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lunedì 23 febbraio 2015

L'Italia si allinea con gli altri paesi europei

Lotta al Califfato
Anti-terrorismo, il nuovo decreto
Mirko Sossai
19/02/2015
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La risposta italiana agli attacchi di Parigi è arrivata con il decreto-legge in materia di contrasto al terrorismo adottato dal Consiglio dei ministri lo scorso 10 febbraio.

Le misure adottate - sia l’introduzione di nuove figure di reato sia taluni strumenti preventivi - rispondono anche all’esigenza di dare attuazione nel nostro paese agli obblighi derivanti dalla risoluzione 2178 (2014), con la quale il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (Cds) ha affrontato il dilagare del fenomeno dei foreign fighters, i combattenti stranieri.

Il decreto si allinea ad analoghe misure adottate da altri paesi europei. Come è stato già osservato, vi sono ora forti aspettative rispetto al ruolo che l’Unione europea (Ue) potrà rivestire nel sostegno agli sforzi degli stati membri, nell’armonizzazione delle misure, nello scambio di informazioni e nella lotta all’estremismo e alla radicalizzazione.

Risoluzione 2178
Con l’approvazione, lo scorso settembre, della risoluzione 2178 (2014), il Cds ha imposto agli stati l’adozione di misure di carattere generale nella lotta al terrorismo internazionale. Non è un fatto nuovo: era già avvenuto con le risoluzioni 1373 (2001) e 1540 (2004).

Si tratta di decisioni criticate, perché con esse il Cds avrebbe esercitato poteri legislativi non previsti dalla Carta dell’Onu. Resta il fatto che la risoluzione 2178 riflette l’urgenza di contrastare, secondo un approccio globale, la complessità e le trasformazioni in atto nell’estremismo islamista.

L’approccio preventivo della risoluzione 2178 poggia su tre pilastri: il contrasto alla radicalizzazione e all’estremismo violento; le misure di prevenzione in senso stretto, soprattutto rispetto ai controlli sul movimento dei sospetti terroristi; la risposta giudiziaria, nel senso dell’anticipo della tutela penale, erigendo a reati atti c.d. preparatori, ossia che precedono la commissione di un atto terroristico.

Lotta all’istigazione al terrorismo
Il decreto-legge costituisce in parte l’attuazione di misure che ricadono negli ultimi due pilastri. Quanto all’introduzione di nuove figure di reato, il decreto recepisce il contenuto della risoluzione quando punisce chi organizza, finanzia e propaganda viaggi per scopi terroristici.

Riflette pure la preoccupazione del Cds rispetto all’ istigazione del terrorismo mediante le nuove tecnologie, il previsto aggravamento delle pene stabilite per tale delitto se commesso attraverso strumenti telematici.

In attesa di conoscerne l’esatto contenuto, il decreto prevede anche la punibilità non solo del reclutatore, ma pure del soggetto reclutato con finalità di terrorismo, anche fuori dai casi di partecipazione ad associazioni con tali finalità, come pure di chi si “auto-addestra” alle tecniche terroristiche.

L’espansione delle forme di preparazione e partecipazione ad atti di terrorismo è questione assai delicata. La risoluzione 2178 è stata ad esempio criticata sotto questo profilo, soprattutto per la mancanza in essa di una definizione di terrorismo, e per i rischi di abuso che ne possano derivare, quanto al rispetto del principio di legalità e più in generale dei diritti umani, nonostante il continuo riferimento ad essi in diversi passaggi della decisione.

Sarebbe infatti auspicabile un aggiornamento della Decisione-quadro dell’Ue sulla lotta al terrorismo, per una definizione armonizzata anche di queste nuove figure di reato.

Intelligence e prevenzione
Quanto agli strumenti di carattere preventivo, la risoluzione 2178 ribadisce l’obbligo di prevenire i movimenti di terroristi attraverso controlli alle frontiere e sul rilascio dei passaporti.

In ambito europeo, diversi stati hanno introdotto misure relative al ritiro dei permessi di soggiorno e dei documenti di viaggio, come anche di revoca della cittadinanza. È quest’ultimo aspetto a destare preoccupazione sul piano giuridico, soprattutto con riguardo agli ampi poteri che il governo britannico ha esercitato nel privare della cittadinanza sospetti terroristi, anche se vi fosse stato un rischio di apolidia.

Nel decreto-legge sono contenute misure del primo tipo, dal momento che prevede la facoltà del Questore di ritirare il passaporto ai soggetti indiziati di terrorismo, all’atto della proposta di applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno.

Uno strumento fondamentale di prevenzione è inoltre la rilevazione degli spostamenti dei sospetti terroristi e la condivisione delle informazioni tra gli stati. Oltre al tema dell’acquisizione dei dati sui passeggeri alla prenotazione del viaggio, una questione fondamentale riguarda l’acquisizione e il trasferimento su base bilaterale e multilaterale delle informazioni dei servizi di sicurezza.

Diverse sono le misure che nel decreto riguardano la protezione e le attività delle agenzie di intelligence, compresa la possibilità di effettuare colloqui con soggetti detenuti o internati.

Risponde infine alla necessità di un coordinamento su scala nazionale delle indagini relative a procedimenti penali e procedimenti di prevenzione in materia di terrorismo, l’attribuzione di tali funzioni al Procuratore nazionale antimafia.

Mirko Sossai è ricercatore di diritto internazionale all’Università Roma Tre.
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Libia: fare sul serio ed agire rapidamente

Libia, bilancio provvisorio
La diplomazia può giocare, ma deve fare in fretta
Giuseppe Cucchi
23/02/2015
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Come la principessa delle fiabe, sino a poco tempo fa l'Unione europea (Ue) è rimasta al verone, senza fare null’altro che aspettare, nella speranza, forse, che si presentasse un Principe Azzurro, sul suo bel cavallo bianco, pronto a liberarla, possibilmente senza contropartita e senza spese, dall’assedio minaccioso dei draghi.

Dalla tenaglia delle crisi alla presa di coscienza
Ci siamo ritrovati così chiusi in una tenaglia, minacciati a Nord Est dai sussulti dell'orgoglio nazionalista russo, insidiati a Sud da un terrorismo islamico sempre più insidioso e violento.

Due fattori hanno giocato in particolare a sfavore dell’Italia. Il primo: l'abitudine europea a considerare sempre di priorità maggiore quanto accade alle frontiere di Nord Est rispetto a ciò che avviene a Sud. Il secondo: che a complicare una situazione mediterranea già di per sé difficile contribuiscono ora flussi di migranti di dimensioni tali da divenire anch’essi, se non una minaccia perlomeno un grave problema.

Gli avvenimenti degli ultimi giorni sembrano avere riscosso le coscienze, suscitando un allarme che è servito ad innescare un primo serio esame di situazione. Merito delle bandiere nere dell'Isis apparse a Derna e nella Sirte? Probabilmente.

In fondo i due migliori motori dell'Europa sono sempre stati la frustrazione e la paura e soltanto in momenti di particolare paura e frustrazione essa è riuscita ad aver ragione delle remore nazionalistiche dei paesi membri ed a fare decisivi passi avanti.

L'azione è per ora soltanto politica e diplomatica, mentre i tempi per un eventuale intervento militare non sono stati giudicati ragionevolmente maturi né alle Nazioni Unite né in Europa. C' è stato, è vero , qualche primo tintinnare di sciabole. Persino a casa nostra, ove di solito qualsiasi soluzione politico/diplomatica, anche la più orrenda, è considerata migliore di ogni ipotesi di coinvolgimento militare.

Si è trattato probabilmente solo di ciò che gli addetti ai lavori chiamano "gesticolazione verbale", o forse di una edizione italiana del "gioco dei due gendarmi ", quello cattivo e quello buono, ma in conclusione ha consentito di definire meglio la nostra posizione nei tre ambiti, delle Nazioni Unite, atlantico ed europeo, cui facciamo riferimento.

Per tacere poi del quarto ambito, quello di Santa Romana Chiesa, pure importante in situazioni che coinvolgono un’altra grande religione monoteistica, minoranze cristiane embedded nei paesi a rischio dell'oltremare ed il fenomeno della emigrazione che il Vaticano segue da vicinissimo e patrocina con vigore.

Il tempo per agire c’è
Sulla decisione di non ragionare subito in termini militari, come proponeva l'Egitto al Consiglio di Sicurezza, ma di continuare a valutare ciò che sta accadendo in Libia e di cercare nel contempo di far sedere intorno al medesimo tavolo i più rilevanti ed accettabili dei protagonisti locali hanno di sicuro influito anche gli avvenimenti degli ultimi giorni.

Da un lato la reazione egiziana, che rassicura sul fatto che, anche in assenza di un impegno delle Nazioni Unite, le forze libiche più moderate e meno discutibili dal punto di vista politico - vale a dire il Governo di Tobruk e le milizie del gruppo del Generale Haftar (Dignità) - non resteranno prive di un supporto esterno di fuoco nel caso in cui la situazione improvvisamente si aggravi.

Dall'altro l'attacco alle forze Isis condotto da una Brigata di élite delle milizie di Misurata. Una azione di cui per il momento è ben difficile valutare contorni, intensità e risultati ma che comunque evidenzia con estrema chiarezza come i signori della guerra libici non abbiano alcuna voglia di lasciarsi colonizzare dai neri drappelli del Califfo.

Nel loro insieme, questi fattori suggeriscono che, malgrado l’urgenza della crisi, resta comunque abbastanza respiro per compiere un ulteriore tentativo di trovare una soluzione “libica”, anche se da definire in ambito Nazioni Unite, con l’aiuto di un concerto di paesi - fra cui i membri dell'Ue dovranno assumersi un onere ed un ruolo rilevante - sino al suo consolidamento.

Per arrivare a conseguire un simile risultato bisogna però essere disposti ad impegnarsi con serietà, il che significa ad usare gli strumenti di volta in volta più adeguati al continuo mutare di un panorama per sua natura estremamente fluido ed a partire dall'idea di non lesinare sulle risorse anche se il processo di pacificazione dovesse nel tempo rivelarsi più costoso di quanto inizialmente previsto. Un incidente che si verifica con impressionante regolarità allorché si affrontano problemi di questo tipo.

Però bisogna fare sul serio e rapidamente
Lo abbiamo fatto in passato? C'è da dubitarne. Quando si è trattato di addestrare i soldati di quello che allora era il Governo regolare ed universalmente riconosciuto della Libia i numeri dell'operazione sono stati ridicoli, sia in assoluto che confrontandoli all'esigenza.

I grandi paesi hanno inoltre sempre cercato di non essere direttamente coinvolti in alcuna iniziativa, in maniera da non dover in alcun modo rispondere di eventuali prevedibili fallimenti.

Le stesse Nazioni Unite nel momento in cui hanno dovuto indicare un mediatore non hanno scelto un politico di vaglia e di peso, cui l'esperienza e le conoscenze maturate in una vita di incontri internazionali conferissero la necessaria personale autorevolezza. Si sono invece limitate a designare un diplomatico, cioè un funzionario, figura che per quanto brillante essa sia non è sinora riuscita ad adeguarsi al ruolo.

Lo faremo in futuro? C'è se non altro da augurarselo e di augurarsi altresì che almeno per una volta ci si muova con la dovuta rapidità.

Due gesti saranno indicativi. Il primo: la sostituzione dell'attuale mediatore con una figura politica di rilievo adeguato. Il secondo: l'assunzione da parte degli Stati Uniti di un atteggiamento più deciso di quello che essi hanno avuto sino ad ora. In fondo, se vogliamo parlare con sincerità e fuori dai denti, l'attuale destabilizzazione del mondo arabo islamico ha alla sua origine anche quindici anni di politica deludente e di guerre sbagliate degli Stati Uniti.

Se poi anche la Russia si decidesse a dare una mano, come sembra ora auspicare il nostro Presidente del Consiglio, tutto si rivelerebbe più agevole e forse il fatto di lavorare insieme a Sud ci renderebbe più facile trovare soluzioni concordate anche per il Nord Est europeo.Ma questa è tutta un’altra storia.

Giuseppe Cucchi, Generale, è stato Rappresentante militare permanente presso la Nato e l’Ue e Consigliere militare del Presidente del Consiglio dei Ministri.
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sabato 21 febbraio 2015

Libia: un intervento? I Pro e i contro di un problema da affrontare

Medio Oriente
In Libia a giocarci la faccia
Stefano Silvestri
16/02/2015
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L’Italia, afferma il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, è pronta a fare la sua parte e non intende sottrarsi alle sue responsabilità. Si parla evidentemente della Libia, dove la situazione va peggiorando.

I negoziati condotti dall’inviato delle Nazioni Unite, Bernardino León, non hanno alcun impatto sul terreno. Gli scontri armati si moltiplicano mentre il quadro conflittuale si destruttura rapidamente, mettendo in ombra i due schieramenti più noti, che si riconoscono l’uno nel Parlamento che siede a Tobruk (riconosciuto internazionalmente) e l’altro in parti del vecchio Parlamento di Tripoli.

Non si era mai trattato di raggruppamenti coerenti e coesi, quanto del temporaneo convergere degli interessi di centinaia di bande e micro-gruppi dietro alla leadership politico-militare di pochi più decisi signori della guerra, ma ora sembriamo vicini allo sfascio generale, a maggior gloria dei terroristi puri e duri, quelli tradizionalisti di Al-Qaida (Ansar Al-Sharia), in perdita di velocità, e quelli vicini a Daesh (lo pseudo-califfato).

Quest’ultimo in particolare sembra in fase crescente, con la conquista almeno temporanea di un terminale petrolifero e l’ottenuto riconoscimento da parte del “califfo” dei suoi tre Wilayat libici (Al-Barqah, ad oriente, Al-Tarabulus, ad occidente e Al-Fizan a Sud).

È evidente che bisognerà fare qualcosa per controllare e ridurre la minaccia, ma che cosa, con chi e come? Tutto questo deve ancora essere chiarito.

Possibili alleati con preferenze
L’unica cosa che Gentiloni ripete continuamente è che intendiamo muoverci solo nell'ambito legale multilaterale, preferibilmente quello stabilito dalle Nazioni Unite. Il Consiglio di Sicurezza non però sembra vicino ad esprimersi. Ci sono alternative, ma rimane comunque la domanda di fondo: con chi e per fare che?

In Libia sono già attivi svariati attori internazionali, legittimi e illegittimi, e ognuno ha i suoi obiettivi. Ad esempio è presente l’Egitto, assieme agli Emirati Arabi Uniti e all'Arabia Saudita. Questi paesi sono certamente interessati a combattere Daesh, che è anche operativo nel Sinai, contro le truppe egiziane, ed in genere questi paesi vogliono la messa al bando dei movimenti politici islamici ispirati ai Fratelli Mussulmani.

Il problema è che è difficile immaginare una conclusione positiva dei conflitti libici che non veda la collaborazione di una parte almeno dei movimenti politici di tale ispirazione, anche se dovrà essere più chiara la divisione tra terroristi e non.

La Turchia ha attivamente aiutato, contribuito ad armare e sostenuto politicamente i Fratelli Mussulmani di Misurata e di Tripoli, arrivando anche a subire imbarazzanti vicinanze con i terroristi di Ansar Al-Sharia. Proprio per questo ha pessimi rapporti con l’Egitto e i sauditi, ma potrebbe diventare un passaggio obbligato per definire un eventuale obiettivo politico comune a più schieramenti.

In ogni caso bisognerà evitare alleanze troppo motivate ideologicamente che potrebbero facilmente portare a una spartizione dei fatto della Libia in due o tre territori, ognuno in preda alla sua forma locale di guerriglia e sostanzialmente ingovernabile. Lo spettro della Somalia è vicino.

Alleati europei cercasi, specie se capaci
Essenziale è anche capire che cosa faranno i nostri alleati europei. L’Italia non può né deve andare in Libia per conto suo, magari con una generica benedizione statunitense, e poi trovarsi a mediare con i turchi da una parte e gli egiziani dall'altra: è la ricetta di un disastro annunciato, a tutti i livelli.

D’altro canto deve avere il supporto deciso e consistente di almeno un paio di altri grandi paesi europei: sarebbe bello se ci fosse anche la Francia (ammesso di riuscire a stabilire un piano politico comune), ma ci dovranno comunque essere la Germania e magari la Spagna e la Polonia. Capisco che altri vedano al loro orizzonte essenzialmente l’Ucraina, ma i problemi del Mediterraneo non sono certo né meno urgenti, né meno gravi.

Le opzioni militari possono essere svariate, ma l’ideale sarebbe quello di ottenere un accordo per nuove elezioni politiche da condurre sotto il controllo delle Nazioni Unite, o quanto meno dell’Unione Africana, con la garanzia delle forze della missione internazionale, che dovrebbe poi lasciare rapidamente il paese.

Il parallelo potrebbe essere quello con la “Missione Alba” che conducemmo in Albania in un momento di dissoluzione dello stato e riuscì a spezzare il circolo vizioso, dando inizio ad un nuovo ciclo molto più “virtuoso”.

A differenza di quell'esempio, che quasi non vide l’uso effettivo della forza, questa volta è probabile che la lotta al terrorismo debba vedere alcune operazioni militari di una certa consistenza e sicuramente importanti attività di sorveglianza delle frontiere meridionali e dell’intera regione desertica.

Tuttavia, in questo caso, sarebbe bene non immaginarsi un avversario molto più potente di quello che in realtà non sia. Tutto dipenderà però dalla bontà e dalla tenuta dell’accordo politico iniziale tra le parti che avranno accettato di invitarci a operare nel loro paese.

Se non c’è accordo, stare sulla difensiva
Se tale accordo si rivelasse impossibile, le alternative sono molto meno piacevoli e soddisfacenti. In particolare potrebbe divenire non solo legalmente più difficile, ma strategicamente non opportuno, dispiegare forze sul territorio libico e bisognerà adottare una strategia essenzialmente difensiva.

Questo non significa rintanarsi in casa in attesa degli attacchi avversari, ma preoccuparsi molto meno delle conseguenze che le nostre scelte avranno sulla Libia e sul suo futuro: primum vivere.

Un rigido blocco aero-navale, ad esempio, potrebbe essere accompagnato da incursioni e altre operazioni sul territorio libico per assicurarne la tenuta e sventare eventuali attacchi.

Potrebbe anche essere opportuno, in collaborazione con i paesi confinanti della Libia, intervenire massicciamente e/o selettivamente contro gruppi di contrabbandieri di armi e di uomini e in genere per bloccare ogni flusso trasfontaliero incontrollato.

Analogamente intensa e invasiva dovrebbe essere l’attività di intelligence. Tutto ciò sarebbe giustificato dalla incapacità o non volontà delle autorità libiche di controllare i nostri nemici, ma inevitabilmente renderebbe anche più difficile distinguere tra amici e nemici, con conseguenze negative per tutti.

Questi sono i due estremi opposti di un eventuale intervento in Libia: di gestione della crisi il primo, strettamente difensivo il secondo. Vedremo se andremo nell'una o nell'altra direzione, o ne tenteremo qualcun’altra. Una cosa però sembra certa, non sarà possibile dimenticarsi un’altra volta della nostra vecchia quarta sponda.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI
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venerdì 13 febbraio 2015

Novità nel nostro colosso

Industria della difesa
Finmeccanica, più concentrata, più competitiva, più magra
Michele Nones
07/02/2015
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Il piano industriale di Finmeccanica presentato recentemente dall’amministratore delegato Mauro Moretti chiude un lungo capitolo della storia del principale gruppo industriale italiano nel settore delle tecnologie avanzate.

Già questo è un importante segnale rivolto al mercato, ai clienti, agli investitori e ai dipendenti. Per tre anni Finmeccanica è rimasta in mezzo al guado senza che nessuno definisse chiaramente la strategia del gruppo.

Il rischio era ormai quello che, anziché chiudere un capitolo per iniziarne un altro, alla fine si chiudesse la storia di Finmeccanica. In un mercato sempre più competitivo ritardi e incertezze diventano, infatti, un fattore di penalizzazione, soprattutto per le imprese meno forti.

Focus sul core business
Già da tempo il core business di Finmeccanica è rappresentato da aerospazio, sicurezza e difesa, inevitabile conclusione del processo di concentrazione della maggior parte delle industrie italiane dell’aerospazio e difesa iniziato nei primi anni Novanta.

Energia, impiantistica, trasporti, erano diventati corpi estranei (anche al di là dei costanti negativi risultati degli ultimi due). Erano, e restano, troppo piccoli per sopravvivere autonomamente. Di qui la necessità di trovare dei partner di mestiere che meglio li possano gestire e sostenere.

Su queste inevitabili cessioni si è però estesa a lungo l’ombra di un azionista pubblico che non ha saputo né dare chiare indicazioni strategiche, né scegliere su basi professionali i vertici, né assicurare l’autonomia e il sostegno necessari.

Nell’ultimo anno il vento è, per fortuna, cambiato: il rinnovamento governativo ha consentito quello aziendale e si sono potuti accantonare i vecchi tabù.

Va però anche riconosciuto che, con una inaspettata lungimiranza, governi e parlamento precedenti hanno lasciato in eredità al paese una normativa sul controllo degli investimenti nei settori strategici che sta risultando indispensabile per accettare l’intervento degli investitori esteri, gli unici interessati visto che non si vedono in giro “capitani coraggiosi” nazionali.

Un’unica impresa più competitiva
Un secondo importante e, invece, nuovo segnale è la decisione di concentrare le attività core in Finmeccanica, accorciando la catena decisionale ed eliminando duplicazioni gestionali e societarie.

Certo le diverse aziende del gruppo provengono da storie diverse e operano in segmenti di mercato diversi, ma un decennio (e a volte anche di più) poteva essere più che sufficiente per omogeneizzarle. Anche in questo caso resta il forte sospetto che, in realtà, la vecchia struttura sia servita soprattutto per garantire troppi dirigenti, consiglieri di amministrazioni, sindaci, consulenti, ecc.

Ancora più grave è l’articolata struttura del gruppo che ha portato a sovrapposizioni di attività e, in alcuni casi, persino a dannose competizioni infra-gruppo.

Il processo di concentrazione dell’industria aerospaziale e militare che si è sviluppato in tutto il mondo in questi ultimi venti anni è servito per rafforzare, ma anche per razionalizzare i grandi gruppi internazionali. Finmeccanica fino ad ora ha fatto la prima parte, rinviando continuamente la seconda. Ora può cominciare, con la consapevolezza che servirà una forte volontà per vincere ostacoli e resistenze.

Un terzo e altrettanto nuovo segnale è la decisione di rafforzare e concentrarsi sulle aree di eccellenza all’interno di aerospazio, sicurezza e difesa.

Finmeccanica ha un eccessivo ventaglio di prodotti: deve focalizzarsi su quelli più avanzati e competitivi. Il suo riferimento deve essere il mercato internazionale: quello nazionale non è più sufficiente e va, quindi, presidiato là dove vi sono programmi internazionali o prospettive di poter trovare clienti esteri.

Finmeccanica è un gruppo transnazionale con attività in Italia, Regno Unito e Polonia. Il mercato statunitense è, invece, completamente separato e anche i gruppi europei che vi operano lo fanno con una forte autonomia.

In quest’ottica la valutazione sull’opportunità di mantenere il controllo di Drs sarà presa successivamente, anche considerando i risultati dell’efficientamento in corso e il valore strategico dell’investimento.

Diverso il caso delle joint-venture europee a cui Finmeccanica partecipa. Potrebbero essere considerate strategiche se il paese le ritenesse tali e conseguentemente le alimentasse sostenendo la ricerca e sviluppo e la domanda istituzionale.

In caso contrario sarebbe preferibile utilizzarle per rafforzare e allargare le aree di eccellenza tecnologica che caratterizzeranno la Finmeccanica di domani. E’ una scelta che deve coinvolgere governo, amministrazioni e parlamento insieme a Finmeccanica, tenendo presente che la globalizzazione e l’aumento della competizione comportano che si possa rimanere player solo in poche attività.

Una Finmeccanica più etica 
Finmeccanica nell’ultimo triennio ha tagliato molte spese inutili. Va, però, riconosciuto al nuovo vertice il merito di aver impresso un nuovo stile di lavoro e di rapporti col mondo esterno. Tutto questo, per altro, sta avvenendo in sintonia con il cambiamento in corso nell’intero paese.

Da questa nuova base si può ora partire per rafforzare nella nostra opinione pubblica e nei decisori politici la consapevolezza che Finmeccanica è un assett strategico per il nostro paese e che mantenere significative capacità tecnologiche e industriali consente di contribuire ad assicurare la sicurezza e la difesa della nostra società.

Michele Nones è Direttore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI.
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giovedì 5 febbraio 2015

Il dramma del Debito greco e l'Italia: l'ospedale aiuta la chiesa?

Il Tour d’Europa di Tsipras
Renzi gli regala una cravatta, “Mettitela”
Giampiero Gramaglia
04/02/2015
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Il Tour d’Europa del premier greco Alexis Tsipras inizia con tappe di pianura, a Parigi e a Roma, prima d’affrontare i tapponi delle grandi salite a Bruxelles e a Berlino.

E la prossima settimana ci sarà la prova a squadre: il Consiglio europeo del 12 e 13, deciso per discutere del ‘piano Juncker’, sarà pure l’occasione per un confronto collettivo con il leader della sinistra radicale il cui successo è una condanna della troika, che pare sul punto di sciogliersi - Bce e Fmi vorrebbero sfilarsi - e dell’austerità.

“L’Europa deve riprendere fiato”, proclama Tsipras. E, nei primi contatti, trova sponde in Francia e in Italia. Ma la spinta più convinta al partito della crescita arriva dal presidente Usa Barack Obama - e non è una sorpresa.

“Stop all’austerity”, dice Obama, presentando una finanziaria che aumenta le tasse ai ricchi e alle multinazionali e prevede sgravi alle famiglie e un rilancio delle infrastrutture. “L’America torni a spendere”; e lo faccia pure l’Europa.

Tsipras e Varoufakis 
Tsipras, che percorre l’Unione in tandem con il ministro dell’economia Yannis Varoufakis, l’ideologo marxista già divenuto lo spauracchio dei colleghi, chiede tempo, se non soldi. E l’Italia pare disposta a concederglielo: il premier Matteo Renzi è pronto a dare una mano al collega greco, anche se ciò non significa necessariamente dargli ragione.

Anzi, dopo avere dato la sensazione d’accarezzare l’idea di un partito europeo dei leader giovani, senza cravatta e in maniche di camicia - ma quella di Tsipras non è quasi mai bianca -, Renzi prende un po’ le distanze: ad Alexis, regala una cravatta, “Mettila - gli dice - quando la crisi sarà finita”. Forse il premier italiano s’è reso conto che di quel partito non sarebbe lui la guida.

Fra i due leader, in conferenza stampa, non mancano le battute. Renzi la mette sullo storico: "Grecia e Italia sono 'superpotenze' del passato e sapranno collaborare in futuro". E poi scherza: "Mi metto alla tua sinistra, anche se non è facile". E quando Tsipras dice “parliamo una lingua comune”, l’italiano ammicca: "O il liceo classico non serve, o il greco moderno è molto diverso dall’antico...".

Varoufakis raccoglie risultati più concreti. Il ministro francese Michel Sapin promette: “Aiuteremo la Grecia, che resterà nell’euro … A tutti servono crescita e investimenti”. Con il ministro italiano Pier Carlo Padoan, si progetta un “prestito ponte”, in attesa di un nuovo accordo tra Ue e Grecia, che rimpiazzi i piani di aiuti degli ultimi anni. Idee da approfondire quando Varoufakis incontrerà prima il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi e poi il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble.

Dopo il colloquio con Renzi, Tsipras afferma: "L'Europa è davanti a un crocevia. La Grecia vuole contribuire al cambiamento. Ci serve tempo per un progetto di ripresa economica a medio termine, che richiederà riforme a tutto campo".

Tsipras aggiunge: “In Grecia abbiamo avuto clientelismi, corruzione, ma vogliamo cambiare, senza creare nuovo deficit e con equilibrio nei bilanci, senza rinunciare alle riforme e garantendo i servizi sociali. Serve un'agenda di crescita che porti a strutture pubbliche più funzionali e adeguate alle esigenze dei cittadini ".

Il premier italiano si schiera al suo fianco: "Darò il massimo supporto al premier Tsipras, in termini di disponibilità al dialogo in tutte le sedi e di cooperazione bilaterale". I concetti del leader greco, del resto, echeggiano tesi care a quello italiano, che nell’esito del voto in Grecia legge il messaggio “di speranza di un'intera generazione che chiede più attenzione e riguardo per chi subisce la crisi”.

"Serve un cambio in Europa - incalza Tsipras: dobbiamo portare coesione e crescita dove c’è paura e incertezza". "La nostra generazione - aggiunge, rivolgendosi a Renzi - è stata bersaglio di scelte politiche sbagliate, una generazione che ha sofferto e che è dovuta emigrare per sognare e vivere con dignità. Dobbiamo lottare per farla sperare in prospettive migliori".

Trattativa con i partner europei su debito e misure
Davanti, però, c’è la trattativa con i partner europei su debito e misure. E, qui, il premier italiano si fa istituzionale: "Tutti vogliamo che nell’Unione si rispettino le regole, ma anche che si riconoscano i valori comuni … Credo che si possa trovare un punto di intesa con le istituzioni europee".

Il greco, che dopo le elezioni alterna massimalismo e prammatismo, e che strizza l’occhio alternativamente a Bruxelles e a Mosca, non forza: "Siamo aperti ai suggerimenti dei partner, ma siamo contro la logica che ha portato al fallimento … Siamo pronti a vagliare tutte le alternative, purché si vada verso la crescita e non verso l'austerità". E i creditori italiani - rassicura - non temano per i loro soldi.

I partner europei vogliono soprattutto capire quali sono gli obiettivi greci. La Commissione appare per il momento dialogante: “Troveremo una soluzione - assicura il responsabile dell’Economia Pierre Moscovici. Ma Atene rispetti gli impegni”. La permanenza della Grecia nell’euro e nell’Ue è condivisa dalla Germania, contraria però a tagliare il debito e disponibile a forme di solidarietà solo in presenza di riforme da parte di Atene.

Renzi la vede così: "Ci sono due questioni diverse sul tappeto. Una è la direzione dell'economia nell’Unione: dobbiamo portare l'Europa a parlare di crescita e non di austerità. Non si costruisce una prospettiva di sviluppo sul deficit, ne pagherebbero le conseguenze le prossime generazioni".

"Il secondo tema - prosegue il premier - è la situazione dei nostri Paesi. Ovunque nell'Unione occorre fare le riforme … La Grecia deve potere risolvere i suoi problemi con la politica di riforme a medio termine che Tsipras progetta".

Sul palco mediatico del successo della sinistra radicale in Grecia, dietro la folla di chi sale sul carro del vincitore, c’era un coro di prefiche che intonavano il ‘de profundis’ dell’Ue e dell’integrazione.

Invece, il voto in Grecia è, anzi, un trionfo dell’Europa e della democrazia che proprio ad Atene venne inventata e sperimentata 2500 anni or sono: l’Unione non è morta - la troika magari sì- e Tsipras non ne sarà il killer; anzi, la vittoria di Syriza potrebbe risvegliare un’Europa che langue.

Ora, c’è chi prova a sfruttare l’opportunità per accelerare il cambiamento di rotta nell’Unione verso la crescita, gli investimenti, l’occupazione; e chi s’appresta a disporre paletti e cavalli di frisia su questo percorso, per evitare sprechi e sciali, per innescare efficienza e competitività. Una dialettica che è dentro la storia dell’integrazione.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI.
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