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martedì 12 maggio 2015

Immigrazione: le misure europee

e, Italia e migranti
La risoluzione ‘umanitaria’ del Parlamento europeo
Giuseppe Licastro
08/05/2015
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La Risoluzione del Parlamento europeo del 29 aprile 2015 concernente le recenti tragedie del mare che si sono consumate nel Mediterraneo e le connesse politiche di migrazione e asilo Ue si caratterizza indubbiamente per il diverso approccio adottato rispetto alla formula ‘securitaria’ adoperata dal compatto Consiglio europeo straordinario del 23 aprile 2015.

Le differenti misure proposte per fronteggiare la particolare situazione di emergenza, nonché per ‘integrare’ le conclusioni del Consiglio europeo (indice straordinario di una solida convergenza ‘securitaria’), appaiono prima facie espressione della necessaria coesione per affrontare un fenomeno ineludibile del nostro tempo, quindi da sovraintendere con una visione senza dubbio più ampia, segnatamente condivisa per quanto concerne il delicato profilo dell’accoglienza.

Le misure proposte difatti non si concentrano, in modo caratteristico e massivo, sul rafforzamento della sorveglianza della frontiera marittima, sul contrasto alle reti dei trafficanti, sul contenimento dei flussi migratori illegali.

Integrare la visione ‘securitaria’
Tale visione accresce sensibilmente il campo (e il raggio) d’azione, esortando opportunamente una coordinata azione tesa a contemperare le esigenze di sicurezza (da notare infatti che il testo della risoluzione considera pure le implicazioni della propagazione “dell’IS e del Da’ish nelle regioni circostanti interessate da conflitti”, ossia una possibile ondata massiccia di migranti) con un concreto impegno all’accoglienza attraverso l’adozione di una serie di misure ispirate alla solidarietà e all’equa ripartizione dell’ “onere” (da intendersi in senso piuttosto ampio).

Emblematici di detta visione appaiono particolarmente alcune misure. Come l’estensione del raggio di azione e del mandato, inclusivo di interventi di ricerca e soccorso, dell’‘operazione Triton’.

È utile rammentare che l’operazione congiunta di sorveglianza Triton prevede l’“osservanza” della disciplina contenuta nel Regolamento (Ue) n. 656/2014.

Il paragrafo 1, lettera c) dell’art. 10 concerne proprio le situazioni di ricerca e soccorso regolate dall’art. 9, prevedendo una sorta di “procedura” da osservare che determina il luogo sicuro dello sbarco delle persone soccorse, ossia un luogo “in cui si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e in cui la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e possono essere definite le modalità di trasporto dei sopravvissuti verso la destinazione successiva o finale tenendo conto della protezione dei loro diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento” (art. 2, n. 12), che lo Stato membro ospitante dell’operazione marittima (ossia, l’Italia) e gli Stati membri partecipanti sostanzialmente si impegnano a portare a compimento prontamente, adeguatamente.

Ci sono poi ulteriori “procedure” contemplate al paragrafo 1 di detto art. 10) nonché la predisposizione di una operazione marittima Ue, definita proprio umanitaria, corrispondente alla più che encomiabile operazione Mare Nostrum capace quindi di estendersi in alto mare, che dovrebbe ragionevolmente avvicendare l’‘operazione Triton’ (avrebbe senso, diversamente, prevedere una strategia basata su una sorta di doppio binario?).

E ancora l’opportunità di applicare (per la prima volta) la direttiva 2001/55/CE sulla protezione temporanea, oppure misure temporanee similari, secondo la disciplina di cui all’art. 78, par. 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, allo scopo naturalmente di fronteggiare un consistente afflusso di sfollati.

Inoltre la predeterminazione di una quota obbligatoria ai fini dell’assegnazione di richiedenti asilo tra gli Stati membri (tutti gli stati membri); l’incoraggiamento alle politiche riguardanti le partenze volontarie, conformemente al sistema di protezione dei diritti dei migranti e di accesso all’asilo (tale esortazione allude probabilmente agli indirizzi da seguire nel prossimo futuro contenuti nella comunicazione della Commissione sulla politica di rimpatrio Ue, del 28 marzo 2014); il contrasto tanto della tratta di esseri umani quanto dello smuggling di migranti “sia verso l’Unione europea che al suo interno, nonché contro le persone o i gruppi che sfruttano i migranti vulnerabili” attraverso sanzioni penali preferibilmente più rigorose, “garantendo nel contempo che le persone che prestano aiuto ai richiedenti asilo e alle imbarcazioni in pericolo non siano perseguite” (appare significativo evidenziare l’incisiva azione della magistratura italiana impegnata ormai da tempo nel contrasto al traffico di migranti.

Appare pertanto utile richiamare, nell’ambito di questo settore, una relazione molto interessante del Procuratore della Repubblica di Catania del 12 dicembre 2014, nel contesto di un incontro organizzato da Eurojust e dalla presidenza italiana del Consiglio dell’Unione europea).

Le misure proposte potrebbero dunque risultare efficaci per dare una risposta tempestiva alla significativa pressione migratoria del periodo, oltreché arginare la convergente deriva ‘securitaria’.

Giuseppe Licastro è Dottore in giurisprudenza (profilo consultabile qui).
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martedì 5 maggio 2015

Un testo non vincolante, ma essenzialmente morale

Expo 2015
La Carta di Milano e il diritto al cibo
Marco Gestri
01/05/2015
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Il 1° maggio 2015, con l'inaugurazione di Expo Milano 2015, è aperta alla firma la Carta di Milano, che dovrebbe costituire l'eredità immateriale dell'esposizione universale.

Gli obiettivi sono ambiziosi: promuovere la realizzazione del diritto al cibo, combattere la denutrizione e garantire l’equo accesso al cibo per tutti. Ma qual è la natura della Carta? Si tratta davvero di un documento innovativo nel panorama globale, in particolare per quanto riguarda il suo punto centrale, il diritto al cibo?

Un testo non vincolante, ma essenzialmente morale
La Carta di Milano, come affermato dal Ministro dell’Agricoltura Martina, non si pone come "documento intergovernativo, ma come strumento di cittadinanza globale".

Non si tratta cioè di un trattato internazionale, soggetto alla ratifica degli Stati. La Carta sarà sottoscritta da individui, i quali assumono il personale impegno (di cittadini, membri della società civile, imprese) a contribuire alla realizzazione degli obiettivi indicati, anche sollecitando le istituzioni politiche nazionali e internazionali.

Ne consegue che la Carta non ha alcun valore vincolante e costituisce un testo di significato essenzialmente morale e politico.

Quindi, molto rumore per nulla? Sarebbe una conclusione affrettata (e forse ingenerosa). La scelta fatta appare dettata dalla consapevolezza che l'adozione di un trattato internazionale, ma anche di un documento intergovernativo non vincolante, avrebbe incontrato elevate difficoltà, quanto al negoziato dei contenuti e alla partecipazione degli Stati.

L'idea di proporre la Carta di Milano come strumento aperto alla firma degli individui (visitatori di Expo o via internet) va dunque salutata con favore. La scelta si pone in linea con una delle tendenze del diritto internazionale contemporaneo, che vede un ruolo sempre più incisivo della società civile internazionale nel promuovere lo sviluppo di norme o comportamenti virtuosi degli Stati.

Una qualche confusione può derivare dal fatto che il progetto della Carta di Milano si è venuto ad affiancare a quello per l'adozione di un “Protocollo di Milano”, promosso dal 2013 dalla Fondazione Barilla Cfn.

La Carta trae largamente ispirazione dal Protocollo, che figura tra i documenti di riferimento. Non è ben chiaro se il progetto di adozione del Protocollo di Milano,sempre nel quadro di Expo 2015, rimanga in piedi. Il risultato finale in questo caso parrebbe essere un vero e proprio trattato internazionale, come si evince dall'art. 8 (“entrata in vigore”) del documento del 3 aprile 2015.

In ogni caso, non si può fare a meno di rilevare che il testo del Protocollo attualmente disponibile - pur evidenziando aspetti di notevole interesse dal punto di vista sociologico, economico e politico - richiederebbe sul piano giuridico-formale un’accurata revisione.

Carta di Milano e Protocollo di Milano
Sul piano dei contenuti, la Carta di Milano prevede un’articolata serie di impegni volti all’obiettivo di un equo accesso al cibo, in materia di lotta agli sprechi alimentari, difesa del suolo e della biodiversità, educazione alimentare, sostegno degli agricoltori e delle piccole imprese.

Questo sulla base del riconoscimento del diritto al cibo come diritto umano fondamentale. La portata innovativa della Carta risiede naturalmente più nella declinazione di alcuni degli impegni per il conseguimento dell’obiettivo che non nella riaffermazione del diritto al cibo.

Anzi, a questo riguardo sarebbe stato preferibile un linguaggio più incisivo (“riteniamo debba -“should” nella versione inglese - essere considerato un diritto umano fondamentale”).

Sorprende poi la mancata citazione degli atti internazionali fondamentali in materia, in un testo fitto di riferimenti. Il diritto al cibo è riconosciuto a livello internazionale già a partire dalla Dichiarazione universale del 1948 (art. 25) e ha trovato piena espressione nell’art. 11 del Patto Onu sui diritti economici, sociali e culturali del 1966.

Le 164 parti di tale trattato riconoscono il diritto di ogni individuo ad un tenore di vita adeguato, che includa cibo sufficiente, e il diritto fondamentale alla libertà dalla fame.

Queste disposizioni sono rimaste per lungo tempo in una sorta di letargo. Da alcuni decenni, tuttavia, il diritto al cibo è stato posto al centro del dibattito internazionale riguardo alla lotta alla fame. Importanti in tal senso il Vertice mondiale sull’alimentazione della Fao del 1996 (e i relativi seguiti) e soprattutto, dal 2000, i lavori dei relatori speciali Onu sul diritto al cibo, che hanno contribuito a dare concretezza al diritto, rivolgendo osservazioni agli Stati riguardo a concrete violazioni.

Il diritto al cibo è poi affermato nelle costituzioni di un numero crescente di Stati e applicato in decisioni di corti nazionali (ad es. in India e Sudafrica). Dunque è da ritenere che si tratti di un diritto già pienamente vigente sul piano internazionale.

Questo nonostante la posizione degli Usa, che continuano ad affermare che, per gli Stati che non abbiamo concluso trattati in materia, esso costituirebbe una mera aspirazione etico-politica.

Fino al 2009, gli Usa hanno addirittura votato contro le annuali risoluzioni dell'Assemblea generale dell'Onu sul diritto al cibo. Negli ultimi anni, l'amministrazione Obama ha deciso di non opporsi all'adozione delle risoluzioni, ma il rappresentante Usa non perde l'occasione di ripetere che al diritto al cibo non corrisponde alcun obbligo internazionale.

Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.