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giovedì 24 marzo 2016

Roma: idee per Buuxelles

Governance economica europea
Il rilancio di Padoan sull’Ue
Fabrizio Saccomanni
15/03/2016
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Una strategia europea condivisa per crescita, lavoro e stabilità, documento che il Ministro dell'Economia e delle Finanze, Mef, Pier Carlo Padoan, ha elaborato e reso pubblico a fine febbraio, ha una forte rilevanza politica sia sul piano interno italiano, sia sul fronte più ampio europeo.

Esso fa giustizia delle polemiche, rimbalzate tra Roma, Bruxelles e altre capitali europee, su un'Italia che "chiede solo e sempre flessibilità" e che non avrebbe una vera strategia economica coerente con le regole e gli impegni sanciti dai Trattati e dalla normativa europea.

In effetti, il documento del Governo italiano accetta di confrontarsi con tutte le tematiche e le proposte emerse nel dibattito sulla riforma della governance europea a partire dal programma presentato al Parlamento Europeo da Jean-Claude Juncker nel giugno del 2014 a sostegno della propria candidatura a Presidente della Commissione e fino al Rapporto dei Cinque Presidenti sul Completamento della Unione Economica e Monetaria del giugno 2015 già commentato su questa rivista.

Riforma della governance economica di ampio respiro
Il documento italiano rigetta di fatto la posizione che sembra aver prevalso in queste ultime settimane nelle istituzioni europee, ossia che con la crisi dei rifugiati, la minaccia del terrorismo e la prospettiva della Brexit, l’Unione Europea, Ue, abbia cose più importanti da discutere che non la riforma della sua governance.

Questa linea è apparsa purtroppo assai chiaramente in occasione del Consiglio Europeo del 17-18 dicembre scorso, quando i Capi di Stato e di Governo hanno di fatto rimesso in discussione i contenuti più innovativi del Rapporto dei Cinque Presidenti, rinviando ogni deliberazione in materia dopo ulteriori riflessioni e comunque alla fine del 2017.

Al contrario, il documento italiano giustamente postula che la riforma della governance debba avere un respiro ampio e tenere conto di tutti i problemi economici, sociali, di sicurezza che l’Ue si trova oggi ad affrontare. Non solo quelli della stagnazione e della disoccupazione, ma anche quelli che premono alle frontiere esterne dell'Unione e creano tensioni tra i paesi che fanno parte dell'Unione Economica e Monetaria e quelli che ne stanno fuori.

Del resto è ovvio che soluzioni permanenti alle emergenze delle emigrazioni di massa e della sicurezza interna non potranno essere trovate se non con misure che avranno implicazioni economiche e di bilancio significative.

Una governance economica riformata è indispensabile per evitare che si realizzi una violazione collettiva delle regole fiscali per effetto di misure individuali assunte in modo non coordinato per fronteggiare tali emergenze. Ne deriverebbe una grave perdita di credibilità dell'impegno per la sostenibilità fiscale che è uno dei capisaldi della Unione monetaria.

Rilancio degli investimenti, attuazione di riforme strutturali e promozione della responsabilità fiscale
Il tema centrale del documento è il richiamo all'esigenza di un "Comprehensive Policy Mix" che copra un ampio spettro di politiche economiche. Il capitolo ruota intorno ai tre pilastri della strategia europea, già ribaditi nel recente Annual Growth Survey della Commissione: il rilancio degli investimenti, l'attuazione di riforme strutturali e la promozione della responsabilità fiscale.

Niente di rivoluzionario quindi, salvo la sottolineatura che questi interventi si rafforzano vicendevolmente e quindi devono essere attuati simultaneamente, anziché in un’arbitraria sequenza temporale. Altro leit-motiv del capitolo è che il policy mix deve essere indirizzato a obiettivi per l'area dell'euro nel complesso e deve implicare un coordinamento degli interventi a livello dell'area.

La politica fiscale occupa qui un posto centrale. Non si propone nessun ulteriore aumento della "flessibilità" nell'ambito del Patto di Stabilità e Crescita rispetto a quanto già previsto dalla recente comunicazione della Commissione. Si richiede però che lo spazio fiscale disponibile venga utilizzato per sostenere la crescita.

Su questo punto, il documento del Mef solleva una questione interessante dal punto di vista analitico generale quando argomenta che le regole fiscali del Patto di stabilità si sono rivelate inefficaci a fronteggiare l'impatto negativo della bassa inflazione sulla crescita potenziale e sulla dinamica del debito; ne segue la proposta, che meriterebbe di essere più dettagliatamente articolata, di "incorporare gli andamenti dei prezzi nelle regole fiscali".

In questo contesto, il documento auspica anche che il nuovo European Fiscal Board, recentemente proposto dalla Commissione Europea, formuli "raccomandazioni di politica fiscale per la zona euro nel suo complesso"; si tratta di una critica implicita alla timidezza con cui la Commissione Europea ha finora svolto questo compito che pure rientra nelle sue competenze.

Procedura per gli squilibri macroeconomici
Un altro spunto rilevante è la proposta di introdurre maggiore simmetria nel processo di aggiustamento macroeconomico, essenzialmente applicando la Procedura per gli Squilibri Macroeconomici, Psm, in maniera più efficace a questo fine. Questo è un punto cruciale del dibattito europeo sul quale finora non si è fatto alcun progresso.

La Psm non viene infatti applicata a paesi, come la Germania, con un elevato surplus della bilancia dei pagamenti corrente, ossia che realizzano un volume di investimenti molto inferiore alla massa di risparmio nazionale. La Germania ha sempre sostenuto di non poter correggere lo squilibro attraverso una politica di bilancio più espansiva perché ciò sarebbe in contrasto con la strategia di mantenimento della sostenibilità fiscale nel lungo periodo.

La Commissione non è stata in grado finora di individuare meccanismi alternativi per rendere pienamente operativa la procedura e forse sarebbe opportuno mettere formalmente all'agenda dei lavori dell'Ecofin una riforma della Psm.

In quella sede si dovrebbe forse affrontare il problema della non-compliance della Germania in termini diversi da quelli fin qui usati. Si prenda atto che la Germania non è disponibile a perseguire una politica di sostegno alla domanda interna ampliando il disavanzo pubblico; si chieda alla Germania di ridurre gradualmente, ma con impegni vincolanti, il divario tra risparmio e investimento, eventualmente incanalando i deflussi di capitale che sono la contropartita del suo avanzo commerciale, verso il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici, Feis, creato lo scorso anno per realizzare il piano Juncker per gli investimenti.

Investimenti strutturali
Il documento del Mef dà grande rilievo al tema del rilancio degli investimenti infrastrutturali e sottolinea come il Feis si debba impegnare a finanziare "progetti che non verrebbero altrimenti realizzati a causa di rischi elevati, fallimenti del mercato o vincoli finanziari e di bilancio". Il punto analitico è molto valido e si integra bene con la proposta di finanziare "beni comuni europei" come le grandi reti o l'Unione energetica.

Il documento collega il rilancio degli investimenti all'approfondimento del Mercato unico, superando gli interessi dei monopoli nazionali (specie in campo energetico), le barriere istituzionali e i colli di bottiglia che hanno finora impedito di realizzare a pieno tutti i vantaggi dell'aperture dei mercati. Su questi temi fondamentali, tuttavia, non si sono finora realizzati progressi significativi nelle sedi europee e l'Italia dovrebbe proporre un esame approfondito nel Consiglio Ecofin delle cause dei ritardi nell'attuazione del piano Juncker.

Strettamente collegato al tema degli investimenti e dell'apertura dei mercati è il sostegno del Mef alla piena realizzazione dell'Unione bancaria e dell'Unione dei mercati dei capitali. Anche qui viene sollevato un importante punto analitico quando si sostiene la necessità che l'Unione bancaria, ancora incompleta, venga dotata di strumenti efficaci per la gestione delle crisi sistemiche. In tal modo si accrescerebbe la fiducia nella stabilità del sistema bancario europeo, contribuendo quindi alla riduzione del rischio sistemico, in un contesto in cui condivisione e riduzione del rischio si rafforzano vicendevolmente.

Fabrizio Saccomanni, economista, è Vicepresidente dello IAI. Ministro dell’Economia del governo Letta dal 28 aprile 2013 al 22 febbraio 2014. Già Direttore generale della Banca d’Italia.

Vedi anche:
L'Italia e la riforma della governance economica europea
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Roma i sempre precari conti pubblici

Conti pubblici 
Bruxelles, la sentinella che indica la strada a Roma
Veronica De Romanis
16/03/2016
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Il 9 marzo, la Commissione europea ha inviato al governo italiano - ma anche a quello di Belgio, Romania, Finlandia e Croazia - una lettera sullo stato dei conti pubblici. I due firmatari della comunicazione - il Vice Presidente Valdis Dombrovskis e il Commissario agli Affari Economici Pierre Moscovici - hanno espresso preoccupazione in merito al rispetto delle regole di bilancio contenute nel Patto di Stabilità e Crescita.

In particolare, hanno evidenziato l’esistenza di rischi di “deviazione dal percorso di aggiustamento verso l’obiettivo di medio termine nel 2015 e di una significativa deviazione nel 2016”. Rischi che - la lettera è molto precisa su questo punto - non verrebbero comunque mitigati da un’eventuale attivazione della clausola di flessibilità per le spese sostenute in disavanzo per i migranti.

Riportare i conti pubblici su un sentiero sostenibile
Il governo di Roma viene, pertanto, invitato a prendere le misure necessarie per riportare i conti pubblici su un sentiero sostenibile, soprattutto per quanto attiene al debito che, per essere in linea con i vincoli fiscali, deve diminuire nei prossimi anni.

Nessuna quantificazione numerica, però, da parte della Commissione. Solo una di metodo di lavoro e una data: “è importante” - scrivono Dombrovskis e Moscovici - che le suddette misure siano annunciate in maniera “credibile” e “dettagliata” al più tardi il 15 aprile prossimo, ossia al momento della presentazione del Documento di Economia e Finanza (Def).

Se questa lettera non può essere considerata un vero e proprio “allarme” sullo stato di salute delle finanze italiane – bensì un “avvertimento anticipato” come lo ha definito lo stesso Dombrovskis - sicuramente rappresenta una chiara richiesta all’Italia a rimodulare la sua strategia di bilancio. Anche perché oltre ai rischi di finanza pubblica, l’esecutivo comunitario ha evidenziato il perdurare di rischi di natura macroeconomica che inevitabilmente impattano sui conti dello stato.

Gli Squilibri eccessivi dell’economia italiana
Nell’ambito della procedura sugli squilibri macroeconomici (introdotta nel 2011 con l’adozione del Six Pack), dei diciotto paesi sottoposti nel novembre scorso ad un esame approfondito (“in depth review”), l’Italia (insieme a Bulgaria e Francia, Croazia e Portogallo) continua a presentare “squilibri eccessivi” a causa dell’elevato debito, della bassa produttività che incide sulla competitività del paese, della elevata disoccupazione (soprattutto quella di lunga durata) e del sistema bancario indebolito dalla lenta risoluzione delle sofferenze bancarie.

La Commissione riconosce che sono già state prese diverse misure per riformare il mercato del lavoro, le istituzioni, l’istruzione. Tuttavia, l’azione di governo viene giudicata ancora carente per quel che riguarda le privatizzazioni, la contrattazione collettiva, la spending review, l’apertura del mercato, la semplificazione del fisco e la lotta alla corruzione.

Sia sul fronte degli squilibri di finanza pubblica sia su quello degli squilibri macroeconomici, la Commissione intende aprire un dialogo costante e costruttivo con il governo italiano per utilizzare al meglio il tempo che resta prima della valutazionedefinitiva, che avverrà nel mese di maggio sulla base del Def e tenuto conto delle previsioni europee di primavera (che incorporeranno i dati fiscali a consuntivo del 2015 validati da Eurostat).

Italia, fonte di possibile vulnerabilità
L’Italia non è certo l’unico paese ad essere sotto esame: altri hanno ricevuto una lettera sullo stato dei conti pubblici e altri presentano squilibri macroeconomici eccessivi. Tuttavia, l’Italia si trova in una posizione del tutto particolare per via delle sue dimensioni (è la quarta economia dell’Unione europea e la terza dell’area dell’euro) e del suo debito (il secondo più elevato dopo quello greco). Rappresenta, dunque, una fonte di potenziale vulnerabilità per l’intera areaa causa degli effetti di ricaduta sugli altri stati membri.

La ripresa ancora debole dell’economia italiana - il 2015 si è chiuso con uno 0,8 per cento e il 2016 rischia di iniziare con una crescita di circa lo 0,1 per cento - preoccupa Bruxelles anche perché sembra essere in larga parte ascrivibile a fattori esterni: prezzo del petrolio ai minimi storici, tassi di interessi bassi, etc.
< br> Le misure varatenon sembrano, infatti, avere ancora sortito appieno gli effetti sperati: sia perché ancora incomplete (al Jobs Act, ad esempio, manca ancora l’attuazione delle politiche attive), sia perché sono andate in direzione opposta da quella suggerita dalla Commissione (taglio delle tasse sugli immobili invece che sui fattori produttivi).

Ecco perché nella suddetta lettera, Dombrovskis e Moscovici invitano il governo di Roma a proseguire l’azione riformatrice “tenendo conto delle raccomandazioni del Consiglio”, ossia di quelle indicazioni puntuali che ogni anno vengono fatte ai paesi per aiutarli a colmare i divari di crescita.

Bruxelles svolge il suo lavoro di “sentinella” degli squilibri di finanza pubblica e macroeconomici: lo scopo è di prevenirli e correggerli. La crisi ancora in atto, del resto, è stata amplificata, e in alcuni casi causata, proprio dal permanere di questi squilibri.

Ora, però, la palla è nel campo del governo italiano. In realtà, si tratta semplicemente di seguire la via già annunciata. A cominciare da una spending review più incisiva (la Legge di Stabilità prevede solo cinque miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica) e da una riforma della pubblica amministrazione vera e coraggiosa che cambi effettivamente il modo di operare dello stato al fine di stimolare gli investimenti e la creazione di posti di lavoro.

Veronica De Romanis, economista, è autrice de “Il Caso Germania: così la Merkel salva l’Europa” (Marsilio editori).
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venerdì 18 marzo 2016

Roma: il nodo della Libia

Missioni all’estero
Libia, nessuna “licenza di uccidere” ai nostri 007 
Natalino Ronzitti
08/03/2016
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L’invio di un corpo di spedizione italiano in Libia è per il momento archiviato. Il premier Matteo Renzi ha posto tre formidabili paletti, che rispondono ad altrettante condizioni di difficile realizzazione: un’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la richiesta da parte di un governo libico di unità nazionale, il via libera del nostro Parlamento.

Con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 10 febbraio scorso, subito secretato - ma di cui taluni organi di stampa hanno fornito qualche dettaglio -, si è invece deciso di attivare il meccanismo previsto dall’ultimo decreto missioni (D.L. 174/2015, convertito con L. 198/2015), che consente l’invio di personale delle Forze armate a supporto di una missione di intelligence.

La catena di comando fa quindi capo a palazzo Chigi. Si è deciso così di non restare indietro rispetto ad altri paesi, come Francia, Regno Unito e Stati Uniti, che già operano sul terreno mediante missioni più o meno coperte, la cui consistenza e il modus operandi non è dato conoscere con esattezza.

Intelligence, non peace-keeping
Conviene subito sgombrare il campo da erronee interpretazioni e precisare che la missione che il governo italiano si accinge ad inviare in Libia- affidata all’Aise (l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna) - non ha niente a che vedere con un intervento in Libia, volto alla stabilizzazione del paese.

Tale missione, infatti, non può avere un ruolo di supplenza di un intervento di peace-keeping o di peace-enforcement: l’art. 7bis della L. 198/2015 consente al presidente del Consiglio di emanare disposizioni per l’adozione di “misure di intelligence di contrasto”, con la cooperazione di forze speciali della difesa, in situazione di crisi o di emergenza all’estero, che coinvolgano aspetti di sicurezza nazionale o per la protezione di nostri cittadini all’estero.

Le garanzie funzionali
Al personale dei servizi di sicurezza impegnato all’estero, non è concessa nessuna “licenza di uccidere”. Le “garanzie funzionali”, di cui esso gode, non possono spingersi fino a coprire condotte dirette “a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone”. Lo esclude l’art. 17 della L. 124/2007, che ha disciplinato i servizi di intelligence. Quindi niente “uccisioni mirate”.

La componente militare 
Anche al personale militare si applicano, ove ne ricorrano i presupposti, le “garanzie funzionali” previste per gli agenti dei servizi. Ma, in una situazione bellica, quale quella libica, queste sono ben poca cosa rispetto ad altre guarentigie di cui i militari godono.

Ad essi viene applicato il codice militare di pace, con la relativa competenza del Tribunale di Roma. I militari possono far uso della forza, purché ciò avvenga in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio e agli ordini legittimamente impartiti, come previsto dal D.L. 152/2009.

Ovviamente, la condotta del militare non è scusabile quando essa integri gli estremi di un crimine internazionale. La L.198/2015 lo esclude espressamente, richiamando gli articoli 5 e seguenti dello Statuto della Corte penale internazionale.

È in qualche modo previsto un controllo parlamentare, sia pure indiretto. Infatti le disposizioni per le misure di “intelligence di contrasto” possono essere adottate solo dopo che il Presidente del Consiglio dei Ministri abbia acquisito il parere del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.

I punti da chiarire
Tutto chiaro quindi? Niente affatto. La disposizione inserita nella legge missioni è praticamente alla sua prima applicazione e se ne potrà dare un giudizio definitivo solo dopo che sia stato effettuato il necessario rodaggio. Il solo punto certo è quello che dicevamo in apertura. Le missioni di “intelligence di contrasto” non sono una missione di peace-keeping né tantomeno di peace-enforcement.

Escluso che esse possano essere impiegate per effettuare “uccisioni mirate”, tanto care a taluno dei nostri alleati, resta da chiarire in quali occasioni le forze speciali della difesa possano impiegare la forza armata.

Viene ad esempio specificato che le missioni di “intelligence di contrasto” possono essere impiegate per “la protezione dei cittadini italiani all’estero”. In una situazione in cui i nostri cittadini si trovino in pericolo di vita, come si è drammaticamente verificato anche di recente con il caso dei quattro tecnici della Bonatti, la componente militare della missione può intervenire per liberare gli ostaggi? Il diritto internazionale lo permette e non è necessario il consenso del governo locale.

Ma può, sul lato interno, una missione di intelligence di contrasto spingersi a tanto? In altri termini andrebbero chiariti, pur con la necessaria elasticità, limiti e potenzialità delle missioni di intelligence a compartecipazione militare. Si tratta di una materia che attende da tempo una sistemazione globale, che non può essere affidata ai vari decreti missione, che si succedono nel tempo e che contengono zeppe, che costituiscono frammenti di una legislazione che dovrebbe essere unitaria.

Le speranze sono affidate ad una rapida conclusione del disegno di legge contenente le “Disposizioni concernenti la partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali” approvato dalla Camera nel maggio scorso ed ora all’esame del Senato.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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lunedì 14 marzo 2016

LIbia: verso una nuova "proxy strategy"?

Medio Oriente
Libia, i dubbi italiani sull’intervento
Roberto Aliboni
07/03/2016
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Il governo italiano ha recentemente deciso di contribuire, con cautela, all’azione di controterrorismo di Usa, Francia e Regno Unito verso l’ala libica dell’autoproclamatosi “stato islamico”, Isis. Sta invece riconsiderando l’eventualità di un intervento militare nel paese.

Di questo intervento si è molto parlato, anche perché l’insistente rivendicazione della sua guida da parte del governo ha fatto pensare che ci fosse un interesse politico a realizzarlo di più vasta portata.

Si è fatto riferimento a una missione dai 3 a 7000 uomini, per due terzi italiani, appoggiata da navi militari, con compiti di addestramento delle forze libiche e sostegno alla formazione di una forza militare nazionale destinata ad assorbire le milizie esistenti. Questo intervento avverrebbe in sinergia con le operazioni di controterrorismo a contrasto dell’Isis (forze speciali, sostegno a forze locali in funzione anti-Isis; bombardamenti).

Intervento in Libia, il dibattito italiano
Il dibattito in Italia sul merito di queste operazioni è stato poco consapevole. Quando si è iniziato a parlare di intervento non c’era l’Isis e si pensava soprattutto all’addestramento di una forza “a fini generali”, cioè nazionale, da mettere a disposizione dell’ex governo di Ali Zeidan, incapacitato e intimidito dalle milizie di parte, con il compito di difendere le sedi istituzionali, le grandi infrastrutture, la banca centrale e gli impianti petroliferi.

Il naufragio, nel marzo 2014, del governo Zeidan, la guerra civile e infine l’avvento dell’Isis hanno cambiato il paesaggio e hanno dato un nuovo significato e nuovi contenuti all’eventuale intervento dell’Occidente. Le finalità dell’intervento restano simili, ma il suo obbiettivo strategico è ora di costituire le condizioni perché la Libia si metta in grado, politicamente e quindi militarmente, di combattere l’Isis.

C’è una profonda logica obamiana in questa strategia: i paesi dell’Occidente sostengono con il controterrorismo le forze locali, che sono quelle che combattono e occupano il territorio: una “proxy strategy”. Non è riuscita in Siria; pena molto ad affermarsi in Iraq e, tuttavia, viene oggi tentata anche in Libia.

Efficacia delle operazioni di controterrorismo
I governi che hanno deciso di avviare operazioni di controterrorismo in Libia sanno che l’efficacia di una strategia di controterrorismo è condizionata dall’appoggio che essa può ricevere in loco da forze armate o di sicurezza nazionali. Se questo appoggio manca, nascono complicazioni e il successo della strategia è seriamente in forse.

In Libia non solo non esiste un governo con forze armate e polizia a disposizione, ma esiste invece un grave vuoto di potere e un’estesa frammentazione di milizie, l’una contro le altre armate, che non di rado sono bande criminali.

Si è atteso e sperato che il processo di costituzione di un governo di unità nazionale emergesse dalla lunga mediazione delle Nazioni Unite, ma - per errori e incidenti - questa ha messo capo a un processo debole e fratturato che partorirà un governo irrilevante o addirittura abortirà.

Questa situazione rende precaria l’azione di controterrorismo promossa dalla nascente coalizione che abbiamo visto. Ciò ha reso più urgente l’intervento militare di sostegno, perché esso dovrebbe assicurare quell’autorità nazionale cui appoggiare le operazioni di controterrorismo anti-Isis e creare le condizioni politico-militari di una lotta all’Isis condotta da forze nazionali libiche.

Date le condizioni, è un progetto che si muove sul filo di una corda. Le operazioni di controterrorismo che sono già iniziate vanno avanti in condizioni difficili perché in assenza di forze nazionali si devono appoggiare a questa o quella fazione, locale o regionale.

In un contesto in cui le fazioni sono innanzitutto in lotta fra loro (e solo secondariamente con l’Isis) l’appoggio a una determinata fazione (armi, risorse, intelligence) è visto dalle altre come una minaccia e costituisce un incentivo ad allearsi con l’Isis. Nel medio periodo un controterrorismo esercitato in condizioni come quelle libiche è destinato ad diventare controproducente e a far fallire l’intervento.

Il problematico sostegno al governo libico
Per questo motivo sono emerse le pressioni sull’Italia perché realizzasse l’intervento di cui peraltro il governo pareva tanto avido. L’Italia è invitata a indossare la maglietta di un intervento di sostegno “strutturale” alle operazioni di controterrorismo in corso per (a) addestrare le forze libiche; (b) proteggere infrastrutture e sedi istituzionali e (c) consentire le condizioni politiche e militari atte a far nascere forze libiche capaci di fronteggiare l’Isis (e portare a buon fine l’appoggio esterno del controterrorismo occidentale). Cioè sostenere il governo libico.

Questo appoggio si presenta molto problematico perché, come abbiamo detto, la base di partenza è nella migliore delle ipotesi un governo diviso e politicamente irrilevante.

Si può decidere di appoggiarlo lo stesso, ma a due condizioni: (1) che i sostenitori regionali dei contendenti (l’Egitto, il Qatar, la Turchia e, da ultimo, anche la Tunisia) vengano in qualche modo convinti a cessare le loro interferenze; (2) che si mettano in essere le condizioni perché abbia rapida ed efficace attuazione il programma di empowerment di un governo per ora inesistente mediante l’attuazione di una efficace e rapida riforma del settore di sicurezza.

Il successo della riforma, da un lato eliminerebbe alcuni ostacoli politici importanti, revocando l’ipoteca del generale Khalifa Haftar e dei suoi sostenitori sul governo, dall’altro grazie al formarsi di una forza di sicurezza nazionale coesa ed efficace darebbe l’autorità al governo.

Riforma del settore di sicurezza
Una riforma del settore di sicurezza non è facile. Innanzitutto, l’addestramento deve avvenire all’interno di una quadro di riforma che metta i militari addestrati sotto l’autorità di un governo centrale.

In secondo luogo, occorre che le risorse siano date solo a quei gruppi che accettino di subordinarsi al governo riconosciuto, che le risorse affluiscano solo attraverso il governo centrale e che siano posti in essere dei meccanismi di coordinamento militare a livello regionale e locale che servano da collettori delle milizie in attesa di un loro concreto dissolvimento e dell’integrazione degli uomini nelle nascenti strutture nazionali.

È necessario che il governo italiano spieghi al Parlamento e al Paese di che cosa si tratta (posto che la stampa continua a far credere che si tratti di un’operazione militare convenzionale e fa confusione fra l’Isis e la Libia).

Deve essere assicurata una forte e franca coordinazione politica fra i membri della coalizione occidentale, a cominciare dal contenimento dei padrini regionali. Si richiede, infine, da parte dei comandi e degli uomini una grande abilità “politica” e “diplomatica” nella gestione di un’impresa militare che è in realtà sensibilmente politica. Ha ragione il governo a dubitare e voler riflettere.

Roberto Aliboni è consigliere scientifico dello IAI.
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Interesse Nazionale. Dal Mediterraneo al Mondo Globalizzato Invito

La S.V. è invitata al convegno L’interesse nazionale. 
Dal Mediterraneo al Mondo globalizzato, cosa serve all’Italia e come proteggerlo,
che si terrà martedì 22 marzo p.v. dalle ore 10 alle ore 13
 presso la Sala Aldo Moro di Palazzo Montecitorio, Camera dei Deputati.

Nell’Italia repubblicana poco spazio hanno trovato le discussioni
sul “interesse nazionale”, espressione addirittura espunta dalla
Costituzione con la riforma del 2001. Il multilateralismo ha
costituito un cardine della nostra politica estera e i continui tagli
alla Difesa lo renderanno sempre più una scelta obbligata,
 come sembra suggerire anche il recente Libro Bianco:
 se vengono meno le nostre capacità, bisogna fare affidamento
su quelle altrui. Ma l’Italia può davvero demandare la difesa
 del proprio interesse nazionale alle alleanze di cui fa parte?
 Il nostro interesse nazionale coincide sempre con quello degli alleati?
Gli eventi in Libia e Siria negli ultimi anni e la gestione della conseguente
 emergenza migranti hanno incrinato questa certezza a lungo nutrita
 dalla classe dirigente italiana. Con quest’incontro l’Istituto di
Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG)
 vuole rilanciare il dibattito circa l’interesse nazionale
 italiano e gli strumenti e le modalità atti a definirlo e sostenerlo.

Al tavolo dei relatori, a discutere saranno diplomatici, imprenditori,
militari, politici e rappresentanti dell’Istituto.
Per maggiori informazioni, consultare la locandina cliccando qui.

L’ingresso sarà consentito solo agli uditori registrati
tramite il seguente modulo in linea: clicca qui.
Si ricorda che non sarà possibile introdurre alimenti e
bevande nell’edificio e che per i signori
uomini sono obbligatorie giacca e cravatta.
Per consultare gli archivi di Eventi - IsAG // cliccare
Per contattarci //cliccare

Roma: chi ci protegge?

Intercettazioni
Anche Berlusconi nell’occhio del grande fratello 
Mirko Sossai
01/03/2016
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È stata rilanciata con enfasi da tutti i principali quotidiani nazionali la notizia della pubblicazione da parte di Wikileaks di intercettazioni effettuate nel 2011 dall’Agenzia di sicurezza nazionale statunitense (NSA) nei confronti dell’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

Ciò ha riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica la questione dei programmi di sorveglianza elettronica condotti dagli Stati Uniti, insieme al Regno Unito e ai partner appartenenti al gruppo dei ‘five eyes’, nei riguardi sia di individui comuni sia dei leader di governi alleati. Le rivelazioni di Edward Snowden nel 2013 avevano allora innescato un vivace dibattito circa la liceità di tali programmi e i possibili limiti alle attività di intelligence.

Lo spionaggio nel diritto internazionale
L’intercettazione di comunicazioni effettuate da un primo ministro o da altri organi dello stato ricade nella definizione di spionaggio, dal momento che costituisce raccolta di informazioni senza il consenso dello stato. Occorre precisare che per i programmi effettuati dalla NSA non si può parlare di spionaggio in tempo di guerra, condotta comunque lecita in diritto internazionale, sebbene la spia non abbia diritto allo status di prigioniero di guerra.

Quanto allo spionaggio in tempo di pace, è opinione condivisa che non vi sia alcuna specifica norma di diritto internazionale generale che lo vieti. È inoltre difficile sostenere che lo spionaggio costituisca di per sé un illecito intervento negli affari interni, dal momento che occorrerebbe dimostrare l’esistenza di un certo grado di coercizione rispetto alle scelte politiche di un altro Stato.

Taluni hanno invece sostenuto che l’intercettazione di comunicazioni riservate che coinvolgano organi dello stato possa comunque configurarsi come una violazione della sovranità statuale nel suo senso più classico. Resta il fatto che gli Stati rimangono liberi di considerare penalmente perseguibili le attività di spionaggio per conto di servizi segreti stranieri.

Diritto alla privacy nell’era digitale
Nel dicembre 2013, su iniziativa del Brasile e della Germania, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite aveva adottato la ris. 68/167, con la quale si esprimevano forti preoccupazioni sull’impatto negativo dei programmi di sorveglianza e intercettazioni sul godimento dei diritti umani. La risoluzione precisa che il quadro giuridico di riferimento fondamentale è costituito dall’art. 12 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dall’art. 17 del Patto sui diritti civili e politici, il quale vieta ogni interferenza arbitraria o illegittima nella vita privata.

Su richiesta della stessa Assemblea generale, l’Alto Commissario per i diritti umani ha quindi prodotto un rapporto sul “diritto alla privacy nell’era digitale”, che ha aperto la strada alla nomina nel luglio 2015, in senso al Consiglio dei diritti umani dell’ONU, di un relatore speciale sul diritto alla privacy, nella persona del maltese Joseph Cannataci.

Sorveglianza di massa e diritti umani
L’azione delle Nazioni Unite ha certamente contribuito a indirizzare il dibattito in parte sui binari dei diritti umani degli individui coinvolti nei programmi di sorveglianza e non soltanto degli interessi e della sovranità degli stati. Naturalmente, una questione preliminare di non poco conto è se le intercettazioni di un capo di governo estero ricadano nell’ambito di applicazione del Patto sui diritti civili e politici.

Per quanto gli Stati Uniti continuino ad avanzare un’interpretazione restrittiva del concetto di giurisdizione, limitandolo al territorio dello stato, vari autori hanno invece sostenuto che i trattati sui diritti umani si applichino anche a interferenze c.d. ‘extraterritoriali’ con il diritto alla privacy.

Quanto agli aspetti sostanziali, la tutela della privacy contenuta nell’art. 17 del Patto sui diritti civili e politici si esprime in termini generici e non chiarisce che cosa si debba intendere per un’interferenza arbitraria nella vita privata. Il corrispondente art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce che le ingerenze dell’autorità pubblica devono essere stabilite per legge e debbono costituire una misura necessaria, in una società democratica, per tutelare la sicurezza nazionale e quella pubblica.

Misure di sorveglianza in Francia e Ungheria
Il tema è di strettissima attualità anche in ragione della recente adozione in Francia di una nuova legge sulle misure di sorveglianza delle comunicazioni elettroniche internazionali, dopo gli eventi di Parigi del 13 novembre 2015, che espande i poteri dell’esecutivo in materia di acquisizione di dati, senza preventiva autorizzazione o controllo giudiziario.

Vi è da sottolineare che in una recente decisione (Szabó e Vissy c. Hungary), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto contraria all’art. 8 della Convenzione la legislazione antiterrorismo ungherese, che prevede attività di sorveglianza segreta, dal momento che non contiene garanzie sufficientemente precise, efficaci e complete.

Già nel settembre 2014 aveva suscitato scalpore il rapporto del Relatore speciale dell’ONU sul rispetto dei diritti umani nella lotta al terrorismo, Ben Emmerson, il quale denunciava che l’esistenza di programmi di sorveglianza su vasta scala costituisse un’interferenza sproporzionata con il diritto alla privacy. Vi si osservava che sebbene via fosse un interesse pubblico al contrasto al terrorismo, ciò non potesse giustificare misure di sorveglianza senza alcun limite sia rispetto alle categorie di persone coinvolti nella misura sia alla loro durata.

Mirko Sossai è ricercatore di diritto internazionale all’Università Roma Tre.
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mercoledì 9 marzo 2016

Roma. la costruzione di ponti


Relazioni Italia-Ue
Roma si allei con una commissione più forte
Marinella Neri Gualdesi
29/02/2016
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A Roma “per costruire ponti”. Questo almeno l’obiettivo dichiarato della recente missione di Jeanne Claude Juncker a Roma. Dai colloqui sembra però che siano emerse in effetti più opinioni convergenti che disaccordi.

Tutto tranquillo dunque dopo gli scambi polemici di gennaio con il presidente del Consiglio italiano? Non ancora. Renzi e Juncker hanno alcuni mesi decisivi davanti per trovare un terreno di intesa o tornare a alimentare una contrapposizione.

Juncker: no all’austerità sciocca e cieca
Il confronto tra il governo italiano e Bruxelles ha assunto negli ultimi mesi toni inusitatamente duri, principalmente sui margini di flessibilità nell’applicazione del Patto di stabilità.

Prima della visita a Roma del presidente della Commissione, Renzi ha ricordato che l’impegno ad accettare margini di flessibilità faceva parte dell’accordo che ha portato alla nomina di Juncker. Richiamando in un certo senso l’ex premier lussemburghese a rispettare il patto elettorale alla base della sua designazione alla presidenza della Commissione. Vale a dire un programma dell’esecutivo incentrato su crescita e occupazione.

Al termine dell’incontro, Renzi ha dichiarato di sottoscrivere pienamente la comunicazione del 13 gennaio 2015 della Commissione sulla flessibilità nel Patto di stabilità. Mentre Junker ha sottolineato di non volere “un’austerità sciocca e cieca”. In pratica, di fronte a una crescita dell’economia inferiore alle previsioni, con implicazioni negative sui conti pubblici, è stato raggiunto un accordo che consente all’Italia una correzione limitata per quest’anno e soprattutto di evitare l’anno prossimo una manovra ben più pesante.

Sono stati concordati margini di flessibilità per il deficit, che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e il commissario all’economia Pierre Moscovici dovranno definire nei dettagli tecnici entro la fine di marzo. A maggio la Commissione esprimerà la sua valutazione sulla legge di stabilità 2016 e le raccomandazioni sul Def che il governo dovrà presentare a aprile per la finanziaria 2017, usando la discrezionalità di cui dispone nell’interpretare i criteri macroeconomici e di bilancio, riconosciuta dalla stessa Cancelliera Angela Merkel. Anche se è difficile pensare che l’opinione di Berlino non pesi nelle valutazioni della Commissione.

Renzi e la sostenibilità del debito italiano
Nei giorni precedenti la visita di Juncker è stato ricordato all’Italia il suo elevato debito pubblico. Riuscire a evitare una procedura di infrazione per debito eccessivo era il vero obiettivo da raggiungere per l’Italia. Anche per questo motivo probabilmente in conferenza stampa Renzi ha citato lo studio di un centro di ricerca tedesco che rileva come il debito pubblico totale dell’Italia sia tra i più sostenibili nel lungo termine.

Nella primavera del 2013 l’Italia è uscita dalla procedura per i disavanzi eccessivi. Stanno quindi per scadere i tre anni durante i quali compiere progressi verso il rispetto del parametro di riduzione del debito. Una valutazione negativa, sulla base di una Relazione della Commissione, può portare all’avvio di una nuova procedura per i disavanzi eccessivi, in base all’art. 126.3 del trattato.

Tra l’altro, solo gli stati non sottoposti a questa procedura possono usufruire di maggior flessibilità negli obiettivi di bilancio, in particolare per investimenti pubblici. L’accordo raggiunto con Juncker prevede che la procedura non sarà aperta.

Il governo italiano vuole però dimostrare di non essere interessato solo alla discussione della flessibilità nei conti pubblici, ma anche a promuovere un dibattito più politico sul futuro stesso dell’Ue. Si spiegano così sia l’iniziativa dell’incontro che si è tenuto a Roma il 9 febbraio tra i ministri degli Esteri dei sei paesi fondatori, sia il position paperpresentato dal ministro Padoan il 22 febbraio.

La riunione dei sei fondatori, formato che difficilmente sarà ripetuto, ha avuto più che altro un valore simbolico. Il position paper è invece una concreta e ambiziosa proposta per una strategia europea a lungo termine per crescita, lavoro e stabilità.

Il position paper di Padoan
Il documento italiano deve ora trovare il consenso sia delle istituzioni europee, e Juncker ha dichiarato di averlo apprezzato, sia dei partner. Tra i punti principali il completamento dell’Unione bancaria, considerato la priorità chiave, il rilancio del Piano Juncker per gli investimenti in “beni comuni europei”, il rafforzamento del mercato unico, la creazione di un sussidio europeo per la disoccupazione, l’emissione di obbligazioni comunitarie, gli “eurobond”.

Il documento apre inoltre alla proposta, messa sul tavolo di recente dai banchieri centrali francese e tedesco, di istituire un ministro delle Finanze dell’eurozona, che l’Italia vorrebbe inserito nella Commissione, ma legittimato politicamente da un legame con il parlamento europeo, per sottolinearne il profilo politico e non tecnico.

La proposta italiana richiama anche l’importanza di avere più simmetria negli aggiustamenti, rilevando come il surplus della bilancia dei pagamenti della Germania abbia un impatto negativo sul funzionamento della zona euro, mentre sarebbe necessario un approccio più cooperativo per sostenere la domanda. Un’indiretta richiesta alla Commissione di impegnare anche la Germania al rispetto delle regole.

Il futuro Rappresentante permanente presso l’Ue, Carlo Calenda, ha sottolineato che una Commissione forte è il miglior alleato dell’Italia. Oggi la Commissione Juncker è più politicizzata rispetto al passato grazie al processo per selezionare il suo presidente. Con un mandato politico l’esecutivo cerca di recuperare il ruolo perduto, ma non riesce a essere un interlocutore forte di fronte ai governi.

Fondamentale per l’Italia è quindi avere una strategia di alleanze per sostenere le proprie posizioni. Il governo italiano ne è consapevole e il position paper sarà presentato il 12 marzo al vertice dei leader socialisti organizzato da Hollande, rappresentante di quella Francia che rappresenta l’ostacolo principale per la strategia italiana e reticente nel sostenere una maggior flessibilità di bilancio.

Marinella Neri Gualdesi è Professore di Storia delle Relazioni internazionali all'Università di Pisa.
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