Translate

lunedì 15 giugno 2015

Europa: risalire la china del consenso.

Europa dal volto umano
Ue, verso sussidio di disoccupazione
Daniele Fattibene
02/06/2015
 più piccolopiù grande
L’aumento del livello di protezione nei confronti delle categorie sociali più disagiate è diventato un tema centrale nel dibattito italiano attuale. Diverse sono le proposte sul tavolo, elaborate da gruppi politici ma anche da esponenti della società civile.

Alcuni hanno proposto un reddito minimo garantito per i disoccupati e le classi più disagiate, altri un reddito di cittadinanza universale, altri ancora un reddito di inclusione sociale, e infine alcuni hanno ipotizzato un reddito minimo per gli over 55.

In questo contesto s’è tuttavia trascurato il dibattito emerso negli ultimi anni in Europa relativo alla creazione di un sussidio europeo di disoccupazione all’interno dell’Unione economica e monetaria (Uem).

Questa misura allevierebbe gli effetti di una recessione economica, stimolando la domanda aggregata e bloccando il fenomeno della “corsa al ribasso”, ossia la tendenza a tagliare le risorse destinate agli stabilizzatori fiscali per far fronte alle esigenze di bilancio.

In che cosa consiste il sussidio? 
Il sussidio europeo di disoccupazione è uno stabilizzatore fiscale automatico che coprirebbe tutti i disoccupati dell’Eurozona che hanno contribuito ai sistemi nazionali di previdenza sociale per almeno 12 mesi prima di perdere il lavoro.

Tenendo in considerazione le differenze nel Pil pro capite dei diversi Paesi membri, il sussidio dovrebbe corrispondere all’80 per cento dello stipendio medio nazionale e al 50 per cento di quanto si percepiva da occupati e durerebbe per un periodo di tempo limitato (12 mesi).

Lo schema sarebbe finanziato da tasse pagate da lavoratori e datori di lavoro raccolte attraverso le amministrazioni nazionali e gli Stati sarebbero liberi di destinare ulteriori risorse per rendere il sussidio più generoso.

Secondo diversi studi, tale misura avrebbe un impatto minimo sul bilancio dell’Eurozona: sarebbe costata circa 50 miliardi di euro (circa lo 0,5 per cento del Pil dell’Area Euro) se applicata tra il 2000 e il 2013.

La ragioni del no
La realizzazione del sussidio ha però suscitato diverse critiche. La più importante è legata al rischio che esso provochi l’emergere di trasferimenti fiscali permanenti tra gli Stati membri. Varie simulazioni hanno infatti dimostrato che, alle condizioni già citate, alcuni Stati (Germania, Austria e Olanda) diventerebbero contributori permanenti e altri (Lettonia e Spagna) beneficiari permanenti.

Altri studi hanno poi messo in discussione il potenziale di stabilizzazione del sussidio, dicendo che esso sarebbe efficace solo per combattere la disoccupazione di breve periodo e non quella di lungo termine - che è aumentata in modo considerevole a causa del prolungarsi della crisi economica. Pertanto lo schema sarebbe più incisivo in caso di brevi crisi e non di lunghi periodi di recessione.

Accanto ai problemi fiscali ce ne sarebbero altri di natura legale. I mercati del lavoro dell’Uem sono molto frammentati tra loro ed è difficile trovare un modello che vada bene per tutti. Ogni Paese ha una sua particolare legislazione del lavoro, con sistemi più o meno generosi in termini di percentuale del Pil destinato alla spesa sociale.

Inoltre, il Trattato di Lisbona impedisce trasferimenti fiscali all’interno dell’Unione. Vi è infine il rischio di “azzardo morale”. In altre parole, il sussidio potrebbe spingere alcuni Stati a usare queste risorse per scopi diversi da quelli previsti - ma che pagano di più in termini di consenso politico -, disincentivandoli ad attuare le riforme necessarie per riformare i mercati del lavoro e superare così le distorsioni interne.

Le ragioni del sì
Tutti questi ostacoli fiscali, legali e istituzionali possono essere risolti. I vantaggi superano di gran lunga gli svantaggi. Vari studi dimostrano che se fosse stato implementato durante la recente crisi il sussidio avrebbe assorbito il 36 per cento dello shock di disoccupazione registrato nel 2009, con un grande effetto di stabilizzazione in Grecia, Lettonia ma anche in Paesi come l’Austria.

Il sussidio permetterebbe di garantire un sostegno economico a diverse categorie oggi escluse da sistemi di protezione contro la disoccupazione, come i lavoratori autonomi. Secondo le stime il sussidio consentirebbe di coprire il 31 per cento di lavoratori in più in Grecia e il 21 per cento in Italia.

La misura rappresenterebbe anche un forte stimolo per riformare i diversi mercati del lavoro dei Paesi dell’Uem. Coprendo la disoccupazione di breve termine, tale provvedimento orienterebbe gli Stati a impegnarsi in politiche volte a ridurre quella di lungo periodo, eliminando le distorsioni esistenti e consentendo di affiancare a una maggiore flessibilità un adeguato livello di protezione sociale.

Una maggiore armonizzazione delle diverse legislazioni sul lavoro consentirebbe di diminuire le barriere fra gli Stati, incrementando in modo considerevole la mobilità dei lavoratori all’interno del mercato unico europeo - oggi ben al di sotto delle sue reali potenzialità.

Verso un’Unione sociale
Creare un sussidio europeo di disoccupazione richiede certamente tempo e soprattutto una forte volontà politica. Tuttavia, se realizzata, tale misura risulterebbe molto efficace per combattere gli effetti sociali indesiderati provocati dalle crisi: non è certo la panacea di tutti i mali dell’Unione, ma contribuirebbe a dare un “volto umano” all’Uem, con scelte che hanno un effetto tangibile sulla vita quotidiana dei cittadini e che possono mettere un freno all’euro-scetticismo dilagante.

Daniele Fattibene è Assistente alla ricerca presso il Programma Sicurezza e Difesa dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3087#sthash.LoeEzedd.dpuf

mercoledì 3 giugno 2015

In tema di energia

Unione dell’Energia
Le politiche energetiche di Francia e Italia 
Jean-Pierre Darnis, Nicolò Sartori
10/05/2015
 più piccolopiù grande
Dopo le tensioni emerse durante il processo di liberalizzazione del mercato energetico promosso in ambito europeo, le relazioni tra Francia e Italia sembrano oggi rasserenate, con elementi distinti ma anche ambiti di convergenza.

Da un lato la forte complementarità e interdipendenza dei due sistemi energetici nazionali, testimoniata dagli scambi transfrontalieri di elettricità, che contribuiscono a un terzo delle importazioni totali dell’Italia.

Dall’altro, l’affacciarsi sullo scacchiere internazionale, e in particolare nell’area del Mediterraneo e nel continente africano, con scenari sia di competizione che di azione congiunta. Il tutto, in un contesto di progressiva integrazione delle politiche energetiche europee, reso ancor più attuale dal lancio dell’Unione energetica da parte della Commissione Juncker.

Di questo si discuterà il prossimo 13 maggio in un seminario organizzato dallo IAI a Roma nell’ambito del Forum Strategico Francia-Italia).

Una storia comune
La storia dei settori energetici di Francia e Italia nel secondo dopo guerra presenta numerose similitudini.

La prima è la presenza di un monopolista pubblico per la generazione e distribuzione di elettricità (Edf, creata nel 1945, ed Enel nel 1962) e di altre società a controllo statale nel settore petrolifero (Cfp poi Total nata nel 1924 ed Eni nel 1953) e del gas naturale (Gdf creata nel 1946 e la stessa Eni), che hanno garantito ad entrambi i paesi una forte politica pubblica di pianificazione e direzione in ambito energetico.

Negli anni ‘90, i processi di privatizzazione e liberalizzazione dei mercati energetici avviati in ambito europeo hanno provocato una rottura di tale parallelismo. Infatti, se dopo la crisi politica del 1992 l’Italia ha giocato la carta di una veloce liberalizzazione del mercato energetico per recuperare margini di competitività, in Francia si osservano dinamiche opposte, con Parigi impegnata a frenare l’applicazione delle direttive europee e la trasformazione del suo mercato interno al fine di tutelare l’azione pubblica in ambito energetico.

L’interazione tra forze liberalizzatrici e tutela dei rispettivi “campioni nazionali” ha generato tensioni tra Parigi e Roma, come nel 2001 quando il governo Amato ha bloccato l’acquisto di quote Montedison da parte di Edf, o quando quello francese ha bloccato l’Opa di Enel su Suez nel 2006, un’operazione che di fatto ha spinto alla creazione di Gdf-Suez, oggi Engie.

La scelta italiana di riprendere la via nucleare e la cooperazione avviata da Enel ed Edf hanno contribuito a eliminare progressivamente la conflittualità delle relazioni franco-italiane.

Diversità dei mercati 
Francia e Italia sono Paesi estremamente differenti dal punto di vista del mercato energetico. Il nucleare è tradizionalmente al centro del mix energetico francese, contribuendo per il 45% dei consumi energetici nazionali e per tre-quarti della generazione elettrica totale.

Grazie ai prezzi relativamente bassi garantiti dal nucleare, la Francia è il primo esportatore europeo di elettricità con un saldo netto di oltre 65 Terawatt/ora nel 2014.

Quello italiano è tra i principali mercati di destinazione dell’elettricità francese. Nonostante lo scorso anno i consumi di energia elettrica in Italia siano calati del 3% rispetto al 2013 e la capacità di generazione termoelettrica nazionale stia attraversando una critica fase di stallo, nel 2014 il saldo nazionale fra import ed export con la Francia ha registrato un aumento del 28%.

In sostanza, l’Italia consuma e produce meno elettricità in termini assoluti, ma ne importa di più in termini relativi dal vicino d’oltralpe.

L’elettricità francese rappresenta un terzo delle importazioni totali, pari a circa il 5% dei consumi nazionali, ed è un elemento chiave per la politica italiana di transizione energetica.

Le esportazioni francesi bilanciano l’intermittenza delle fonti rinnovabili sulle quali si basa sempre di più il mix energetico dell’Italia: idroelettrico, solare, eolico e geotermico, infatti, assicurano il 33% dei consumi elettrici nazionali, ben oltre il 19% registrato lo scorso anno in Francia.

Le poste in gioco 
Il contributo del termoelettrico nei mix energetici nazionali rappresenta l’altra grande differenza tra i modelli adottati dai due paesi.

In Italia i combustibili fossili - gas naturale in primis - garantiscono oltre il 50% della generazione elettrica, contro meno dell’8% nel caso francese.

La forte dipendenza italiana dall’importazione di idrocarburi e l’ambizione di diventare un hub energetico per l’Europa meridionale impone all’Italia un’attenta strategia di diversificazione degli approvvigionamenti, elemento che incrocia la proiezione francese in aree geografiche chiave, prime fra tutte il Mediterraneo e l’Africa sub-sahariana.

La sensibilità della percezione italiana in merito si riscontra nei commenti negativi suscitati dall’interventismo francese in Libia nel 2011, il quale ha alimentato forti (sebbene ingiustificate) speculazioni sulla volontà di Parigi di approfittare della caduta del regime di Gheddafi per guadagnare posizioni nel settore energetico libico.

C’è da evidenziare che l’Italia ha approfittato del semestre di presidenza di turno del Consiglio dell’Ue per rilanciare con forza la cooperazione energetica euro-mediterranea, elemento presente anche nell’iniziativa dell’Unione per il Mediterraneo (UpM) promossa da Parigi. Questi progetti possono apparire concorrenti ma illustrano al tempo stesso un forte potenziale di convergenze.

Integrazione europea
L’iniziativa della Commissione Juncker per rilanciare l’integrazione europea attraverso l’Unione energetica potrebbe contribuire a fare un’ulteriore passo in avanti.

Da un lato, Bruxelles spinge per il pieno completamento del mercato unico dell’elettricità, cercando di superare i freni protezionisti. Dall’altro, anche attraverso il ruolo del vice-presidente Sefcovic, la Commissione punta a consolidare l’azione esterna dell’Ue in aree strategiche quali il Mediterraneo.

Sebbene sia difficile immaginare una completa convergenza franco-italiana in questo ambito, il rafforzamento delle iniziative europee sulla sponda sud del Mediterraneo (tra cui MedReg, Med-Tso e le tre piattaforme energetiche sul gas, le rinnovabili, e le interconnessioni elettriche) potrà probabilmente facilitare questo processo e contribuire alla sicurezza energetica di entrambi i paesi.

Jean-Pierre Darnis è professore associato all'università di Nizza e responsabile di ricerca dell’Area sicurezza e difesa dello IAI (Twitter: @jpdarnis).
Nicolò Sartori è responsabile di ricerca del Programma Energia dello IAI (Twitter: @_nsartori)
.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3060#sthash.aHxGVRq2.dpuf

Difesa: il rapporto con l'industria su nuove basi

Libro Bianco
Una partnership strategica tra Difesa e industria 
Alessandro Ungaro
12/05/2015
 più piccolopiù grande
“Accanto a uno strumento militare in grado di saper esprimere le corrette e necessarie capacità, il nostro sistema difesa non può prescindere da un certo livello di autonomia industriale e tecnologica che possa soddisfare almeno parte di tali esigenze a livello nazionale o attraverso la partecipazione a iniziative multinazionali di sviluppo e acquisizione”.

Così recita l’incipit al capitolo 9 del Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa che prende in esame la politica scientifica, industriale e di innovazione tecnologica della difesa. Dopo una breve ma esaustiva analisi di alcune dinamiche evolutive intercorse negli ultimi anni relative al mercato internazionale della difesa e allo sviluppo tecnologico, il testo cerca di mettere a fuoco il contesto italiano. Vediamo come.

Quali competenze tecnologiche e perché
Il documento parla di competenze tecnologiche distintive, sovrane collaborative, che sono alla base dello sviluppo di prodotti e sistemi, figlie di un patrimonio scientifico, tecnologico e industriale.

Sebbene entrambe siano determinanti nello sviluppo di un sistema produttivo competitivo a livello internazionale, le competenze tecnologiche sovrane sono capacità ritenute essenziali, “chiave e abilitanti”, perché legate a doppio filo al soddisfacimento autonomo e sostenibile delle irrinunciabili esigenze della difesa e dell’interesse nazionale.

Il carattere strategico di queste capacità esige di mantenere su di esse un certo livello di sovranità e assicurare che lo sviluppo e la produzione avvengano all’interno del Paese a prescindere dalle collaborazioni internazionali e dagli assetti proprietari.

Tra le tecnologie cosiddette sovrane, il Libro Bianco include quelle duali - le cosiddette dual-use technologies - le quali trovano ampio spazio all’interno del capitolo, come ad esempio nei punti 270 e 283, con l’obiettivo di indirizzare adeguate risorse nella ricerca e sviluppo di quei progetti che trovano conferma della loro validità e utilità duale anche a livello europeo.

Speculari e complementari, le competenze collaborative permettono all’Italia di giocare un ruolo di rilievo all’interno di programmi di collaborazione internazionale. Queste capacità tecnologiche vanno inserite in un logica di interdipendenza, specializzazione e divisione del lavoro tra i paesi partner. Di qui la necessità di identificare quei prodotti e sistemi che dovranno essere sviluppati e realizzati in un’ottica collaborativa.

Nel concludere questa parte dedicata alla competenze, il documento prevede la realizzazione di un Piano - flessibile, aggiornabile e stabilito in una logica di confronto anche con la controparte industriale - atto ad individuare le attività tecnologiche e industriali strategiche.

Un Piano che non si limiti a identificare e incrociare le esigenze e i requisiti tecnici delle Forze armate con le reali capacità tecnologico-industriali ma che consideri, non senza ragione, le possibilità “esportative” di tali capacità, il loro valore duale e altresì la coerenza con gli sviluppi e l’andamento del mercato.

Difesa e industria partner nella gestione dei programmi
La complessità tecnologica di prodotti e sistemi, caratterizzati da una crescente osmosi tra il campo civile e militare, richiede un cambio di passo nelle relazioni tra la Difesa e l’industria. Il modello di acquisizione che ha da sempre contraddistinto i processi di procurement dovrà essere coerentemente riformato con ricadute gestionali e organizzative che possano prevedere il passaggio di alcune competenze dalla Difesa alla controparte industriale, in un’ottica di maggiore compartecipazione e collaborazione tra i due attori; aspetti tratteggiati, ad esempio, nei punti 279 e 280.

Ma sono i successivi paragrafi che in qualche modo condensano e delineano una sorta di accelerazione, frutto del cambiamento tecnologico in atto: puntare alla progettazione di piattaforme e sistemi sempre più ad architettura aperta e modulari in grado di integrare i futuri aggiornamenti; fare leva sulle tecnologie duali e sfruttare le relative economie di scala per l’intero ciclo di vita del prodotto; optare per un “approccio a spirale” per acquisizioni complesse e di lungo periodo.

Tutto ciò implica anche una revisione profonda della forma contrattuale che trasformi “la natura e i contenuti del rapporto tra industria e Amministrazione da semplice fornitura a partnership strategica”.

Non c’è due senza tre: l’Università e la ricerca
La partnership tra Difesa e industria non si esaurisce in un rapporto bilaterale bensì deve trovare un ulteriore e terzo elemento di appoggio nel mondo universitario e della ricerca, mondo nel quale l’innovazione fiorisce, cresce e si sviluppa.

Come già avviene in molti altri Paesi, si auspica una sorta di sistema virtuoso in cui le idee e le proposte di ricerca più innovative possano trovare un canale preferenziale di accesso al finanziamento e quindi proseguire verso la loro realizzazione dopo un’attenta, ma rapida valutazione. Ne beneficerebbe l’intero “Sistema Italia”, con ramificazioni e ricadute economiche e occupazionali in altri settori, a partire da quelli attigui.

La politica scientifica, industriale e di innovazione tecnologica costituisce una delle quattro direttrici dentro la quale avviare la trasformazione della Difesa.

La “cornice” dentro la quale verrà attuato tale processo è la cosiddetta Strategia industriale e tecnologica (Sit), che dovrà essere predisposta entro sei mesi con l’obiettivo disegnare un nuova collaborazione in grado, si spera, di portare a compimento quanto di buono e concreto è stato definito con il Libro Bianco.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @AleRUnga).
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3063#sthash.qC7IN6KB.dpuf

Difesa Italiana: nuovi orizzonti di governance

Libro Bianco
La nuova governance della Difesa
Alessandro Marrone
14/05/2015
 più piccolopiù grande
Riformare la pubblica amministrazione in Italia è più difficile che vincere una guerra, ma il Libro Bianco ci prova per lo meno quanto a governance e organizzazione interna della Difesa, in un’ottica “strategica”.

Il Libro Bianco si prefigge esplicitamente lo scopo non solo di indicare quale strumento militare possa affrontare le sfide e opportunità in fatto di sicurezza internazionale e difesa, ma anche di individuare il modello di governance e organizzazione che sia in grado al tempo stesso di affrontare le suddette sfide e di rispondere a criteri di efficacia, efficienza ed economicità.

Obiettivi Vs risorse = priorità & scelte
In altre parole, è un documento “strategico” nel senso originario del termine, perché tenta di mettere in relazione obiettivi, modalità e mezzi per raggiungerli. Nel fare ciò, riconosce che le risorse per la difesa sono e resteranno limitate,e propone quindi scelte difficili e innovative. Viene così in mente la famosa battuta di Churchill rispetto al pensiero strategico: “ora che siamo a corto di soldi, dobbiamo pensare”.

Pensare a cosa? A come mantenere uno strumento militare che sostenga la politica di sicurezza internazionale e di difesa a protezione degli interessi vitali e strategici dell’Italia, come esplicitamente affermato nel punto 54.

Ciò vuol dire ad esempio concentrarsi su aree geografiche prioritarie per gli interessi nazionali, come fanno da tempo gli altri grandi Paesi europei, e mettere in secondo piano crisi pur drammatiche in altre regioni del mondo.

La nuova governance: 5 funzioni strategiche
Altre scelte strategiche riguardano non l’area di azione prioritaria, ma il modo in cui questa azione - ed in generale le attività della Difesa - sono svolte. Si tratta di scelte meno immediate da comprendere all’esterno, ma cruciali da due punti vista. A livello politico, toccano una questione fondamentale: chi comanda davvero le Forze Armate in Italia e come.

A livello operativo, sono scelte necessarie per mantenere nella realtà dei fatti quella utilizzabilità, proiettabilità, sostenibilità dello strumento militare - nonché la sua interoperabilità con gli alleati - evocate su carta quasi in ogni documento ufficiale Nato o Ue - o italiano, francese o britannico - degli ultimi 15 anni. I due livelli sono strettamente connessi, e dalla loro interazione dipenderà la capacità operativa dello strumento militare date le limitate risorse a disposizione.

Non a caso il Libro Bianco cerca di legare i due livelli, di nuovo in modo definibile come “strategico”, proponendo una nuova governance della Difesa articolata su cinque funzioni strategiche: direzione politica, direzione strategico-militare, generazione e preparazione delle forze, impiego delle forze, supporto delle forze (punto 147).

L’obiettivo è quello di riorganizzare comandi ed enti centrali e periferici in base a queste funzioni, accorpando ovunque possibile ed evitando duplicazioni e frazionamenti.

Il politico e il militare
Riguardo in particolare alla funzione strategica di direzione politica, le attribuzioni del ministro della Difesa sono fissate dal Codice dell’Ordinamento Militare del 2010 ed il Libro Bianco si concentra su come attuarle nella pratica.

Più che in altri settori della pubblica amministrazione, la specificità della Difesa rende difficile all’autorità politica acquisire le conoscenze necessarie per esercitare efficacemente quel potere decisionale che gli spetta in una democrazia compiuta.

Non si tratta qui di ambire ad una padronanza degli aspetti operativi e tecnici che non è competenza del decisore politico, né può o dovrebbe diventarla, ma di predisporre all’interno della Difesa quegli strumenti, e le relative risorse umane, che mettano in grado ministro e sottosegretari di turno di superare la “asimmetria informativa” a loro sfavore e quindi prendere decisioni consapevoli e verificarne attuazione e risultati.

Si tratta di un equilibrio difficile da raggiungere, ma che renderebbe più solido ed efficace il rapporto tra mondo politico e militare, nella chiarezza dei rispettivi ruoli.

Il comando interforze
Rispetto alle altre quattro funzioni strategiche, il Libro Bianco propone una serie di innovazioni importanti che, nel complesso, tendono ad una maggiore integrazione interforze, a vantaggio dell’efficacia, efficienza ed economicità dello strumento militare.

Ad esempio, per quanto riguarda la funzione “impiego delle forze”, il capo di Stato Maggiore della Difesa si avvarrà di un vice comandante per le Operazioni: quest’ultimo sarà a capo sia del Comando operativo di Vertice interforze sia dei Comandi operativi esistenti a livello di singola Forza Armata, nonché del Comando Interforze per le Operazioni speciali e di quello per le Operazioni cibernetiche.

In altre parole nell’assetto proposto al punto 173 qualunque operazione militare, anche se fosse eseguita da una sola Forza Armata, risalirebbe alla responsabilità del comando interforze.

Un’attuazione a tappe forzate
Il Libro Bianco affida una serie di compiti alle varie articolazioni della Difesa per l’attuazione di quanto previsto dal documento, delineando una marcia a tappe forzate che nel giro di un anno dovrebbe portare ad un adeguamento della normativa sia a livello legislativo sia di atti interni al ministero della Difesa.

Per aumentare l’impatto del documento, lo stesso Libro Bianco afferma di “costituire direttiva ministeriale”. Alla luce dell’esperienza della legge Di Paola, con gli elementi riformatori della 244/20012 sostanzialmente traditi dal decreto attuativo del 2014, è certo che il Libro Bianco rappresenta una tappa importante di un percorso di riforma ancora lungo, incerto, irto e insidioso, ma non per questo meno necessario e doveroso da percorrere.

Alessandro Marrone è ricercatore presso l'Area Sicurezza e Difesa dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3065#sthash.XC361Hum.dpuf

Difesa: una pietra miliare è stata posta

Libro Bianco
Un atto rifondatore della Difesa
Vincenzo Camporini
10/05/2015
 più piccolopiù grande
Il documento presentato dal ministro della Difesa al Consiglio Supremo del 21 aprile scorso, più che un Libro Bianco potrebbe essere definito un atto rifondatore della Difesa, per l’ampiezza e la profondità dell’analisi e per l’incisività delle misure riformatrici che vi sono evocate.

Come in tutti i Libri Bianchi, si prende l’avvio da un esame della situazione strategica internazionale e della sua possibile evoluzione, per poi accostarla a una disamina degli interessi nazionali in gioco, parametro questo che, unitamente a quello finanziario, pone chiari limiti al livello di ambizione dello strumento militare nazionale.

Limiti all’ambizione dello strumento militare nazionale
Si tratta di un livello che conferma quanto già definito in passato: un ambito geografico euro-atlantico e mediterraneo ampliato a Corno d’Africa e Golfo Persico, in un quadro di partecipazione alle istituzioni della Nato e dell’Unione Europea.

Tutto ciò potrebbe apparire una banalità, se non considerassimo che da tempo si osservano deviazioni anche importanti da parte di qualche componente di tale strumento, come se il nostro Paese potesse permettersi ambizioni se non di tipo globale, certo ampliate a tutto l’Atlantico e a tutto l’Oceano Indiano, come ampiamente dimostrato dalla recentissima approvazione di un imponente programma navale, avvenuta inopinatamente proprio durante la stesura del Libro Bianco, e non dopo la sua formalizzazione, come sarebbe stato giusto.

Da queste premesse segue poi un’analisi limpida di come occorre modificare norme, strutture, procedure al fine di soddisfare il requisito in un’ottica di sostenibilità finanziaria.

E qui emerge la natura radicale del documento, che si propone di avviare una riforma della governance che costituisca una piena concretizzazione della riforma del 1997, la riforma Andreatta, sostanzialmente tradita poi dal suo regolamento attuativo: un drastico ridimensionamento quindi degli spazi delle singole componenti, nel pieno rispetto della loro specificità, che nessuno vuol mettere in discussione, a favore di un rafforzamento dei poteri del capo di Stato Maggiore della Difesa, in un’ottica di un’indispensabile integrazione interforze che permetta grandi risparmi rimaneggiando inutili sovrastrutture a favore di un necessario efficientamento della spesa.

Da qui la visione di una logistica integrata (folle sarebbe mantenere due catene logistiche per gli NH90 di Esercito e Marina, così come folle sarebbe mantenere un assetto analogo per gli F35) e di una messa in comune delle attività di formazione e addestrative già oggi sovrapponibili e mantenute separate solo da miopi interessi campanilistici.

Il rischio della concentrazione dei poteri
Alcuni fanno notare il rischio di un eccessiva concentrazione di poteri nella figura del capo di Stato Maggiore della Difesa: al riguardo non dubito che un qualsiasi buon ministro della Difesa sappia tenere a bada anche il più ambizioso generale, solo che lo voglia, mentre ben più concreto sarebbe il rischio, purtroppo già più volte concretizzatosi, di una divergenza tra i comportamenti dei singoli capi di Forza Armata e le direttive ricevute dal capo di Stato Maggiore della Difesa nel quadro di un corretto rapporto gerarchico.

Sarà altresì importante che, pur nella subordinazione al Csmd, in quanto titolare della funzione logistica, il direttore nazionale degli Armamenti riceva direttive stringenti dal ministro per la corretta gestione delle attività di approvvigionamento, in un sano rapporto funzionale.

Si prepara una rivoluzione per quel che riguarda il personale. Su questo tema sarà opportuno fare analisi specifiche, ma a una prima osservazione appare chiaro che finalmente il tema è stato affrontato con chiarezza di idee: nessun Paese al mondo si permette di avere forze armate di mezza età, perché la specifica missione del militare richiede in generale forza fisica ed energie che ahimè dopo una certa età vengono meno.

Da qui un progetto che richiede una piena integrazione di intenti tra Difesa e mondo civile, pubblico e privato, in modo che le forze armate possano davvero essere considerate come una sorta di vivaio in cui, accanto alle specifiche competenze militari, vengano sistematicamente sviluppate competenze appetibili all’esterno, in modo che un giovane o una giovane, dopo un congruo periodo in armi, si veda offrire concrete opportunità di inserimento in altre realtà occupazionali.

Si prepara una rivoluzione per il personale
Ancora, vedo con favore l’idea di un ritorno al passato, in cui la funzione e il grado di maresciallo si conseguivano dopo un congruo periodo nei gradi inferiori: so che mi sto facendo molti nemici e che riceverò degli improperi e riconosco di aver toccato con mano le capacità e l’entusiasmo di molti giovani marescialli, ma credo che in generale l’esperienza che viene maturata nelle posizioni gerarchiche subordinate sia non solo preziosa, ma insostituibile e che una riforma di questo tipo avrebbe anche l’effetto di dare maggiore prestigio al grado.

Un’ultima osservazione infine sulla proposta di una legge di pianificazione per i maggiori programmi di investimento su base sessennale, con una revisione a metà percorso: da alcuni questa idea è vista come un modo surrettizio di eludere lo stretto controllo parlamentare sui programmi previsto dalla legge 244.

Ebbene, credo sia proprio il contrario: il Parlamento avrebbe finalmente una visione chiara e coerente della pianificazione militare, non sarebbe ‘assalito’, come purtroppo già accaduto, da una frammentazione inintelligibile, terreno ideale per l’azione delle diverse lobby, e sarebbe nelle condizioni di esercitare un pieno e consapevole controllo dell’equilibrata evoluzione della spesa e dell’adeguamento tecnologico, indispensabile per consentire al nostro strumento militare di mantenere un gradino di vantaggio su qualsiasi ipotetico avversario.

Qui mi fermo con le mie osservazioni iniziali, non senza doverosamente sottolineare che il Libro Bianco è un documento di indirizzo politico, la cui concretizzazione avverrà solo con l’approvazione di un corposo insieme di norme di diversa dignità giuridica, leggi, decreti legislativi, regolamenti e quant’altro, il che richiederà tempo, ma soprattutto un coerente sostegno politico che si dovrà misurare in anni.

È certamente apprezzabile la rigorosa e stretta tempistica imposta agli organi di staff negli ultimi paragrafi del testo, ma questo sarà solo l’avvio di un iter complesso, lungo il quale non ci si potranno permettere passi falsi.

Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3061#sthash.Hgf8a5ZU.dpuf

Network Enabled Capabilities (NEC) e la Difesa in Italia

Il programma Forza NEC
Forze Armate e innovazione tecnologica
Tommaso De Zan, Alessandro Marrone
28/05/2015
 più piccolopiù grande
I recenti arresti di hacker accusati di aver attaccato vari siti istituzionali, tra cui quello del Ministero della Difesa, hanno riportato l’attenzione sul tema della sicurezza cibernetica. In realtà le Forze Armate italiane e dei principali Paesi Nato già da anni stanno cercando di affrontare i rischi e cogliere le opportunità offerte dall’Information Communication Technology (ICT).

Usa, Europa, e le Network Enabled Capabilities (NEC)
In ambito Nato si punta ormai da un decennio alla digitalizzazione e messa in rete degli equipaggiamenti militari, ovvero alle NEC, per aumentare efficacia ed efficienza dello strumento militare proprio grazie alle nuove capacità “netcentriche”.

Negli Stati Uniti l’ICT e le capacità netcentriche sono divenute profondamente radicate nelle operazioni militari, soprattutto alla luce delle cosiddette “lezioni apprese” dalle operazioni in Iraq e Afghanistan.

L’approccio americano è contraddistinto dalla duplice constatazione delle enormi potenzialità, e delle altrettanto significative vulnerabilità, di un crescente affidamento a un complesso sistema di reti alla base delle capacità netcentriche.

La volontà di sviluppare tali capacità in ognuna delle sei “funzioni di combattimento” - Comando e Controllo, Intelligence, Fuoco, Movimento e Manovra, Protezione, Supporto - dimostra come il Pentagono punti decisamente verso una completa messa in rete degli assetti delle Forze Armate.

In Europa le ambizioni in fatto di NEC sono parzialmente diverse. Francia, Germania e Regno Unito hanno intrapreso un proprio percorso per la trasformazione netcentrica delle rispettive forze terrestri, che è stato influenzato anche dall’esperienza nelle missioni internazionali.

Ad esempio, nel primo decennio degli Anni 2000 la Francia ha iniziato rapidamente la digitalizzazione degli equipaggiamenti a livello del singolo soldato ed ha potuto sviluppare il processo verso i livelli superiori senza la pressione di impegni operativi quali quello in Iraq.

Viceversa, il Regno Unito ha dovuto ricorrere a dei requisiti operativi urgenti per equipaggiare le proprie brigate impegnate massicciamente nei teatri iracheno ed afgano, acquisendo spesso equipaggiamenti “chiavi in mano” direttamente sul mercato, da diversi fornitori, e complicando così la messa in rete degli assetti e la costruzione di una architettura netcentrica.

La Germania si è collocata in una posizione mediana rispetto ai due estremi francese e britannico.

In generale, i tre Paesi hanno adottato un approccio più cauto rispetto agli Stati Uniti nella digitalizzazione delle forze terrestri, anche a causa dei forti limiti di bilancio, ma hanno comunque riconosciuto l’importanza delle capacità netcentriche, in particolare del dominio cyber, investendo ingenti risorse nell’affrontare le sfide che le NEC comportano.

Il programma Forza NEC
In questo contesto si colloca l’esperienza italiana del programma Forza NEC, che sarà discussa in una prossima conferenza IAI a Roma.

Il programma si origina dalla concettualizzazione in ambito Nato delle NEC e dall’esperienza dell’Esercito nelle ultime missioni internazionali - principalmente in Afghanistan e Iraq, ma anche in Libano e Kosovo. Queste hanno evidenziato la necessità per la forza armata di dotarsi di un sistema di commando e controllo maggiormente in grado di raccogliere e gestire le informazioni provenienti dal campo di battaglia, di aumentare la capacità di aggiornamento della situazione in tempo reale e di potenziare i propri strumenti e piattaforme con sistemi di protezione attiva e passiva.

Forza NEC, nell’indicare la strada per la digitalizzazione delle forze terrestri, si pone come catalizzatore di altri programmi di procurement, andando a intervenire sia sugli aggiornamenti di programmi consolidati sia sulla definizione delle specifiche tecniche per quelli non ancora avviati.

Forza NEC è quindi un procurement sui generis, sia in quanto i suoi esiti costituiranno le fondamenta del processo di ammodernamento generale dell’Esercito, sia poiché convergono al suo interno altri programmi già avviati come il Sistema automatizzato di comando e controllo (Siaccon), il Sistema di comando, controllo e navigazione (Siccona) e Soldato Futuro.

Il programma si trova attualmente nella fase di Concept Development and Experimentation (CD&E), che si prevede termini entro il 2020, per un costo complessivo di 815 milioni di euro. Lo scopo primario della CD&E è effettuare una serie di test per valutare attentamente quelle tecnologie che saranno alla base della digitalizzazione dell’Esercito, fornendo le capacità necessarie per testare e validare l’architettura della forza digitalizzata attraverso la realizzazione su piccola scala di tutti i principali componenti dell’architettura NEC.

Le sfide della digitalizzazione
Il programma Forza NEC presenta molte sfide, in termini di sicurezza cibernetica, di asset legacy (ovvero i vecchi equipaggiamenti militari non digitali), di interoperabilità interforze, di gestione dei dati in teatro, di formazione e addestramento delle forze armate.Tra queste sfide, l’incognita principale riguarda proprio l’eventuale produzione di sistemi, piattaforme e assetti che sono stati finora concepiti e sperimentati in Forza NEC.

Questa incertezza è figlia principalmente delle risorse esigue di cui dispone la Difesa e della impossibilità di definire con esattezza come, quando e in che misura l’Esercito potrà acquisire gli strumenti necessari per perseguire con efficacia gli i compiti assegnati alle Forze Armate dalla politica estera e di difesa italiana.

Quanto alla digitalizzazione degli equipaggiamenti dell’Esercito, da un punto di vista operativo, ma anche finanziario e industriale, sembra fondamentale potere dare seguito alla fase di ricerca e sperimentazione con un piano di industrializzazione che soddisfi le esigenze della forza armata e che non renda la fase di CD&E un esercizio fine a sé stesso.

In questo modo, traendo i benefici diretti derivanti dalla digitalizzazione, si consentirà all’Esercito di ammodernarsi rimanendo in linea con i progressi tecnologici delle altre forze armate, alleate o potenzialmente ostili, nell’ottica delle sfide future che dovrà affrontare con i partner europei e atlantici.

Tommaso De Zan è Assistente alla ricerca presso l'Area Sicurezza e Difesa dello IAI.
Alessandro Marrone è ricercatore presso l'Area Sicurezza e Difesa dello IAI
.
- See more at: http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3082#sthash.3M0peDgS.dpuf