Blog di sviluppo per l'approfondimento della Geografia Politica ed Economica attraverso immagini, cartine, grafici e note.Atlante Geografico Statistico Capacità dello Stato.Parametrazione a 100 riferito all'Italia. Spazio esterno del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro. (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
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giovedì 30 aprile 2015
martedì 21 aprile 2015
Con oltre sei polizie e 600 mila poliziotti, si ricorre ai Militari?
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Un tabù per le democrazie occidentali L'impiego dei militari in servizi di ordine pubblico costituisce un tabù per le democrazie occidentali, a meno di casi particolari. In Gran Bretagna è in teoria previsto che forze di sicurezza militari sostengano le autorità civili in situazioni come quelle verificatesi in passato nell'Ulster. Negli Stati Uniti una specifica legge proibisce espressamente che l'Esercito sia adibito a compiti di polizia locale (c.d. "Posse Comitatus"), a meno di contraria decisione presidenziale in caso di emergenza nazionale. L'esistenza di eccezionali esigenze è prevista dall'ordinamento italiano (art. 93 del Codice ordinamento militare) come condizione per giustificare l'impiego, da parte dei prefetti, di personale delle Forze armate in funzioni di "sorveglianza e controllo di obiettivi fissi" e di centri per immigrati. Ad essi è attribuita, secondo un modulo sperimentato sin dall'operazione "Vespri siciliani" del 1992 (la prima di tale tipo), la qualifica di agenti di pubblica sicurezza per identificare e perquisire persone e mezzi di trasporto. Marina militare ‘polizia in mare’ Diverso lo status del personale della Marina militare: i comandanti delle navi da guerra, quando in alto mare, sono infatti ufficiali di polizia giudiziaria per lo svolgimento delle funzioni di polizia marittima. Questo spiega come la Marina abbia potuto svolgere importanti operazioni di contrasto del traffico illecito di migranti, nell'ambito dell'operazione "Mare nostrum", arrestando scafisti e sequestrando navi madre su direttiva dell'Autorità giudiziaria. Funzioni di polizia giudiziaria erano anche state attribuite al personale dei "Nuclei militari di protezione" (Nmp) imbarcati sui mercantili per protezione antipirateria, il cui impiego è terminato a marzo, dopo che un emendamento legislativo ha riservato le attività di protezione alle sole guardie giurate di società private. Contrordine ‘Strade sicure’ A inizio 2015 il Governo era intenzionato, per contenere la spesa pubblica, a porre termine all'operazione ‘Strade sicure’ che prevede anche pattuglie miste di personale delle Forze armate e delle forze di polizia. Poi gli attentati di Parigi ed il crescere di minacce terroristiche hanno consigliato un ripensamento. Ecco dunque che con la legislazione antiterrorismo del D.L. 7/2015 il contingente di ‘Strade sicure’ è stato elevato a 4.800 operatori delle Forze armate da adibire ai servizi di vigilanza a siti ed obiettivi sensibili. Critiche erano state espresse sull'operazione dai sindacati delle forze di polizia, con riguardo alle compatibilità finanziarie ed alle interazioni tra il comparto difesa e quello sicurezza. Anche la Corte dei Conti ha nel 2013 esaminato questi aspetti mettendo in rilievo l'onerosità per la Difesa (spese eccedenti quelle finanziate per 73 milioni annui) e l'incertezza dei risultati ottenuti sul mantenimento dell'ordine e sulla sicurezza pubblica. Possibili alternative Operazioni come ‘Strade sicure’ hanno avvicinato le Forze armate alla gente. Continuare, dopo anni, a vedere militari per le strade con le armi spianate rischia tuttavia di compromettere l'immagine del Paese a livelli balcanici o sudamericani. L'impiego delle Forze armate in "funzioni duali" è un eccellente modo di impiegare le risorse come dimostra il ruolo svolto dalla Marina nella sorveglianza dell'alto mare. Altro è però immaginare un uso esclusivo dei militari in compiti tutto sommato impropri, quali la sorveglianza dei tribunali. Meglio allora pensare a un uso appropriato delle guardie giurate: la sospensione del servizio dei Nmp della Marina è avvenuto dopo che il ministero dell'Interno ha disciplinato con rigore attività, requisiti e responsabilità delle società di sicurezza private a bordo dei mercantili. Questa è forse la via da seguire per i Palazzi di Giustizia, senza distogliere ulteriormente le Forze armate dai loro compiti d'istituto. Fabio Caffio è Ufficiale della Marina Militare in congedo, esperto in diritto internazionale marittimo. |
Di fronte al problema degli Armeni: una politica con la Turchia
Forum Italia Francia sulla immigrazione
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Francia e Italia condividono l’interesse per una maggiore stabilità al sud dell’Europa, dal Maghreb all’Africa sub-sahariana, ma spesso le proiezioni dei due paesi nella zona divergono. Se ne discuterà il prossimo 29 aprile in un seminario organizzato dallo IAI a Roma nell’ambito del Forum Strategico Francia-Italia. Una zona di grande interesse per entrambi i Paesi La zona che va dal Maghreb all’Africa sub-sahariana comprende una grande diversità di Stati, che hanno spesso avuto destini separati. Oggi la crescita del fenomeno del terrorismo di matrice islamista radicale costituisce uno dei principali fattori di instabilità nell’intera area, con interconnessioni transnazionali. Esiste dunque per due Paesi con una tradizionale proiezione a Sud come la Francia e l’Italia una comune preoccupazione per la sicurezza della regione, un elemento che tra l’altro è stato ribadito nel vertice bilaterale di Caen di marzo scorso. Questa preoccupazione poggia anche sull’allarme destato dai flussi migratori che raggiungono le sponde meridionali dell’Europa attraverso i paesi del Nord Africa. Le migrazioni attraverso il Canale di Sicilia costituiscono un problema oggettivo per l’Italia e probabilmente soggettivo per la Francia. Però in entrambi i Paesi esse hanno grande rilevanza nell’agenda politica e nel dibattito pubblico. Parigi più attenta di Roma Storicamente, possiamo osservare un modello di proiezione con forti aspetti realisti: la zona a Sud dell’Europa è spesso apparsa come un terreno di giochi di potenza con una dimensione fondamentalmente bilaterale. La proiezione verso il continente africano di Italia e Francia ha seguito filoni culturali, economici, politici, ma anche religiosi, significativi e spesso divergenti. Per la Francia, il passato coloniale e l’evoluzione dei rapporti tra i vari stati che è emersa nel periodo post-coloniale rappresentano questioni importanti e molto analizzate. Per l’Italia, possiamo rilevare una presenza meno omogenea e un’elaborazione meno attenta delle strategie di proiezione nella zona, ma si registrano comunque una serie di azioni di politica estera notevoli nei confronti di paesi come Libia, Tunisia, Algeria, Somalia e Mozambico. Tra l’altro, per l’Italia spesso la politica commerciale ed energetica, quella dell’Eni, è apparsa come un driver importante. La cosiddetta “primavera araba” è stata un forte indicatore delle spinte alla democratizzazione dei popoli nel Nord Africa. La richiesta di maggiore trasparenza e serietà da parte dei governi è un fenomeno planetario, ma interpella in particolare gli Stati del Nord del Mediterraneo, tradizionali difensori della cultura della democrazia liberale. Questo tipo di riflessione richiede adattamenti spesso difficili e pericolosi, con Paesi come Francia e Italia spesso inclini a giocare la stabilità del sistema senza applicare a Sud le regole di governo che esistono all’interno dell’Unione. Nell’area sub-sahariana, le crisi legate a fattori locali come la povertà, le disuguaglianze sociali e le istituzioni statuali troppo fragili si intrecciano progressivamente a dinamiche globali, dalla radicalizzazione terroristica fino ai cambiamenti climatici e alla sfida demografica. L’arco di instabilità che unisce il Corno d’Africa alla zona del Sahel e al Mediterraneo attraverso la Libia rappresenta una priorità per i due Paesi. Spinte bilaterali e opportunità di cooperazione Francia e Italia hanno reagito con strumenti e approcci diversi alle nuove sfide provenienti dal sud. L’azione francese nella zona si è riformata, con un’accentuazione della preoccupazione securitaria che ha animato un forte interventismo in Libia, Mali e Repubblica centrafricana e ha spinto il paese a diventare il guardiano militare del deserto sahariano con l’operazione Barkhane. Dal lato italiano, possiamo constatare un approccio securitario più prudente e più legato al Nord Africa - stabilità della Libia ma anche della Tunisia - e alla regione del Corno, ma anche la crescita di un interesse politico che accompagna le visioni di sviluppo economico e sociale della zona sub-sahariana come ad esempio nel Niger. L’attuale governo italiano sta infatti dimostrando un rinnovato interesse per la zona. Le visite di Matteo Renzi in qualità di presidente del Consiglio in Mozambico, Congo-Brazaville, Angola e più di recente in Tunisia sono state salutate da molti come “un ritorno dell’Italia in Africa”. Questo nuovo attivismo trova conferma anche nell’adozione della nuova legge sulla cooperazione allo sviluppo e nella crescente attenzione verso le opportunità di investimento per le aziende italiane nei paesi africani, saldandosi con la tradizionale presenza nel continente di una rete capillare di Ong cattoliche e di missionari. Certamente, non è realistico ipotizzare che questo approccio bilaterale sparisca e che le differenze in termini di proiezione si ricompongano del tutto. Esistono però alcuni fattori che favoriscono aperture verso un approccio multilaterale o per lo meno comune, anche nel contesto dell’Unione europea. La forte interconnessione delle situazioni politiche attuali della zona e le ricadute sul territorio europeo richiedono infatti un approccio complessivo che non può essere svolto da un unico Paese. Francia e Italia sono tra i più attivi nelle missioni civili e militari in Africa sub-sahariana gestite da Ue, Nato e Nazioni Unite. Manca invece un disegno politico condiviso e una gestione comune delle sfide aperte nel Nord Africa e nell’area mediterranea. Da un punto di vista operativo, il partenariato tra Italia e Francia dovrebbe concentrarsi sul rafforzamento delle iniziative multilaterali in corso. Questo significa potenziare in termini di mandato e di risorse della missione Triton nel Mediterraneo, ma anche dare un nuovo impulso ai processi di Rabat e di Karthoum, che forniscono una cornice multinazionale efficace per affrontare le cause prime dei fenomeni migratori, dall’Africa occidentale al Corno. A livello politico, un obiettivo di breve termine per un’intesa italo-francese sarebbe quello di mantenere alta l’attenzione europea sulla dimensione meridionale della politica di vicinato, ma potrebbe portare anche ad una sua ambiziosa ridefinizione e segnare il rilancio del ruolo dell’Ue come attore regionale. L’emergenza rappresenta anche un’opportunità che i governi e le diplomazie dei due paesi dovrebbero sapere cogliere. Jean-Pierre Darnis è professore associato all’Università di Nizza e vice direttore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @jpdarnis) Nicoletta Pirozzi è responsabile di ricerca presso lo IAI. | ||||||||
lunedì 13 aprile 2015
Un Seminario per comprendere: 14 aprile 2015
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Parallelismi e divergenze tra Parigi e Roma Dagli anni ‘80 agli anni 2000, entrambi i Paesi sono stati caratterizzati dalla professionalizzazione delle Forze Armate e da un importante impegno in missioni internazionali all’estero. Abbiamo potuto quindi osservare un’evoluzione parallela e spesso congiunta dello strumento militare e del suo uso. L’intervento del 2006 in Libano (Unifil II) rappresenta in un certo senso l’apice di questo paradigma comune, con un forte impegno militare e politico-diplomatico dei due Paesi nel quadro della stessa missione Onu. Dal 2010 in poi possiamo invece osservare alcune divergenze. Da un lato la Francia ha proseguito ad utilizzare lo strumento militare anche per missioni di combattimento, sia all’interno di coalizioni sia su iniziative sostanzialmente nazionali (Libia, Repubblica centrafricana, Mali, Ciad, Iraq). Dall’altro l’Italia si è mostrata molto più prudente nel suo coinvolgimento quando un intervento militare multinazionale era considerato non prioritario per la propria politica estera, ad esempio nell’Africa sub sahariana, o addirittura dannoso per gli interessi nazionali, come nel caso del 2011 in Libia. A ciò corrispondono due trend differenti nella politica interna: da un lato la forte continuità della politica di difesa francese con una tendenza intervenzionista dei presidenti Jacques Chirac, Nicolas Sarkozy e Francois Hollande; dall’altro, in Italia, dal 2010 in poi l’indebolimento del centro-destra e la successione di governi di coalizione che hanno espresso - finora - tendenze nettamente meno interventiste che nel passato. Il dibattito sulle spese militari, e in modo specifico sul programma F-35, ha illustrato nel 2013 e 2014 questa pressione sulla difesa italiana per ridurre gli impegni in un contesto di crisi economica. Charlie Hebdo e Libro Bianco Oggi i due Paesi si trovano ad un punto importante. Nel recente incontro bilaterale di Caen tra i ministri di esteri e difesa, Francia e Italia hanno riaffermato una comune volontà di trattare il problema della sicurezza nel Mediterraneo, anche visto l’evolversi della situazione in Libia e in Tunisia. Gli attacchi terroristici del gennaio 2015 a Parigi hanno provocato una presa di coscienza in Francia della gravità della minaccia, e un rafforzamento dei dispositivi militari per la tutela della sicurezza interna. Non a caso il governo ha scelto di tornare sui suoi passi rispetto ai tagli previsti alle risorse per fronteggiare le esigenze di sicurezza esterne e interne. Dal lato italiano, l’elaborazione del Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa rappresenta un’occasione importante per riaffermare le priorità strategiche dell’Italia e definire le linee guida per l’adeguamento dello strumento militare. Va tenuto poi in considerazione un’ulteriore fattore che rappresenta un handicap per l’Italia. La difesa si trova alle prese con una difficile riforma del personale per recuperare margini finanziari e di efficienza. La Francia non ha lo stesso problema, o per lo meno non nella stessa misura. Questo però crea una discrepanza nella disponibilità delle forze: se entrambi i Paesi debbono muoversi in un quadro finanziario logorato dalla crisi, l’Italia deve superare l’ulteriore ostacolo di una spesa per la difesa completamente sbilanciata dal lato del personale, e quindi inefficiente. Nel 2012 la legge Di Paola ha iniziato ad affrontare questo problema, ma manca ancora la sua piena attuazione. Si tratta di un problema grave perché, anche aldilà della volontà politica di uso o meno della forza militare in una determinata circostanza, limita fortemente le opzioni militari italiane, anche nella collaborazione bilaterale. Le possibilità di cooperazione industriale Anche in campo industriale si può costatare una relativa continuità dei programmi di cooperazione bilaterale, ma con delle criticità importanti. Esiste un quadro di cooperazione sia per quanto riguarda i programmi Ue (in particolare Horizon 2020) sia per quanto riguarda alcune industrie della difesa (Mbda, Space Alliance Tas). Vi sono anche possibili ambiti di cooperazione da attivare ora in chiave futura, quali osservazione e telecomunicazioni spaziali, velivoli a pilotaggio remoto (Remotely Piloted Aircraft Systems, Rpas) armati e non. Tuttavia, non sono stati lanciati nuovi programmi significativi a livello bilaterale né multilaterale, che potrebbero anche portare ad un maggiore sforzo a livello europeo. La questione del futuro Rpas europeo da combattimento rimane infatti aperta: la firma nel 2014 di un accordo franco-britannico per uno studio al riguardo prolunga la logica del trattato di Lancaster House, ovvero di un rapporto privilegiato fra Francia e Regno Unito per programmi futuri che coinvolgano le rispettive industrie delle difesa. Una cooperazione che viene percepita a Roma come un’esclusione di altri partner europei a partire dall’Italia. In un contesto europeo dove cambiano le politiche di difesa, con un Regno Unito in relativa frenata, mentre la Germania sembra voler tornare ad investire, la Francia si configura come un perno essenziale per il futuro della difesa europea. Anche il rapporto fra Francia e Italia rappresenta un tassello importante che potrebbe portare a maggiori collaborazioni e sinergie. Jean-Pierre Darnis è professore associato all’Università di Nizza e vice direttore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @jpdarnis) Alessandro Marrone è responsabile di ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @Alessandro__Ma). | ||||||||
giovedì 9 aprile 2015
Italia: la vocazione a pagare Multe
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Combinandoli nel tempo, l’Italia è riuscita a fare pagare ai propri contribuenti una cifra vicino ai 4,5 miliardi di euro di “prelievi supplementari”. Nella sostanza, multe: in pratica, le sanzioni previste dal regolamento comunitario relativo all’organizzazione dei mercati nel settore del latte e dei prodotti lattiero-caseari approvato nell’ormai lontano 1984. La ratio alla base della regolamentazione era semplice. Nell’allora Comunità, l’offerta di latte si apprestava a superare di gran lunga la domanda, con il rischio che il prezzo del prodotto si abbassasse a livelli insostenibili per gli allevatori. Da qui l’idea di fissare delle quote massime di produzione totale per ogni Stato membro, da suddividere poi tra i singoli allevatori nazionali. Raggiunta tale quota, il produttore sarebbe incappato in una sanzione che avrebbe reso la sovrapproduzione economicamente non allettante. Ma le cose sono andate diversamente. Una preparazione improvvisata La storia era iniziata nel peggiore dei modi. I negoziati condotti tra gli Stati membri in seno al Consiglio dei Ministri dell’Agricoltura per fissare le quote globali di produzione avevano difatti trovato l’Italia impreparata. L’allora ministro dell’Agricoltura Filippo Maria Pandolfi propose che il calcolo della quota italiana non prendesse come anno di riferimento il 1981 (a causa di una produzione lattiera eccezionalmente scarsa), ma il 1983, anno in cui i dati statistici dell’Istat risultarono però sottostimati rispetto alla produzione reale, in crescita. All’Italia venne quindi assegnato un quantitativo di riferimento anormalmente basso, che avrebbe reso fin troppo facile per gli allevatori incappare nei prelievi supplementari. Tardivamente, se ne rese conto anche lo stesso ministro Pandolfi, che per mettere una toppa all’errore affermò sia che gli allevatori italiani non sarebbero stati colpiti dalle sanzioni grazie a un accordo informale, sia che l’Italia - se così non fosse stato - avrebbe disapplicato il regolamento. Rassicurazioni che furono sostenute dalla lenta assegnazione delle quote individuali, fondamentali per individuare i produttori inadempienti e assegnare i relativi prelievi. Una cottura a puntino Poiché a Bruxelles la pensavano diversamente, però, le multe dirette all’Italia non tardarono ad arrivare, senza che le insistenti richieste provenienti da Roma per rinegoziare le quote di produzione nazionali sortissero nessun effetto (tranne bloccare la revisione di altri mercati irreggimentati, come quello dell’olio d’oliva). Insieme alle richieste di prelievi si scatenarono le proteste degli allevatori, che, illusi dalle promesse governative, reputavano ingiuste le sanzioni ricevute. Una situazione scomoda, che quasi tutti governi italiani che si sono succeduti negli anni hanno risolto nel modo in apparenza più semplice: pagare loro le multe al posto degli allevatori. Gli obblighi verso l’Ue sembravano rispettati e il consenso politico salvaguardato. Una soluzione che per non scontentare nessuno è finita per gravare su tutti. A farne le spese - in senso letterale - sono stati i contribuenti (spesso ignari), compresi quei produttori che avevano rispettato il regolamento, con difficoltà e nessun beneficio. Oltre al danno, la beffa. E la multa è servita Le diverse revisioni del regolamento (l’ultima è stata nel 2008) hanno aumento le quote di produzione originali, ma non hanno evitato all’Italia di collezionare ulteriori multe. Dal 1995 al 2009, chi ha sforato ha maturato ammende per oltre 2,3 miliardi di euro, in buona parte ancora pagati dai governi italiani. Una pratica scorretta assimilabile a un aiuto di Stato per la Commissione europea, che a poche settimana dalle fine del sistema, ha deferito alla Corte di Giustizia dell’Ue l’Italia, rea di dover ancora riscuotere quasi 1,4 miliardi di euro dai propri allevatori. È l’ultima tappa della procedura d’infrazione avviata dalla Commissione nel 2013, ma non sarà l’ultima di questa vicenda che, in attesa della sentenza della Corte, interesserà per molti anni ancora lo Stato italiano, impegnato un piano di recupero dei prelievi della durata di 14 anni, già concordato con la Commissione. Se il piatto è fino ad ora risultato indigesto, non è detto che la piena libertà produttiva conquistata dal mercato lattiero-caseario sarà più tollerabile, in particolare per la produzione italiana, rivelatasi fino ad oggi meno competitiva rispetto a quella tedesca, olandese o francese. Dare la colpa alla “perfida Bruxelles” nei prossimi anni sarà sempre più complicato e certamente poco responsabile per coloro che dovrebbero tutelare gli interessi italiani, tra cui rientrano anche (e soprattutto) quelli dei cittadini. Questa volta a difenderli ci ha pensato la Commissione. Diciamolo e ricordiamocelo. Lorenzo Vai è è assistente di ricerca dello IAI e del Centro Studi sul Federalismo. |
Italia: altri cinesi a MIlano
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È un’opportunità mancata: se il Bel Paese fosse in grado di attirare investimenti diretti dall’estero come la Germania, arriverebbero capitali per circa 16 miliardi di euro in più all’anno, l’equivalente di una piccola manovra finanziaria. E non è tutto: gli investimenti diretti stranieri sono spesso un’iniezione salutare per l’economia anche perché portano competenze manageriali più sofisticate e un maggiore stimolo alla internazionalizzazione, due ambiti nei quali il nostro Paese, caratterizzato da un ampio tessuto di piccolissime imprese a conduzione spesso ancora familiare, è da sempre carente. L’impennata degli investimenti, specie cinesi In quest’ottica, ci sarebbe da rallegrarsi della recente impennata degli investimenti esteri nel nostro Paese, soprattutto (ma non solo) di provenienza cinese. Basti pensare all’acquisizione del 40% di Ansaldo Energia da parte di Shanghai Electric Group e agli impegni della People’s Bank of China per l’acquisizione di quote al di sopra del 2% di molte società italiane quotate in borsa, tra cui Eni, Enel, Fiat Chrysler, Telecom Italia, Prysmian, Generali. Ancora più importante è l’investimento della State Grid Corporation cinese nel 35% della CDP Reti, la quale a sua volta possiede partecipazioni in imprese cruciali per l’economia italiana, da Terna a Snam fino al Corriere della Sera. Da ultimo, dopo che Ansaldo Breda e Ansaldo Sts sono finite, nonostante l’interesse dei cinesi di Insigma, ai giapponesi di Hitachi, l’attenzione di Pechino si è orientato sulla Pirelli e forse, in prospettiva, su World Duty Free (Benetton) e Monte Paschi di Siena. Il recente accordo tra Camfin, la holding che controlla il 26% della Bicocca, e Chem China ha sancito l’inizio di un complesso percorso che porterà nel giro di tre anni il colosso di stato cinese a rilevare la maggioranza della Pirelli a un costo che supera di poco i 7 miliardi di euro. Si tratta della definitiva dipartita di Pirelli, già parzialmente ceduta ai russi di Rosneft per 500 milioni di euro l’anno scorso, dalla gestione italiana, nonostante il fatto che Marco Tronchetti Provera dovrebbe rimanere alla presidenza del Consiglio di Amministrazione fino al 2021. Novità e interrogativi dal ‘caso Pirelli’ È proprio la manovra di Chem China su Pirelli a suscitare gli interrogativi più pressanti. Per certi versi si tratta di una novità per gli investitori cinesi, fin qui per lo più orientati all’acquisizione di quote di minoranza in imprese industriali o di design (anche se non mancano alcuni precedenti importanti, tra tutti l’acquisizione dei cantieri Ferretti). Perché la Cina ha iniziato a fare sul serio, riversando sull’Italia più di tre miliardi di euro di investimenti nel 2014? Dovremmo essere contenti del fatto che alcune imprese “storiche” stiano uscendo gradualmente dai confini nazionali? Quale sarà l’impatto sull’economia del nostro Paese? Sui motivi dell’accelerazione cinese e dell’interesse per Pirelli vi sono opinioni le più svariate. L’ipotesi più semplice è che la Cina stia approfittando della crisi delle grandi imprese italiane (spesso affossate da debiti, come nel caso di Pirelli e Finmeccanica) e dell’apprezzamento del Renmimbi rispetto all’Euro per fare “shopping” a buon mercato di realtà imprenditoriali di assoluto interesse. Vi è chi prospetta per la nuova Pirelli un futuro da protagonista nella strategia commerciale cinese, tesa a creare - anche grazie alla futura Banca Asiatica delle Infrastrutture la cui nascita è vista con favore anche dal nostro Paese - una nuova “via della seta” che porti i prodotti cinesi attraverso i Balcani e il porto del Pireo (già cinese) all’Europa continentale. Ma vi è anche chi vede nell’intervento cinese un complesso tentativo di venire incontro al partner Rosneft, in chiara difficoltà per le sanzioni contro la Russia e per il calo del prezzo del greggio, consentendogli di monetizzare la propria quota azionaria, del valore di circa un miliardo di euro. Il prevedibile impatto sull’economia italiana Diversa è la questione dell’impatto dell’impegno cinese sull’economia italiana. Non è difficile immaginare che l’impennata degli investimenti cinesi sia dovuta anche all’accordo stretto l’anno scorso tra i primi ministri Matteo Renzi e Li Keqiang, teso a portare “più Italia in Cina e più Cina in Italia”. Ma molti considerano l’accordo con Chem China alla stregua di una svendita, tanto più che la Pirelli possiede un patrimonio di know how e ricerca che sarebbe drammatico vedere defluire al di fuori del territorio nazionale. E se anche il patto prevede che il centro di ricerca e sviluppo e il quartier generale di Pirelli restino in Italia e che un eventuale trasferimento debba essere approvato dal 90% degli azionisti, è evidente che in futuro l’interesse cinese sarà sempre più prevalente nell’azienda del Pirellone. È, dunque, una questione di tempo. Alcuni, tra i più maliziosi, sintetizzano la situazione come un incontro di interessi tra Tronchetti, che ci tiene a stare in sella altri cinque anni, e i cinesi, interessati al controllo e, in futuro, al completo assorbimento del business di Pirelli nell’economia nazionale. In conclusione, sarebbe troppo facile sostenere che a lamentarsi dell’operazione Pirelli siano soltanto i “gufi”. Più l’economia diventa globalizzata, più Paesi come l’Italia devono rendersi conto che competere sul livello dei salari è impossibile: meglio invece lavorare sul patrimonio di conoscenze e sulla produttività e creatività del nostro tessuto industriale. Farsi soffiare know how da investitori stranieri senza formulare alcuna visione di sviluppo futuro significa, ineluttabilmente, perdere posti di lavoro e competitività industriale nel corso dei prossimi anni, proprio mentre in Europa si cerca di giocare, nuovamente, la carta della politica industriale. Quando, e se, gli alfieri del piano Juncker dovessero arrivare a rilanciare, a suon di miliardi, la politica industriale dell’Unione europea, in Italia potrebbe essere già troppo tardi per immaginare un rinascimento industriale. Ecco perché i cinesi, come tutti gli altri investitori stranieri, devono essere benvenuti se intendono investire nel sistema Paese, ma non quando cercano, in modo scaltro quanto legittimo, di profittare delle debolezze del nostro povero, malandato capitalismo senza contribuire alla sua maturazione. Andrea Renda è Senior Research Fellow del Center for European Policy Studies e Direttore del programma Global Outlook dello IAI. | ||||||||
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