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In questo articolo, AffarInternazionali anticipa alcuni passaggi del rapporto su tre questioni centrali dell’agenda di politica estera del governo Renzi: la governance economica Ue, la crisi migratoria e la politica di sicurezza e difesa. Le sfide più impegnative che ha affrontato la politica estera italiana nel periodo in esame - la crescente instabilità del vicinato, la crisi migratoria, l’acuirsi della minaccia terroristica, le riemergenti turbolenze finanziarie - sono le stesse con cui hanno dovuto misurarsi, pur con diversa intensità, anche gli altri paesi europei. Si tratta di sfide che possono trovare una risposta efficace solo a livello europeo. È quindi naturale che l’Unione europea (Ue) sia stata, come per lo più anche in passato, il principale campo di azione della diplomazia italiana. Alla ricerca di una nuova governance economica In campo economico, Roma ha puntato a una ridefinizione delle priorità e della strategia complessiva dell’Unione che consentisse una maggiore flessibilità nelle politiche di bilancio nazionali, una più ampia condivisione dei rischi e un’effettiva azione anticiclica a livello europeo. Ha dovuto però fare i conti con tre ostacoli principali: il persistente approccio rigorista della Germania e di altri paesi - gran parte dei quali non mediterranei - che hanno invece continuato a porre l’accento sul rispetto delle regole di bilancio e sulla riduzione dei rischi, mostrando ben poca propensione ad accettare nuovi meccanismi di solidarietà; l’esplodere di altre emergenze - la crisi migratoria e l’ondata di attacchi terroristici sul suolo europeo - che sono passate in cima all’agenda europea, relegando in secondo piano le strategie di riforma economica; lo scarso ruolo propulsivo delle istituzioni europee, in particolare della Commissione. Con la Commissione , il premier Matteo Renzi ha avuto momenti di aspro confronto in merito, in particolare, alle regole di bilancio. Un’escalation di dichiarazioni polemiche all’inizio del 2016 ha creato forti tensioni con Bruxelles. Successivamente, il governo ha assunto un atteggiamento più costruttivo, avanzando una serie di proposte sulla riforma della governance economica europea in larga parte in sintonia con gli obiettivi della Commissione e della Banca centrale europea (Bce). D’altra parte, l’Italia ha continuato a trovarsi in una posizione di intrinseca debolezza in ambito europeo a causa della mancanza di una prospettiva credibile di riduzione nel breve e medio termine dell’ingente debito pubblico e della persistente fragilità del sistema bancario nazionale che è emersa in piena luce nei primi mesi del 2016. Reagendo alla tendenza a procrastinare e annacquare la riforma della governance economica, già evidente nel rapporto dei “cinque presidenti” di metà 2015, il governo ha presentato nel febbraio 2016 un ampio documento, tornando a chiedere una maggiore simmetria nel processo di aggiustamento macroeconomico, il rilancio degli investimenti infrastrutturali e il completamento dell’Unione bancaria (in particolare l’istituzione del previsto meccanismo per la garanzia comune sui depositi, un progetto che è stato, di fatto, congelato). Di fronte all’inasprirsi della crisi di fiducia all’interno dell’Ue e all’incapacità delle istituzioni Ue di darvi una risposta adeguata, il governo Renzi ha rilanciato anche l’idea di una più ampia riforma dell’Ue che le ridia legittimità e consenta un approfondimento dell’integrazione fra i paesi dell’eurozona. In quest’ottica, il governo sembra aver accettato l’idea che possa esservi una crescente differenziazione nei livelli di integrazione fra i paesi membri. Nella convinzione che, in un contesto di integrazione differenziata, sia necessario un nucleo di paesi membri in grado di svolgere un ruolo propulsivo, il ministro degli esteri Paolo Gentiloni ha promosso un processo di consultazione e coordinamento politico tra sei paesi fondatori dell’Unione. Il tentativo ha incontrato inizialmente dubbi e resistenze negli altri paesi interessati, ma a metà del 2016 sembrava avere concrete prospettive di sviluppo, anche come riflesso dell’esito del referendum britannico sulla Brexit. La sfida migratoria L’Italia ha svolto un importante ruolo propositivo in materia di immigrazione, insistendo sul principio di una gestione comune e solidale della crisi in atto. Con il “Migration Compact”, un documento presentato nell’aprile del 2016, il governo ha posto l’accento sulla necessità di dedicare più attenzione ed energie agli aspetti esterni della politica migratoria e di asilo e di destinare risorse aggiuntive al miglioramento delle opportunità di sviluppo dei paesi di origine e di transito, in particolare di quelli africani. In tal modo, l’Italia ha cercato di modificare la tendenza prevalente all’interno dell’Ue a trattare dei problemi dell’immigrazione guardando soprattutto ai problemi di sicurezza. L’attuazione del piano italiano richiede però una mobilitazione notevole di risorse e un’attenta verifica dell’effettiva disponibilità dei governi africani a collaborare alla gestione dei flussi migratori con modalità che non siano in contrasto con i principi europei e del diritto internazionale. Sotto quest’ultimo aspetto, appare problematico lo stesso accordo raggiunto fra Ue e Turchia nel marzo 2016 per contenere il flusso dei migranti e dei profughi verso l’Europa. L’idea, prospettata dal governo italiano, che esso possa costituire un modello di riferimento per la cooperazione con altri paesi suscita notevoli perplessità. Su altri aspetti della politica migratoria, i passi avanti sono stati estremamente limitati. In particolare è rimasto largamente inattuato il piano europeo, approvato nel settembre 2015, per la ridistribuzione sul territorio europeo dei richiedenti asilo giunti in Italia e in Grecia, che è stato al centro di un’aspra contesa politica. Anche l’idea di rivedere il Regolamento di Dublino con un nuovo sistema di quote basato sul principio di solidarietà e di equa distribuzione dei richiedenti asilo - uno degli obiettivi prioritari dell’Italia - ha continuato a incontrare una forte resistenza. Verso un nuovo modello per la difesa L’impegno ad uno sviluppo e adattamento dello strumento militare ha trovato un significativo riscontro nell’adozione di un “Libro Bianco” che delinea una strategia di medio termine per la politica di sicurezza internazionale e di difesa. Con questo sforzo di correlare obiettivi, strumenti e risorse in un quadro più organico e coerente si è cercato di colmare una vistosa lacuna rispetto agli altri maggiori paesi europei. L’ambizioso piano di riforma propugnato nel Libro Bianco continua però a scontrarsi con una serie di ostacoli legislativi e amministrativi e di resistenze corporative. D’altronde, le spese per la “funzione Difesa” continuano a diminuire, ampliando il divario con gli impegni assunti in sede Nato. In linea con la strategia generale di politica estera del governo, il Libro Bianco indica esplicitamente la regione euromediterranea come lo scacchiere prioritario di azione per gli interventi dell’Italia. In effetti, vi è stato un ri-orientamento complessivo dell’impegno militare verso il Mediterraneo e il Medioriente, dove le Forze Armate italiane svolgono oggi un ruolo di spicco, e talora di guida, nell’ambito delle missioni di stabilizzazione e gestione delle crisi. L’Italia ha anche assunto impegni militari significativi nel quadro della coalizione anti-Isis in Iraq e dei piani per il rafforzamento del dispositivo di dissuasione della Nato in risposta alla crisi ucraina. Più direttamente collegato agli interessi nazionali è il contributo di primo piano fornito in diverse operazioni navali nel Mediterraneo per il soccorso dei migranti e il contrasto ai trafficanti di esseri umani. Il governo ha anche evocato, più volte, la possibilità di un intervento terrestre in Libia, qualora se ne determinassero le condizioni politiche e legali, incluso un mandato dell’Onu. L’interrogativo è se questa partecipazione così ampia e attiva alle missioni di sicurezza e il contributo alla difesa collettiva - che è uno dei trattati distintivi del profilo internazionale dell’Italia - sia sostenibile nel più lungo termine data la scarsità di risorse e le persistenti difficoltà ad attuare una riforma incisiva dello strumento militare. |
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giovedì 21 luglio 2016
Italia: prospettive sul piano internazionale
giovedì 14 luglio 2016
Roma. Atriti con il Cairo
sabato 9 luglio 2016
Per Roma Mosca sempre più vicina
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Il Forum, al quale erano presenti anche il Presidente russo Vladimir Putin e il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, si è svolto alla vigilia della decisione dei leader Ue di estendere le sanzioni imposte alla Russia in seguito alla crisi ucraina. Pur sostenendo le sanzioni, il governo italiano ha manifestato segni di apertura nei confronti del Cremlino. Renzi ha firmato accordi economici per il valore di oltre un miliardo di euro e ha sottolineato la necessità che Russia e Ue tornino ad essere “buoni vicini di casa”. Dall’Expo a San Pietroburgo Il fatto che i contatti bilaterali tra Italia e Russia nell’ultimo anno siano stati incentrati su grandi manifestazioni economiche e commerciali - dall’Expo a Milano al Forum di San Pietroburgo - non è casuale. Nel 2013 l’interscambio tra i due Paesi aveva superato i 30 miliardi di euro, e la Russia appariva come un promettente mercato per gli investimenti italiani. Alla lunga tradizione di rapporti economici, cominciata tra gli anni ’60 e ’70 con gli accordi per l’acquisto di petrolio e gas russo e l’inizio della produzione Fiat a Togliattigrad, si sono aggiunti più recentemente gli investimenti dei colossi Finmeccanica e Enel e di altre imprese minori - se ne contano più di 500 attualmente attive in Russia. Lo scenario è cambiato con il crollo del prezzo del petrolio, la crisi ucraina e le conseguenti sanzioni europee e le contro-sanzioni russe. Tra il 2013 e il 2015 l’export italiano in Russia ha registrato -34%, passando da 10,7 a 7,1 miliardi di euro. Le perdite maggiori riguardano il comparto manifatturiero, ma le contro-sanzioni russe hanno colpito anche il settore agroalimentare. Lombardia, Emilia Romagna e Veneto - motore industriale e agricolo del Belpaese - hanno subito in particolar modo gli effetti di crisi e sanzioni, assorbendo il 72% del calo dell’export italiano verso la Russia. In questo contesto, Renzi è stato messo sotto pressione da forze economiche domestiche in vari settori: Coldiretti, Confartigianato e alti rappresentanti di Confindustria hanno lamentato gli effetti delle sanzioni. Al coro si è unita anche gran parte dell’opposizione politica: il Movimento Cinque Stelle ha accusato il governo di non aver difeso l’interesse nazionale, mentre Lega Nord e Forza Italia hanno criticato la politica delle sanzioni. Impasse nella partnership energetica Le politiche energetiche europee hanno suscitato ulteriori malumori in Italia. A fine 2013, la Commissione europea ha bocciato i trattati intergovernativi tra la Russia e i Paesi interessati dalla costruzione del gasdotto South Stream, progetto caldeggiato dall’Italia. Dopo un anno di impasse, Putin ne ha annunciato la cancellazione, accusando gli ostacoli legali imposti da Bruxelles. L’Italia ha accettato a malincuore la decisione: Saipem, che avrebbe dovuto costruire la parte offshore del gasdotto, ha fatto causa a Gazprom, chiedendo un miliardo di dollari di danni per i lavori già svolti. Nell’estate 2015, il rilancio del progetto di raddoppiamento del gasdotto Nord Stream (che collega la Russia alla Germania attraverso il Mar Baltico) ha rafforzato la sensazione che a livello europeo si stiano applicando diverse misure nella valutazione dei progetti che coinvolgono Gazprom: Nord Stream-2 - sostenuto dalla Germania e altri Paesi dell’Europa nord-occidentale - va avanti, mentre South Stream è stato bloccato. Circa il 30% delle importazioni italiane di gas e il 15% di quelle del petrolio provengono dalla Russia. Con la costruzione del Nord Stream-2, l’Italia potrebbe trovarsi ad importare gas russo attraverso la Germania - che, pur essendo un Paese di transito più affidabile dell’Ucraina, resta un competitor industriale. Un potenziale rischio è che gli ulteriori costi di transito comportino un prezzo del gas maggiore rispetto a quello pagato dalla Germania. In questo contesto, nel febbraio 2016 Edison e la compagnia greca Depa hanno firmato un memorandum of understanding con Gazprom per la creazione di un nuovo corridoio energetico per il gas russo nel sud-est Europa. Il progetto si baserebbe sull’estensione del gasdotto Itgi Poseidon per portare il gas russo in Italia attraverso il Mar Nero, Bulgaria o Turchia, Grecia e Mar Ionio. Cooperazione su Libia, terrorismo e sicurezza europea Meno discussa, ma altrettanto importante per capire le recenti aperture alla Russia, è la visione italiana della sicurezza europea. L’Italia vede Nato e Ue come i pilastri della sua politica estera, ma al contempo usa la sua influenza all’interno di queste organizzazioni per incoraggiare il dialogo con la Russia. La ricerca del dialogo con Mosca è motivata dalla profonda convinzione che la stabilità e la sicurezza europea dipendano dal coinvolgimento della Russia nelle strutture di decision-making. Per questo motivo, l’Italia ha sostenuto la creazione del Consiglio Nato-Russia nel 2002 (in contemporanea all’allargamento a est dell’Allenza atlantica) e ha manifestato interesse dinanzi alla proposta di un nuovo Trattato per la sicurezza europea presentata dall’ex presidente russo Dmitri Medvedev nel 2009. È in quest’ottica che, nelle discussioni con Putin a San Pietroburgo, Renzi ha definito l’idea di una nuova guerra fredda come “inutile” e “fuori dalla storia”. L’Italia sta inoltre tentando di coinvolgere la Russia nella risoluzione della crisi libica, sul modello dei negoziati riguardanti la Siria. Benché l’influenza russa in Libia sia più limitata, Mosca può giocare un ruolo tramite il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, i solidi rapporti con l’Egitto e, secondo alcune analisi, una potenziale alleanza con il generale libico Khalifa Haftar. L’agenda italiana per un approccio più cooperativo verso la Russia, quanto meno in alcune aree dove esistono interessi condivisi, ha maggiori possibilità di successo se portata avanti a livello europeo e transatlantico in coordinamento con Paesi che hanno una visione simile dei rapporti con Mosca, come Francia, Germania, Spagna e Austria. *Un’analisi più dettagliata è disponibile sul sito dell’Istituto Finlandese di Affari Internazionali. Marco Siddi è ricercatore presso l'Istituto Finlandese di Affari Internazionali (FIIA) a Helsinki. |
Italia nel Cnsiglio di Sicurezza dell'ONU, ma è uno strapuntino
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Con una trovata di diplomazia creativa, le due squadre, alla fine, hanno patteggiato un pareggio: bottiglia mezza piena, all’Aja; mezza vuota, da noi, che credevamo d’avere in cassaforte i voti per passare contro gli olandesi, di questi tempi un po’ in disarmo, tanto che non sono neppure arrivati alla fase finale di Euro 2016. Tradita da qualche amico infido, l’Italia approda comunque per la settima volta nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ma il seggio, condiviso con l’Olanda, diventa uno strapuntino: ci si sta stretti. Le alee del voto e la diplomazia creativa La scena: mercoledì 28, Assemblea generale delle Nazioni Unite. Si eleggono cinque membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza, che entreranno in carica il 1° gennaio 2017 per un biennio. Per passare, ci vogliono due terzi dei votanti, circa 128 suffragi. Al primo turno, la Svezia conquista uno dei due seggi in palio per l’Europa occidentale, con 134 voti: l’Italia stecca, terza con 113 voti, dietro l’Olanda con 125; passano pure Etiopia - Africa - e Bolivia - Americhe. Al secondo turno, ce la fa il Kazakhstan, che fa fuori la Thailandia nell'area asiatica. Fra Italia e Olanda, il ballottaggio è testa a testa: 99 a 92 al secondo scrutinio, lontani dal quorum; 96 a 94 al terzo, 96 a 95 al quarto, 95 pari al quinto, l’unico che non ci vede dietro. Di qui in avanti, i giochi potrebbero riaprirsi con nuove candidature. E allora scatta la diplomazia creativa: un accordo per spartirsi il seggio un anno ciascuno, l’Italia nel 2017, l’Olanda nel 2018, raggiunto tra il Palazzo di Vetro a New York, dove ci sono i ministri degli Esteri Paolo Gentiloni e Bert Koenders, e il Justus Lipsius di Bruxelles, dove ci sono i premier Matteo Renzi e Mark Rutte, che partecipano al Vertice europeo. La staffetta non è inedita - venne sperimentata la prima volta negli Anni Cinquanta da Jugoslavia e Filippine -, ma è rara. Il settimo mandato: precedenti e protagonisti Per l'Italia, è il settimo mandato, anzi il sesto e mezzo. Ma questa volta non è una marcia trionfale, come nel ’94. E neppure una passeggiata, come nel 2006. A New York, per sostenere la candidatura si sono spesi il presidente Mattarella e il premier Renzi, oltre che, più volte, il ministro Gentiloni. Che prova a rivendersi in positivo la mezza delusione: l’intesa fra Italia e Olanda è “un messaggio d’unità all’Ue”. E Koenders vede nel testa a testa "un segnale d’apprezzamento per entrambi i Paesi". La soluzione salomonica, inconsueta ma non inedita, viene presentata come "una dimostrazione di flessibilità all'italiana, ma anche di grande intelligenza diplomatica". Centrare l’obiettivo appariva, sulla carta, non impossibile perché i nostri rivali, Svezia e Olanda, sono Paesi che un po’ s’elidono a vicenda - entrambi del Nord Europa, entrambi ‘piccoli’ almeno come popolazione, entrambi attenti ai diritti dell’uomo, l’uno però neutrale e terzomondista, l’altro atlantico e spesso interventista. L’Italia poteva contare sui suoi molteplici radicamenti - europeo, atlantico, mediterraneo, persino latino-americano - e disponeva sulla carta di qualche voto in più del quorum. L’andamento degli scrutini non è stato quello sperato e atteso. L’ultima volta italiana fu nel 2007-’08 - ambasciatore Marcello Spatafora: fummo i più votati, pari merito con il Sud Africa. Ma nella leggenda della diplomazia è entrato il biennio 1995-’96, quando prendemmo più voti della Germania: l’ambasciatore era Francesco Paolo Fulci, mitica feluca, che portò a casa consensi persino dispensando allenatori di calcio nostrani a improbabili nazionali d’arcipelaghi polinesiani. L'esordio fu nel 1959, quando i membri non permanenti erano ancora sei: l’Italia è da 60 anni al Palazzo di Vetro - vi entrò nel 1955. Questa volta, la campagna elettorale è stata affidata all'ambasciatore Sebastiano Cardi e al suo vice, pure ambasciatore di rango, Inigo Lambertini: una coppia d’assi, messa insieme per centrare l’obiettivo, alla fine raggiunto a metà dopo una campagna elettorale di 24 mesi. Il problema non è la qualità della diplomazia, ma la credibilità del Paese e dei suoi leader. Le credenziali dell’Italia La ricerca di consensi suggeriva all’Italia atteggiamenti non urticanti nella fase pre-voto, pure verso Paesi non particolarmente virtuosi, ad esempio, sui fronti della democrazia e del rispetto dei diritti dell’uomo. La gestione ferma d’un crimine intollerabile come la fine al Cairo di Giulio Regeni può essersi riflessa nelle urne. E possono avere lasciato qualche segno in ambito continentale i ceffoni del premier ai partner dell’Ue, sonoramente impartiti l’autunno scorso. Ma l’Italia non puntava solo sui salamelecchi delle visite ufficiali e sulle cortesie diplomatiche: può giocarsi credenziali importanti, è l’ottavo contributore Onu - ed il primo occidentale -, quanto a truppe in missioni di pace, è in prima fila nei salvataggi dei rifugiati in mare, vuole la moratoria della pena di morte e promuove l’uguaglianza di genere e i diritti di donne e bambini. Uno dei punti di forza della candidatura era la disponibilità italiana alla riforma - attesa da anni - dell'Onu e, in particolare, del Consiglio di Sicurezza. L'Italia chiede da tempo maggiore trasparenza e più rotazione (ben 68 Paesi non hanno mai fatto parte del Consiglio), dando maggiore attenzione ai nuovi equilibri economici e geopolitici. Il 29 settembre, il premier Renzi aveva illustrato i temi forti della candidatura italiana davanti all'Assemblea generale: "Costruire la pace di domani" il motto, con in evidenza la cooperazione, specie in Africa, e l'impegno contro il terrorismo, ma anche a favore della cultura, con la proposta dei Caschi blu della cultura. Per acquisire voti, l'Italia contava sulla posizione strategica al centro del Mediterraneo, sul ruolo nell’accoglienza dei migranti, sull'inclinazione al multilateralismo. Roma annoverava amici in Europa e in America latina, fra i Paesi arabi e mediterranei, un po’ pure in Asia e in Africa: una trentina non hanno mantenuto le promesse. Ruolo e storia del Consiglio di Sicurezza Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu comprende cinque membri permanenti con diritto di veto (i Paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale e le potenze nucleari legittime: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina) e 10 membri non permanenti, che ruotano ogni due anni cinque alla volta, con mandato a partire dal primo gennaio. Che il posto sia ambito e prestigioso lo conferma, se ce ne fosse bisogno, il fatto che la Germania, che lo ha lasciato nel 2012, s’è già ricandidata per il biennio 2019-’20. Creato nel 1945, il Consiglio di Sicurezza è l’organo dell’Onu che delibera su atti di aggressione o di minaccia alla sicurezza e alla pace: ha "la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale", decide le sanzioni e autorizza interventi armati. Le decisioni richiedono una maggioranza di almeno 9 dei 15 membri e nessuno dei cinque membri permanenti vi si deve opporre. Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI. |
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