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mercoledì 27 aprile 2016

Immigrazione: si cercano soluzioni

Italia-Ue
Migranti, la proposta di Roma e i dubbi di Berlino
Gianni Bonvicini
20/04/2016
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Il Migration Compact - un nome non proprio beneaugurante, visti i timori e i contrasti sollevati dal più famoso Fiscal Compact - è un testo che contiene molte idee interessanti e in parte innovative.

La proposta italiana sull’immigrazione presentata informalmente al Consiglio Affari Esteri dell’Unione europea è anche un bel segnale di un ritrovato attivismo del nostro paese su alcuni temi cruciali cui oggi l’Unione deve fare fronte.

Il contributo del governo Renzi
Segue altre importanti iniziative del governo Renzi, dal contributo italiano al Rapporto dei Cinque presidenti sul tema della governance economica fino alla più recente proposta del ministro Pier Carlo Padoan sulla strategia di crescita, lavoro e stabilità. Non vi è dubbio che oggi il tema che angustia di più il governo sia quello di una ripresa massiccia dei flussi dalla Libia e dai paesi limitrofi (l’Egitto?).

A marzo di quest’anno, gli sbarchi sulle nostre coste hanno toccato i 9600 arrivi contro i 2283 dello stesso mese del 2015, senza contare le tragedie del mare cui giornalmente assistiamo, da ultima quella di lunedì scorso, al largo della Libia. E il trend sembra non invertire la rotta. È quindi urgente riaffrontare l’intera questione ed è ciò che il nostro non-paper cerca di fare.

I punti del testo italiano
Tre sono gli assunti di base su cui si fonda il Migration Compact.

Il primo è che l’immigrazione non è solo un tema emergenziale ma strutturale, destinato quindi a durare negli anni. Va perciò affrontato con un’ottica di medio-lungo periodo. Esso riguarda in particolare l’Africa. È questa una sottolineatura molto importante, poiché fa comprendere che una volta usciti dall’emergenza provocata dalla guerra civile in Siria, la questione è destinata a concentrarsi quasi unicamente sul fronte africano e non certo su quello mediorientale. In questa prospettiva, più che di rifugiati si ritorna a parlare di immigrati spinti da motivazioni economiche, anche se i conflitti non mancano neppure in Africa.

Il secondo aspetto che riguarda l’immigrazione è la sua complessità: essa non si limita ai solo aspetti relativi al diritto di asilo o di ricollocazione, ma anche a questioni attinenti alle politiche di sviluppo e alla sicurezza. È quindi necessario agire sulla base del principio di coerenza, mettendo nello stesso basket le diverse iniziative, gli strumenti e le politiche dell’Ue, indirizzandole verso l’obiettivo centrale di una più efficace gestione dell’immigrazione.

Il terzo assunto è il riconoscimento della forte dimensione esterna della questione.

L’immigrazione è infatti parte sostanziale della politica estera e di sicurezza dell’Unione, poiché solo attraverso l’alleanza con i paesi terzi, di origine e transito dei flussi migratori, sarà possibile arrivare a risultati concreti e di lungo periodo. A tale proposito, si propone un profondo ripensamento dei vecchi accordi Ue/Acp e lo sviluppo di modelli di cooperazione come quello, forse in parte contestabile, con la Turchia o il Piano di Azione uscito dal Vertice della Valletta con l’Unione africana.

L’agile documento presentato dall’Italia propone quindi un Grand Bargain fra Unione europea e paesi terzi africani, e lo fa attraverso una serie di suggerimenti estremamente concreti sia sul versante degli strumenti che delle iniziative legislative da prendere da entrambe le parti.

Nodi problematici
Ed è proprio qui, come era prevedibile, che cominciano le vere difficoltà. Non vi è dubbio, infatti, che sarà molto difficile ottenere credibili misure di controllo dei confini interni da parte dei vari paesi africani, come pure sarà tutta in salita la strada per aiutarli a costituire degli uffici (delle specie di hot spot) sul loro territorio che riescano a valutare le richieste di emigrare. Come pure sarà una sfida convincere molti di loro a riprendersi gli emigrati che dovessero venire respinti dall’Unione.

Ma in verità i maggiori ostacoli si manifesteranno all’interno dell’Unione. Basta vedere come sono andate finora le proposte della Commissione sulle quote di ricollocazione o le decisioni di diversi governi europei, anche guidati da socialdemocratici come è il caso dell’Austria, di erigere barriere e fili spinati sui confini interni dell’Ue.

Idea Eurobond
Il documento italiano, da questo punto di vista, cerca di indicare una serie di strumenti innovativi che portino ad un consistente aumento delle risorse a disposizione. A parte il riordino degli strumenti finanziari esistenti per la politica di vicinato e per le associazioni, la novità principale della proposta consiste in due tipi di bond europei: uno destinato ad agire da moltiplicatore per investimenti direttamente in Africa (EU-Africa bond); l’altro per l’aiuto da destinare ai paesi membri dell’Unione europea nella gestione dell’immigrazione.

Come vi era da aspettarsi, appena è giunto alle orecchie tedesche il termine “bond” - debito collettivo dell’Ue - si sono immediatamente eretti i cavalli di frisia del governo, o almeno di alcuni suoi rappresentanti, volti a scoraggiare idee di questo tipo. In effetti il progetto di emettere bond europei troverà resistenze di tutti i tipi anche perché alla fine la decisone dovrà essere unanime a 28, e non solo per i paesi della zona euro.

Tuttavia, da qualche parte bisognerà pure cominciare e la proposta italiana ha l’indubbio merito di smuovere le acque torbide che soffocano una vera presa di coscienza del tema dell’immigrazione. Gli stessi tedeschi hanno controproposto una tassa sulla benzina, non si sa con quale fondamento. Ma in ogni caso, qualcosa si muove.

Mancano le alleanze
La proposta va quindi portata avanti con determinazione. Ma con chi? Qui, a nostro parere, si palesa invece la debolezza dell’iniziativa: non essere stata concordata a priori con alcuni nostri partner europei, a cominciare dai paesi del sud Europa, ma anche con alcuni fra i più aperti del nord dell’Unione. Magari valeva la pena tentare un primo approccio con la stessa Germania.

Insomma è mancato da parte italiana lo sforzo di creare a priori un fronte di paesi a sostegno della nostra proposta. Un Coalition building è la precondizione necessaria al successo delle proposte. Altrimenti il rischio è di lanciare una buona idea che poi, venendo solo da noi, rischia di essere tacciata di nascondere un conflitto di interessi. L’unico segnale buono fino ad oggi è la benevola attenzione dimostrata dalla Commissione. Ma, come ci dimostra l’esperienza recente, essa non è da sola sufficiente.

Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.
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Italia: immigrazione e religione

Europa e Islam
Italia, il jihadismo di terza generazione
Renata Pepicelli
21/04/2016
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Mentre emergono nuove informazioni sulle cellule jihadiste autrici degli attentati di Bruxelles e Parigi, i singoli stati europei si interrogano sulle proprie “Molenbeek” e le caratteristiche delle organizzazioni jihadiste all’interno dei propri confini.

In Italia, si osserva che il fenomeno jihadista contemporaneo presenta delle caratteristiche specifiche e differenti da quelle dei contesti del Belgio o della Francia. Oggi, la realtà dei cosiddetti “foreign fighters”, di quella, cioè, che Gilles Kepel chiama la terza generazione jihadista - dopo la generazione dei talebani degli anni ’90 e quella di al-Qaeda degli anni 2000 - appare più circoscritta numericamente e sviluppatosi con qualche anno di ritardo rispetto ad altre realtà europee.

Secondo un rapporto del dicembre 2015 redatto dal Soufan Group, dall’Italia sono partiti alla volta del sedicente stato islamico 87 jihadisti, mentre sono 470 quelli che alla stessa data hanno lasciato il Belgio, 1700 la Francia e 760 sia la Germania che la Gran Bretagna.

Gli 87 foreign fighters partiti dall’Italia appartengono a tre differenti categorie di persone: sono cittadini italiani, sia convertiti che giovani di “seconda generazione” nati e/o cresciuti in Italia (12 persone); cittadini stranieri che hanno soggiornato in Italia per periodi medio-lunghi (11); cittadini stranieri che sono transitati in Italia, soffermandosi per brevi periodi (64 persone).

Seconde generazioni minoritarie e la percentuale balcanica
Si può facilmente osservare che le “seconde generazioni” sono numericamente minoritarie, contrariamente a quanto accade in Francia e Belgio dove vi è un’alta presenza di giovani (anche minorenni) figli di migranti, nati e/o cresciuti in Europa.

L’esiguo numero di giovani di “seconda generazione” si può spiegare con il fatto che il fenomeno migratorio in Italia è più recente rispetto ad altri paesi europee e, di conseguenza, una nuova generazione di figli delle migrazioni si sta formando solo in questi anni.

Un’altra differenza significativa del contesto italiano da tenere in considerazione sta nel fatto che la maggioranza dei foreign fighters partiti dall’Italia è di origini balcaniche, sebbene le comunità musulmane più importanti sul territorio vengano dal Nord Africa (Marocco, Tunisia ed Egitto) e dal sud-est asiatico (Bangladesh e Pakistan).

In Francia, come in Belgio, molti dei foreign fighters provengono invece da comunità che in queste nazioni sono maggioritarie. A tal proposito, va anche tenuta presente la diversa consistenza numerica delle comunità musulmane presenti nei diversi paesi europei. In Italia, paese di più recente immigrazione, i musulmani sono - secondo dati del Pew Research Center - il 3,7% della popolazione, mentre in Francia rappresentano il 7,5%, in Germania il 5,8%, in Gran Bretagna il 4,8% e in Belgio il 5,9%.

Islam europeo e specificità nazionali
Per quanto si sostenga - a giusta ragione - che stia emergendo un Islam europeo, con caratteristiche sue proprie rispetto a quelle dei paesi a maggioranza musulmana, ci sono delle importanti differenze nazionali, non solo di ordine numerico, su cui pesano le storie dei singoli stati europei.

I retaggi coloniali, le politiche migratorie, i modelli di “integrazione”, così come la relazione con la sfera del sacro delineano l’emergere di specificità locali. Nella “laica” Francia, che ha vietato nelle scuole l’hijab, il rapporto tra stato e cittadini con la dimensione religiosa è molto diverso da quello che vige in Italia, dove il Vaticano è un’istituzione ancora dominante e l’Islam si va a collocare di conseguenza in un contesto in cui la religione gioca un ruolo centrale nella vita nazionale.

Contrasto alla radicalizzazione giovanile
Se osserviamo da vicino la situazione europea, ci accorgiamo dunque che l’Italia presenta delle caratteristiche sue proprie sia per quanto riguarda la presenza musulmana sul territorio che per quanto riguardo il fenomeno jihadista.

Ed è proprio a partire da queste differenze e specificità che vanno definiti progetti e linee politiche nazionali per contrastare la radicalizzazione giovanile, senza perdere di vista il contesto transnazionale all’interno del quale il fenomeno jihadista si sviluppa.

Renata Pepicelli è docente di Mediterranean Studies all’università Luiss Guido Carli di Roma. Si occupa di mondo arabo-islamico contemporaneo e di Islam in Europa; concentra la sua ricerca su questioni di genere, condizione giovanile e movimenti dell’Islam politico nel Mediterraneo.
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Politica di Difesa: verso nuovi orizzonti

Difesa
Nuova politica di sicurezza cibernetica per l’Italia
Tommaso De Zan
19/04/2016
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Se la sicurezza cibernetica fosse una trasmissione televisiva, recentemente si sarebbe notato un’impennata negli ascolti. Complici sono stati lo stanziamento di 150 milioni nell’ultima legge di stabilità per il “potenziamento degli interventi e delle dotazioni strumentali in materia di protezione cibernetica e di sicurezza informatica nazionali” e la possibile nomina da parte del governo dell’imprenditore Marco Carrai a capo di una non meglio precisata “agenzia cibernetica”.

Il Documento di sicurezza nazionale
La pubblicazione a marzo del Documento di sicurezza nazionale (Dsn), redatto dal Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) e allegato alla Relazione sulla politica della sicurezza 2015, ha purtroppo suscitato meno clamore dei precedenti episodi, sebbene avrebbe meritato decisamente più spazio.

Il Dsn, infatti, è al momento l’unico documento ufficiale che offre una panoramica aggiornata sulla “messa a sistema” degli attori delineati nel Quadro Strategico e dell’implementazione del Piano nazionale, i due documenti di riferimento della strategia governativa sulla sicurezza informatica pubblicati nel dicembre 2013.

Il Dsn 2015 sarebbe potuto diventare un elemento chiave nella storia della politica di protezione dello spazio cibernetico italiano, poiché sembrava dovesse contenere la “matrice di verifica” sull’implementazione del Piano nazionale.

Infatti, secondo il Dsn 2014, la matrice di verifica è lo “strumento idoneo a misurare, al termine del biennio di validità del Piano Nazionale (2014-2015), il complessivo livello di crescita degli assetti cyber nazionali e la loro capacità di rispondere […]” alle minacce dello spazio cibernetico.

Gli esperti di politiche di sicurezza cibernetica aspettavano con ansia la valutazione delle politiche pubbliche poste in essere con il Quadro Strategico e il Piano Nazionale, purtroppo non presente nel Dsn 2015.

Premessa la possibilità che i risultati siano pubblicati nel Documento dell’anno venturo, rimane quanto mai urgente certificare l’effettivo stato delle istituzioni e degli strumenti preposti alla protezione dello spazio cibernetico, a maggior ragione a fronte di una minaccia in costante aumento, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo.

Le maggiori criticità
Sebbene qualche cosa di concreto si stia muovendo e vi siano degli sforzi evidenti nella giusta direzione, è difficile al momento essere completamente fiduciosi sullo stato delle sicurezza cibernetica a livello nazionale.

A tal riguardo, un recente rapporto dello IAI, pubblicato nella collana “Osservatorio di politica internazionale” del Parlamento italiano, evidenzia le principali criticità del Quadro strategico e del Piano nazionale. In particolare la ricerca sottolinea:

1) l’istituzionalizzazione di una governance che, anche in virtù della natura stessa dell’ordinamento costituzionale italiano, rende complesso identificare la linea politica in materia di sicurezza cibernetica;
2) un meccanismo di risoluzione delle crisi cibernetiche in seno al Nucleo per la sicurezza cibernetica (Nsc) che potrebbe essere razionalizzato con una diminuzione degli attori al suo interno;
3) la sovrapposizione di ruoli e di competenze degli attori pubblici nel rapporto con il settore privato;
4) la necessità di disporre di maggiore operatività in termini quantitativi e qualitativi nelle attività quotidiane di prevenzione, gestione e contrasto della minaccia cibernetica a livello di Computer Emergency Response Centers (Certs);
5) l’esigenza di allocare maggiori risorse al settore, anche visti i fondi previsti in paesi come la Francia (circa 1 miliardo) e la Gran Bretagna (circa 2,5 miliardi).

Il rapporto ha fatto emergere un quadro che non è sicuramente di facile analisi. Da un lato, è forse meno problematico di quello che ci si potesse attendere dalla sola lettura della legislazione e dei documenti ufficiali anche se, dall’altro, risulta più complesso per gli aspetti menzionati sopra. In generale, nonostante “l’ecosistema di sicurezza cibernetica” sembra stia trovando il suo equilibrio, si può affermare che la sua struttura e i suoi meccanismi possano essere rivisti e migliorati.

Che fare?
Che fare, dunque? Certamente, in aggiunta ai risultati emersi dalla ricerca IAI, sarebbe fondamentale conoscere l’esito della verifica dell’implementazione del Piano nazionale. Poi, dopo aver determinato il quadro globale della sicurezza cibernetica italiana, più che abbattere quello che si è costruito, si dovrebbe prendere quanto di buono fatto finora e guardare alle criticità dell’attuale sistema in ottica riformatrice.

Come da più parti auspicato si dovrebbe armonizzare in unico corpo normativo l'intero settore della sicurezza delle informazioni, possibilmente con una norma di carattere superiore ad un Dpcm.

Alcune recenti proposte di legge presentante alla Camera, come ad esempio la 3544, costituiscono sicuramente una buona base di partenza per eventuali discussioni in materia.

Sarebbe tuttavia fuorviante pensare che solo uno o pochi attori del sistema di sicurezza cibernetico si possano fare carico di una riforma che deve essere complessiva. La natura poliedrica della minaccia presuppone che al tavolo delle negoziazioni debbano sedere interlocutori provenienti dal settore pubblico, privato, della politica, dell’accademia e della ricerca scientifica.

In preparazione alle prossime sfide provenienti dallo spazio cibernetico, l’istituzione di un Cyber Policy Dialogue, in cui convergano e si amalgamino le diverse parti costituenti del sistema di protezione cibernetico nazionale, sembra quanto mai necessario.

Tommaso De Zan è Assistente alla ricerca presso l'Area Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter @tdezan21).
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lunedì 18 aprile 2016

Grandi temi mal discussi: l'energia

L’Italia, le trivelle e la sicurezza energetica
Nicolò Sartori
14/04/2016
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Domenica 17 aprile i cittadini italiani saranno chiamati a pronunciarsi attraverso un referendum popolare sulla durata delle concessioni di coltivazione di idrocarburi nel sottofondo marino all’interno delle 12 miglia dalla costa.

Senza entrare nel merito del quesito referendario, definito in modo un po’ artificioso "antitrivelle" dai suoi promotori, appare importante chiarire alcuni punti relativi alla produzione nazionale di petrolio e gas naturale e al suo contributo alla sicurezza energetica del paese. Per farlo, è necessario partire da un dato di fatto, e da un falso mito.

Un dato di fatto: la dipendenza energetica
L’Italia, è un dato di fatto, è un paese fortemente dipendente dall’importazione di risorse energetiche. Nonostante il significativo contributo delle rinnovabili nel mix elettrico nazionale (circa il 40%), alla luce della crescita delle importazioni di gas naturale e petrolio, il nostro Paese rimane altamente vulnerabile in materia di approvvigionamenti dall’estero.

Nel 2015, l’Italia ha importato oltre il 90% dei propri consumi di gas naturale e il 92% di quelli di greggio. E se le importazioni di greggio sono ben diversificate grazie a un portfolio di oltre 20 fornitori internazionali, la situazione nel settore del gas naturale è ben più problematica.

Le importazioni italiane, infatti, sono fortemente concentrate, con Russia, Algeria e Libia che forniscono quasi tre quarti degli approvvigionamenti dall’estero. In particolare, nell’ultimo anno, la dipendenza dal gas russo ha raggiunto livelli critici, arrivando quasi al 50% delle importazioni totali.

Il contributo del gas nel mix energetico italiano è particolarmente rilevante soprattutto alla luce del suo apporto fondamentale alla generazione elettrica. Ciò è dovuto anche al fatto che, contrariamente alla maggioranza dei Paesi dell’Unione europea, in base al risultato dei referendumdel 1987 e del 2011, il nostro Paese ha rinunciato alla produzione di energia nucleare sul suo territorio.

L’assenza del nucleare, che garantisce circa un terzo dell’elettricità prodotta nell’Ue, rende infatti la generazione elettrica in Italia maggiormente dipendente dal gas naturale - e quindi dalle importazioni - rispetto a gran parte dei partner europei.

Un falso mito: la scarsità di risorse
Ciò che viene spesso taciuto - e veniamo al falso mito - è che il nostro Paese non è così povero di risorse energetiche come viene fatto credere all’interno del dibattito nazionale. Sia ben chiaro: il sottosuolo italiano non ha niente a che vedere con quello dell’Arabia Saudita o della Russia, e nemmeno è quello norvegese, principale Paese produttore di idrocarburi in Europa.

Tuttavia, all’interno dell’Ue, l’Italia è il quarto Paese in termini di riserve certe alle spalle di Olanda, Regno Unito e Danimarca, con all’incirca 85 milioni di tonnellate di greggio e 53 miliardi di metri cubi di gas.

Stando alle stime sulle risorse totali (certe, potenziali e possibili), le risorse presenti nel territorio italiano potrebbero garantire circa 43 anni della produzione attuale di petrolio e 21 di quella di gas. Grazie alle nuove tecnologie per la prospezione e l’esplorazione - questi tipi di attività, in Italia, sono praticamente bloccati dall’inizio degli anni 2000 -, le risorse localizzate nel sottosuolo italiano potrebbero essere effettivamente maggiori.

Ad ogni modo, il raddoppio dell’attuale produzione interna, come previsto dalla Strategia energetica nazionale (Sen) elaborata dal governo nel 2013, permetterebbe all’Italia di ridurre le importazioni di quasi 10 punti percentuali nei prossimi due decenni. Il tutto a beneficio della sicurezza energetica del nostro Paese, nell’attesa che le politiche di decarbonizzazione al 2030 e al 2050 vengano portate progressivamente a regime.

Strategie italiane ed europee
Ebbene sì, perché l’Italia, come l’Unione europea, è chiaramente impegnata in uno sforzo di trasformazione del proprio settore energetico verso un modello sostenibile. Ciò è evidente nelle linee guida fornite dalla Sen italiana e dall’Energy Union dell’Ue: entrambe hanno nel crescente contributo delle rinnovabili nel mix energetico nazionale/europeo e nel miglioramento dell’efficienza energetica due capisaldi imprescindibili.

In quest’ottica, va anche letto il ruolo attivo del nostro paese a supporto dell’azione dell’Ue alla COP12 di Parigi, verso il raggiungimento di un accordo ambizioso e vincolante per la lotta al cambiamento climatico.

Nonostante questo, tuttavia, sia la Sen che l’Energy Union riconoscono l’importanza dello sfruttamento delle riserve autoctone di idrocarburi al fine di rafforzare la sicurezza energetica italiana ed europea. Nel bene e nel male, nei prossimi decenni le nostre economie continueranno a basarsi - seppur per quote sempre minori - sui consumi di petrolio e gas naturale.

La nostra dipendenza da partner energetici potenzialmente poco affidabili (si pensi ad esempio alla situazione in Libia o alle incertezze relative al futuro algerino) o in fase di declino produttivo (Norvegia e Olanda) continuerà a essere pertanto un elemento di vulnerabilità geopolitica per il Paese.

Ad essa si aggiungono considerazioni economiche non irrilevanti: l’attuale produzione nazionale di idrocarburi evita circa quattro miliardi annui di deficit commerciale, che potrebbero raggiungere gli otto in caso di raddoppio delle estrazioni.

Si tratta di fondi che, anziché essere destinati a maggiori importazioni di greggio e gas naturale dall’estero, potrebbero essere meglio investiti in un progressivo processo di trasformazione (tecnologica, regolatoria, comportamentale) del nostro settore energetico da qui ai prossimi decenni, come chiaramente stabilito nelle priorità strategiche di Bruxelles e del governo di Roma.

Nicolò Sart
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L'eterno dilemma

Politica estera
Italia, ultimi dei primi oppure primi degli ultimi?
Roberto Zadra
08/04/2016
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Di solito scrivo poco e, quando lo faccio mi limito a trattare di cose delle quali sono responsabile professionalmente. Ma le tenebre attuali mi spingono a fare un’eccezione. Scrivo queste righe per parlare del deterioramento dell’immagine del nostro Paese; e lo faccio dalla prospettiva di qualcuno che ha vissuto all’estero per la maggior parte degli ultimi venticinque anni.

Venticinque anni fa, prima di assumere un incarico alla ormai defunta Unione dell’Europa Occidentale (Ueo) a Parigi, ebbi una serie di incontri preparatori con funzionari della Farnesina. Uno di questi incontri non l’ho mai dimenticato.

Ve lo riassumo: "Caro Roberto, quando sarai all’estero scoprirai che ci sono Paesi che contano di più ed altri che contano di meno. I Paesi in Europa che contano di più sono la Germania, la Francia e l’Inghilterra. L’Italia non si trova nel gruppo di punta, ma vorrebbe esserci, e comunque viene subito dopo. Quando ti troverai in situazioni dove bisogna scegliere se fare parte del gruppo di punta oppure accontentarsi di essere primo, oppure fra i primi, del gruppo che segue, cerca comunque sempre di fare parte del gruppo dei tre Paesi che contano di più". Questo consiglio sulla nostra ambizione non l’ho mai dimenticato. Ma mi ha fatto soffrire. Perché con il passare degli anni ho scoperto che nei fatti l’Italia non è stata in grado di dare seguito alle proprie ambizioni. Le cause sono molte: mi limito a menzionare le mancanze di leadership politiche forti e determinate, oppure le amministrazioni, agli Esteri e alla Difesa, ma anche altrove, troppo poco controllate e dirette dalle proprie classi politiche.

La nostra debole consapevolezza di cosa sia l’interesse nazionale. E le solite, croniche, debolezze nella conoscenza linguistica dell’inglese e del francese da parte di politici ed amministrazioni - un handicap enorme nell’interazione con altri Paesi negli ambienti multilaterali. Per capire, farsi capire ed essere capiti.

Negli anni del dopoguerra, che dalla prospettiva di oggi potremmo descrivere come ‘tempo stabile’, quando usufruimmo della protezione americana e della Nato e partecipammo all’avanzamento dell’integrazione europea a piccoli passi, fummo in grado di sguinzagliarci, affidandoci in gran parte all’outsourcing. Ma gli anni del tempo stabile sono finiti: adesso siamo in piena tempesta, e non se ne vede la fine.

Il progetto di integrazione europea è in una crisi esistenziale dalla quale l’Unione europea probabilmente non uscirà tutta d’un pezzo; e anche istituzioni del dopoguerra come l’Osce e la Nato stanno soffrendo, con risultati esistenziali ancora incerti.

Schengen è moribonda. E ci ritroviamo con una Russia difficile ed irrispettosa delle frontiere e del diritto internazionale, abbiamo il terrorismo fondamentalista in Europa ed in casa, paesi fragili o falliti come la Siria e la Libia come vicini di casa, e migliaia di rifugiati alle porte, con previsioni in aumento.

Siamo esposti, ma non facciamo parte del gruppo che conta (oppure perlomeno ci prova) e abbiamo perso standing nel conglomerato bituminoso che segue. Il bluff di una politica estera e di sicurezza nazionale chiara e coerente non funziona più ed abbiamo iniziato a pagarne le conseguenze e a vederne i risultati. E se non ci sbrighiamo ad agire ed a rimboccarci le maniche, anche l’Italia come Stato-nazione potrebbe essere a rischio.

Esempi della deriva in corso potremmo trovarne a centinaia. Facciamone alcuni:

- Il nostro presidente del Consiglio a gennaio, quando esprime irritazione nel dovere scoprire sui giornali che cosa la Germania, la Francia e la Commissione stanno cucinando per l’Unione europea.

- L’editorialista Wofgang Muenchau a febbraio, quando sul Financial Times afferma che il sistema di Schengen potrebbe essere sospeso indefinitamente oppure svilupparsi in una versione in miniatura - con dentro solo la Germania, la Francia e i Paesi Benelux. Ed aggiunge che l’Italia comunque non ne farebbe parte.

- Vienna ad inizio aprile, quando annuncia di voler mandare i propri militari al passo del Brennero per proteggere i propri confini con l’Italia. Non lo dice apertamente, ma probabilmente considera l’Italia incapace di gestire il problema dei rifugiati. A parere di chi scrive l’Austria si sta muovendo per fare parte del nuovo gruppo che conta e che si sta formando. E l’Italia rischia di rimanerne fuori.

Chiudo con una riflessione sullo stimolante articolo di Altiero Spinelli del 1965 ripubblicato nell’International Spectator nello scorso dicembre. L’autore afferma che il governo italiano non fu fra gli iniziatori della politica atlantica ed europea e parla della sterilità della politica estera italiana dopo le uscite di scena di Sforza e De Gasperi.

Quando dice che siamo una potenza di secondo rango, che di solito non contribuisce con le proprie idee ("we do not as a rule bring any contribution of ideas but accept their growth or deterioration with indifferent equanimity") e parla della nostra passività negli organi multilaterali dei quali facciamo parte. Parole dure e crude. Sfortunatamente, dopo venticinque anni trascorsi all’estero, non posso far altro che condividerle, pienamente ma con tristezza.

Possiamo ancora evitare lo scatafascio, oppure è già troppo tardi? Per me vale ancora la pena tentare. Forse iniziando da un Consiglio di Sicurezza nazionale degno del proprio nome.

Roberto Zadra dirige la sezione difesa missilistica della Nato e presiede il gruppo di lavoro politico-militare dedicato allo sviluppo del progetto. Dal 2010 al 2014 ha presieduto il gruppo di lavoro Nato-Russia dedicato alla difesa missilistica.
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Orizzonti di difesa europea: si guarda a Berlino e Roma

Rischi globali e sfide europee
Italia e Germania, motore della difesa Ue
Vincenzo Camporini
02/04/2016
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Sta prendendo il via una nuova fase di collaborazione nel campo della sicurezza e difesa tra Germania e Italia, in un più ampio quadro istituzionale europeo.

Nell'ultima metà del secolo, i rapporti tra i due paesi sono stati molto prosperi nell'analisi dell'efficienza operativa e industriale. I progressi della cooperazione nel settore della sicurezza e difesa nell’ambito dell’Unione europea hanno invece subito un arretramento: si avverte oggi, infatti, la necessità di dare un nuovo impulso, cercando di ritrovare l'entusiasmo della stagione 1999/2000.

Ritrovare l’entusiasmo perduto
Diversi sono stati i successi del recente passato, come la collaborazione industriale per il programma MRCA 75,che ha portato alla produzione - insieme alla Gran Bretagna - del velivolo Tornado (che oggi costituisce il core delle capacità di attacco delle due aeronautiche). La cooperazione è poi stata rinnovata, stavolta assieme alla Spagna, per lo sviluppo e la produzione dell’Eurofighter. Anche nel settore delle forze terrestri e navali si sono verificate sinergie significative che costituiscono ancora oggi esempi di realizzazione mediante le capacità tecnologiche europee.

È questa una somma di risultati assai importanti se si considera che, a differenza di quanto accade in ogni settore, finora le tecnologie per la difesa sono state sviluppate nei paesi dell’Ue senza il minimo supporto da parte delle istituzioni comunitarie.

Il potenziamento del settore, dunque, è dato dalla sola base di sforzi delle singole industrie nazionali che si sono virtuosamente associate, mirando, però, solo a specifici progetti e non a un disegno più ampio. L'esperienza dell'Airbus, infatti, è l'emblema di aggregazioni e consolidamenti che rientrano in un quadro tattico ma non strategico. Ora, dunque, si possono aprire prospettive straordinarie di cooperazione fra Germania e Italia per una sinergia delle rispettive eccellenze tecnologiche e manageriali.

Limiti nazionali e sinergie europee
Il desiderio di cooperare tra le forze armate dei paesi alleati è un fatto storico: in Europa, ben prima della formalizzazione dell’Helsinki Headline Goal nel dicembre del 1999, si contavano 57 iniziative di collaborazione. Alcuni erano accordi di tipo istituzionale, come l’Eurocorpo, altri erano nati da esigenze specifiche, come l'ormai chiusa scuola trinazionale TTTE per la conversione degli equipaggi di volo sul velivolo Tornado.

Infatti, era già ben chiaro alle gerarchie militari nazionali che solo unendo determinate capacità sarebbe stato possibile la creazione e la disposizione di strumenti militari idonei a sostenere efficacemente le politiche estere dei singoli Paesi.

Vero è che, tuttavia, alcune iniziative interessanti non avevano avuto esito, come quella di costituire un unico stormo italo-tedesco per la capacità ‘antiradiazione’, cioè per la neutralizzazione dei sistemi di avvistamento radar avversari. Germania e Italia dispongono entrambe degli stessi velivoli, i Tornado ECR, con lo stesso tipo di armamento, i missili AGM88 HARM, con equipaggiamenti compatibili: appariva dunque naturale pensare ad un’integrazione binazionale, che avrebbe consentito significative economie di gestione, anche e soprattutto dal punto di vista logistico, ma non se ne fece nulla. Peccato.

La strada della cooperazione strutturata permanente
Al momento, i motivi per ricercare ulteriori e più integrate forme di cooperazione sono diventati impellenti. Gli ultimi 15 anni hanno visto una progressiva erosione delle capacità militari dei singoli paesi, anche di coloro che potevano vantare tradizioni e forze più significative. La credibilità di molti non può né deve essere cercata negli accordi bilaterali esclusivi, come quello sottoscritto a Lancaster House nell’autunno del 2010 tra Francia e Gran Bretagna che contraddice nella forma e nella sostanza la volontà politica espressa nel Trattato di Lisbona.

Eppure da tempo esistono strumenti istituzionali per procedere verso una più stretta integrazione, come la “Cooperazione Strutturata Permanente” prevista nel Trattato di Lisbona, finora utile solo ad essere evocata nei comunicati finali di qualche riunione ministeriale. Oppure l’Agenzia europea della Difesa, con compiti che potrebbero essere molto incisivi, ma limitati per esplicita volontà politica dei governi; le risorse finanziarie che le vengono attribuite annualmente ne garantiscono solo la sopravvivenza, con oltre il 75 % dei fondi impiegati nel pagamento del personale dipendente.

Quando si parla di volontà politica è il caso di domandarsi quale fra i maggiori paesi dell’Unione abbia assunto in politica estera atteggiamenti non dissonanti nelle relazioni esterne all'Ue e nella disponibilità di farsi carico della gestione delle crisi che erompono alle porte dell’Europa. Da questa analisi emergono singolari somiglianze e interessanti compatibilità tra gli atteggiamenti di Roma e di Berlino. Due paesi che hanno maturato la consapevolezza che gli interessi nazionali devono essere perseguiti con un profondo rispetto per quelli altrui, la cui diversità deve essere compresa e rispettata.

Roma e Berlino in prima linea
È necessario, quindi, riflettere e studiare un piano bilaterale per avviare cooperazioni sempre più strette nel settore della difesa, in particolar modo nelle capacità industriali, dove eventuali integrazioni possono determinare un ruolo rilevante nel mercato globale. Inoltre, è opportuno approfondire e analizzare anche l’aspetto istituzionale con l’obiettivo per concretizzare realmente una ‘Cooperazione Strutturata Permanente’, secondo i dettami degli articoli 42.6 e 46 del Trattato di Lisbona e le clausole previste dall’annesso Protocollo 10.

Le forze armate sono pronte a un salto di qualità: le cooperazioni passate garantiscono l'assenza di ostacoli tecnici. È giunto il momento che i Ministri della Difesa dei due paesi avviino senza indugio un tavolo tecnico-politico per concretizzare un’iniziativa atta ad avviare un nuovo capitolo della storia dell’Europa, coinvolgendo, successivamente, tutti gli altri stati membri.

Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.
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