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lunedì 27 ottobre 2014

Si affronta il nodo energetico

Energia
L’Italia in campo per le politiche energetiche europee
Nicolò Sartori
18/10/2014
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Nei piani del governo italiano, il Consiglio europeo del 23-24 ottobre dovrebbe raggiungere un accordo sulla definizione della governance delle politiche energetiche e climatiche dell’Unione europea (Ue) al 2030.

Lo scopo è definire i poteri, le modalità, e i meccanismi per far rispettare gli obiettivi energetici dell’Europa post-2020. Il raggiungimento di un accordo sulla governance rappresenta una delle quattro priorità definite dalla presidenza italiana del semestre europeo in ambito energetico, insieme al completamento del mercato interno, il rafforzamento della sicurezza energetica e della dimensione esterna della politica energetica dell’Ue.

L’iniziativa italiana ha una portata significativa, soprattutto considerati gli sforzi europei di mettere in atto una politica energetica comune che sappia unire le esigenze di competitività economica e sicurezza degli approvvigionamenti agli ambiziosi obiettivi dell’Ue in materia di sostenibilità e lotta ai cambiamenti climatici.

Dal Pacchetto 2020 al Quadro 2030
Il ‘Quadro delle politiche per il clima e l'energia al 2030’ proposto dalla Commissione introduce una serie di aggiustamenti sia in termini di politiche che di obiettivi.

La principale novità è il passaggio dalla triade di obiettivi nazionali nei settori delle emissioni di gas a effetto serra, delle rinnovabili e dell’efficienza energetica prevista dal Pacchetto 2020, a un solo obiettivo vincolante per gli stati membri in materia di riduzione delle emissioni.

Alla base di questa scelta c’è la volontà dell’Ue di incoraggiare l’azione dei governi contro i cambiamenti climatici attraverso l’adozione di misure e strumenti ritenuti economicamente e tecnologicamente più adeguati (ed efficienti) in base alle caratteristiche e specificità di ciascuno stato membro.

La maggiore flessibilità prevista dal Quadro 2030, in particolare, risponde alla necessità - sancita dal Trattato di Lisbona - di garantire piena libertà ai governi nel determinare il loro mix energetico senza imposizioni da parte dell’Ue, come invece accade in base regime regolatorio attualmente in vigore in materia di rinnovabili.

Il Quadro 2030 fissa infatti obiettivi per le rinnovabili e l’efficienza energetica - rispettivamente al 27% e 30% - da perseguire unicamente a livello europeo, e quindi senza che vengano declinati in target nazionali vincolanti per gli stati membri.

Governance delle politiche energetiche e climatiche europee
Oltre ad aggiustare il tiro su ‘trilemma’ emissioni-rinnovabili-efficienza, il Quadro 2030 affronta per la prima volta il tema della governance, ovvero della definizione dei poteri, delle procedure, e dei meccanismi per stabilire e far rispettare gli obiettivi fissati da Bruxelles.

Se in precedenza la governance era assicurata attraverso meccanismi disomogenei e frammentari per ciascuno dei tre settori di riferimento, il Quadro 2030 propone una serie di innovazioni che dovrebbero rendere l’azione dell’Ue e degli stati membri più coerente e efficace.

La prima è l’introduzione dei ‘Piani nazionali per un'energia competitiva, sicura e sostenibile’, che accorpano in un unico documento le misure, gli strumenti e le traiettorie che gli stati membri sono chiamati a predisporre per raggiungere (o contribuire a raggiungere) gli obiettivi fissati dall’Ue in materia di emissioni, rinnovabili ed efficienza.

La seconda è la definizione di un processo iterativo in tre fasi, attraverso il quale la Commissione: sostenga gli stati membri nella definizione dei propri obiettivi e delle misure da attuare; garantisca il coordinamento tra governi interessati ad approfondire la cooperazione bilaterale e/o regionale; assicuri la valutazione degli sforzi nazionali verso il raggiungimento degli obiettivi.

Data l’assenza di obiettivi nazionali vincolanti nel settore delle rinnovabili e dell’efficienza energetica, i meccanismi di governance e di coordinamento previsti dovrebbero giocare un ruolo fondamentale nell’assicurare il raggiungimento dei target del 27% e 30% fissati dalla Commissione attraverso misure ‘volontarie’ da parte degli stati membri.

Debolezze del Quadro 2030 
Nonostante le misure proposte per migliorare la coerenza degli obiettivi e la governance delle politiche energetiche e climatiche europee, il Quadro 2030 presenta alcune sostanziali debolezze.

La prima è l’incertezza determinata intrinsecamente dal passaggio da obiettivi obbligatori nazionali a target vincolanti esclusivamente a livello europeo. Una simile scelta potrebbe determinare forti dubbi tra gli investitori sul reale impegno dell’Ue e degli stati membri in particolare nel settore delle rinnovabili. Il rischio è che il vantaggio competitivo accumulato dall’Europa (e pagato a caro prezzo dai contribuenti europei) negli anni passati, venga dilapidato nel giro di poco tempo.

Questo rischio è ancor più elevato data la natura dei meccanismi di governance proposti dal Quadro 2030 che non prevedono nessun reale potere di guida, né tanto meno di enforcement, in capo alla Commissione, per garantire il raggiungimento degli obiettivi europei.

La sfida è quindi complessa, e ogni soluzione proposta dal governo italiano al Consiglio europeo dovrà tener conto da un lato della necessità di flessibilità richiesta a gran voce dagli stati membri, e dall’altro l’impegno sottoscritto dalla Commissione sui temi del clima e dell’ambiente.

Sforzo sottolineato con forza anche dal neo Presidente eletto Jean-Claude Juncker anche attraverso la creazione della posizione di Vice Presidente per l’Unione energetica e del nuovo Commissario per l’energia e il clima.

Nicolò Sartori è responsabile di ricerca del Programma Energia dello IAI (Twitter: @_nsartori).
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Juncker: un piano da 300 miliardi

Italia-Ue
Conti in bilico aspettando Godot
Giampiero Gramaglia
17/10/2014
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Questa volta, Godot arriverà. Ma bisognerà attendere la primavera, o quasi, perché il personaggio uscito dalla fantasia di ‘Becket’ Juncker compaia sulla scena dell’Unione: in carne ed ossa, anzi files e documenti, perché questa è la vera natura del piano da 300 miliardi d’investimenti che tutti aspettano e che nessuno ha finora visto.

Del ‘piano Juncker’, è stato il falco designato della nuova Commissione, l’ex premier finlandese Jyrki Katainen, a fornire finora più elementi, rispondendo alle domande del Parlamento europeo: "Voglio presentare il pacchetto lavoro, crescita, investimenti entro 3 mesi dall’inizio del mandato", il 1° novembre, se non ci saranno ritardi per la bocciatura dell’ex premier slovena Alenka Bratušek.

‘Piano da 300’ a parte, il nuovo Esecutivo non sarà certo tutto ‘rose e fiori’, sul crinale tra stabilità e flessibilità. Katainen in Parlamento è stato chiaro: dare slancio agli investimenti, ma senza aumentare il debito; e non lasciare che “i problemi di 2 o 3 Paesi” condizionino l’Eurozona - c’è chi si sente fischiare le orecchie?

In Italia, il premier Renzi dice d’aspettarsi che i vertici delle Istituzioni comunitarie “interpretino” la nuova fase della ‘sua’ Italia. Ma il primo esame della Legge di Stabilità trasmessa a Bruxelles la sera del 15 ottobre dal Consiglio dei Ministri toccherà all’attuale Commissione, la Barroso 2, che ha tempo fino al 29 ottobre per presentare le proprie osservazioni.

Il ‘piano Juncker’, soldi da spendere bene
Per Katainen, vice-presidente per lavoro, crescita, investimenti e competitività, il ‘piano Juncker’ è la prima priorità: vuole "mobilitare tutti gli strumenti a livello europeo e nazionale e migliorare l’uso dei fondi del bilancio Ue, massimizzare il ruolo della Bei e delle banche pubbliche nazionali d’investimenti e fare in modo che il consolidamento sostenga gli investimenti". Fin qui, più parole che cifre.

"A livello nazionale - prosegue Katainen -, bisogna migliorare la qualità della spesa pubblica". E il ruolo dei bilanci nazionali negli investimenti sarà subordinato al rispetto del Patto di Stabilità, aprendo, però, a un “miglior uso della flessibilità”.

Il vice-presidente intende assicurarsi che l'opera di riforma dei Paesi sia finalizzata a rimuovere gli ostacoli per gli investimenti e, a tal fine, vuole "rafforzare ancora di più la governance economica, per aumentare l'impegno e la responsabilità degli stati nell’attuare le riforme".

Questa la visione dell’ex premier finlandese, cui Juncker lascia, in questa fase, molto spazio. Ma Katainen dovrà lavorare a stretto contatto con gli altri commissari che si occupano di economia, specie il responsabile degli affari economici Pierre Moscovici, un francese, l’uomo della crescita. Lo schema suscita dubbi, ma il vice-presidente li smorza, descrivendosi come "team-leader, costruttore di ponti, coordinatore".

Il Parlamento di Strasburgo intende vigilare perché il ‘piano Juncker’ sia “reale e non una finzione" - soldi, non parole - e perché "si usi a pieno la flessibilità presente nelle regole, i Paesi in recessione devono poter beneficiare di un tempo più lungo per raggiungere gli obiettivi" di consolidamento del bilancio. Gianni Pittella, capogruppo S&D, invita Katainen a “smetterla di fare il falco”.

La ‘stagione di mezzo’ tra una Commissione e l’altra
Per l’Unione europea, questa è una ‘stagione di mezzo’: la Commissione Barroso fa i suoi addii, cercando di lasciare buoni ricordi; e la Commissione Juncker deve ancora entrare in funzione, ma già agita il bastone e la carota.

Nel vuoto di potere del passaggio delle consegne a Bruxelles, Renzi tira fuori riforme come fossero ciliegie e la Merkel non ha paura di vedersi crescere un naso da Pinocchio, dicendosi sicura che l’Italia e la Francia rispetteranno gli impegni europei.

Il tutto in un clima di reciproci salamelecchi. Per cui i leader dell’Ue salutano positivamente il ‘Jobs Act’, pur senza conoscerne il contenuto e la portata, e Barroso si dice sicuro che l’Italia d’ora in poi spenderà bene i fondi europei, che ha sempre usato poco e male.

Galvanizzato, il premier sposta subito l’attenzione su un’altra riforma, quella fiscale, senza fare caso a che nessuna di quelle finora impostate - legge elettorale, Senato, Province, P.A., lavoro - è stata portata a compimento: “Se faremo le scelte giuste - dice-, tra vent’anni saremo un Paese leader”. Viene il dubbio che i mille giorni stiano per diventare, nella narrativa renziana, un Ventennio.

Il ‘tira e molla’ sulla Legge di Stabilità
Intanto, sulla Legge di Stabilità, l’Italia si prepara a vivere il consueto ‘tira e molla’ con le autorità di Bruxelles. Il ministro Pier Carlo Padoan afferma con sicurezza: l’Ue non boccerà l’Italia, perché “abbiamo i numeri giusti e siamo tra i pochi che stanno sotto la soglia del deficit del 3%”.

Tra promesse ostentate, preoccupazioni smorzate, tentazioni di compiacimento (per il ‘Jobs Act’), le prossime due settimane saranno cruciali. Se la Legge di Stabilità italiana risultasse in contrasto con le regole dell’Ue, sarebbe certamente rispedita al mittente per modifiche parziali o sostanziali. E la Commissione potrebbe persino minacciare l’apertura di una procedura d’infrazione.

L’attenzione delle autorità comunitarie si concentra su due aspetti: le coperture, aleatorie tra lotta all’evasione e spending review; e i saldi della finanza pubblica, che portano il disavanzo al 2,9% (dal 2,2% previsto nel 2015) e rinviano il pareggio di bilancio al 2017. L’impostazione potrebbe non piacere agli alfieri del rigore. E la valutazione europea s’intreccia con l’iter parlamentare, che rischia di peggiorare il provvedimento, almeno in ottica Ue.

Gli elementi che paiono certi sono una manovra da 36 miliardi, con meno tasse per 18 miliardi, l’allargamento del deficit, 15 miliardi dalla ‘spending review’, 3,8 dalla lotta all’evasione. Renzi parla della riduzione delle tasse più grande nella storia italiana. Padoan ammette che “è possibile che le Regioni alzino le tasse”. Per i sindacati, la manovra non risponde all’emergenza del Paese. Per gli imprenditori, invece, va nella direzione giusta.

Grecia, borse, Fmi, il contesto economico
L’Italia chiede l’applicazione delle clausole di flessibilità previste in caso di congiuntura negativa. Ma la diffidenza degli eurocrati quando c’è di mezzo l’Italia è acuita dal contesto economico, bruscamente peggiorato: deterioramento della situazione in Grecia: giù le borse coi listini al minimo dal 2013 e su lo spread (risalito fino a 200 punti).

Le agenzie di rating mollano randellate a destra e a manca, ma, per il momento, risparmiano l’Italia. Che è invece tartassata dalle previsioni economiche dell’Fmi: Pil in calo dello 0,2% quest’anno, unico grande Paese in recessione. L’Italia resta vulnerabile - nota la Bce -, senza crescita né fiducia.

L’Istat sforna raffiche di cattive notizie: il Pil non cresce dal 2011, il potere d’acquisto è sceso dell’1,4%, la percezione di stagnazione si rafforza, la deflazione è peggiore del previsto. Ma, aspettando Godot, noi chiediamo comprensione all’Ue.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI (Twitter: @ggramaglia).
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Immigrazione: un nodo da sciogliere

Cittadinanza
Lo ius soli temperato di Renzi
Marco Gestri
11/10/2014
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Da qualche anno è in corso un dibattito sull’opportunità di modificare le norme sulla cittadinanza, soprattutto nel senso di favorirne l’acquisto da parte dei giovani d’origine straniera nati in Italia.

Lo stesso Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha affermato che ciò corrisponderebbe, oltreché a una legittima aspettativa degli interessati, all’esigenza di “acquisire delle giovani nuove energie ad una società largamente invecchiata”.

Le norme sulla cittadinanza sono stabilite mediante legge ordinaria, la n. 91 del 1992. La Costituzione, salvo l’art. 22 che vieta la privazione della cittadinanza per motivi politici, non prevede alcuna regola in materia.

Ius soli e ius sanguinis in Italia
La legge n. 91/1992 adotta quale criterio principale per l’attribuzione della cittadinanza lo ius sanguinis: è cittadino il figlio di padre o madre italiani. Al criterio dello ius soli è attribuita diretta rilevanza solo eccezionalmente, per limitare l’apolidia: è cittadino chi è nato nel territorio della Repubblica “se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono”.

Negli altri casi, la nascita nel territorio assume comunque qualche rilievo: lo straniero nato in Italia diviene cittadino italiano qualora vi abbia risieduto fino al raggiungimento della maggiore età e dichiari, entro un anno, di voler acquistare la cittadinanza.

Anche il nostro ordinamento prevede poi la possibilità d’acquistare la cittadinanza per naturalizzazione (provvedimento discrezionale dello stato, che esprime una sorta di gradimento dello straniero). In base alla regola generale, può chiedere la naturalizzazione chi risieda da dieci anni nella Repubblica. Sono previsti anche termini abbreviati, in particolare per lo straniero nato in Italia, che può chiederla dopo tre anni di residenza.

Rischio turismo di cittadinanza 
La disciplina ora ricordata è ritenuta da più parti eccessivamente severa o “non inclusiva” (ma non mancano proposte per renderla più rigida..). Molti si sono pronunciati per modifiche fondate sul criterio dello ius soli “puro”, in virtù del quale ogni individuo nato in Italia diverrebbe cittadino italiano.

Si sostiene talora che si tratterebbe di scelta richiesta dall’Europa e largamente condivisa. In realtà, la normativa Ue lascia la materia alla disciplina nazionale e nessun paese europeo prevede lo ius soli puro. Risultava accolto sino al 2005 dall’Irlanda che lo ha però eliminato a seguito del dibattito suscitato dalla sentenza Zhu della Corte Ue.

Questa ha avallato la manovra di una coppia cinese, recatasi in Irlanda poco prima della nascita della figlia per farle acquisire la cittadinanza irlandese/europea e il conseguente diritto a risiedere in Gran Bretagna, nonostante sia Irlanda che Regno Unito la considerassero fraudolenta.

In effetti, la previsione dello ius soli puro (o accompagnato da condizionamenti minimi) favorirebbe un “turismo di cittadinanza” e potrebbe suscitare riserve in altri stati Ue: l’acquisto della cittadinanza italiana implicherebbe quello della cittadinanza europea e del diritto di soggiorno in tutta l’Unione.

Più realistica la proposta, più volte annunciata dal primo ministro Matteo Renzi, d’introdurre uno ius soli “temperato” (da ulteriori requisiti, quali frequenza scolastica o residenza). A ben vedere questo esiste già, dato che la legge vigente prevede per il nato in Italia la possibilità d’ottenere la cittadinanza per naturalizzazione dopo una residenza di tre anni, termine tutt’altro che lungo.

È peraltro vero che si tratta di possibilità condizionata da un atto discrezionale dello stato e che i tempi si dilatano per le lungaggini burocratiche (anche oltre due anni).

Integrare giovani nati o cresciuti in Italia
Per migliorare l’applicazione della legge potrebbe forse bastare uno snellimento delle procedure burocratiche. Modifiche sostanziali alle norme sulla cittadinanza dovrebbero a mio avviso esser il frutto di scelte largamente condivise: anche se stabilite da legge ordinaria, si tratta di regole fondamentali, che definiscono una componente essenziale dello stato (il “popolo” e conseguentemente il corpo elettorale), e appartengono dunque alla costituzione materiale.

Ciò ricordato, pare ragionevole intervenire per stabilire l’acquisto della cittadinanza da parte degli stranieri nati in Italia, o qui giunti in giovane età, al termine di un percorso che ne attesti l’effettiva integrazione nella nostra società (compimento di un intero ciclo di studi o frequenza scolastica pluriennale), anziché in virtù della mera residenza prolungata.

Tra l’altro, i giovani d’origine straniera possono rappresentare un ponte tra culture diverse (di provenienza e dello stato di residenza) e favorire l’integrazione dell’intera comunità familiare.

Potrebbe anche delinearsi un’abbreviazione del periodo di residenza generalmente richiesto per la concessione della naturalizzazione, tra i più lunghi in Europa (ad es. da 10 a 8 anni o anche a 5, come in diversi Stati europei e in Italia prima della riforma del 1992).

Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.
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Politica Estera: LO Stato Islamico e L'Italia

Casini e Cicchitto, l'Onu contro il Califfo
Si può intervenire anche senza le Nazioni Unite
Natalino Ronzitti
13/10/2014
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Per la politica estera italiana, questi sono giorni di transizione essendo il ministro degli Esteri, Federica Mogherini, proiettata verso l’assunzione delle responsabilità a Bruxelles come Alto rappresentante della politica estera europea. Di fronte alla tragedia che si sta consumando in Iraq e soprattutto in Siria ad opera delle truppe del Califfato, l’Italia ha scelto un basso profilo.

Mentre gli alleati partecipano ai raid aerei della coalizione a guida Usa, noi ci siamo limitati a fornire qualche armamento, che da tempo si trovava nei nostri magazzini, ai peshmerga curdi e ad assicurare un non meglio specificato rifornimento in volo.

Di fronte alla sostanziale latitanza del nostro governo, bene hanno fatto i Presidenti delle Commissioni affari esteri del Senato e della Camera, Pierferdinando Casini e Fabrizio Cicchitto, a richiamare l’attenzione, con un intervento sul Corriere della Sera (11 ottobre), sulla tragedia che si sta consumando a Kobane e a sollecitare un’efficace azione internazionale. Ma con quali mezzi e quali iniziative?

Le Nazioni Unite
La proposta è di un’efficace azione delle Nazioni Unite. Ma, ahimè, le Nazioni Unite possono sì intervenire, ma con quale incisività è tutto da dimostrare. Un intervento armato dell’organizzazione mondiale, volto ad imporre la pace, è fuori discussione: esso sarebbe conforme allo spirito dello statuto, ma le relative disposizioni non hanno mai trovato una compiuta attuazione.

Operazioni di mantenimento della pace sono possibili, ma dipendono dal consenso delle parti e soprattutto dal consenso della Siria. La condicio sine qua non è una risoluzione del Consiglio di sicurezza (Cds), la cui adozione postula il voto positivo di nove membri sui quindici componenti l’organo, incluso il voto dei cinque membri permanenti, ognuno dei quali potrebbe porre il veto (vedi Russia, ma anche Cina) e paralizzare l’azione del Consiglio.

Le Nazioni Unite potrebbero proclamare un’area protetta intorno a Kobane e/o altre località. Ma anche in questo caso è necessaria una risoluzione del Cds, che rimarrebbe esposta al veto russo-cinese. Tra l’altro la proclamazione dell’area protetta senza l’invio di truppe che ne assicurino la difesa non ha nessuna efficacia, come dimostrano le esperienze del passato.

Prova ne sia l’area protetta di Srebrenica, dove le forze Onu presenti restarono impotenti e non riuscirono a prevenire il massacro della popolazione operato dai serbo-bosniaci. L’elenco potrebbe continuare.

L’esperienza dimostra che le Nazioni Unite, in quanto organizzazione, difficilmente possono attuare una politica d’intervento che comporti l’uso della forza armate. Esse, tramite il Cds, possono però autorizzare gli stati a farlo, com’è avvento per la Libia nel 2011 e come non si è potuto realizzare per la Siria, a causa del monopolio dei membri permanenti del Consiglio sulle questioni che comportano l’uso della forza armata.

Anche la pretesa della Turchia, secondo cui gli stati Uniti dovrebbero istituire una no-fly zone intorno a Kobane prima che l’esercito turco si decida ad attraversare il confine, richiederebbe in linea di principio una risoluzione del Cds, in assenza del consenso della Siria. Senza dimenticare che l’obiettivo della no-fly zone non sarebbe tanto la protezione contro le forze del Califfato, che non dispone di una aviazione, quanto un intervento contro il regime di Assad.

Intervento senza mandato delle Nazioni Unite
Non resta quindi che intervenire senza un mandato delle Nazioni Unite. Sarebbe giuridicamente fondato?

Vi potrebbe essere una duplice giustificazione:
a) L’intervento armato è stato richiesto dall’Iraq, per combattere le forze del Califfato presenti sul suo territorio. Ciò è perfettamente lecito. Il governo costituito può chiamare in soccorso altri stati per stroncare una ribellione. A prima vista questa esimente non sembrerebbe giustificare lo sconfinamento dei raid aerei in Siria. Ma così non è, poiché l’Iraq ha diritto di esercitare la legittima difesa nei confronti di attacchi provenienti dalla Siria ad opera dei combattenti del Califfato. La legittima difesa contro attori non statali è ormai nozione acquisita e si può intervenire in territorio altrui (in questo caso la Siria) per contrastare la minaccia. Gli Stati Uniti e i loro alleati, con i loro raid aerei in Siria, non fanno altro che esercitare il diritto di legittima difesa collettiva;

b) L’altra giustificazione è quella dell’intervento umanitario. A parere di chi scrive l’intervento umanitario è illecito senza l’autorizzazione del Cds, non condividendo neppure il sofisma per cui l’intervento sarebbe illecito ma legittimo. Tuttavia gli stati occidentali, Italia inclusa, hanno invocato questa esimente per intervenire in Kosovo e in altre occasioni.

Conclusioni
In conclusione, occorre realisticamente ammettere che non è sufficiente invocare l’intervento delle Nazioni Unite che, nell’attuale situazione, sono impotenti. Al massimo possono adottare, come hanno fatto, una risoluzione che obbliga gli stati ad impedire che loro cittadini si arruolino nelle truppe del Califfato.

Un’efficace politica d’intervento resta prerogativa degli stati, che possono vantare solide giustificazioni giuridiche. Si tratta quindi solo di volontà politica e di prendere atto che i raid aerei senza un impegno sul terreno servono a ben poco.

Quanto all’Italia e al suo basso profilo, il nostro paese non può trincerarsi dietro l’alibi delle Nazioni Unite. Tra l’altro un’azione più robusta non sarebbe contraria all’art. 11 della Costituzione, che condanna la guerra d’aggressione, mentre nel caso concreto si tratterebbe di un intervento in legittima difesa collettiva o, se si preferisce, di un intervento umanitario che, in quanto tale, non costituisce un atto di aggressione, qualora sia genuinamente motivato.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (LUISS Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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lunedì 20 ottobre 2014

Questi curiosi svizzeri

Svizzera
Il Ticino chiude su Expo
Cosimo Risi
01/10/2014
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Nuova ondata di referendum a Berna e dintorni. Alcuni con portata federale e altri cantonale. Di rilievo per i rapporti con l’Italia è quello indetto - come gli altri il 28 settembre - nella Repubblica Cantone Ticino, su iniziativa della Lega Ticinese, che riguarda il finanziamento che il Cantone dovrebbe versare all’allestimento del padiglione svizzero all’Expo.

La cifra in questione è tutto sommato modesta, attorno ai 3 milioni di euro, ma il significato dell’iniziativa la dice lunga sull’atteggiamento del Cantone riguardo all’esposizione milanese.

Al voto ha partecipato poco più del 50% degli elettori, il 54% dei quali si è opposta al finanziamento del padiglione Expo. Il Consiglio di stato (governo) ticinese non può impegnare fondi pubblici per il padiglione all’Expo.

Lo stesso Consiglio di stato aveva però in serbo un “piano B”, scattato appunto con il voto, che prevede la copertura almeno parzialmente della spesa tramite privati assieme al fondo Swissloss, finanziato dalle lotterie. I privati metteranno a disposizione un milione di euro per essere presenti nel padiglione. Una somma che potrebbe crescere.

Il risultato del voto non ha conseguenze pratiche. Il Ticino partecipa all’Expo, sia pure in forma non strettamente ufficiale. La comunità d’affari si prepara a intercettare quella parte di traffico che guarderà alla Svizzera meridionale come al retrovia della Lombardia.

Corrente anti-italiana?
Il referendum ha però un significato politico da non sottovalutare. Nella presentazione dei sostenitori del referendum e ora della maggioranza degli elettori, Expo è la plastica rappresentazione di un’Italia che non funziona. Teatro di sprechi e malversazioni da cui è bene tenersi lontano.

Inoltre, è la seconda volta in pochi mesi che il Cantone si esprime in modo sfavorevole all’Italia. A febbraio votò massicciamente per il “no all’immigrazione di massa” e il voto lasciò trasparire in filigrana la riserva sull’afflusso dei nostri lavoratori frontalieri.

Pensare a una corrente anti-italiana nel solo Cantone totalmente italofono della Confederazione sarebbe eccessivo e fuorviante. L’analisi deve considerare i fattori interni del voto: la strisciante e ora aperta pressione nei confronti della Svizzera e della parte germanofona, responsabili di pensare al loro “particulare” trascurando le regioni di frontiera.

AlpTransit
Il tasso di sviluppo diverge fra la varie parti della Confederazione, ma quello di disoccupazione si sta riducendo fino a portare il Ticino vicino alla media nazionale del 3%. I collegamenti al di qua e al di là delle Alpi sono difficili. Il progetto AlpTransit (la più lunga galleria d’Europa) faciliterà gli spostamenti nord-sud su rotaia. Questi si fermeranno a Chiasso se il versante italiano non si attrezza.

I ticinesi completano per tempo le tratte di loro pertinenza, mentre quelle italiane si bloccano per qualsiasi motivo: dal fermo giudiziario alla mancanza di fondi.

Il messaggio che arriva a Berna sembra essere: “Noi in Svizzera facciamo quanto necessario per stare in un contesto sempre più europeo, voi dall’altra parte dichiarate molto e realizzate poco”.

Sullo sfondo è la grande questione dei rapporti con l’Unione europea. La critica all’Italia è mossa a uno stato membro fondatore che si schiera al fianco delle istituzioni europee per richiamare la Confederazione al rispetto dei patti. Non ha corso la richiesta svizzera di rinegoziare l’accordo sulla libera circolazione delle persone. La partita a tre prosegue.

Cosimo Risi è Ambasciatore d’Italia in Svizzera; ha servito a lungo a Bruxelles.
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mercoledì 15 ottobre 2014

Verso nuovi orizzonti cinesi

Italia-Cina
Come cambiano gli investimenti italiani in Cina
Marco Sanfilippo
23/09/2014
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Gli investimenti diretti esteri (Ide) in entrata e uscita dalla Repubblica popolare cinese (Rpc) rappresentano uno strumento di grande importanza dal punto di vista economico, perché legati alle dinamiche di produzione globale, e, più in generale, alle relazioni tra paesi.

Per questo sono spesso nell’agenda delle visite ufficiali, inclusa l’ultima del presidente del Consiglio italiano nella Rpc. Appare quindi opportuno riflettere proprio sul ruolo della Rpc nelle strategie di investimento all’estero dell’Italia.

Investimenti diretti esteri italiani
Rispetto al peso economico complessivo, l’Italia non è tra le principali fonti di Ide a livello globale. I flussi in uscita dal nostro paese oscillano in media tra l’1 e il 3% di quelli globali, un valore decisamente inferiore a quello dei principali paesi europei, inclusi alcuni competitor diretti quali Germania e Francia, entrambi con una media superiore al 6% nell’ultimo decennio.

Geograficamente, la gran parte degli investimenti italiani si distribuisce nei vicini paesi europei. L’assenza - con qualche eccezione - di vere e proprie multinazionali e la prevalenza di piccole e medie imprese ben spiega la riluttanza a esplorare contesti più distanti, e quindi rischiosi, seppure ricchi di opportunità.

La Rpc non fa eccezione: ha ricevuto finora solo circa il 2% dello stock degli investimenti all’estero italiani, anche se il valore appare più rilevante laddove si guardi al numero totale di affiliate estere (1.103) e, in particolare, al numero di addetti (85 mila) (Tabella 1).

Fonte: Elaborazione su dati Eurostat e ICE-Reprint (Mariotti e Mutinelli, 2012, Italia Multinazionale).
Nota: Lo stock rappresenta la somma degli investimenti all'ultimo anno disponibile.


Imprese italiane in Cina 
I dati dell’ultimo decennio gettano luce sulle dinamiche più recenti e sui cambiamenti in corso nelle strategie delle imprese italiane in Cina. Nel periodo 2003-2011, la quota di Ide italiani nella Rpc è risultata circa la metà di quella francese e un terzo circa di quella tedesca (Figura 1), a dimostrazione delle difficoltà strutturali nell’affrontare i mercati esteri più distanti rispetto ai principali competitor all’interno dell’Ue.

Figura 1
Fonte: Elaborazione su dati FDIMarkets.com e Amighini, A. e Sanfilippo, M. (2013) The changing pattern of Italian FDI in China, Review of Economic Conditions in Italy, Unicredit-CASS Special issue on EU-China FDI: 43-63.
*I dati fanno riferimento solo ai casi di investimenti greenfield e joint ventures (JV), ed escludono dunque le fusioni e acquisizioni.


Riguardo alla distribuzione settoriale, la gran parte degli investimenti in Cina ha interessato il comparto tessile, con il 44% del totale, seguito a larga distanza da macchinari e servizi finanziari (Tabella 2). È da segnalare anche che la scala media degli investimenti nel tessile risulta inferiore rispetto ad altri settori, a maggior intensità di capitale (Tabella 2).

Fonte: Elaborazione su dati FDIMarkets.com e Amighini, A. e Sanfilippo, M. (2013) The changing pattern of Italian FDI in China, Review of Economic Conditions in Italy, Unicredit-CASS Special issue on EU-China FDI: 43-63.
*I dati fanno riferimento solo ai casi di investimenti greenfield e joint ventures (JV), ed escludono dunque le fusioni e acquisizioni.
**Calcolato come media semplice degli investimenti nei settori rimanenti.


Per comprendere quali motivazioni guidino le scelte localizzative degli investitori italiani, è utile osservare la distribuzione degli investimenti per tipologia di attività svolta nella Rpc (Tabella 3). Emergono due fenomeni interessanti. Il primo è che, nella gran parte dei casi, le imprese italiane in Cina sono impegnate in attività commerciali o produttive, come d’altronde è stato evidenziato da lavori precedenti basati su indagini campionarie nel paese.

Fonte: Elaborazione su dati FDIMarkets.com e Amighini, A. e Sanfilippo, M. (2013) The changing pattern of Italian FDI in China, Review of Economic Conditions in Italy, Unicredit-CASS Special issue on EU-China FDI: 43-63.
*I dati fanno riferimento solo ai casi di investimenti greenfield e joint ventures (JV), ed escludono dunque le fusioni e acquisizioni.


Vi sono però notevoli differenze tra i vari settori. Mentre la gran parte (95%) degli investimenti nel tessile riguarda attività legate al commercio al dettaglio, l’80% circa degli investimenti nel settore dei macchinari è legato ad attività produttive. Le imprese investitrici sono chiaramente più propense ad affidare la produzione a fornitori e subcontraenti locali nel caso di produzioni - come quella tessile - a più basso contenuto tecnologico e, dunque, con minori rischi di violazione di patenti e diritti di proprietà intellettuale.

Cambiamenti nelle strategie di investimento
Il secondo fenomeno, più generale, è invece un progressivo ridimensionamento degli investimenti motivati dal basso costo dei fattori produttivi; crescono invece quelli volti all’acquisizione di spazi commerciali, anche su piccola scala, per sfruttare il potenziale dell’enorme mercato cinese.

Ciò segna una differenza rispetto a Francia e Germania - che sembrano scegliere ancora la Cina come destinazione per produzioni più economiche - ma mostra, soprattutto, un cambiamento strategico delle imprese italiane, che devono fare i conti, a causa della crisi, con l’esigenza di una razionalizzazione delle risorse.

A questo riguardo, si osserva anche una maggiore diversificazione geografica, con investimenti localizzati non più soltanto nelle provincie costiere, ma anche nelle più popolate aree centrali.

Se questi cambiamenti nelle strategie di investimento siano solo transitori, e dovuti agli effetti della crisi, è presto per dirlo, non essendo ancora disponibili i dati degli ultimi due anni. Tuttavia, considerando l’aumento dei costi di produzione in Cina, lo sviluppo dei consumi e le difficoltà della ripresa economica in Europa, è lecito attendersi che siano sempre più le opportunità di espansione commerciale a spingere le nostre imprese a scegliere la Cina come destinazione dei propri investimenti esteri.

Articolo in via di pubblicazione su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali.

Marco Sanfilippo, research fellow, Robert Schuman Centre for Advanced Studies, Istituto Universitario Europeo.
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La cooperazione nell'ambito Italia Brasile

Andrea Capuani Armi e strategie 0 commentI
La cooperazione nell’ambito dell’industria della difesa: focus sulla relazione Italia – Brasile
Negli ultimi anni la crescita economica mondiale ha registrato un continuo rallentamento: dal 5,1% registrato nel 2010, si è passati ad un 3,3% nel 2012. I dati per l’anno in corso, purtroppo, non sono incoraggianti. Come noto, la crisi economica e finanziaria ha colpito con maggiore intensità nel vecchio continente e secondo il «World Economic Outlook» del Fondo Monetario Internazionale, il rapporto debito-PIL del gruppo G7 (Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito, Stati Uniti) continuerà a salire fino a raggiungere il 130% nel 2017. Viceversa, le statistiche indicano che i paesi BRIC (Brasile, Russia, India e China) non solo manterranno i propri livelli di crescita, ma che il loro debito-PIL dovrebbe addirittura diminuire fino ad attestarsi al 30%. Sulla base di questi trends macroeconomici, anche il global defence spending ha registrato nel 2012 un sostanziale calo del 3,5% rispetto al 2010. Da un punto di vista puramente quantitativo rimane per il momento saldamente ancorato alle economie più avanzate: risulta evidente il predominio degli Stati Uniti che detengono circa il 40% della spesa totale, nonostante la forte politica di contenimento e riduzione della spesa pubblica attuata dall’amministrazione Obama negli ultimi anni.
Il Governo brasiliano ha storicamente destinato al comparto della difesa circa l’1,5% del PIL. Tuttavia gli stipendi del personale hanno rappresentato circa il 75% della spesa complessiva, vanificando ogni tentativo di ammodernamento delle Forze Armate nel medio-lungo termine. Il Planalto – sede dell’esecutivo brasiliano – ha deciso, a partire dal 2009, di cambiare rotta e adeguare il proprio potenziale dissuasivo in base alle proprie esigenze politico-diplomatiche. In effetti il paese sta cercando di affermare, per quanto possibile, il suo ruolo di potenza emergente in virtù di alcuni avvenimenti importanti, come ad esempio il suo ingresso trionfale nel gruppo dei BRIC e la scoperta dei giacimenti petroliferi nella baia Tupi.
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Figura 1: spesa per la difesa delle singole nazioni latino americane
Va detto che gli appalti in Brasile sono gestiti dalle singole forze armate ma anche chiarito che le decisioni finali, specie per le grandi commesse, restano in capo ai politici di turno. Si parla spesso della necessità della riforma degli appalti, almeno nel comparto difesa, a causa dalle continue pratiche di «avvio e arresto» dei programmi d’acquisto di materiale bellico: ne sono esempi lampanti il programma fighters FX-2 per l’aeronautica militare brasiliana e il programma PROSUPER per la sua marina militare.
Da una parte si avverte la volontà di modernizzare lo strumento militare e, dall’altra, l’intenzione di colmare il crescente bisogno di sicurezza. Tuttavia Dilma Rousseff, rispetto il suo predecessore Luiz Ignacio “Lula” Da Silva, ha manifestato una certa riluttanza circa l’aumento delle spese per la difesa. La priorità del paese resta la sicurezza dei confini nazionali: il progetto SISFRON, risalente a gennaio del 2011, si propone infatti di monitorare i 16.000 chilometri di foresta terrestre a fronte di un investimento di 6 miliardi di dollari. Inoltre si possono annoverare in questo senso, la ristrutturazione dell’Agência Brasileira de Inteligência (ABIN) e le misure adottate contro la corruzione soprattutto fra le forze di sicurezza interna.
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Figura 2: spese per la difesa brasiliana (2013)
Vi sono poi segnali diplomatici incoraggianti verso i restanti paesi della regione: la cooperazione regionale in seno all’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR) ha allontanato definitivamente il fantasma del conflitto bellico. In effetti la politica estera del governo brasiliano può essere riassunta nel modo seguente:
■ Necessità di affermazione degli interessi economici del Brasile nella governance globale;
■ Potenziamento del ruolo di guida nei processi di cooperazione regionale (UNASUR e Consiglio di Difesa Sudamericano);
■ Bilanciamento della governance globale attraverso la formazione di nuove entità geopolitiche o poli regionali.
Il «Piano Strategico per la Difesa», risalente al 2008, spiega a grandi linee quali saranno le priorità nazionali nei prossimi decenni:
■ Ammodernare le tre Forze Armate;
■ Favorire l’autonomia per quanto attiene il controllo delle risorse naturali e la difesa dei confini nazionali;
■ Favorire lo sviluppo dell’industria nazionale della difesa tramite l’acquisizione di tecnologia (offset / trasferimento di tecnologia).
Tale piano sarà attuato in tre periodi diversi:
■ Dal 2010 al 2014 si prevede di dare seguito ai piani per la sicurezza;
■ Dal 2015 al 2022 assumere un ruolo di primo piano nelle missioni internazionali assicurando comunque la protezione del territorio nazionale;
■ Dal 2023 al 2030 competere con le maggiori potenze militari per ottenere un ruolo chiave nella governanceglobale
A livello internazionale il Brasile si muove su quattro direttrici principali. La prima direttrice è orientata verso le «alleanze regionali» che sono, tutt’ora, in fase di consolidamento. Le relazioni industriali del Brasile a livello sudamericano si propongono di far sempre meno affidamento ai fornitori stranieri. La propensione del gigante sudamericano alla collaborazione con i paesi vicini è visto anche come uno strumento di politica estera per stabilizzare la regione. Ciò nonostante Brasilia ammette che le sue ambizioni di crescita industriale possono essere più facilmente soddisfatte attraverso forme di partenariato con i paesi più industrializzati.
La seconda direttrice si basa sulle «alleanze alla pari» con i paesi aventi il medesimo grado di sviluppo tecnologico. L’obiettivo è quello di colmare le lacune tecnologiche che permetterebbero all’industria brasiliana di posizionare meglio i suoi prodotti nei mercati internazionali. Si tratta, in genere, di accordi bilaterali come quelli conclusi con Polonia e Ucraina.
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Figura 3: le «alleanze alla pari» del Brasile con Polonia e Ucraina
Nella terza direttrice troviamo invece le «alleanze strategiche». Il Brasile, infatti, ricerca partner industriali disposti non solo a garantire il trasferimento tecnologico, ma anche ad assicurare la produzione locale nell’ottica dell’autonomia tecnologica a lungo termine.
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Figura 4: le alleanze «strategiche» del Brasile
Infine, la quarta direttrice è orientata verso i paesi BRIC. Il Brasile si è allineato con la Russia, l’India e la Cina. Questa relativamente nuova entità geopolitica aspira a conseguire, nel lungo termine, una maggiore collaborazione industriale nel settore della difesa. Tale tipo di collaborazione è anche un valido strumento per ridurre il livello di dipendenza su specifici materiali provenienti dai paesi tecnologicamente più avanzati.
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Figura 5: le alleanze con i paesi dei BRICS
Gli accordi denominati government to government (G2G) e quelli relativi al trasferimento di tecnologia si stanno rivelando i principali vettori per la penetrazione del mercato sudamericano. Gli sforzi del Ministero della Difesa brasiliano per mantenere il pieno controllo sulle politiche di acquisizione del materiale bellico non hanno sinora sortito gli effetti sperati. Tali processi appaiono trasparenti, lo ricordiamo, sino a quando restano sotto il coordinamento delle rispettive Forze Armate. L’intervento politico, nelle commesse più ingenti, rende questi processi meno lineari.
A titolo meramente esemplificativo si può notare che la Força Aérea Brasileira (FAB) riceverà, tra il 2010 e 2014, il 52% dei fondi devoluti per l’acquisizione di nuovo materiale bellico. Il fornitore – magari italiano – desideroso di aggiudicarsi una commessa del settore aeronautico brasiliano, in assenza di un accordo G2G che permetta la trattativa diretta col governo, dovrà affidarsi necessariamente alla concorrenza del mercato. Le associazioni brasiliane di categoria in questo senso, hanno dimostrato di essere influenti nelle politiche di acquisizione nonché in grado di indirizzare gli ordinativi della difesa in virtù della maggiore o minore disponibilità dei fornitori a cooperare con l’industria locale al fine di assicurare un adeguato trasferimento tecnologico. Le recenti gare evidenziano come abbiano tratto beneficio dal mercato brasiliano soltanto quei fornitori stranieri che hanno già investito in società in loco, come nel caso di Elbit, Thales, EADS, DCNS.
Risulta doveroso porre in essere, al fine della nostra indagine, alcune premesse relativamente alla situazione in cui si trova il mercato brasiliano oggi.
Innanzitutto, la penetrazione francese, che è stata notevole in passato, non è detto che prosegua con i medesimi ritmi: l’asse Dilma – Hollande non si è rivelato solido come quello fra Lula e Sarkozy. In secondo luogo, gli Stati Uniti hanno registrato un incremento dell’esportazioni di materiali e di armamenti verso il Brasile, mostrando un + 125% dal 2007. Terza questione, l’allineamento del Brasile alla politica estera Argentina si ritiene possa portare ad un raffreddamento dei rapporti economici con la Gran Bretagna per via della nota vicenda delle Falkland/Malvinas. Ed infine, bisogna notare che Italia e Israele hanno preparato la strada verso un crescente successo nella regione.
Insomma, per l’ingresso nel mercato brasiliano, l’imprenditore italiano attualmente dispone di:
■ Supporto da parte del Governo italiano. L’Italia vede il Brasile come un possibile partner alternativo all’Unione Europea e alla NATO;
■ Un contesto legislativo favorevole soprattutto a seguito della ratifica dell’Accordo di Cooperazione Militare Italo-Brasiliano del 2008;
■ Tecnologia e know how ancora all’avanguardia, entrambi molto ricercati dalle Forze Armate brasiliane;
■ Possibilità di cooperare nelle diverse partnership strategiche attraverso la costituzione di joint venturelocali.
Di Paola Amorim
Foto: Gianpaolo Di Paola e Celso Amorim nel 2012
Da molti anni i paesi europei, soprattutto quelli maggiormente industrializzati, hanno perso gradi crescenti di autonomia tecnologica e produttiva, a partire dai sistemi più semplici fino ad arrivare agli equipaggiamenti più sofisticati. La risposta europea è consistita nel promuovere lo sviluppo di programmi di collaborazione intergovernativa attraverso i quali far fronte alle nuove esigenze determinate dai mutamenti dello scenario geopolitico e dal maggiore impegno in operazioni internazionali volte al mantenimento o al ristabilimento delle condizioni di sicurezza nelle aree calde del pianeta.
È recente l’avvio di una riflessione, in tutte le sedi europee, sulla possibilità di garantire un adeguato livello di affidabilità della struttura industriale del vecchio continente, attraverso un processo di interdipendenza basato sulle capacità specialistiche nazionali. In altri termini, la soluzione potrebbe essere cercata nell’avere in ogni paese tecnologicamente avanzato una parte, appunto, delle capacità tecnologiche e industriali europee, a beneficio di tutti ma con analogo livello di dipendenza dagli altri paesi. Il «dritto della medaglia» è costituito, quindi, dalla possibilità di fare pooling and sharing basandosi sulla tesi che per far fronte alla sfida della competizione internazionale, le imprese europee devono sempre più concentrarsi sulle proprie aree di eccellenza tecnologica.
Il «rovescio della medaglia» rivela che, in tempi di crisi economica, concentrarsi sulle eccellenze comporta un effetto secondario non irrilevante: la progressiva disincentivazione di tutto il resto con il rischio che anche l’indispensabile venga sacrificato insieme al superfluo. In un simile contesto è di fondamentale importanza individuare le Key Strategic Activities verso cui concentrare le limitate risorse umane e finanziarie disponibili, attraverso oculate politiche industriali e di sviluppo della ricerca, facendo convergere le due prospettive nel quadro di una riorganizzazione e di una specializzazione industriale e militare, nazionale ed europea.
Tenuto conto dell’attuale sbilanciamento tra il mercato europeo e quello statunitense, la possibilità da parte della filiera industriale italiana e europea di focalizzare su Key Strategic Activities, oltre a consolidare il comparto a livello nazionale e europeo, potrebbe permettere di aprire un dialogo funzionale con i possibilipartners, propedeutico all’avvio di una collaborazione su specifici programmi per quelle aree non ritenute prioritarie. In tale situazione, una volta definite le capacità che si vogliono mantenere completamente o parzialmente in Italia, analizzando concretamente le singole competenze, si assicurerebbe la continuità alle filiere produttive e il mantenimento delle attuali eccellenze nazionali, promuovendone la competitività e salvaguardando l’indipendenza nei settori ritenuti prioritari.
La condivisione di questa visione da parte del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) potrebbe costituire la condizione preliminare per ricercare collaborazioni e/o integrazioni con altri soggetti industriali: tale processo potrà assumere carattere strutturale, soprattutto in virtù della continua evoluzione del settore e della tendenza allo sviluppo di capacità duali. L’azione del MISE è orientata, lo ricordiamo, a fornire all’Industria nazionale l’agevolazione all’avvio o alla prosecuzione di progetti di ricerca per il comparto civile e militare (Legge 808/85) e di sviluppo/produzione di sistemi d’arma a valenza strategica (Legge 421/96) tenuto conto dell’esigenza di stimolare le imprese ad investire nello sviluppo di nuovi sistemi.
La necessità di coniugare le esigenze della difesa con quelle dell’esportazione, dovrebbe portare al perseguimento di linee d’azione tese a sviluppare prodotti che, pur soddisfacendo interamente le esigenze tecnico operative nazionali, siano predisposti per essere adattati alle richieste dell’esportazione, condizione indispensabile per conferire competitività ai sistemi e per garantire al paese il giusto ritorno economico degli investimenti.
Le risorse disponibili dovranno essere concentrate nello sviluppo di sistemi che associno elevata efficienza operativa ad un corretto rapporto costo/efficacia e un margine di sviluppo atto a garantirne l’integrabilità in sistemi complessi e net-centrici. Il mantenimento della competitività del comparto industriale italiano della difesa richiede, oltre all’adozione di un approccio cooperativo finalizzato a condividere 1′onere economico e massimizzare il rendimento degli investimenti, un incremento delle esportazioni nell’ambito di un coerente quadro autorizzativo, conforme alle esigenze complessive di sicurezza del paese. Oltre al supporto istituzionale che coniughi, ove necessaria, cessione di materiali e tecnologia con offerta di formazione, addestramento e supporto tecnico logistico, appare fondamentale concentrare gli investimenti sulle gamme di prodotti e sviluppi tecnologici nell’ambito dei settori ritenuti prioritari per la difesa del paese, mantenendo tuttavia un margine di attenzione alle opportunità di mercato.
Risulta dunque necessario porre in essere ogni sforzo possibile per operare in sinergia con tutte le realtà – pubbliche e private – che in Italia e nell’ambito degli accordi bi e multilaterali in essere, operano nel campo dell’innovazione tecnologica. Il patrimonio tecnologico acquisito nella ricerca applicata e nello sviluppo di sistemi costituisce il fattore più qualificante dell’industria della difesa. La value proposition che l’amministrazione della difesa (AD) potrebbe offrire nell’ambito di accordi bilaterali di cooperazione industriale presentandosi alla nazione partner come il destinatario finale di un «sistema di sistema» collaudato e validato in funzione dei propri bisogni operativi, disponibile a presentare i pro/contro delle proprie scelte tecnologiche e a fornire una visione critica top-down dei requisiti di missione richiesti dalla nazione partner, permetterebbe alla filiera industriale coinvolta di fornire un’offerta competitiva con un elevato valore aggiunto rappresentato dal know how dell’esperienza del destinatario finale.
Il programmi in atto in Brasile, come PROSUPER, SisGaz, SisFron, mettono in evidenza un comparto di industrie sostanzialmente focalizzate in settori definiti che potrebbero, in un contesto di aumentata competitività, rafforzare le proprie posizioni e relazioni consolidando il comparto stesso. Inoltre, il rafforzamento della Base Tecnologica e Industriale di Difesa Europea (EDTIB) è indispensabile per assicurare all’industria europea il livello di efficienza e di competitività necessaria per un’adeguata risposta alle sfide dello sviluppo tecnologico e della progressiva internazionalizzazione e globalizzazione del mercato della difesa. Va rilevato inoltre che il consolidamento delle capacita europee non deve essere letto in chiave antitetica all’Alleanza Atlantica, bensì come opportunità per preservarne e rafforzarne l’efficacia.
Una gestione evoluta da parte dell’AD dello strumento di G2G non potrebbe prescindere da un potenziamento di coordinamento tra gli organismi dell’AD e dei vari discasteri (per esempio Ministero Affari Esteri, Ministero Sviluppo Economico) che potrebbero essere interessanti, anche in visione duale. Oltre agli organismi istituzionalmente demandati alla cooperazione come Stato Maggiore della Difesa e Forze Armate, i principali attori che potrebbero essere particolarmente interessati a possibili sviluppi sono:
■ L’Ufficio di Coordinamento della Produzione di Materiali di Armamento (UCPMA), istituito dall’articolo 8 della Legge 9 luglio 1990, n.185, che fornisce supporto all’autorità politica nello sviluppo di tematiche afferenti la produzione nazionale dei materiali di armamento, sui problemi e sulle prospettive di questo settore produttivo in relazione all’evoluzione degli accordi internazionali. Tale ufficio contribuisce anche allo studio e alla individuazione di ipotesi di conversione delle imprese e, inoltre, identifica le possibilità di utilizzazione dei materiali di armamento per usi non militari;
■ Ministero degli Affari Esteri (UAMA): con la pubblicazione del decreto legislativo 22 giugno 2012, n. 105, di recepimento della direttiva europea 2009/43/CE, è stata modificata ed integrata la legge 9 luglio 1990, n.185. Il suddetto decreto attribuisce al Ministero degli Affari Esteri il compito di:
ed individua l’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento (UAMA), del Ministero degli Affari Esteri, quale Autorità Nazionale competente per il rilascio delle autorizzazioni per l’interscambio dei materiali di armamento e per il rilascio delle certificazioni per le imprese e per gli adempimenti connessi alla materia disciplinata dalla Legge 9 luglio 1990, n. 185;
■ L’Addetto Militare adempie istituzionalmente ai compiti seguenti:
a) consiglia il capo missione in merito a tutte le questioni riguardanti la politica di sicurezza e gli affari militari;
b) accoglie e analizza informazioni sugli sviluppi riguardanti la politica di sicurezza e gli affari militari negli Stati di accreditamento;
c) esercita la funzione di ufficiale di collegamento con il Ministero della Difesa e le Forze Armate e promuove le relazioni bilaterali e la cooperazione bilaterale in ambito militare;
d) funge da interlocutore per tutte le questioni militari e della politica di sicurezza e stringe contatti sia per armasuisse sia per le aziende che operano sul mercato degli armamenti;
e) organizza e gestisce le visite ufficiali di funzionari di alto rango e di militari all’estero.
Una gestione evoluta da parte dell’AD dello strumento di G2G potrebbe condurre ai seguenti benefici economici:
■ Una maggior competitività della proposta fornita potrebbe condurre ad un aumento del mercato accessibile del comparto industriale italiano e delle sue eccellenze tecnologiche, con conseguente ricadute sul PIL e a livello occupazionale;
■ Il possibile coinvolgimento delle istituzioni e imprese coinvolte nella ricerca e sviluppo su «piani duali» potrebbe permettere una maggior focalizzazione sulle tecnologie chiave e il mantenimento dell’eccellenza tecnologica nel medio-lungo termine;
■ A seguito della «Decreto del Fare» l’AD può svolgere per conto di altri Stati esteri con i quali sussistono accordi di cooperazione o di reciproca assistenza tecnico-militare, e tramite proprie articolazioni, attività di supporto tecnico-amministrativo per l’acquisizione di materiali di armamento prodotti dall’industria nazionale anche in uso alle Forze Armate e per le correlate esigenze di sostegno logistico e assistenza tecnica. Il reinvestimento di tali risorse per focalizzare sulle specializzazioni operative dell’AD potrebbe condurre ad efficienze interne e cicli virtuosi.
L’Europa e l’Italia stanno attraversando un momento di profonda ristrutturazione del comporto difesa guidato da drivers diversi quali la crisi finanziaria, che induce le amministrazioni e le industrie coinvolte a forti efficienze e scelte di specializzazione, e lo scenario internazionale che vede ingenti mutamenti nel settore della domanda. Sulla base di queste spinte il Ministero della Difesa, a seguito dell’approvazione del «Decreto del Fare» che ha reso operativo e ufficiale lo strumento dei G2G in Italia a supporto del comparto difesa (art. 48), potrebbe cogliere l’opportunità di usare tale strumento, evolvendo il proprio ruolo nella sua partecipazione alle attività di cooperazione industriale, trasformandosi in attore chiave della promozione del «Sistema Paese» nell’ambito della difesa, sia a supporto del comparto industriale e sia a vantaggio di un diretto payback utile per sostenere con risorse autonome parte dello spending per la difesa.
In un tale contesto, il Ministero della Difesa avrebbe il compito di coordinare il comparto industriale nelle fasi di lancio di programmi di lungo respiro – si pensi in Brasile al programma navale PROSUPER – che coinvolgono «sistemi di sistemi» e dove l’esperienza già maturata sul campo dal destinatario finale rappresenta per i paesi che richiedono un’offerta integrata il vero valore aggiunto. In sintesi, il Ministero della Difesa potrebbe presentare al Ministero della Difesa della nazione cooperante un’offerta integrata multipiattaforma, supportata dal pool di industrie nazionali (ed europee), con un approccio top down, dando una visione di come il requisito nazionale di missione è Stato, come dire, «taylorato» nel prodotto e validato sotto la sua supervisione.
Questo approccio oltre a rappresentare un benchmark di livello verso il paese richiedente, spesso in cerca guida in tale ambito, permetterebbe al Ministero della Difesa di offrire supporto logistico – ad esempiotraining – con un evidente ritorno economico. Un’ulteriore conseguenza potrebbe essere quelle di specializzare l’offerta dell’industria nazionale e dello stesso Ministero della Difesa comportando possibili concentrazioni e alleanze di settore. Tuttavia l’evoluzione di ruolo da parte dell’AD nella gestione di programmi di cooperazione bilaterale non potrebbe prescindere da un’attenta analisi organizzativa che assicuri le competenze necessarie per permettere un’integrazione con la filiera industriale. In questo contesto potrebbe ricoprire fondamentale importanza il ruolo degli addetti militari all’estero.
I gruppi brasiliani Odebrecht ed Embraer stanno adottando una strategia di espansione trasversale sul mercato della difesa, conquistando porzioni di mercato attraverso acquisizioni di aziende locali o creazione dijoint venture con imprese nazionali e straniere. Gli obiettivi primari sono non solo il consolidamento di unaleadership nazionale su definite aree di mercato, come ad esempio in quello navale, ma anche quello di meglio gestire l’offset e il trasferimento di tecnologia imposto alle aziende straniere.
Gruppo Odebrecht: Multinazionale settore costruzioni, ingegneria ambientale, immobiliare, energia, petrolio, gas e biocombustibili, ha 90.000 dipendenti in 17 paesi e un fatturato di 20 miliardi di dollari nel 2009. L’ingresso nel settore della difesa, avviato nel 2009 con la costituzione di una joint venture con DCNS per la costruzione dei sottomarini nucleari, procede con:
■ L’acquisizione del 67% della joint venture COPA Gestão em Defesa insieme ad Atech (27%) e Penta Prospectiva Estratégica (10%) per l’acquisizione e gestione di contratti nel settore della difesa;
■ La costituzione di una joint venture con quota di controllo, con la EADS Defence & Security (oggi Cassidian) per l’acquisizione di know how nel settore delle tecnologie militari;
■ La negoziazione finalizzata all’acquisizione della società brasiliana Mectron che produce sistemi missilistici terra-terra e terra-aria. La Mectron è una tra le principali medie imprese destinatarie di offset in quasi tutti i programmi della difesa;
Embraer Defence Systems: nasce il 1° gennaio 2011 la nuova business unit di Embraer (8% del totale attività di Embraer) con l’obiettivo di ampliare la propria sfera di attività dal settore avionico a quello navale e terrestre. Embraer intende perseguire l’iniziativa attraverso partnership strategiche con industrie straniere. E’ il principale fornitore della FAB e conta, su 1.500 dipendenti, ricavi per 850 milioni di dollari e fatturato di oltre 3 miliardi di dollari.
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Figura 6: presenza industriale straniera in Brasile
Le possibili evoluzioni degli accordi di cooperazione G2G tra Italia e Brasile – ma generalizzabili anche ad altre aree del mondo, in linea con le disposizioni ministeriali del 2013 confermate dai primi passi evidenziati dal «Decreto del Fare» e rafforzate da precedenti esempi in tale ambito (ad esempio FMS Americano) – potrebbero mostrare un graduale aumento del ruolo del Ministero della Difesa nella partecipazione alle attività di cooperazione industriale, in quanto promotore di primo livello del «Sistema Paese» nell’ambito di programmi bilaterali di cooperazione per la difesa, con tutti i possibili ritorni precedentemente evidenziati.
AA.VV “Progressive Intelligence, The Brazilian Defense Sector – Market Opportunity and Entry Strategy, Analyses and Forecasts to 2015“, 2010.
AA.VV. “Nomos & Khaos. Rapporto Nomisma 2012-2013 sulle prospettive economico strategiche“, Agra Editrice, Roma, 2013.
MINISTERO DELLA DIFESA, “Direttiva Ministeriale in merito alla Politica Militare per l’anno 2013“, Roma, 2013.
SUÁREZ JIMÉNEZ A.V., “La Industria de la Defensa y Seguridad en América Latina 2012 – 2013“, Madrid, 2013.
NONES M., “Le attività strategiche chiave: aspetti metodologici, giuridici, industriali e militari“, Roma, 2012.

Andrea Capuani è program manager in Elettronica S.p.A.