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mercoledì 26 ottobre 2016

Difesa Europea: un passo avanti

Ue e sicurezza
Difesa: c’erano un francese, un tedesco, un italiano e uno spagnolo…
Alessandro Marrone
24/10/2016
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I ministri della Difesa di Francia, Germania, Italia e Spagna hanno recentemente presentato ai colleghi degli altri Paesi Ue un documento congiunto contenente alcune proposte, abbastanza concrete e ambiziose, per una maggiore cooperazione e integrazione europea nel campo della difesa.

Un, due, tre stella
Dopo un’estate a geometria variabile che ha visto diverse iniziative unilaterali, a due o a tre, sembra ora delinearsi quel “nucleo aggregatore” che intende integrare maggiormente le proprie forze armate, fermo restando la possibilità per altri stati membri di aggiungersi all’iniziativa in corso d’opera.

Con Londra avviata verso l’uscita dall’Unione europea, Ue, il quartetto Parigi-Berlino-Roma-Madrid rappresenta le maggiori potenze militari dell’Ue, sia in termini di bilancio della difesa che di impegno nelle operazioni all’estero.

Da notare che i quattro Paesi hanno avuto una storia di relazioni con la Nato e l’Ue che è partita da posizioni differenti, si pensi all’anti-americanismo francese e all’atlantismo tedesco, e si è fatta via via più convergente. Una convergenza che coincide ampiamente con la tradizionale posizione italiana, attenta a bilanciare europeismo e atlantismo e ad impostare una maggiore cooperazione europea come elemento positivo per le capacità militari Nato e le relazioni transatlantiche.

Inoltre, elemento non marginale, tra le quattro capitali vi è una serie di cooperazioni industriali incrociate, a partire ovviamente dal forte asse franco-tedesco (vedasi Airbus, ma non solo), a cooperazioni bilaterali italo-francesi (ad esempio nello spazio e nella cantieristica navale) e italo-tedesche.

Vi sono anche importanti triangoli, come quello tra Germania, Italia e Spagna sul velivolo da combattimento Eurofighter (anche con la Gran Bretagna), o quello franco-germano-italiano sulla missilistica (con anche Londra parte di Mbda).

Il primo esempio di cooperazione militare e industriale che ha visto i quattro Paesi tutti insieme, e senza altri partner, si è concretizzato nel 2015-2016 con il progetto congiunto per sviluppare un drone europeo entro il 2025.

Quartier generale Ue sì, esercito europeo no
Quali sono dunque le proposte concrete avanzate dal documento congiunto? Si propone di costituire a Bruxelles una “capacità permanente per pianificare e condurre” le missioni Ue, con i relativi “robusti meccanismi di finanziamento” per sostenere il dispiegamento delle forze europee all’esterno dell’Ue. In pratica, un quartier generale a tutti gli effetti, cui manca solo il nome nella speranza di superare vecchie opposizioni di principio a tale bandiera.

Viene invece detto chiaramente che “un esercito Ue non è l’obiettivo” dei quattro Paesi, cosa abbastanza ovvia agli addetti ai lavori in quanto il punto non è creare un elefante militare europeo inefficace ed inefficiente, ma al contrario mettere a sistema le capacità nazionali rilevanti per farle funzionare meglio.

Proprio in quest’ottica funzionalista si propone anche un “comando medico europeo” che dovrebbe appunto integrare i servizi medici militari dei Paesi Ue, ed un “hub logistico europeo” per razionalizzare e rendere più efficienti i supporti logistici riducendo così duplicazioni e costi.

Cooperazione strutturata permanente: quo vadis?
L’elemento politicamente più ambizioso è l’ipotesi, cauta, di attivare le disposizioni del Trattato di Lisbona riguardo alla Cooperazione Strutturata Permanente (Permanent Structured Cooperation – Pesco) per attuare le suddette proposte nel caso, probabile se non certo, che si riveli impossibile realizzarle a 28 o a 27 stati membri.

Una Pesco che integrerebbe le capacità militari dei Paesi partecipanti sulla base di impegni legalmente vincolanti, e di un meccanismo di valutazione che coinvolgerebbe anche istituzioni Ue come l’Agenzia Europea per la Difesa. L’ancoraggio istituzionale europeo dell’intero documento è sancito sin dal suo incipit, con il riferimento forte all’attuale lavoro sul piano di attuazione della EU Global Strategy presentata dall’Alto Rappresentante Federica Mogherini lo scorso giugno.

I contenuti di una possibile Pesco sono ancora tutti da definire, ma già si segnalano perplessità rispetto a questa ipotesi da parte di altri Paesi Ue quali Polonia, Lituania, Portogallo, Svezia e Olanda. Se l’obiezione dei primi due stati dell’Europa orientale era un po’ prevedibile, data la priorità attribuita alla Nato per la difesa nazionale dai Paesi confinanti con la Russia, stupisce la freddezza da parte di Stoccolma e Aia che sono invece state tradizionalmente favorevoli a una maggiore cooperazione e integrazione europea in quest’ambito.

Quale che siano le motivazioni degli stati ora contrari, è importante lavorare diplomaticamente per spiegare le ragioni della Pesco ai Paesi scettici, anche in vista della sua attivazione che necessita di una maggioranza qualificata in Consiglio Europeo.

Ragioni che vanno dalla maggiore efficacia nel condurre missioni internazionali alle economie di scala e al risparmio sulle duplicazioni inutili, alla possibilità di mantenere insieme come europei il (costoso) vantaggio tecnologico sugli avversari militari che nessun Paese Ue può permettersi più da solo.

Il tutto, come esplicitato dal documento, a beneficio non solo della sicurezza dell’Ue, ma anche del contributo europeo alla Nato, anzi con un maggiore impegno sulla cooperazione Nato-Ue sulla base della dichiarazione di Varsavia dello scorso luglio.

Altro elemento da sottolineare è il carattere trasparente, aperto ed inclusivo della Pesco, fermo restando che i Paesi che vogliono aderire devono essere anche in grado di dare un contributo concreto, e non solo l’appoggio politico.

Sullo sfondo, occorre considerare una Gran Bretagna che resta ferocemente contraria alla Pesco, ma deve gestire la sua opposizione alla luce dei prossimi negoziati sull’uscita dall’Ue che sono la priorità del governo di Sua Maestà.

Il documento congiunto si augura che Londra resti un partner stretto, ma sulla Manica c’è ancora nebbia ed il percorso per attuare la Brexit avrà un impatto tutto da capire sulle dinamiche europee in corso nel campo della difesa.

Alessandro Marrone è responsabile di ricerca del Programma sicurezza e difesa dello IAI (Twitter @Alessandro__Ma).

Immigrazione: lo scaricabarile continua

Immigrazione
Italia sempre più delusa dall’Ue
Anja Palm
17/10/2016
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Siamo nuovamente i primi. Il forte contenimento dei flussi destinati alla Grecia avvenuto nella seconda parte del 2016 - frutto anche dell’accordo tra l’Unione europea, Ue, e la Turchia - ha fatto riguadagnare all’Italia il primato di Paese con il più alto numero di sbarchi.

Infatti, mentre l’Europa si congratula per la quasi totale chiusura della rotta balcanica, il flusso mediterraneo non si arresta: secondo i dati dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, fino al 25 settembre 2016 in Italia vi sono stati più di 130mila arrivi, rispetto ai 153mila dell’intero 2015.

Dopo Bratislava il premier Matteo Renzi ha ripetutamente biasimato l’Europa che promette ma non fa, dichiarandosi insoddisfatto per le politiche economiche e soprattutto d’immigrazione. Ha ribadito, che per frenare i flussi nei Paesi di origine e transito, bisogna dare priorità all’Africa. Se questo continente non verrà seriamente preso in considerazione dall’Europa, “l’Italia farà da sola”.

In attesa del summit del Consiglio europeo del 20-21 ottobre, in cui verrà discussa anche la questione migratoria, c’è da chiedersi se la minaccia della disintegrazione Ue sia veramente l’opzione più convincente. Sarebbe forse più opportuno che l’Italia si facesse promotrice di un’Europa a geometria variabile, con un nucleo di stati membri impegnati in un processo di maggiore integrazione. Ma non può farlo da sola.

Lo strappo di Bratislava, apice del tira e molla sull’immigrazione
Se Ventotene per Renzi aveva simboleggiato il sogno di una ‘nuova Europa’, guidata dalle tre grandi potenze, Bratislava ha rappresentato l’ennesimo colpo basso nella relazione italo-europea sulla questione migratoria. Il breve capitolo su migrazione e frontiere esterne, contenuto nelle conclusioni della riunione, si concentra esclusivamente sui Balcani e sulla Turchia, richiamando la necessità di chiudere le frontiere esterne dell’Ue.

Nessun accenno invece alla dimensione mediterranea. Sembra scomparso, il ‘piano africano’ - che prevede finanziamenti e investimenti strutturali ed imprenditoriali ai fini del contenimento dei flussi - presentato da Renzi nel Migration Compact e apparentemente ripreso nei mesi successivi dalla Commissione.

Stesso destino sembra spettare alle promesse di solidarietà e di equa ripartizione degli oneri della ‘crisi migratoria’. Al contrario, la Cancelliera Angela Merkel ha ritenuto ‘positiva’ la proposta di un approccio di solidarietà flessibile dei quatto Paesi di Visegrad, proposta che consente a quest’ultimi di non accogliere rifugiati, ma di contribuire economicamente o mediante altri strumenti. Le proposte di un sistema permanente di ricollocazione dei richiedenti asilo sembrano essere tramontate definitivamente.

2015, l’anno della svolta mai arrivata 
Dopo le rivoluzioni arabe del 2011, quando la rotta mediterranea ha assunto un’importanza fondamentale nei flussi migratori, l’Italia è stata il principale porto per coloro che volevano raggiungere l’Europa dall’Africa. Paradossalmente, l’Italia, per la maggior parte dei migranti, non è mai stata la destinazione ultima, ma semplicemente un Paese di transito verso il nord. Per tanti anni, Roma ha tentato di attirare l’attenzione su questa problematica, ma senza successo.

Il 2015, anno di un rinforzato dialogo europeo sulla questione migratoria, pareva aver segnato una svolta. La fattuale sospensione del regolamento di Dublino, il programma di ricollocazione e il patto Ue-Turchia - che, pur se criticato, rappresenta il primo accordo di ampio raggio che realizza la dimensione esterna delle politiche europee di migrazione - hanno dato l’impressione di una svolta in senso sovranazionale.

In realtà ha però solamente evidenziato come l’attenzione degli Stati membri rispecchi l’interesse nazionale: solo alla luce dei flussi sempre più consistenti nei Paesi fin allora protetti dalla buffer zone italo-greca, si è finalmente parlato di migrazione a livello europeo.

La sostanziale chiusura della rotta balcanica sembra però aver sancito anche la chiusura della stagione delle politiche europee. E il risultato per l’Italia è deludente: il meccanismo di ricollocazione sta funzionando a rilento: dei 40mila rifugiati che dovevano essere ricollocati dall’Italia ad altri paesi europei, ad oggi ne sono stati ricollocati meno di 1.200 e la rotta mediterranea continua ad essere attiva, mantenendo flussi praticamente identici all’anno passato.

Unione a geometria variabile?
L’Italia ha fissato una dead line simbolica: il 25 marzo 2017, data che segna i 60 anni dalla ratifica dei Trattati di Roma. Qualora non vi fossero dei risultati per questa scadenza, l’Italia minaccia la disintegrazione. A suon di ‘faremo da soli in Africa’, Roma avverte che opererà autonomamente e al di fuori dagli schemi europei.

Invece di agire come lupo solitario, il nostro Paese potrebbe accettare la realtà dei diversi valori e mirare ad un nucleo di Stati Membri che si facciano portatori di un processo di maggiore integrazione. Un’Europa a geometria variabile rappresenterebbe in fin dei conti una formalizzazione e un rafforzamento dello status quo. Contrariamente alle recenti prese di posizione sarebbe però necessario che Germania e Francia includessero l’Italia nel nucleo forte, riconoscendola come partner fondamentale.

Da molti anni si era detto che la questione migratoria avrebbe decretato il successo o il fallimento di un’Unione dei valori, capace di andare oltre agli accordi di natura commerciale. Se non vi sarà un radicale cambiamento di approccio nel breve periodo, che metta in secondo piano le lotte politiche interne, vivremo non solo il tramonto di un’Europa più sovranazionale, ma anche il fallimento in partenza di un’Europa a geometria variabile.

Anja Palm è stagista dell’Area Mediterraneo-Medio Oriente presso l’Istituto Affari Internazionali, dove concentra la sua ricerca sulla dimensione esterna dell’Unione europea in ambito migratorio e l’esternalizzazione dei controlli migratori.

Roma: Come dovrà cambiare l'Europa

Referendum costituzionale
Il profilo europeo della Riforma 
Lucia Serena Rossi
14/10/2016
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La riforma costituzionale presenta importanti profili per quel che riguarda partecipazione dell’Italia all’Unione europea, Ue, che nel dibattito generale non sembrano presi in considerazione adeguatamente. Di seguito analizziamo i tre aspetti di maggior rilievo.

La “partecipazione” del Senato al raccordo con l’Ue
Secondo il nuovo art. 55 Cost., il Senato concorre al raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Ue e partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea.

In realtà, per quel che riguarda la fase “ascendente”, di formazione degli atti dell’Ue, si tratta, e ciò vale anche per la Camera, non di una partecipazione diretta, poiché gli atti dell’Ue sono adottati dalle istituzioni europee, ma del controllo preventivo sulla sussidiarietà e proporzionalità, introdotto dai protocolli 1 e 2 del Trattato di Lisbona.

Il bicameralismo perfetto sopravvive solo in un numero limitato di ipotesi, considerate di particolare importanza. Fra queste vi è la ratifica dei “trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Ue”: in questo caso, a differenza che per tutti gli altri trattati internazionali - in cui è sufficiente l’autorizzazione della sola Camera - l’art. 80 prevede che la legge di autorizzazione alla ratifica sia bicamerale.

Viene così affermata in Costituzione la maggior rilevanza di questi trattati e la necessità di una maggiore legittimazione democratica per adottarli o modificarli, rispetto agli altri trattati internazionali. Ciò appare coerente con quel valore “costituzionale” del diritto dell’Ue che è stato affermato dalla Consulta nelle sentenze 348 e 248 de 2007, in contrapposizione con il valore “sub-costituzionale” di tutti gli altri trattati internazionali.

L’attuazione del diritto europeo
Quanto alla fase discendente, in linea generale il Senato non interviene nell’attuazione delle norme dell’Ue. L’art. 70 comma 1 - che indica le leggi la cui approvazione è bicamerale - non menziona fra queste gli strumenti ordinari di adattamento agli atti dell’Ue, quali la legge europea, la legge di delegazione europea o leggi ad hoc che recepiscano singole direttive, riferendosi soltanto alle leggi generali che regolano l’appartenenza all’Ue o a quelle di cui all’art 117.5, che stabiliscono le norme di procedura per le Regioni e le Province autonome, nelle materie di loro competenza, sulla partecipazione alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi dell’Ue, o al potere sostitutivo dello Stato alle Regioni.

Perciò nelle materie di competenza statale, le leggi di adattamento agli atti Ue saranno adottate solo dalla Camera. La “partecipazione” del Senato, meramente eventuale, si potrà avere, al pari di ogni altra legge per cui non sia disposto altrimenti dalla Costituzione, se richiesta da un terzo dei suoi componenti entro 10 giorni dalla approvazione del disegno di legge da parte della Camera; il Senato avrà poi solo 30 giorni per proporre eventuali modifiche, sui cui spetterà alla Camera pronunciarsi definitivamente.

Le conseguenze del ridimensionamento del ruolo del Senato sono due. Da un lato, ci si può attendere una maggiore rapidità dall’adozione monocamerale delle norme statali di attuazione del diritto dell’Ue. Dall’altro, il Senato, sollevato da attività legislativa, potrà concentrarsi sul controllo di sussidiarietà e proporzionalità delle norme Ue in fase ascendente, ma soprattutto potrà garantire, in fase discendente, un coordinamento, assai più continuo ed efficace di quello attualmente svolto dalla Conferenza Stato Regioni.

La continua produzione di norme europee rende infatti difficile tenere il passo alle Conferenze. Queste si riuniscono troppo sporadicamente nella c.d. “sessione comunitaria” e possono esercitare solo un’influenza limitata sugli enti territoriali e sulla loro legislazione e non sembrano oggi in grado di garantire un vero coordinamento fra Stato e Regioni o Province autonome e nemmeno fra queste ultime.

Il nuovo Senato potrà svolgere, molto più efficientemente delle Conferenze, la funzione di raccordo fra le diverse autonomie territoriali e fra queste ultime e lo Stato, proprio perché in esso siede un’estesa rappresentanza di persone quotidianamente impegnate nel governo del territorio.

Al recepimento degli atti dell’Ue nelle materie di competenza delle Regioni e Province autonome provvederanno queste ultime, legiferando nel rispetto delle norme di procedura stabilite con legge dello Stato, attualmente la legge 234/2012 e dei vincoli economici stabiliti dagli artt. 119 e 81 Cost.

Con la riforma Costituzionale si ha un chiarimento della ripartizione fra Stato ed enti territoriali, con l’abolizione delle materie di competenza concorrente e la riallocazione alla competenza statale di diverse materie, in cui sarà più facile garantire un’uniforme recepimento delle regole europee.

Inoltre viene rafforzato il potere sostituivo dello Stato alle Regioni nelle materie di loro competenza, il che sarà utile per prevenire condanne in infrazione da parte dell’Ue, prevedendo però il parere del Senato. Questo opportuno coinvolgimento del Senato si ricollega alle funzioni di rappresentare gli enti territoriali e di verificare l’impatto delle norme europee sui territori.

Rafforzamento delle regole di partecipazione dell’Italia all’Ue
La riforma costituzionale introduce una rilevante modifica per quanto riguarda gli strumenti che regolano in via generale l’appartenenza dell’Italia all’Ue.

Come si è detto, il bicameralismo sopravvive solo per leggi su temi di importanza rilevante, o “di sistema”. Questo tipo di leggi vengono anche innalzate ad un rango “semi costituzionale”, per l’impossibilità, che leggi successive, anche bicamerali, possano abrogarle tacitamente. Fra queste leggi il nuovo art. 70 include anche la “legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea”.

È questo un notevole passo avanti nel raccordo del nostro ordinamento con quello dell’Ue. Infatti tutte le leggi che sino ad ora stabilivano procedure, regole e meccanismi per la partecipazione italiana all’Ue -dalla “legge La Pergola” a quella “Buttiglione (11/2005) sino alla vigente legge 234/2012 - avevano lo status di legge ordinaria e quindi erano modificabili, anche implicitamente, da qualunque legge posteriore, incluse le leggi “comunitarie” annuali o le leggi settoriali, con il risultato di stravolgere il sistema previsto dalla legge di inquadramento.

Ora la legge 234/2012 viene innalzata ad un livello semicostituzionale, il che conferirà maggiore stabilità e solidità al processo di recepimento delle norme europee nel nostro Paese.

Lucia Serena Rossi è Ordinario di Diritto Ue Università di Bologna. Qui la versione più lunga dell’articolo pubblicato.

Una Vetrina per l'Italia

Relazioni Italia-Usa
Renzi alla Casa Bianca 
Massimo Teodori
14/10/2016
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La visita del premier Matteo Renzi al presidente Barack Obama il 18 ottobre si svolgerà all’insegna della “relazione speciale” che connota il rapporto tra Italia e Stati Uniti. Una relazione speciale in cui si intrecciano una molteplicità di fili che riguardano non solo la politica estera, l’economia e il militare, ma investe anche la società statunitense e i rapporti culturali sviluppatisi dal secondo dopoguerra.

L’Alleanza atlantica e le basi Nato e Usa in Italia non sono state mai messe in discussione. Ieri erano la prima linea sul fronte sovietico, ed oggi hanno acquisito l’importanza di baluardo euroatlantico nella crisi del Mediterraneo, in particolare rispetto alla Libia, uno degli anelli fragili di grande interesse per l’Italia in ragione delle risorse energetiche e delle migrazioni.

Nei rapporti transatlantici, occorre tenere conto anche di un altro filo che lega gli Stati Uniti all’Italia. La nostra emigrazione, che tra Ottocento e Novecento ha contribuito alla formazione della società multietnica, esprime oggi significativi segmenti della classe dirigente politica ed economica oltre che dello spettacolo.

Basta ricordare i nomi dei sindaci e governatori di New York, Mario e Andrew Como, Rudy Giuliani e Bill De Blasio, della ex speaker della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi, e dei giudici supremi Samuel Alito e Anthony Scalia, per comprendere come gli Italiansnon sono più soltanto “pizza e mafia”.

L’endorsement di Obama a Renzi
Il presidente Renzi arriverà a Washington con l’onore della “cena di Stato” alla Casa Bianca. Più volte l’Amministrazione democratica ha manifestato l’endorsement per l’attuale governo. Nell’aprile 2015 Obama dichiarò di essere “impressionato dall’energia di Renzi e dalla sua volontà di sfidare lo status quo”, complimento che era stato già espresso nel G20 del marzo 2014.

Al di là delle dichiarazioni d’occasione a favore dell’“alleato fedele”, l’apprezzamento per Renzi nasce dalla valutazione che il suo governo ha portato stabilità istituzionale nel travaglio della politica italiana, un valore che per Washington è il primo che deve avere un alleato in posizione geopolitica sensibile in tempi di scomposizioni internazionali.

Ed è proprio in questa ottica che va interpretata la dichiarazione dell’ambasciatore John Phillips contro l’incertezza che potrebbe seguire la bocciatura del referendum costituzionale.

Cena di stato, i temi in tavola
I più importanti dossier sul tavolo del prossimo vertice Italia-Usa riguardano il Mediterraneo, l’Europa di fronte alla Russia, il commercio e gli investimenti. La politica estera di Obama è stata tesa, se pure tra ondeggiamenti, alla progressiva riduzione degli impegni militari sui teatri europeo e mediorientale a favore di un maggiore dislocamento di risorse nell’Asia sud-orientale.

In generale il presidente ha promosso una strategia internazionale incentrata sulla trattativa e sulla leadership esercitata più con la diplomazia del soft power che non dell’hard power, ed ha abbandonato la filosofia degli Stati Uniti come “gendarme del mondo” che per anni ha guidato l’interventismo internazionale di Washington.

Da tempo l’Amministrazione statunitense richiede un maggiore impegno militare degli alleati Nato e in particolare una larga disponibilità italiana sul fronte libico. Per ora l’Italia ha risposto con l’invio di 100 medici protetti da un piccolo contingente di parà non combattenti.

Pertanto è possibile che la Casa Bianca avanzi nuove richieste in tal senso - anche se non sappiamo cosa farà il nuovo presidente -, e spinga per più decise sanzioni alla Russia come risposta all’aumentata aggressività di Vladimir Putin.

Obama avrebbe voluto portare a compimento i due trattati di liberalizzazione commerciale, oltre all’area del Pacifico (Ttp), anche in quella d’Europa (Ttip). A fine mandato appare però improbabile che il progetto vada in porto per cui l’America potrebbe volere sviluppare rapporti commerciali più aperti con i singoli Stati con la dilatazione dei vincoli dei trattati europei in cambio di maggiori investimenti.

La “cena di Stato” alla Casa Bianca potrebbe avere anche un altro risvolto. L’8 novembre andranno alle urne alcune decine di milioni di cittadini statunitensi di discendenza italiana che, dopo una originaria fedeltà democratica, hanno rivolto in parte le loro preferenze verso i repubblicani.

L’immagine dei buoni rapporti con la “madrepatria” potrebbe stimolare l’indicazione democratica patrocinata dal presidente, soprattutto negli Stati come New York e Pennsylvania dove più significativa è la presenza delle nostre comunità.

Massimo Teodori è storico e americanista (m.teodori@mclink.it).

giovedì 6 ottobre 2016

Roma: il braccio di ferro con la burocrazia

onti pubblici
Italia, al via la trattativa con Bruxelles 
Veronica De Romanis
13/10/2016
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Entro il 15 ottobre il governo italiano dovrà inviare a Bruxelles il Documento Programmatico di Bilancio 2017. Da quel momento, la Commissione europea avrà due settimane per valutarne la conformità alle regole del Patto di Stabilità e Crescita.

Nonostante, il governo di Roma non stia rispettando gli impegni presi prima dell’estate, il confronto con l’Europa si preannuncia meno complicato di quanto possa suggerire la mera applicazione dei criteri burocratici. L’incertezza che caratterizza il contesto politico internazionale e il perdurare delle difficoltà del Paese a crescere avranno un peso non indifferente nel processo decisionale della Commissione.

Le probabilità di portare a casa un risultato positivo sono, pertanto, elevate. C’è da chiedersi, però, se ciò possa effettivamente rappresentare un successo per l’Italia, non solo nel breve periodo, ma anche nel lungo.

Debito e disavanzo strutturale non calano
Il confronto con l’esecutivo comunitario si inserisce in un contesto macroeconomico ben diverso da quello di sei mesi fa. La crescita per il 2017 è stata, infatti, ridotta di quasi mezzo punto percentuale rispetto alle precedenti previsioni, dall’1,4% di maggio all’attuale 1%. E, tuttavia, per molti analisti, si tratta di una revisione al ribasso ancora troppo ottimista.

Le stime dell’effetto di trascinamento (l’anno in corso potrebbe chiudersi con una crescita inferiore allo 0,8% stimato), della variazione degli investimenti, in particolare del comparto delle costruzioni (prevista in crescita al 2,9 %) e, infine, dell’impatto della manovra (la differenza tra il Pil tendenziale e quello programmatico è dello 0,4%, di cui due terzi è ascrivibile al disinnesco delle clausole di salvaguardia) potrebbero, infatti, rivelarsi eccessive.

Il rallentamento delle prospettive di crescita si è tradotto in obiettivi di finanza pubblica peggiori di quelli contenuti nel Documento di Economia e Finanza, Def, della primavera scorsa. In primo luogo, il disavanzo sale dall’1,8% al 2% e, con un metodo assai inusuale, un ulteriore aumento dello 0,4% verrà autorizzato in una fase successiva dal parlamento.

L’extra deficit dovrebbe servire a finanziare le spese legate al sisma e alla gestione dei migranti. Questa volta, però, non sarà necessario chiedere l’attivazione delle clausole di flessibilità, bensì di utilizzare il margine che scatta in modo automatico in presenza di circostanze eccezionali ed eventi imprevisti.

Pertanto, la trattativa dovrebbe vertere unicamente sul “quanto” poter scorporare dal calcolo del disavanzo: il governo chiede uno scostamento per 7,4 miliardi di spese, di cui 3,5 per i migranti, una cifra rilevante considerato che lo scorso anno la Commissione aveva dato il via libera a poco più di un miliardo e mezzo.

Anche la stima del debito pubblico è stata rivista verso l’alto, dal 130,9 del Def al 132,5%. Infine, il disavanzo strutturale, ossia il saldo depurato dagli effetti del ciclo economico, nonostante l’impegno del governo a migliorarlo di almeno lo 0,2%, resta costante all’1,2%.

Nell’eventualità di un’applicazione rigorosa del Patto di Stabilità e Crescita, i suddetti tre elementi - disavanzo nominale più levato, debito ancora in crescita e saldo strutturale invariato - sarebbero sufficienti a far scattare una procedura per disavanzo e debito eccessivi. Il contesto attuale, tuttavia, potrebbe favorire un’interpretazione più morbida delle regole. Così come, in passato, è stato fatto per altri paesi. A cominciare dalla Spagna e dal Portogallo.

Una trattativa in un contesto politico-economico complesso
Nonostante il mancato rispetto degli obiettivi di finanza pubblica, la Commissione europea ha accordato ai due Paesi iberici del tempo ulteriore per rimettere le finanze pubbliche su un percorso sostenibile. Questa decisione assume una rilevanza particolare perché si inserisce in un contesto politico-economico nuovo.

Nel maggio del 2017 ci saranno le politiche in Francia, un Paese in cui tutti i partiti, incluso il primo, il Front National di Marine Le Pen, chiedono meno austerità nonostante il livello di spesa pubblica in rapporto al Pil sia il più elevato - e in aumento -, della zona euro.

In autunno sarà il turno della Germania. I tedeschi dovranno decidere se confermare Angela Merkel, ad oggi unico candidato forte. Molto dipenderà dalla capacità della cancelliera di trovare l’ennesimo compromesso tra la ricerca del consenso interno e il rafforzamento della stabilità europea: da un lato, dovrà gestire l’ascesa del movimentoAlternative fur Deutschland che prende voti anche facendo campagna “contro” la flessibilità di bilancio, dall’altro cedere ad una lettura meno rigorosa delle regole fiscali.

Infine, il 2017 sarà l’anno della Brexit. Nonostante Theresa May abbia annunciato che le procedure verranno attivate entro il mese di marzo, l’incertezza rischia di permanere, soprattutto se, oltre a ripetere lo slogan - un po’ vuoto per la verità -, “Brexit means Brexit”, non inizia a definire i dettagli sul “come” agire.

A conti fatti, ci sono buoni motivi per ritenere che prevarrà un’interpretazione più politica e meno burocratica del Patto di Stabilità e Crescita. Per l’Italia, in particolare, la Commissione potrebbe replicare il metodo dello scorso anno: prendere tempo a novembre, rimandare la valutazione alla primavera prossima e decidere quando oramai i margini sono diventati stretti perché il piano di finanza pubblica è già stato approvato dal parlamento nazionale.

Meno regole, maggior rischio di contagio 
Ulteriore flessibilità è davvero un vantaggio per un Paese come l’Italia? Probabilmente no, per almeno due motivi.

In primo luogo, continuare a rimandare il consolidamento fiscale rappresenta un problema. Si rischia di dover intervenire quando l’intervento della Banca centrale europea, che consente di risparmiare spesa per interessi, è terminato.

Inoltre, un livello di debito pubblico elevato indebolisce la posizione negoziale dell’Italia nella sua (giusta) battaglia per il completamento dell’unione bancaria. E poi c’è un problema di equità, perché saranno i giovani di oggi, che già faticano a trovare un impiego, ad accollarsi il finanziamento di spese di cui non hanno usufruito.

In secondo luogo, regole più morbide per tutti rendono l’Italia più vulnerabile agli shock. Nell’eventualità di un altro “caso Grecia”, sarebbero proprio i paesi ad alto debito a subire le conseguenze maggiori: la recente crisi lo ha dimostrato.

Peraltro, con regole meno stringenti si dovrebbe rinunciare a strumenti come ilQuantitative Easining, il cui beneficio per le finanze pubbliche italiane nel 2015 è stato di oltre 6 miliardi. In assenza di vincoli quantitativi, infatti, sarebbe difficile convincere gli stati virtuosi - ma non solo loro - ad accettare acquisti di titoli di debito sovrano da parte dell’Istituto centrale di Francoforte.

In conclusione, un verdetto positivo sulla flessibilità di bilancio da parte della Commissione europea consentirebbe - nell’immediato -, di mettere in atto misure di redistribuzione delle risorse utili - soprattutto - in vista dei prossimi appuntamenti elettorali. Tuttavia, una strategia che continua a posticipare nel tempo la riduzione del debito pubblico rischia di essere miope.

Veronica De Romanis, economista, è autrice de “Il Caso Germania: così la Merkel salva l’Europa” (Marsilio editori).

domenica 2 ottobre 2016

.Roma: i difficili rapporti con il Cairo

Immigrazione
Italia-Egitto: occhi puntati su collaborazione migratoria
Azzurra Meringolo, Anja Palm
02/10/2016
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A seguito del passaggio del cosiddetto "emendamento Regeni" - ovvero la decisione del nostro parlamento di bloccare l'esportazione di pezzi di ricambio di F-16 verso l’Egitto - il Cairo ha minacciato di riconsiderare la cooperazione bilaterale in materia di immigrazione irregolare.

Ricordando scenari tutt'altro che remoti, l'Egitto ha messo pressione all'Italia, agitando lo spauracchio di un nuovo flusso di migranti pronti a salpare le coste egiziane in direzione italiana.

Italia-Egitto: gentlement’s agreements sui flussi migratori 
Le minacce egiziane si basano sulla consapevolezza che negli ultimi vent’anni, in Italia come in Europa, il desiderio di porre un freno ai flussi migratori è divenuto una priorità ogni anno più importante.

La collaborazione di polizia avviata a livello bilaterale tra Italia-Egitto negli anni 2000 si è concentrata sul controllo delle frontiere (attraverso formazione, equipaggiamento e scambio di informazioni con le forze dell’ordine locali) e su accordi di riammissione che rendano possibile il rimpatrio o l’allontanamento di migranti privi dei requisiti per soggiornare nel nostro Paese. Per queste ultime pratiche Roma è stata anche richiamata dal Consiglio d’Europa.

La collaborazione bilaterale è divenuta più urgente durante la stagione delle "primavere arabe", quando l’immigrazione verso il nostro continente è cresciuta esponenzialmente. Soprattutto a seguito del ritorno al potere dei militari nell’estate 2013, Italia ed Egitto hanno stretto gentlement’s agreements che hanno avuto un significativo impatto sulla gestione delle frontiere.

Le minacce avanzate all’indomani del passaggio dell’emendamento Regeni rischiano però di agitare le acque. Dobbiamo quindi preoccuparci?

Nessun travaso dalla rotta balcanica a quella egiziana
I flussi egiziani sono particolarmente preoccupanti a causa della loro composizione, in prevalenza donne e bambini, maggiormente soggetti allo sfruttamento da parte di trafficanti di esseri umani e associazioni criminali.

Secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, l’Egitto è il Paese da cui provengono il maggior numero di minori non accompagnati. Solo in Italia, nel 2015, ne sarebbero arrivati 1.711.

Ma se questo è motivo di preoccupazione, meno serie sono le minacce prettamente numeriche che provengono dalla chiusura della rotta balcanica.

Mentre il ministero degli Esteri egiziano si è detto preoccupato in primis per il flusso di siriani (500 mila secondo i dati del Cairo, 114.911 per l’Unhcr) i numeri del 2016 mostrano che ad aumentare, in Egitto, sono sempre gli stessi migranti, quelli provenienti dall’Africa sub-sahariana che non hanno mai preso in considerazione la rotta balcanica.

Non solo non si può parlare di un travaso dalla rotta balcanica a quella egiziana, ma le percentuali riguardanti i Paesi di partenza delle imbarcazioni sono rimaste pressoché invariate nel corso degli anni, mantenendo la Libia in una posizione di assoluta prevalenza.

L’Egitto ha certamente visto un incremento nel 2016, ma se rappresenta un’alternativa ai rischi di un passaggio per la Libia - viaggio ormai famoso per i sequestri e i ricatti organizzati dalla mafia delle migrazioni - percorrere la rotta egiziana resta comunque più impegnativo perché richiede un tragitto di 750-900 miglia, un viaggio di 10-15 giorni che si svolge in un mare poco monitorato e lontano dalla costa, aumentando la possibilità di naufragi e morte.

Tesi tristemente confermata dall’affondamento di un barcone di 450 migranti partiti dall’Egitto per l’Italia il 21 settembre.

Interessi economici e cooperazione migratoria 
Nonostante le minacce, anche dopo l’inizio della crisi bilaterale, l’Egitto ha continuato a controllare le sue coste. Pur lamentando la mancanza del sostegno europeo, fra marzo e giugno vi sono stati più di 5 mila arresti per tentate partenze irregolari.

Al-Sisi ha anche parlato di un ulteriore rafforzamento dei controlli frontalieri e della lotta all’immigrazione irregolare in seguito al recente naufragio che ha attirato l’attenzione sulla rotta egiziana. E a continuare sono stati anche centinaia di rimpatri dall’Italia.

Roma, principale mercato per le esportazioni egiziane e primo partner commerciale dell’Egitto fra i Paesi europei e terzo a livello globale, è infatti considerata il fondamentale interlocutore europeo dell’Egitto.

Il fatto che il Cairo abbia un forte interesse nel mantenimento di un rapporto di collaborazione con l’Italia si intuisce anche dai recenti tentativi di contenimento delle minacce, confermati da alcuni dibattiti parlamentari durante i quali è stato rivolto un invito alla calma.

Per evitare che la minaccia attuale diventi reale, il premier Matteo Renzi sembra però intenzionato a spingere sin da ora l’Unione europea a replicare in tutta l’Africa accordi simili a quello siglato con la Turchia, come del resto fatto in Libia.

Cercasi strategia a lungo termine
Al posto dell’esternalizzazione del controllo migratorio, strategia a breve termine e a volte incoerente con i valori fondanti dell’Unione, è necessaria una strategia a lungo termine che preveda la possibilità di raggiungere l’Europa in modo regolare per richiedenti asilo, un potenziamento della migrazione economica e una politica che miri alla creazione di possibilità economiche e stabilità nella regione Mena.

Soprattutto però, le partnership non devono più essere euro-centriche, ma bilaterali, rispondendo ai bisogni e alle politiche degli Stati con cui vengono stretti i patti. La politica dei ricatti deve cedere il passo ad un dialogo fondato su comprensione e fiducia reciproche.

Che l’Egitto sia il primo a saperlo, è dimostrato dal suo tentativo di ridare credibilità al rapporto con l’Italia. Questo passa però anche dal caso Regeni. Dopo i goffi e ripetuti tentativi di depistaggio egiziani, solo un’assunzione di responsabilità per la morte di Giulio potrebbe risanare la relazione bilaterale che sembra ripartire come le rotte aeree verso il Mar Rosso.

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
Anja Palm è stagista dell’Area Mediterraneo-Medio Oriente presso l’Istituto Affari Internazionali, dove concentra la sua ricerca sulla dimensione esterna dell’Unione europea in ambito migratorio e l’esternalizzazione dei controlli migratori
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