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venerdì 18 marzo 2016

Roma: il nodo della Libia

Missioni all’estero
Libia, nessuna “licenza di uccidere” ai nostri 007 
Natalino Ronzitti
08/03/2016
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L’invio di un corpo di spedizione italiano in Libia è per il momento archiviato. Il premier Matteo Renzi ha posto tre formidabili paletti, che rispondono ad altrettante condizioni di difficile realizzazione: un’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la richiesta da parte di un governo libico di unità nazionale, il via libera del nostro Parlamento.

Con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 10 febbraio scorso, subito secretato - ma di cui taluni organi di stampa hanno fornito qualche dettaglio -, si è invece deciso di attivare il meccanismo previsto dall’ultimo decreto missioni (D.L. 174/2015, convertito con L. 198/2015), che consente l’invio di personale delle Forze armate a supporto di una missione di intelligence.

La catena di comando fa quindi capo a palazzo Chigi. Si è deciso così di non restare indietro rispetto ad altri paesi, come Francia, Regno Unito e Stati Uniti, che già operano sul terreno mediante missioni più o meno coperte, la cui consistenza e il modus operandi non è dato conoscere con esattezza.

Intelligence, non peace-keeping
Conviene subito sgombrare il campo da erronee interpretazioni e precisare che la missione che il governo italiano si accinge ad inviare in Libia- affidata all’Aise (l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna) - non ha niente a che vedere con un intervento in Libia, volto alla stabilizzazione del paese.

Tale missione, infatti, non può avere un ruolo di supplenza di un intervento di peace-keeping o di peace-enforcement: l’art. 7bis della L. 198/2015 consente al presidente del Consiglio di emanare disposizioni per l’adozione di “misure di intelligence di contrasto”, con la cooperazione di forze speciali della difesa, in situazione di crisi o di emergenza all’estero, che coinvolgano aspetti di sicurezza nazionale o per la protezione di nostri cittadini all’estero.

Le garanzie funzionali
Al personale dei servizi di sicurezza impegnato all’estero, non è concessa nessuna “licenza di uccidere”. Le “garanzie funzionali”, di cui esso gode, non possono spingersi fino a coprire condotte dirette “a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone”. Lo esclude l’art. 17 della L. 124/2007, che ha disciplinato i servizi di intelligence. Quindi niente “uccisioni mirate”.

La componente militare 
Anche al personale militare si applicano, ove ne ricorrano i presupposti, le “garanzie funzionali” previste per gli agenti dei servizi. Ma, in una situazione bellica, quale quella libica, queste sono ben poca cosa rispetto ad altre guarentigie di cui i militari godono.

Ad essi viene applicato il codice militare di pace, con la relativa competenza del Tribunale di Roma. I militari possono far uso della forza, purché ciò avvenga in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio e agli ordini legittimamente impartiti, come previsto dal D.L. 152/2009.

Ovviamente, la condotta del militare non è scusabile quando essa integri gli estremi di un crimine internazionale. La L.198/2015 lo esclude espressamente, richiamando gli articoli 5 e seguenti dello Statuto della Corte penale internazionale.

È in qualche modo previsto un controllo parlamentare, sia pure indiretto. Infatti le disposizioni per le misure di “intelligence di contrasto” possono essere adottate solo dopo che il Presidente del Consiglio dei Ministri abbia acquisito il parere del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.

I punti da chiarire
Tutto chiaro quindi? Niente affatto. La disposizione inserita nella legge missioni è praticamente alla sua prima applicazione e se ne potrà dare un giudizio definitivo solo dopo che sia stato effettuato il necessario rodaggio. Il solo punto certo è quello che dicevamo in apertura. Le missioni di “intelligence di contrasto” non sono una missione di peace-keeping né tantomeno di peace-enforcement.

Escluso che esse possano essere impiegate per effettuare “uccisioni mirate”, tanto care a taluno dei nostri alleati, resta da chiarire in quali occasioni le forze speciali della difesa possano impiegare la forza armata.

Viene ad esempio specificato che le missioni di “intelligence di contrasto” possono essere impiegate per “la protezione dei cittadini italiani all’estero”. In una situazione in cui i nostri cittadini si trovino in pericolo di vita, come si è drammaticamente verificato anche di recente con il caso dei quattro tecnici della Bonatti, la componente militare della missione può intervenire per liberare gli ostaggi? Il diritto internazionale lo permette e non è necessario il consenso del governo locale.

Ma può, sul lato interno, una missione di intelligence di contrasto spingersi a tanto? In altri termini andrebbero chiariti, pur con la necessaria elasticità, limiti e potenzialità delle missioni di intelligence a compartecipazione militare. Si tratta di una materia che attende da tempo una sistemazione globale, che non può essere affidata ai vari decreti missione, che si succedono nel tempo e che contengono zeppe, che costituiscono frammenti di una legislazione che dovrebbe essere unitaria.

Le speranze sono affidate ad una rapida conclusione del disegno di legge contenente le “Disposizioni concernenti la partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali” approvato dalla Camera nel maggio scorso ed ora all’esame del Senato.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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