giovane premier, stile “Qui si fa come dico io” Anche perché in Europa non c’è verso che sia così. Manco se lo dicesse Angela Merkel.

Renzi in Europa
Sono atteggiamenti, che il premier Renzi e il suo Governo tendono ad adottare anche in Europa, specie dopo che l’Italia ha assunto, il 1° luglio, la presidenza di turno del Consiglio dell’Ue, una posizione che dovrebbe essere più di mediazione che di potere.

Alcuni ministri lo seguono per convinzione, altri per imitazione, altri, forse i migliori, o i più timidi, o i più esperti, esitano a farlo. Perché nell’Ue quegli atteggiamenti non premiano. Anzi, penalizzano.

Ed erodono il capitale di credibilità e di simpatia su cui il premier italiano poteva inizialmente contare. Che si discuta di nomine o di riforme (e, quindi, di flessibilità).

I partner europei chiedono di vedere le riforme, già annunciate da tre premier in 30 mesi o giù di lì e mai attuate (e i primi due avevano, sulla carta, più carisma e più esperienza dell’ex-sindaco di Firenze).

Ancora una volta, scrive Die Welt, Roma promette le misure di cui ha tanto bisogno, per poi rimandare tutto, con “la leggerezza dell'essere, l'affascinante cafoneria e l'autoreferenzialità” di chi furbescamente accetta le regole per poi eluderle. Se lo fanno i francesi, rivela il quotidiano, ce la prendiamo; se lo fanno gli italiani, ci (sor)ridiamo su.

Riforme per riguadagnare fiducia
Diffidenze e sospetti s’infittiscono perché il contesto economico non induce ad avere fiducia nell’Italia, di cui le istituzioni internazionali - Fondo monetario internazionale, Ocse, Ue - e nazionali - BankItalia, Confindustria - non fanno che abbassare le previsioni di crescita 2014.

Il nostro Governo non prova più ad arginare il pessimismo degli esperti, che saranno ‘tecnocrati’, ma con le cifre ci vanno a nozze. E così lo spauracchio di una correzione dei conti pubblici in autunno diventa concreto: una manovra che gli analisti prevedono fino a 20 miliardi di euro.

Anche se, per scongiurare l’ipotesi, o contenerla, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan lavora sodo sul capitolo privatizzazioni: obiettivo, raccogliere complessivamente 11 miliardi, che però sarebbero una ‘una tantum’, infausta specialità dei contabili nostrani.

Quando il neo commissario agli Affari economici e monetari, Jyrki Katainen, ex premier finlandese che ha scelto l’approdo europeo, dice al quotidiano tedesco Die Welt, che "la cosa più importante per l'Italia … è attuare le riforme promesse dagli ultimi governi" fa una constatazione condivisibile. Che l’importante sia fare e non annunciare, nessuno può contestarlo.

Inutile metterla sulla rissa verbale, come fanno il sottosegretario agli Affari europei Sandro Gozi e pure Palazzo Chigi. Gozi dice: "Con tutto il rispetto per Katainen, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato in Europa non lo decide il commissario pro tempore finlandese, ma il Vertice dell'Ue", che “ha parlato chiaro su crescita e flessibilità: di solo rigore l'Europa non campa" (ma neppure di solo promesse).

La rissa è su quel ‘pro tempore’. Perché Katainen è a Bruxelles per restarci, non solo lo scorcio che resta della Commissione Barroso, ma pure tutto il quinquennio della Commissione di Jean-Claude Juncker. Sarebbe meglio dialogarci, invece che usare le parole come pietre.

Come fa pure Palazzo Chigi: “Non siamo scolaretti indisciplinati: ciò che fa l'Italia, specie le riforme .., lo decide il popolo italiano, non certo il commissario pro tempore finlandese” – e dalli! -. E, poi, la stoccata che vuole essere decisiva: “Portiamo in Europa milioni di voti e miliardi di euro”.

Argomento un po’ logoro e un po’ scivoloso. Perché di miliardi ne porteremmo di meno, se solo sapessimo spendere quelli messici a disposizione dall’Ue. E perché i partner s’aspettano che i voti Renzi li usi proprio per fare le riforme: quelle utili a rilanciare la crescita e il lavoro, non quelle buone per un po’ di struscio anti-casta.

In trincea per Mogherini
Discorsi analoghi valgono sul fronte aperto delle nomine europee: l’affondo del premier per mettere Federica Mogherini al posto di Alto rappresentante della politica estera e di sicurezza europea non è riuscito a metà luglio e tutte le decisioni sono slittate al 30 agosto; e chi era in pole position dieci giorni fa potrebbe ritrovarsi fuori dalla griglia fra un mese.

Per il momento, il premier e il governo difendono in trincea le chances della Mogherini, mentre c’è chi - specie i popolari tedeschi - lavora a alternative credibili, mentre circola la voce che lady Ashton potrebbe continuare ad occuparsi - anche dopo la fine del suo mandato - dei negoziati con l’Iran, un dossier dove non ha fatto male.

Per il momento, il Governo Renzi tiene il punto: “La Mogherini resta la nostra candidata al posto d’alto rappresentante”, ribadisce Gozi, a Bruxelles per presiedere il primo Consiglio Affari Generali del semestre italiano. Proprio il giorno che il presidente eletto Juncker riceve l'ex premier Massimo D'Alema nel suo ufficio di Palazzo Charlemagne, accendendo un altro focolaio d'ipotesi e sospetti.

Eppure, l’Italia potrebbe prendere due piccioni con la fava del rinvio: tenersi un ministro degli Esteri giovane, ma preparato e competente, che nell’Ue farebbe fatica a sottrarsi al destino di basso profilo toccato a Catherine Ashton (che, a dire il vero, l’ha più accettato che subito); e mandare a Bruxelles come commissario un ‘culo di pietra’ che possa seguire i lavori dell’esecutivo, senza essere sempre in missione, ed occuparsi dei dossier ‘italiani’, oltre che dei propri.

A Bruxelles, di grane da risolvere ce ne sono sempre. Ed è meglio essere presenti quando si decide; e avere buoni rapporti con tutti i colleghi. Anche i finlandesi.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI (Twitter: @ggramaglia).
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Touring Club Roma. Aperti per Voi

Cari tutti,
come già preannunciato ci sono molte novità in questo autunno da Volontari per il Patrimonio Culturale.
Una prima novità è la nostra adozione della famosa Chiesa di Santa Rita da Cascia spostata durante i lavori per il Vittoriano.
Abbiamo lavorato, con il Dipartimento Cultura di Roma Capitale, per far si che la Sala Santa Rita, chiusa da maggio, potesse riaprire al pubblico.
Il Sito è posizionato in una posizione strategica e pensiamo alla possibilità di organizzare delle visite riservate ai Soci e un punto informazioni Touring, sperando possa diventare un riferimento culturale interessante. 
Abbiamo anche la possibilità di usare la Sala per proiezioni, presentazioni di libri e quant'altro, previo accordo con la responsabile, con la quale abbiamo stabilito dei giorni dedicati a queste attività. 
La Sala Santa Rita, ospita una rassegna d'arte contemporanea che grazie alla nostra presenza inaugurerà il 18 settembre. 
Siamo tutti invitati all'inaugurazione dell'Autunno Contemporaneo, in allegato l'invito.
La nostra attività inizierà il 19 settembre e l'apertura della Sala, per ora in via sperimentale è prevista con turni dalle 15,00 alle 19,00 dal martedì al sabato e la domenica dalle 9,30 alle 13,30.

Per semplicità, vista la mole di lavoro che richiede l'assegnazione dei turni alla Sala, abbiamo pensato che  i volontari che hanno dato disponibilità pomeridiana e per la domenica mattina al Vittoriano, possono essere disponibili anche per Santa Rita.
Passeremo, quindi, le disponibilità alla Sala Santa Rita tranne che non ci comunichiate il contrario.
Per la prima settimana ci sarò anche io, per organizzare e spiegare il funzionamento delle chiavi.

Le chiavi andranno ritirate negli uffici dell'Assessorato alla Cultura adiacenti la Sala, ma durante il fine settimana ai Musei Capitolini.
La Sala è dotata di bagni e piccola stanza spogliatoio.
Sempre disponibile a qualsiasi chiarimento e in attesa dei vostri preziosi commenti vi ricordo che martedì 16 pubblicheremo i turni del mese di Ottobre.
Un abbraccio
Anna

lunedì 8 settembre 2014

Il difficile rapporto con i vertici europei

Vertice Ue
Flop delle nomine, Italia sulla difensiva
Giampiero Gramaglia
17/07/2014
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Sei settimane d’estate: non c’è neppure una suggestione cinematografica a stemperare la delusione per il rinvio delle nomine dei vertici dell’Ue deciso dai leader dei 28. La nuova data cerchiata sull’agenda europea è il 30 agosto, un sabato, alle 16.

In sé, nulla di grave, perché gli incarichi da rinnovare scadono il 1° novembre: tempo per scegliere ce n’è. Ma la candidatura italiana di Federica Mogherini ad Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza europea esce ammaccata dal Vertice. E i metodi guasconi del ‘negoziato all’italiana’ non è detto che giovino a tenerla a galla.

Lasciando il Vertice - il primo, nel semestre di presidenza di turno italiana del Consiglio dell’Ue -, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha lamentato che l’incontro "avrebbe potuto essere un po' più incisivo se fosse stato organizzato meglio". "Siamo venuti tutti a Bruxelles per sentirci dire che l'accordo non c'era: la prossima volta Van Rompuy può mandare un sms e farci risparmiare il volo di stato".

E, la vigilia del Vertice, il sottosegretario agli Affari Europei Sandro Gozi, constatata l’opposizione alla Mogherini di “10-11 Paesi” - la conta l’aveva fatta il neo-presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker - aveva lanciato la sfida: “Decideremo a maggioranza”. Forse, un’altra volta.

Occasione per ripensarci?
E c’è chi, esperto delle dinamiche europee - ex premier, ex commissari, eurodeputati, diplomatici, pensa che il flop del Vertice delle Nomine offra al Governo Renzi l’occasione per ripensarci: l’Italia, infatti, avrebbe più interesse a una presenza solida e costante nell’esecutivo comunitario, dove transitano molti dossier per lei cruciali, invece del prestigio di facciata dell’Alto rappresentante, spesso assente dalle riunioni del collegio.

Doroteo per tradizione democristiana, il presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy l’ha presa larga e tonda, per spiegare il rinvio: “Non abbiamo voluto concentrarci su un nome solo, quello dell’Alto commissario… Vogliamo arrivare a un pacchetto di nomine, anche sul presidente del Consiglio europeo e dell’Eurogruppo” e, magari, sulla ripartizione degli incarichi più pesanti nella Commissione europea.

"O l'accordo sarà globale o non ci sarà,aggiunge Van Rompuy. Sono sicuro che il 30 agosto avremo la decisione finale".

Nel frattempo, andranno avanti le consultazioni fra i 28, mentre Juncker lavorerà alla composizione dell’esecutivo: fra i nodi da sciogliere, l’ipotesi di creare agglomerati di competenze intorno a commissari ‘seniores’, magari con il ruolo di vice-presidenti, come rimedio alla ‘parcellizzazione’ degli incarichi; e l’assegnazione di posti chiave, come quello di responsabile per gli affari economici e monetari, dove potrebbe andare l’ex ministro francese Pierre Moscovici.

Il nodo dell’Alto Rappresentante
Il 16, Juncker è stato invitato a uno scambio di vedute coi leader sulle priorità della legislatura e pure sulla composizione della Commissione.

Nel discorso programmatico al Parlamento europeo, prima di ottenere l’investitura dell’Assemblea il 15, Juncker aveva sollecitato i Paesi a proporre molti nomi femminili per il prossimo esecutivo e aveva auspicato per la politica estera “una figura d’esperienza” - la Mogherini è ministro degli Esteri da meno di 6 mesi. L’Alto rappresentante ha più ruoli: è vice-presidente della Commissione e presiede il Consiglio dei Ministri degli Esteri.

Il Vertice delle Nomine, che doveva proprio designare il successore di Catherine Ashton alla guida della politica estera europea per i prossimi cinque anni, ha registrato molte opposizioni alla candidatura italiana sostenuta dai leader socialisti, che, come ha confermato il presidente François Hollande, puntano a quel posto, dopo che il popolare Juncker ha avuto la presidenza della Commissione.

L'opposizione di un gruppo di paesi baltici, Lituania in testa, e dell'Europa centro-orientale, diffidenti per un’asserita posizione ‘filo-russa’ dell’Italia nella vicenda ucraina, e, inoltre, l'inesperienza hanno costituito ostacoli insormontabili in questa fase.

Nomi in lizza
La stampa britannica, meno reticente di quella italiana, scrive che “l’Italia spinge un ministro senza esperienza - Daily Telegraph - a succedere alla Ashton”, che, dal canto suo, quando venne scelta, non ne aveva – e gli effetti si sono poi visti. Per The Guardian, la vicenda porta “un serio smacco al fresco prestigio” del premier Renzi.

Una candidata alternativa è quella della bulgara Kristalina Georgieva, attualmente commissaria Ue agli aiuti umanitari e diemergenza. In realtà, sia la Mogherini che la Georgieva rispondono a priori a un profilo di Alto rappresentante simile a quello della Ashton: una personalità non di statura tale da fare ombra ai ministri degli Esteri nazionali dei grandi paesi.

Per preoccupare gli interlocutori, Renzi agita il drappo rosso di una scelta autorevole: “l’uomo con i baffi”, cioè Massimo D’Alema; e, in Francia, c’è chi pensa a Elisabeth Guigou.

A fine riunione, il premier racconta un altro film. Al Consiglio europeo, "non c'e' stata nessun veto sulla candidatura italiana", dice: "Non ho visto opposizioni a Federica Mogherini, non c'è stato nessun tipo di messaggio negativo sull'ipotesi della sua candidatura". “L'obiettivo dell'Italia - prosegue Renzi - non è avere una poltrona: l'abbiamo detto fin dall'inizio".

Italia sulla difensiva
Ecco perché, aggiunge ancora il premier, "noi siamo aperti a tutte le soluzioni, pure su temi italiani. Se c'è un nome italiano, e oggi ho sentito quelli di Letta e Monti, noi siamo disponibilissimi da tutti i punti di vista a qualsiasi soluzione". Battute che provano che il negoziato è in alto mare e che l’incertezza resta elevata: Angela Merkel, del resto, aveva prospettato un possibile rinvio, prima che il Vertice iniziasse.

Il confronto fra i leader è stato preceduto da incontri preparatori delle principali famiglie politiche europee, i socialisti, i popolari, i liberali. I socialisti - annuncia a fine consulto Gianni Pittella, capogruppo S&D al Parlamento europeo - puntano ufficialmente sulla Mogherini e sulla premier danese Helle Thorning Schmidt come presidente del Consiglio europeo. Ma la Thorning Schmidt si schermisce per l’ennesima volta: “Non sono candidata”.

E, secondo fonti vicine al Partito popolare europeo, Van Rompuy non avrebbe abbandonato l’idea di esplorare una soluzione che riceverebbe molti consensi: l’ex premier italiano Enrico Letta presidente del Consiglio europeo - è un Pd, ma è molto gradito ai popolari - e la bulgara Georgieva Alto Rappresentante. Altre fonti, però, lo escludono: “Ritorni di fiamma di voci vecchie e superate”.

Il flop, del resto, riporta tutti alla casella di partenza. E le sei settimane d’estate di Van Rompuy saranno calde.

A Bruxelles, i leader dei 28 non hanno parlato solo di nomine. Con un occhio alle crisi in atto, hanno ribadito la necessità di rilanciare il processo diplomatico per la pace in Medio Oriente e hanno deciso d’inasprire le sanzioni a responsabili (pure russi) della crisi ucraina. “Su questo punto, la linea dell'Italia è la stessa degli altri paesi europei”, sottolinea Renzi. Noi filo-russi? Quando mai!

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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venerdì 5 settembre 2014

L'Italia e le trasformazioni nel Mediterraneo di Mauro Conciatori

ISAG.I

Sul bacino del Mediterraneo come terreno di elezione per il dinamismo del nostro sistema Paese e per la tutela della sua sicurezza, tutto è stato probabilmente già detto e scritto da tempo. L’Italia vi agisce dall’interno, perché geograficamente ne costituisce la linea mediana che lo attraversa e lo divide in due quadranti. Da sempre profitta delle sue opportunità; sconta le sue tensioni; vive in presa diretta le sue vicende. Ne siamo a tutti gli effetti un attore interno, e perciò abbiamo un interesse diretto e immediato alla sua crescita e alla sua stabilizzazione. L’innovativa scelta di Matteo Renzi di svolgere a Tunisi la sua prima visita all’estero da Presidente del Consiglio lo conferma in modo simbolico. E lo svolgimento a Roma, due giorni dopo, della grande conferenza internazionale sul sostegno alla nuova Libia presieduta dal neo Ministro degli Esteri Federica Mogherini alla presenza di Kerry, Lavrov, Fabius, Steinmeier, Davutoğlu ed altri protagonisti internazionali, scandisce la consapevolezza del nostro Paese di dover assumere a tale titolo speciali responsabilità.
Ma Mediterraneo e Medio Oriente vivono rotture e discontinuità che li stanno modificando in profondità. Questi cambiamenti ci inducono ad aggiornare i nostri interessi nazionali e ricalibrare il nostro ruolo regionale, nel rispetto di alcune compatibilità sistemiche. Ciò presuppone un’attenta lettura delle rivoluzionarie dinamiche che oggi solcano il mondo arabo. L’analisi precede e indirizza le scelte politiche. Alla luce della nostra lettura degli eventi, ci chiediamo quotidianamente cosa fare, dove e come.
Le semplificazioni possono sedurre ma mettono fuori strada: gli sviluppi della riva sud non erano unaprimavera democratica tre anni fa e non configurano un inverno islamico oggi. Generici parametri pertinenti allo specifico sviluppo storico dell’Occidente, come rivoluzione, democratizzazione, contrapposizione fra laici e fondamentalisti, spiegano poco delle dinamiche in corso e non ci sono utili a promuovere i nostri interessi. Bisogna smarcarsi dall’influenza concettuale di narrative pigre, o peggio strumentali al perseguimento di interessi altrui. È necessario recuperare parametri spazio-temporali che le vulgate prevalenti tendono a omettere, velando la comprensione della realtà.
Il “risveglio arabo” non è un avvenimento ma un processo complesso, che si iscrive nella durata. Le situazioni di partenza sono diverse da Paese a Paese; le forze in campo non sono del tutto omologabili e l’interazione fra di loro, e fra loro e le forze esterne, produce di volta in volta dinamiche specifiche, spesso profondamente diverse. Alcuni aspetti generali sono però comuni all’insieme degli sviluppi in corso. Più che stagioni atmosferiche, essi rivelano una profonda mutazione sociale e antropologica, innescata dalla trasformazione di dati demografici e educativi, che ha rotto drammatici circoli viziosi. Il suo bilancio storico potrà essere tracciato solo fra molti anni. Giovani istruiti, frustrati dalla stagnazione economica, dalla corruzione, dalle disuguaglianze e dall’assenza di prospettive politiche, saldano la loro insoddisfazione con quella dei disoccupati e dei lavoratori sottopagati. Ampi strati sociali reclamano dignità umana, economica e politica: questa rivendicazione non è neutrale né rispetto ai rapporti di potere costituiti, né rispetto agli esistenti modelli di relazioni con il mondo esterno e in particolare con l’Occidente.
Non è nata un’articolata cultura democratica, ma si è sviluppata una cultura della contestazione che non accetta più imposizioni dall’ordine costituito. Il mondo delle corrotte leadership pseudocarismatiche è perciò finito e non sarà possibile ripristinarlo. Ma i cambiamenti non seguono una traiettoria continua, si scontrano con spigoli ed angoli acuti, avanzano perciò attraverso progressi e successivi ripiegamenti. In questo momento le lancette puntano in direzione della frammentazione.
La rottura dei meccanismi autoritari svela l’assenza di coerenti strutture statali o la precarietà delle istituzioni formali. L’Islam è solo uno dei catalizzatori delle rivolte, accanto alle rivendicazioni di libertà, di democrazia e di giustizia sociale. Ma nel vuoto dei punti di riferimento che segue alle rivolte, esso diviene per ampie fasce della società la principale àncora identitaria, in nome del suo tradizionale ruolo di critica tanto dei meccanismi di subordinazione coloniale quanto della corruzione dei regimi. L’Islam si rivela il più potente fattore di aggregazione politica, e si afferma nella maggior parte delle consultazioni elettorali che seguono la rottura dell’ordine costituito. Tuttavia le dirigenze che emergono da queste elezioni, per lo più islamiche moderate, palesano forti difficoltà a governare. Ovunque bisogna scrivere nuove regole del gioco condivise e reciprocamente legittimanti, ma latita lo spirito di compromesso; ciascuno inclina ad imporre egemonicamente il proprio punto di vista. Mancano corpi intermedi realmente rappresentativi degli interessi sociali. Solo la Tunisia è ora riuscita, faticosamente ma brillantemente, a scrivere una Costituzione condivisa, basata sul compromesso politico fra le diverse anime del Paese; non a caso c’è riuscita anche grazie all’attiva mediazione delle parti sociali.
In generale, però, il quadro politico si frammenta; sfugge l’autorità di governo sul territorio; vacilla il controllo di confini che sovente si dimostrano incoerenti rispetto alle strutture profonde delle affiliazioni claniche o ai dati strutturali dell’interazione economica. Le due grandi sfide della regione sono dunque immateriali: caos interno e vuoto geopolitico. Determinano un acuto problema di destabilizzazione regionale che investe in pieno l’Italia in quanto perno della macroregione.
In questo quadro in movimento si innestano ulteriori tensioni indotte dalle politiche di potenza di ambiziosi attori regionali in forte competizione fra loro. Arabia Saudita e Iran si disputano il ruolo di principale potenza mediorientale, declinando tale conflitto nei termini dell’antica divaricazione tra Islam sunnita e sciita. All’interno del fronte sunnita, si approfondisce un’ulteriore frattura tra Arabia Saudita da un lato e il tandem Turchia-Qatar dall’altro, declinata in termini di attitudine verso la Fratellanza Musulmana, cioè verso un Islam politico incline ad affermarsi attraverso la logica orizzontale del voto popolare anziché attraverso più tradizionali meccanismi verticali di legittimazione dell’autorità. Inoltre, la galassia jihadista in parte gioca una partita autonoma per l’affermazione di un Califfato islamico o di regimi teocratici in ambiti territoriali definiti; in parte viene strumentalizzata da altri attori; in ogni caso alimenta e fiancheggia reti criminali dedite a traffici di ogni tipo. In tale pericoloso contesto, Israele aggiorna la perenne partita della propria sicurezza e sopravvivenza come Stato al contempo ebraico e democratico; mentre gli attori esterni proiettano le proprie preoccupazioni in materia di sicurezza e i propri interessi energetici e finanziari.
La tela di fondo degli interessi mediterranei italiani di lungo periodo non è cambiata. Alcuni caratterizzano la vocazione esterna della Penisola da molti secoli. La globalizzazione ha rimesso il Mediterraneo al centro di un sistema. Lo ha reso di nuovo snodo cruciale, fra Oriente che produce e Occidente che consuma: lo solca quasi un quarto dei flussi commerciali planetari. Intercettarli, aprendo nei porti i containers, significa avviare una catena di lavorazione che porta valore aggiunto e punti di PIL e di occupazione. In una tale logica, la visione italiana del Mediterraneo integra anche la dimensione adriatico-ionica, e quindi balcanica, che promuoviamo tenacemente nell’ambito delle strategie regionali della UE.
Naturalmente da Mediterraneo e Medio Oriente dobbiamo anche garantirci approvvigionamenti energetici vitali per la nostra economia di trasformazione, puntellando ed espandendo i partenariati energetici con vari Paesi dell’area.
L’oggettiva dipendenza energetica alimenta ulteriormente il nostro fortissimo interesse a stabilizzare l’area, contenendo flussi illegali di ogni tipo che in questa fase sfruttano il vuoto e il caos. Le minacce alla sicurezza del Mediterraneo investono direttamente l’Italia e tutto il continente, come cerchiamo di far comprendere, spesso senza successo, ai nostri partner europei, tuttora inclini a privilegiare altre, meno urgenti, direttrici geopolitiche illudendosi di potersi isolare dalle ondate di destabilizzazione che periodicamente investono il continente da sud.
Quando parliamo di sicurezza, tendiamo ad assortire il sostantivo con l’aggettivo “sostenibile”. Sappiamo infatti per certo che meccanismi di contenimento dei flussi clandestini e dei traffici illegali non risolveranno a termine i problemi di sicurezza nel Mediterraneo, e anzi verranno prima o poi travolti, se non interverrà una crescita sostenuta della riva sud che attenui il differenziale di ricchezza e sviluppo fra le due sponde del bacino. La riva sud è un macrocosmo di oltre 300 milioni di persone, con un’alta percentuale di giovani, ricco di materie prime e di capacità umane in crescita: se nel lungo periodo il processo di modernizzazione che si è messo in moto spezza definitivamente il circolo vizioso miseria-corruzione-repressione-estremismo per innescare lo sviluppo, allora il mondo arabo diventa la quarta economia emergente del pianeta e, anziché flussi umani alla disperata ricerca di dignità e benessere, vi si sviluppa un mercato bisognoso di beni di consumo e infrastrutture.
Il Mediterraneo smetterebbe di essere frontiera e tornerebbe circuito, come nelle epoche più felici della storia della Penisola. E se l’Italia torna molo del Mare Nostrum, la sua stessa struttura geopolitica interna recupera coerenza: il Nord si collega a un’area congeniale all’espansione alle sue imprese; il Sud rimette all’ordine del giorno la questione delle sue infrastrutture strategiche; e si innesca un veicolo d’integrazione dei nuovi Italiani anche attraverso l’emigrazione circolare.
È questa la visione strategica di lungo periodo che deve guidarci: un progetto nell’interesse del Mediterraneo e non di aree esterne ad esso, per il suo sviluppo e non per il suo controllo. Dobbiamo pensare il Mediterraneo dal suo interno, cioè da baricentro geografico e culturale del bacino. Da qui deriva la peculiarità dell’approccio italiano alla regione. Con conseguenze estremamente concrete. Ad esempio, l’Italia ha interesse ad acquistare le risorse energetiche indispensabili al proprio sistema produttivo, ma non ad assumerne il controllo a spese dei Paesi che le posseggono: è infatti nostro oggettivo interesse che esse vadano anche a beneficio dello sviluppo delle economie locali, che favorirà il nostro stesso sviluppo.
Nel mondo dell’informazione globale e istantanea, la narrazione non è più solo strumento di influenza, ma anche percezione che gli altri hanno di noi. Nostro modo di essere di fronte agli altri. Non fallire la nostra narrazione del Mediterraneo è cruciale. Essa, oltre a integrare i principi di dignità umana, libertà, stato di diritto, graduale sviluppo democratico, può valorizzare approcci e sensibilità peculiari dell’Italia: dialogo interculturale e interreligioso; reale condivisione di tecnologie e visioni strategiche; concetto di rete; principio di ownership locale dei processi e delle risorse declinato non come formula liturgica ma come oggettivo interesse nazionale italiano. Il concetto di diritto di tutti allo sviluppo sostenibile non ci crea imbarazzi e ci è anzi congeniale. E quando ci rapportiamo ai nostri vicini mediterranei, più facilmente di altri europei riusciamo a evitare la rimozione inconscia del bilancio del colonialismo nei rapporti fra Europa e mondo esterno.
Su un piano più propriamente geopolitico, l’affermazione di idee forti e di analisi originali delle sfide in corso, rafforza la nostra generale credibilità e rende di nuovo l’Italia punto di riferimento. Alla luce della nostra analisi della situazione in Siria, ove l’iniziale movimento di protesta civica si è da tempo trasformato in guerra per procura alimentata dalle ambizioni di attori esterni, abbiamo ad esempio affermato con chiarezza che un eventuale intervento militare al di fuori della cornice ONU non avrebbe risolto i problemi e avrebbe rischiato di consegnare il Paese o parti di esso a componenti jihadiste e terroriste che alimentano l’instabilità e costituiscono una minaccia diretta per l’Occidente. Del resto, Emma Bonino aveva chiaramente scandito che non esiste una soluzione militare alla crisi e che in Siria ci sono troppe armi e non troppo poche. La nostra voce è stata ascoltata, e la nostra chiarezza apprezzata da tutti, soprattutto dagli alleati più stretti, anche perché ci riconoscono che non siamo portatori di agende nascoste ma solo di un evidente interesse diretto alla sicurezza e alla stabilizzazione.
Anche sul nuovo corso iraniano del pragmatico Rohani, l’Italia si è esposta con una linea originale e con un movimento tempestivo: il Vice Ministro Pistelli è stato il primo esponente politico occidentale a recarsi a Teheran all’inizio di agosto 2013, subito dopo l’insediamento del nuovo Presidente, per verificare la natura degli sviluppi in corso e inviare un segnale di attenzione alle forze favorevoli al dialogo: intuizione oggettivamente esatta, visto che poco dopo si è sbloccato il negoziato nucleare fra i 5+1 e Teheran, con la definizione di un accordo interinale, e che a settembre Rohani è stato la star assoluta dell’Assemblea Generale dell’ONU e il leader più gettonato per incontri bilaterali a margine dell’evento. Nell’audizione del 18 marzo scorso alle Commissioni Esteri riunite, il Ministro Mogherini ha confermato «piena continuità» con questa linea «molto lungimirante assunta dal precedente Governo». Ancora una volta, l’analisi è decisiva: leggere in anticipo alcuni sviluppi per saper dire cose originali, mette anche al riparo dalla tentazione di cercare visibilità alzando a dismisura i toni per rimodulare le parole d’ordine altrui.
Naturalmente la narrazione non è l’unico né il principale nostro strumento d’azione nel Mediterraneo. Serve anche un’azione concreta e immediata. In questa fase, la prima priorità dell’Italia nel Mediterraneo è contrastare il vuoto e il caos. Pur nella carenza di mezzi che da anni ci siamo abituati a dare per scontata, ci sono cose che sappiamo fare bene; siamo meglio di altri attrezzati al dialogo e alla comprensione, e sappiamo cambiare idea quando la forza della realtà frantuma schemi teorici e rappresentazioni di comodo.
Il primo strumento per promuovere la stabilizzazione della riva sud è oggi la formazione a tutti i livelli: mettere le nuove classi dirigenti in condizione di gestire la cosa pubblica e di garantire la sicurezza interna e regionale; suggerire a tutti gli attori la ricerca di compromessi e la legittimazione reciproca; dialogare con le società civili per stimolare lo sviluppo dei corpi intermedi. In tale contesto, mappare poteri reali e forze vive della società è la condizione per contribuire a strutturare e responsabilizzare. L’Italia fornisce assistenza e formazione a tutti i Paesi in transizione, con cui intrattiene un serrato dialogo politico. Ma l’intergovernativo è solo uno dei livelli su cui agire. Vanno create reti di formazione e di condivisione col contributo di tutti: associazionismo, istanze parlamentari, partiti, sindacati, autonomie locali, imprenditoria. Il Ministero degli esteri si sforza di stimolare azioni di questo tipo e di fornire loro un quadro di riferimento coerente.
Per perseguire invece l’obiettivo di più lungo periodo del decollo economico duraturo della riva sud, occorre riuscire a mobilitare investimenti e capacità imprenditoriali in quelli che si annunciano come i settori strategici dello sviluppo nel XXI secolo: energie fossili e rinnovabili, infrastrutture di trasporto e di comunicazione, sanità, istruzione.
L’efficacia di questo articolato disegno sarà tanto maggiore quanto più sapremo mobilitare una massa critica di risorse e di volontà interessate alla stabilizzazione e alla crescita del Mediterraneo. Va anzitutto costantemente verificata la compatibilità delle nostre azioni e dei nostri interventi rispetto ad alleanze e quadri di riferimento tradizionali della nostra politica estera, per evitare le trazioni indesiderate e pericolose che il vuoto e il caos possono alimentare. L’interesse di Washington a stabilizzare la retrovia mediterranea nel momento in cui gioca cruciali partite sul piano globale e geofinanziario, ci garantisce la simpatia del nostro maggiore alleato per la nostra complessiva impostazione. Al contempo, è assolutamente necessario persuadere l’Unione Europea a prendere atto che la svolta storica che si consuma lungo le frontiere meridionali del continente impatta per tanti motivi la tenuta delle nostre stesse società. A tale riguardo, i Paesi mediterranei della UE sono i nostri migliori alleati per cercare di indurre l’Europa a presentare ai popoli della riva sud un’offerta politica all’altezza della sfida epocale cui essi si trovano di fronte: sull’alternativa fra modelli di società aperti oppure chiusi come chiave per accedere alla modernità e affrancarsi da antiche subordinazioni, l’Europa dovrebbe avere qualcosa da dire; la credibilità del suo discorso è legata alla generosità e lungimiranza dell’offerta, ma anche alla capacità di non accompagnarla con atteggiamenti paternalistici e approcci autoreferenziali.
Per il resto, dobbiamo sforzarci di persuadere della bontà del nostro progetto tutti gli attori della regione: dai Paesi protagonisti del risveglio arabo, a quelli capaci di alimentare la crescita del Mediterraneo con capitali, tecnologie, modelli metodologici: a termine, Cina, Paesi del Golfo, Turchia e lo stesso Israele hanno tutti interesse alla tessitura di reti di solidarietà, di cooperazione e di mutua sicurezza nel Mediterraneo.

Mauro Conciatori è Vicedirettore Generale per gli Affari Politici e e Direttore Centrale per i Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente presso il Ministero degli Affari Esteri.


giovedì 4 settembre 2014

Italy risk: Alert - Progress on political and economic reforms has been mixed


June 30th 2014


The outcome of the European Parliament elections in May has substantially strengthened the personal authority of the Italian prime minister, Matteo Renzi, within both his coalition government and his party, the centre-left Partito Democratico (PD). However, his political and economic reform plans are ambitious and will have to overcome resistance from vested interests inside and outside the coalition. Since the European elections greater progress has been made towards the introduction of political/institutional reforms, but because these require changes to the constitution, which take much longer to approve, implementation still remains some way off. Progress on economic reforms, which is needed more urgently to maintain investor confidence and boost Italy's dismal economic growth performance, has been incremental.
In the European Parliament elections, the PD gained almost 45% of the popular vote, about 10 percentage points higher than most opinion polls had predicted. The surprisingly wide margin of victory—the Eurosceptic, anti-establishment Movimento 5 Stelle (M5S) was second on 22%—has significantly enhanced the dominance of the centre-left within the power-sharing coalition also containing the centre-right Nuovo Centro Destra (NCD) and smaller centrist political parties. This rise in support for the PD was mainly attributable to Mr Renzi's ability to position himself as a political outsider and non-ideological leader, which has extended his popularity to disgruntled centre-right voters. However, this message appears to have been lost on some PD members, who are still resisting his reformist agenda. On June 12th, for example, 14 PD senators suspended themselves from the party, to highlight their opposition to Mr Renzi's plan to reform the Senate (the upper house of parliament).
Recent progress on economic reforms has been unspectacular
Mr Renzi's European election victory signalled strong popular backing for the economic reforms implemented during the first three months of his premiership. They have been considerably more ambitious than those undertaken during the preceding eight-month administration of Enrico Letta, also of the PD. The measures included a tax cut for low-wage earners and a 10% reduction in regional business levies. The government also began to speed up the release of outstanding debt payments owed by the state to private-sector companies, which the Bank of Italy (the central bank) has estimated could amount to €68bn. New labour market legislation was also successfully passed into law, allowing employers to retain workers on fixed-term contracts for up to three years, and firms to retain up to 20% of staff on these temporary contracts.
Equipped with a strong electoral mandate and enhanced personal authority, Mr Renzi has made further, albeit unspectacular, progress on economic reforms in the month since the PD's European election victory. New measures introduced by government decree, and therefore awaiting final parliamentary approval, include a 10% cut in energy costs for small and medium-sized enterprises and households, to be financed by reduced subsidies for renewable energy investment, which are currently paid for by Italian consumers and amongst the highest in Europe. In addition, the government has introduced new self-assessment tax forms to reduce Italy's notoriously excessive bureaucracy and streamline tax collection.
Constitutional reform progress has been more impressive
Whereas the pace of further economic reforms has not been startling, Mr Renzi's reform plans aimed at reducing future political instability have made greater progress since the European elections. Back in January 2014, before he became prime minister, Mr Renzi reached a controversial agreement with Silvio Berlusconi, the leader of the main centre-right opposition party, Forza Italia (FI), to abolish the existing bicameral parliamentary system—under which both chambers enjoy equal legislative powers—by dramatically reducing the powers of the Senate. In addition, they agreed to introduce a new electoral system for the Chamber of Deputies (the lower house of parliament) to try to ensure the election of more stable parliamentary majorities. On June 20th, the initial reform outline was significantly advanced, with the FI and PD agreeing on a range of new details for this constitutional amendment.
Under the new draft legislative proposals, the Senate would be changed from a directly elected body to a chamber in which membership would be allocated according to elections by regional officials, with the number of parliamentary representatives reduced from the current 320 (315 elected plus five life senators appointed by the president) to 100. Crucially, the legislative powers of the Senate would be dramatically curtailed, with it no longer having the capacity to bring down a government during frequently held confidence votes. In addition to reducing the risk of government crises, it would also speed up Italy's notoriously slow legislative process.
But the legislative process for constitutional amendments requires that the reforms be approved twice in both houses of parliament at an interval of not less than three months between votes and by a two-thirds majority at the end of the second reading to avoid the reforms having to be put to a referendum. With the smaller coalition parties having no incentive to support reforms that would reduce their future political leverage, Mr Renzi needs the support of Mr Berlusconi and his party.
Their support is also needed to implement the proposed reform of the voting system for the lower house, which aims to reduce future government instability by increasing minimum vote share thresholds required for parties to enter parliament. The lower house has already approved the government's draft electoral law, which is contained in an ordinary bill and therefore does not require a special majority, and is expected to be voted on in the upper house before the summer recess in August. However, some further amendments are likely in the Senate, so the bill will then get passed back to the Chamber of Deputies. With the smaller coalition parties and FI incentivised to drag the process out as long as they can, final approval is unlikely until after the summer recess.
Increased leeway from Italy's EU partners is likely to be limited
As one of the few EU leaders to emerge from the European Parliament elections with his reputation enhanced, Mr Renzi has sought to leverage his increased political authority in negotiations to select the next president of the European Commission. Mr Renzi's hand has also been strengthened by the fact that Italy will take over the rotating six-month presidency of the Council of the European Union in July. In particular, the prime minister has sought agreement amongst European leaders, most importantly the German chancellor, Angela Merkel, for greater flexibility in interpreting current EU fiscal rules. In particular, the Italian government is concerned that the EU's fiscal compact treaty, which requires Italy to reduce its public debt to 60% of GDP from over 120% by an average of 5 percentage points each year, could undermine the future growth prospects of an economy still struggling to emerge from a prolonged recession. Mr Renzi is seeking to persuade his EU partners that like Germany in the early 2000s fiscal flexibility will enhance Italy's prospects for successful structural economic reform. Although a major reorientation of EU policy is unlikely, there are at least some tentative signs that Mr Renzi could win some fiscal leeway from the next European Commission.
Assuming that his administration can remain in power until either late 2015 or 2016—this is possible given that the Italian president would be unwilling to call elections until the constitutional and electoral reforms have been put in place—additional fiscal flexibility would improve Mr Renzi's chances of building on recent reforms. However, the high risk of renewed political instability and the severe weakness of economic conditions suggest that reforms are likely to fall short of the prime minister's high ambitions.
Economist Intelligence Unit
Source: The Economist Intelligence Unit