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martedì 19 settembre 2017

mercoledì 26 luglio 2017

USA: Una presidenza inquietante

Usa: Trump, un presidente tra preoccupazioni e speranze

19 Lug 2017 Marco Magnani
       
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Sono trascorsi solo sei mesi, ma l’era Obama sembra molto lontana. Il 20 gennaio, giurando sulla scalinata di Capitol Hill con la mano sinistra sulla Bibbia di Abraham Lincoln, Donald Trump diventava il 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Il sentimento allora diffuso era un misto di preoccupazione e speranza. Preoccupazione che il nuovo inquilino della Casa Bianca non fosse all’altezza dell’ufficio. Speranza che il ruolo, le responsabilità e la squadra di governo potessero trasformare un candidato pittoresco in un buon presidente. Era già successo in passato. Oggi a sei mesi di distanza, nonostante il buon andamento dell’economia, la preoccupazione è aumentata e le speranze si sono affievolite.
L’economia vola: merito della Trumpnomics?L’economia statunitense va bene. Prodotto interno lordo e occupazione crescono. Il trend positivo era già iniziato con Obama, ma negli ultimi sei mesi il grado di fiducia è migliorato e la Borsa è in periodo ‘toro’ dall’8 novembre, il giorno delle elezioni. Per essere pienamente credibile il boom dovrà durare qualche anno, ma lo slogan trumpiano Make America Great Again non sembra più così velleitario.
Decisiva sarà la capacità del presidente di realizzare la promessa di riforma del sistema fiscale con un significativo taglio delle tasse sui redditi individuali e sui profitti aziendali. Da una parte ciò sarebbe di ulteriore stimolo alla crescita, dall’altra potrebbe incidere negativamente sul già elevato debito pubblico.
Politica estera al centroNel corso della campagna elettorale Trump aveva promesso di concentrarsi soprattutto sui problemi interni (America first) mettendo in secondo piano la politica estera. In questi primi sei mesi tuttavia le questioni internazionali sono state al centro dell’agenda del presidente e le sue posizioni spesso altalenanti e a volte contraddittorie.
È stata completamente ribaltata, almeno per ora, la politica di Obama sul cambiamento climatico. Così come le alleanze strategiche in Medio Oriente, con il riavvicinamento all’Arabia Saudita e il raffreddamento dei rapporti con l’Iran.
Lasciano perplessi anche il comportamento schizofrenico verso Cina e Russia e le eccessive tensioni con l’Europa, in particolare con la Germania. E’ forte il dubbio che Trump stia affrontando delicate questioni di politica estera con un po’ di leggerezza. La gestione della difficile situazione nord-coreana potrebbe essere un importante banco di prova in questo senso.
I flop su sanità e immigrazioneIn politica interna le posizioni del presidente su immigrazione e sanità sono controverse e rischiose. Sulla sanità Trump ha subito una cocente sconfitta. Nonostante le promesse fatte in campagna elettorale, ha infatti dovuto rinunciare alla riforma che avrebbe dovuto sostituire Obamacare, per evitare la bocciatura al Congresso dove avrebbero votato contro anche deputati moderati e conservatori. Un duro colpo alla credibilità della Casa Bianca e della leadership del partito repubblicano.
Anche il decreto presidenziale sull’immigrazione ha prodotto tensioni e danni d’immagine. Appena insediato Trump ha avuto su questo tema uno scontro durissimo con il ministro ad interim della Giustizia Sally Yates, rimuovendola dall’incarico. Da quel momento si è innescato un pericoloso confronto tra presidente e sistema giudiziario, tutt’ora in corso. Ma il vero danno è per l’immagine di un Paese la cui grandezza economica, sociale e culturale deriva anche dalla capacità storica di attrarre braccia e cervelli di ogni provenienza. Nell’economia globale e della conoscenza, il nuovo clima di ostilità verso gli immigrati potrebbe costare caro agli Stati Uniti d’America.
 Conflittualità e conflitti di interesseUn serio problema è l’elevato grado di conflittualità di Trump. Continua il braccio di ferro con i media, con durissimi attacchi a Cnn, Washington Post e New York Times. Le tensioni non mancano anche con istituzioni come Congresso e Corte Suprema e con importanti figure dell’Amministrazione. Il Russiagate ha portato alle dimissioni del consigliere per la Sicurezza Nazionale Michael Flynn, alla minaccia di dimissioni del ministro della Giustizia Jeff Sessions e all’incredibile licenziamento del capo dell’Fbi James Comey. E potrebbe essere solo l’inizio.
Eccessivo anche il ruolo di amici e familiari, con seri rischi di conflitto d’interesse. La nomina del genero Jared Kushner a senior advisor è stata criticata. L’immagine della figlia Ivanka che occupa il posto del padre al tavolo del G20 ad Amburgo sedendosi tra Theresa May e Xi Jinping ha suscitato perplessità e ironie. Il coinvolgimento diretto della famiglia, accettabile in campagna elettorale, è quanto meno inopportuno all’interno dell’Amministrazione.
Il candidato permanenteIl problema è che Donald Trump continua a comportarsi come se fosse ancora in campagna elettorale. E non ha saputo correggere alcuni eccessi, perdonabili (forse) al candidato ma inappropriati per il presidente. Come l’utilizzo continuo e un po’ disinvolto di twitter per comunicare il proprio pensiero. Un’altra anomalia è che il presidente non abbia ancora nominato gli ambasciatori in molti Paesi (quello per l’Italia è stato annunciato solo qualche giorno fa, quello per la Russia oggi).
Un segnale che tradisce il desiderio di gestire gli affari internazionali in prima persona e di preferire la strategia del dealdiretto all’azione diplomatica. Non è un caso che un suo libro di successo sia The Art of the Deal. Si aggiunga che, a oltre otto mesi dalla vittoria elettorale, è ancora in corso il Thank you tour che impegna il presidente in lunghi e faticosi viaggi negli Stati che l’hanno votato piuttosto che nello studio dei dossier caldi.
ConclusioniNonostante l’andamento positivo dell’economia, i primi sei mesi di Trump sono stati ricchi di scelte contraddittorie e discutibili, sia in politica estera che in politica interna. Tuttavia i tempi sono prematuri per una critica seria. Più preoccupanti sono i numerosi segnali che rivelano come Trump fatichi a spogliarsi dei panni del candidato per vestire quelli istituzionali di presidente. Tanto da far sorgere il sospetto che si tratti di una precisa strategia: fare il candidato permanente, fino alle prossime elezioni.

giovedì 13 luglio 2017

CS1 2012 capacità Militare FS9

Fattore di Rischio = Capacità Militare (FS.9) A9  della Capacita Sicurezza CS.1


   Fascia da 0 a 0,99:      1
   Fascia da 1 a 1,99:      2
   Fascia da 2 a 2,49:      3
   Fascia da 2,50 a 2,99: 4
   Fascia da 3 a 3,49:      5
   Fascia da 3,50 a 3,99: 6
   Fascia da 4 a 4,24:      7
   Fascia da 4,25 a 4,49:  8
   Fascia da 4,50 a 4,99:  9
   Fascia da 5 :                10


mercoledì 12 luglio 2017

CS1 Relazioni dello Stato considerato con i vicini

Fattore di Rischio = Relazioni dello Stato considerato con i vicini (FS.8) A8  della Capacita Sicurezza CS.1


   Fascia da 0 a 0,99:       10
   Fascia da 1 a 1,99:       9
   Fascia da 2 a 2,49:       8
   Fascia da 2,50 a 2,99:  7
   Fascia da 3 a 3,49:       6
   Fascia da 3,50 a 3,99:  5
   Fascia da 4 a 4,24:       4
   Fascia da 4,25 a 4,49:  3
   Fascia da 4,50 a 4,99:  2

   Fascia da 5 :                 1

domenica 9 luglio 2017

CS1 2012 Numero dei visitarori nello Stato

Fattore di Rischio =  Numero dei visitatori dello Stato(FS.7) A7  della Capacita Sicurezza CS.1   Arrivi in % tra 0 e 0,49    = 1

   Arrivi in % tra 5 e 9,9      = 1,5
   Arrivi in % tra 10 e 14,9  = 2
   Arrivi in % tra 15 e 19,9  = 2,5
   Ar
   rivi in % tra 20 e 24,9  = 3
   Arrivi in % tra 25 e 29,9  = 3,5
   Arrivi in % tra 30 e 34,9  = 4
   Arrivi in % tra 35 e 39,9  = 4,5
   Arrivi in % tra 40 e 44,9  = 5
   Arrivi in % tra 45 e 49.9  = 5,5
   Arrivi in % tra 50 e 54,9  = 6
   Arrivi in % tra 55 e 59,9  = 6,5
   Arrivi in % tra 60 e 64,9  = 7
   Arrivi in % tra 65 e 69,9  = 7,5
   Arrivi in % tra 70 e 74,5  = 8
   Arrivi in % tra 75 e 79,9  = 8,5
   Arrivi in % tra 80 e 84,9  = 9
   Arrivi in % tra 85 e 89,9  = 9,5
   Arrivi in % tra 90 e 100  = 10



mercoledì 28 giugno 2017

L'Italia ed i suoi grovigli

Caso Regeni
Italia-Egitto: ambasciatore è passo indietro
Antonio Marchesi
22/06/2017
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Si susseguono (due sono stati pubblicati nei giorni scorsi su AffarInternazionali, a firma di Ugo Tramballi e Nino Sergi, mentre la tesi contraria è stata sostenuta da Paola Caridi) i commenti di coloro che suggeriscono di rimandare in Egitto il nostro ambasciatore, nonostante la mancanza - o proprio a causa della mancanza - di sviluppi nel caso di Giulio Regeni.

Tutti gli osservatori, a quanto pare, sono concordi nell’attribuire la circostanza che non sia ancora emersa la verità, né tantomeno fatta giustizia, all’insufficiente collaborazione da parte delle autorità egiziane. E tutti, favorevoli e contrari al ritorno dell’ambasciatore, sembrano ritenere particolarmente preoccupante - e forse in ulteriore peggioramento - la situazione dei diritti umani in Egitto. Cosa spinge, allora, alcuni a proporre una modifica della scelta compiuta a suo tempo dal nostro governo di ritirare il rappresentante italiano, facendo quello che, nei fatti, è un passo indietro?

Le tesi a favore
Gli argomenti, in sostanza, sono due. Il primo è che, visto l’insuccesso dell’attuale strategia, un cambiamento di rotta sarebbe funzionale alla soluzione dello stesso caso Regeni. Si sostiene che un ambasciatore nella pienezza delle sue funzioni potrebbe fare di più. Nino Sergi aggiunge che questo ritorno dovrebbe essere accompagnato da un mandato preciso del nostro governo a lavorare per la soluzione del caso e propone una serie di “altre significative azioni positive” (alcune di carattere simbolico, altre consistenti in “interventi di cooperazione finalizzati all’affermazione e alla tutela dei diritti umani”).

Il problema, a nostro avviso, è che non bastano i ragionamenti astratti (“la presenza può fare più dell’assenza”, sarebbe “un segno di forza e non di debolezza”), anche se basati sulla lunga esperienza di chi li fa, né l’idea dell’integrazione con una serie di altre azioni, a fare pensare che le cose andrebbero nel modo che i sostenitori del ritorno dell’ambasciatore s’immaginano. Perché tutto, al momento, fa pensare il contrario.

Lo stesso Tramballi riporta il pensiero di “un diplomatico europeo che conosce bene l’Egitto”, il quale si dice convinto che “la fine del boicottaggio italiano sarebbe la fine di ogni speranza di conoscere la verità: il regime prenderebbe il ritorno del vostro ambasciatore come la rinuncia ufficiale a proseguire il caso”.

Basta fare, del resto, un po’ di attenzione alla lettura che, nei mesi scorsi, hanno dato del possibile ritorno al Cairo del rappresentante italiano i media filogovernativi egiziani per comprendere che, dal loro punto di vista, si tratterebbe proprio di quel “ritorno alla normalità” che Nino Sergi sostiene che non sarebbe. E la percezione (sia pure interessata) della parte egiziana è ben più rilevante, ahimè, delle intenzioni e del wishful thinking della parte italiana.

Se le cose stanno in questo modo, il rischio è che la tesi dell’utilità della piena ripresa delle relazioni diplomatiche con l’Egitto per la soluzione dello stesso caso Regeni diventi una copertura per il secondo argomento addotto dai suoi sostenitori: quello che fa riferimento alla necessità di tenere in conto gli interessi strategici complessivi del nostro Paese in Egitto.

Non è un confronto fra idealisti e realisti
Paolo Valentino, sul Corriere della Sera del 19 giugno, ha scritto che i rapporti diplomatici fra Italia ed Egitto “non possono non avere come pilastro della loro architettura i diritti dell’uomo”, aggiungendo subito dopo che “questi non possono neppure esaurire e governare da soli la complessità delle relazioni internazionali”. Ha ragione. Ma questo non significa che i primi - se “pilastri” devono essere - siano a quella “complessità” sacrificabili, soprattutto se ad essere in gioco sono i diritti fondamentali di cittadini italiani all’estero, il cui rispetto è, non da oggi, un obiettivo tipico della politica estera.

Quel che si vuole dire è che la tragica uccisione di Giulio Regeni e la mancata punizione dei responsabili, oltre che una gravissima violazione dei diritti umani nei confronti della vittima e della sua famiglia, è una violazione di cui l’Egitto si è reso internazionalmente responsabile nei confronti dell’Italia - una violazione che il nostro Paese non può, perché non è nel suo interesse, rinunciare a fare valere. Come scrive Paola Caridi, “non riuscire a difendere la dignità di Giulio Regeni significa non difendere lo Stato di diritto italiano, e neanche il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, nella regione araba, nel grande Medio Oriente”. Non è cedendo qualcosa rispetto alla vicenda dell’italiano Regeni che l’Italia può difendere meglio interessi italiani di altro tipo.

Non è questione, in altre parole, di scegliere quale interesse sia più importante (o di confrontarsi - se vogliamo - fra idealisti e realisti). È l’insieme degli interessi del nostro Paese ed è la sua capacità di perseguirli in modo credibile ed efficace a sconsigliare di compiere quel gesto che, come si è detto, verrebbe inevitabilmente interpretato dalla controparte come una rinuncia.

Iniziative alternative per la diplomazia
Come fare, allora, per ottenere verità e giustizia per Giulio se l’ipotesi del rientro dell’ambasciatore al Cairo non è utile allo scopo? Noi siamo dell’idea che, nella logica delle misure “progressive” di cui lo stesso Paolo Gentiloni, da ministro degli Esteri, aveva parlato, si debbano prendere in esame altre possibili risposte alla mancanza di collaborazione da parte egiziana.

La gamma degli strumenti che il diritto internazionale mette a disposizione è piuttosto ampia - dal progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati fino alle convenzioni internazionali sui diritti umani (a cominciare da quella contro la tortura, ratificata sia dall’Italia che dall’Egitto). Così come non mancano le iniziative che la nostra diplomazia potrebbe porre in atto in sede multilaterale.

È vero, purtroppo, che gli altri Stati europei si sono sostanzialmente disinteressati della vicenda. Ma è stato davvero fatto tutto il possibile per coinvolgerli? E si è mai pensato di sollevare la questione nel quadro del sistema delle Nazioni Unite? Insomma, sono state prese in esame tutte le possibili opzioni? E l’Italia, tutta l’Italia, ci ha creduto fino in fondo? Non è possibile, invece, che l’Egitto abbia potuto fare, in qualche misura, affidamento su una prevedibile temporaneità della nostra reazione? Se non è così, e se c’è ancora, davvero, la volontà di ottenere verità e giustizia per Giulio, piuttosto che su un possibile passo indietro, sarebbe bene, a nostro avviso, ragionare con maggiore determinazione sui possibili passi avanti.

Antonio Marchesi è presidente di Amnesty International Italia.

Gli Italiani l'Europa ed i Migranti

Sondaggio Chatam House
Italiani e Ue: delusi, ma non ancora euroscettici
Riccardo Alcaro
20/06/2017
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Stando ad un recente sondaggio condotto dal think tank britannico Chatham House, l’entusiasmo con cui gli italiani hanno storicamente appoggiato il progetto europeo è cosa del passato.

L’Ue suscita più che altro sfiducia, incapace com’è di dare risposte efficaci alla crisi dei rifugiati o all’immigrazione di massa (gli italiani mettono le due cose in cima alla lista dei fallimenti dell’Ue). Pochi in Italia (22%) ritengono che l’Ue abbia portato loro vantaggi, e molti (40%) pensano che la politica di austerità abbia anzi peggiorato le cose.

Non a caso, il 50% degli intervistati pensa che la Germania, percepita come il campione dell’austerità, giochi un ruolo negativo. ‘Disgusto’, ‘disagio’, ‘rabbia’ e soprattutto ‘pessimismo’ sono le parole che gli italiani associano di più all’Ue. Non sorprende che il 55% pensi che la Brexit indebolirà ulteriormente l’Unione.

Tra delusioni e vantaggi
Gli italiani non sono ignari del fatto che l’Ue ha anche portato benefici. I più apprezzati sono quelli che hanno espanso tangibilmente le opzioni individuali, come attesta il 45% delle preferenze dato al sistema di frontiere aperte di Schengen e alla libertà di stabilirsi e lavorare dovunque nell’Unione. Le conquiste più celebrate da politici e accademici, come il mercato unico e in particolare la pace in Europa, raccolgono soltanto il 26% e il 23% dei consensi, mentre pochi (10%) pensano che l’Ue abbia contribuito al rafforzamento dei valori democratici.

Ciò detto, un senso di appartenenza europea è ancora vivo in Italia: il 51% degli intervistati si è detto orgoglioso di essere ‘italiano ed europeo’, il 39% crede che gli europei abbiano valori comuni (il doppio di quanti credono il contrario) e soprattutto il 44% ritiene pericoloso il nazionalismo (contro il 20%). Ma allora cos’è che gli italiani vogliono dall’Ue?

Idee chiare e contraddittorie
Il senso di diffusa sfiducia sembra aver generato una richiesta quasi istintiva di recupero di sovranità (il 52% vorrebbe che l’Ue avesse meno poteri). E tuttavia gli italiani esprimono anche una domanda di maggiore cooperazione a livello Ue: il 63% sostiene che i Paesi europei più ricchi devono aiutare quelli più poveri, e il 66% vuole un’equa distribuzione dei rifugiati tra tutti gli stati membri. Sorprendentemente, il 40% guarda con favore agli Stati Uniti d’Europa (il 30% è contrario).

Gli italiani sembrano avere dunque un’idea di Europa come di una comunità definita da valori e una relativa omogeneità culturale. Ciò spiega perché sono convinti che una pur amichevole relazione tra Ue e Regno Unito post-Brexit non debba compromettere i principi su cui è basata l’Unione; che l’allargamento è andato troppo in là; e che alla Turchia vada negato l’accesso (il 68%, 61% e 47% degli intervistati, rispettivamente, è d’accordo con queste affermazioni). Anche la percezione generalizzata (51%) che valori europei e musulmani siano difficilmente compatibili si inserisce in questo quadro.

Quella che questi numeri raccontano non è la storia di una società arrabbiata e sempre più xenofoba. La maggioranza degli italiani guarda con favore o indifferenza ai cittadini Ue residenti in Italia, e anche i rifugiati o gli immigrati venuti in cerca di fortuna suscitano sentimenti negativi in non più del 30% e 35% della popolazione.

Anche i dati sulla coesione sociale non rivelano insormontabili faglie di divisione. I giovani sono tendenzialmente ritenuti non avere gran rispetto dei valori tradizionali (ma quando mai lo sono stati?), eppure la maggioranza degli italiani (51%) ha abbracciato uno degli sviluppi culturali socialmente più importanti degli ultimi anni come i matrimoni omosessuali. Inoltre, se interrogati sulla loro situazione personale, gli italiani sono meno demoralizzati di quanto sembra. Solo il 13% è insoddisfatto della sua vita, e solo il 9% ritiene di non averne sufficiente controllo.

Una società più affaticata che disperata
Viene fuori insomma non tanto una società disperata quanto una società affaticata (il 74% degli italiani pensa che la vita fosse migliore vent’anni fa) che anela a una maggiore chiarezza sul futuro del paese edelle prospettive individuali.

Il sondaggio fa certamente luce sulle radici dell’ampia coalizione eurocritica italiana, che include partiti di destra e anti-immigrazione come la Lega, una parte di Forza Italia e soprattutto il Movimento 5 Stelle. I risultati spiegano anche perché un leader fondamentalmente europeista come Matteo Renzi abbia cercato di migliorare le sue sorti usando toni duri verso Bruxelles o Berlino. Con un tale livello di risentimento generale, prendersela con l’Ue sembra portareun ritorno elettorale.

Eppure, un’analisi più approfondita del sondaggio dovrebbe dar da pensare. Gli italiani sono certamente delusi, ma in nessun modo si può evincere dai risultati che ci sia una gran voglia di avventure pericolose come uscire dall’Ue o anche solo dall’eurozona. Significativamente, l’euro è considerato un fallimento da non più del 30% degli italiani.

Europeismo ed euroscetticismo in chiave elettorale
Quando un orientamento europeista si è associato a una credibile promessa di cambiamento interno, come nella primissima fase del governoRenzi, gli italiani hanno premiato quell’opzione con il 40% dei voti presi dal Pd alle elezioni europee 2014. Ora che Renzi è di nuovo in sella, in vista delle prossime elezioni potrebbe concludere che l’Europa è un tema su cui conviene attaccare piuttosto che difendersi. Le critiche di Emmanuel Macron all’euroscetticismo di Marine Le Pen durante le presidenziali francesi sono dopotutto state molto efficaci a indebolire la credibilità della leader del Front National.

Anche le forze eurocritiche italiane farebbero bene a riconsiderare le loro opzioni. Ciò vale, in particolare, per la più grande tra loro, il M5S. I Cinque Stelle devono il loro successo non tanto alle posizioni critiche sull’Ue quanto al generale disprezzo in cui è tenuta la classe politica italiana (solo il 4% degli italiani pensa che i politici siano interessati ai loro problemi). Possono quindi permettersi di assorbire lo shock di un ridimensionamento della loro piattaforma euroscettica, in particolare ritirando la proposta di tenere un referendum sull’adesione dell’Italia all’euro. Dal momento che una manovra del genere li esporrebbe meno ad attacchi alla Macron, potrebbero anzi beneficiarne.

Forse è presto per prevedere quali saranno i temi caldi della campagna elettorale. Ma i risultati del sondaggio indicano che i due maggiori partiti, Pd e M5S, potrebbero presentare varianti alternative di un’opzione di riforma dell’Ue ‘dal di dentro’ invece che l’antagonismo radicale tra pro-Ue e anti-Ue che si è visto in Francia. Può essere anti-intuitivo, ma il dato di fondo del sondaggio è che una piattaforma fortemente euroscettica potrebbe essere, elettoralmente parlando, un peso piuttosto cheun vantaggio.

Riccardo Alcaro è Coordinatore delle Ricerche, Istituto Affari Internazionali (IAI).

mercoledì 21 giugno 2017

Un nodo da sciogliere

Caso Regeni
Italia-Egitto: sull’ambasciatore ho cambiato idea
Nino Sergi
19/06/2017
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Giungere alla verità ed ottenere giustizia per Giulio Regeni è un imperativo per ognuno di noi e lo Stato deve fare di tutto per pretenderle, con fermezza e perseveranza, senza alcun cedimento. L'Italia ha dato un segnale forte con il richiamo a Roma per consultazioni dell'ambasciatore in Egitto, ormai più di un anno fa.

Ma siamo quasi ad un anno e mezzo dal ritrovamento del corpo martoriato del giovane ricercatore e il raggiungimento della verità rimane in mano alle procure egiziana e italiana che continueranno ad avere periodi di collaborazione, come è stato negli ultimi mesi del 2016, e periodi di stallo che potrebbero prolungarsi anni e anni.

È giusto pretendere sostegno e pressioni da parte europea, più di quanto non sia forse stato fatto attraverso i canali diplomatici, ma stiamo toccando con mano il debole grado di solidarietà tra gli Stati dell’Unione. Occorre quindi altro. Altro che non si limiti a ferme dichiarazioni negli incontri internazionali, all’utile ma alquanto inefficace azione parallela delle imprese italiane operanti in Egitto o alla mobilitazione della pubblica opinione.

Un anno fa ho firmato anch’io l’appello per il richiamo dell’ambasciatore e faccio parte da sempre del mondo che promuove e difende i diritti umani ed è solidale con chi li vede quotidianamente calpestati. La realtà dell’Egitto è indescrivibile: decine di migliaia i detenuti politici, persone scomparse e probabilmente torturate e massacrate, ristretta libertà di stampa, severi controlli su decine di migliaia di ong e associazioni. Su tutto questo non si deve chiudere gli occhi.

Con il passare del tempo e con la mancanza di significativi progressi nelle indagini sull’assassinio di Giulio Regeni è però cresciuta in me la convinzione che l’Italia debba rimandare al Cairo il proprio ambasciatore. Negli ultimi mesi ci sono stati autorevoli pronunciamenti in questo senso ma le posizioni continuano a rimanere molto differenti e apparentemente inconciliabili, come d’altronde è apparso su queste colonne con le riflessioni di Ugo Tramballi e Paola Caridi.

L’assenza non è più l’arma migliore
Grazie anche al mio vissuto nelle relazioni internazionali ed alla pluriennale esperienza umanitaria in contesti di gravi tensioni, ritengo che il ritiro dell’ambasciatore italiano non rappresenti più l’arma migliore per fare pressioni sul governo egiziano ai fini della piena verità. Anzi, sono convinto che ora, in questa fase, tale assenza contribuisca a rallentarla - e questo non deve succedere – e che sia quindi giunto il momento di rinviare l’ambasciatore, proprio per uscire da questa attesa inconcludente e indefinita nel tempo (fino a quando si protrarrà?) e per esercitare meglio e in modo diretto, deciso e continuativo le necessarie pressioni per il raggiungimento della verità, a fianco e a sostegno dell’azione della magistratura. La presenza, ne sono convinto, può ottenere molto più dell’assenza ai fini dell’accertamento di quanto è avvenuto e delle responsabilità.

Il prolungato richiamo a Roma dell’ambasciatore si è dimostrato improduttivo e rischia di divenire un gesto politico sempre più fiacco e senza grande utilità. Non è affatto detto che il suo ritorno significhi ripresa della ‘normalità’, prescrizione de facto dell’orrendo delitto commesso, sottomissione alla realpolitik. Al contrario: un mandato preciso del nostro governo, fermo e reso pubblico in Italia ed in Egitto, impegnerebbe l’ambasciatore ad intervenire, in ogni occasione, in favore della verità e di tutto ciò che in quel Paese potrebbe accelerarla.

Una rappresentanza diplomatica autorevole, con un chiaro mandato, può infatti contribuire all’accertamento della verità non solo agendo sulla procura generale ma sulle stesse autorità egiziane, ai vari livelli istituzionali, in ogni occasione e in modo sistematico. Il suo ritorno permetterebbe inoltre la ripresa di contatti ministeriali e parlamentari e quindi la possibilità di una decisa e costante azione di pressione in ogni incontro tra ministri egiziani e italiani o tra membri dei due Parlamenti. Anche la parallela presenza a Roma dell’ambasciatore egiziano consentirebbe un dialogo e una pressione costanti, indispensabili allo scopo.

Ampio raggio d’azione
Non è attraverso i media e i comunicati, infatti, che gli Stati devono parlarsi, in particolare su una questione come questa. Come non è fermandosi alle denunce, alle ferme prese di posizione, alle conferenze stampa, agli articoli di giornale, ai convegni in Italia che si ottiene il rispetto dei diritti umani in Egitto. Non bastano.

Ad essi, tutti doverosi e indispensabili, va affiancato altro, tra cui proprio ciò che ci siamo preclusi: il dialogo politico bilaterale, ad ogni livello istituzionale, per potere esprimere in modo diretto le posizioni e la denuncia del nostro Paese e per potere intervenire - come non di rado è accaduto in situazioni analoghe nel mondo - a difesa dei diritti umani nel tentativo di salvare vite a rischio e proteggere persone o gruppi sociali perseguitati, facendolo in modo tempestivo e con autorevolezza.

Il ritorno dell’ambasciatore potrebbe avere un valore aggiunto ancora più forte ai fini del raggiungimento della verità se accompagnato da altre significative azioni positive. Da un lato, iniziative che possono essere dedicate a Giulio Regeni, al fine di ricordarlo, onorarlo e ricordare continuamente, in Egitto, la necessità di verità e giustizia.

Si potrebbero intitolare a Giulio aule, premi per tesi di laurea, programmi di formazione e scambi universitari, borse di studio e iniziative a favore di start-up di giovani egiziani come lui e molte altre ancora che le realtà italiane presenti in Egitto potrebbero a loro volta sostenere e moltiplicare. Dall’altro, interventi di cooperazione finalizzati all’affermazione e alla tutela dei diritti umani e della dignità della persona, come in parte fanno altre cooperazioni europee, al fine di continuare ad affermarne l’importanza e la priorità anche nell’Egitto di oggi.

Ampio potrebbe essere l’ambito degli interventi: dalla formazione di magistrati, pubblici ministeri, operatori di polizia, alle iniziative a sostegno delle minoranze e delle fasce più vulnerabili, dei diritti dei migranti, della partecipazione delle donne alla vita politica e al sistema giudiziario, della good governance a livello locale e nazionale, alla formazione nel campo della libertà di stampa, di espressione, di associazione, di tutela dei lavoratori e così via.

Segnale di forza, non di debolezza
Si tratterebbe, quindi, di una presenza e di iniziative che non ammetterebbero interpretazioni distorte sul significato del ritorno dell’ambasciatore. Non sarebbe infatti un segnale di debolezza o di cedimento ma una ferma, tenace e chiara azione di pressione politica per ottenere dall’Egitto verità e giustizia e per favorire al contempo i diritti umani nel Paese;quei diritti che sono stati negati a Giulio e che continuano ad essere negati quotidianamente e brutalmente a molti altri. L’Italia dimostrerebbe così quella fermezza che la statura del nostro Paese impone.

“Cosa può fare l’Italia per ottenere verità e giustizia per Giulio Regeni?” è stato recentemente chiesto al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. “Insistere e dare la sensazione che un Paese come il nostro non dimentica e non rinuncia alla ricerca della verità”, ha risposto. L’invio in Egitto di una persona capace e determinata come l’ambasciatore Giampaolo Cantini, nominato ben un anno fa, con ampie conoscenza ed esperienza del Mediterraneo, risponderebbe pienamente alle intenzioni manifestate dal premier.

L’alternativa sarebbe quella di continuare a sperare - in una lunga e snervante attesa - nel lavoro pur prezioso della procura di Roma e nella collaborazione con quella egiziana, senza alcuna certezza che questo possa bastare; insieme a quella di continuare a denunciare le repressioni senza poterlo fare in modo diretto e forte in incontri politici a tutti i livelli. Solo lo scambio dei due ambasciatori permetterebbe infatti la ripresa di incontri bilaterali tra ministri, parlamentari, amministratori regionali e locali, moltiplicando l’azione e la pressione italiana per la verità su Giulio e per i diritti fondamentali in Egitto.

Non è da sottovalutare, infine, che sono la difficile situazione internazionale, le crescenti tensioni che minacciano la pace e la sicurezza, la complessità delle migrazioni mediterranee a richiedere che i rapporti tra gli Stati dell’area si sviluppino con costanti relazioni e partenariati, pur basati sulla franchezza, l’esigenza di verità e la fermezza in merito al rispetto dei diritti fondamentali della persona e ai processi da mettere in atto per poterli garantire. E l’Egitto è al momento uno degli attori primari nei processi di ricomposizione e di influenza dell’area. Non si tratta solo di analisi geopolitica, ma del destino di centinaia di migliaia di persone, considerando le sofferenze che potrebbero derivare da un ulteriore peggioramento degli squilibri e della tensione nell’area.

Nino Sergi è presidente emerito di Intersos.
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domenica 18 giugno 2017

La Policy di Francoforte

Scelte in bilico
Bce: Draghi e un’Italia che non cresce 
Stefano Cavedagna
31/05/2017
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Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi è tornato a parlare della politica monetaria davanti alla Commissione Economica del Parlamento europeo. Il presidente ha ancora riferito sulla situazione dell’Eurozona, quando ormai mancano pochi giorni all’8 giugno, data della prossima riunione del Consiglio direttivo della Bce: una data attesa perché si ipotizzano cambiamenti di rotta della policy di Francoforte.

Da Tel Aviv a Bruxelles, correzioni di rotta
Il recente discorso di Draghi a Tel Aviv, nel quale aveva detto che la ripresa è evidente nell’Eurozona e che la recessione è da considerarsi ormai alle spalle, aveva dato adito all’idea che il Quantitative Easing e le manovre espansive della Banca centrale potessero volgere rapidamente al termine.

Di fronte alla Commissione del Parlamento, però, Draghi dimostra di volere correggere le sue recenti affermazioni, confermando così che il QE non verrà ridotto a breve, e riafferma in particolare come, nonostante i tenui miglioramenti, gli interventi della Bce siano ancora necessari: “Restiamo convinti che una quantità straordinaria di sostegno da parte della politica monetariasia ancora necessaria” e ancor di più che “l’inflazione torni a stabilizzarsi attorno al 2% nel medio periodo”.

Queste esternazioni di Draghi sembrano ammortizzare le analisi di chi già teorizzava una conclusione repentina delle manovre super-espansive della Bce. La correzione alle affermazioni è anche un probabile segnale per tranquillizzare i mercati, soprattutto dei Paesi più in difficoltà, che stavano già risentendo di un probabile stop del sostegno alla politica monetaria.

Quali sviluppi per l’Italia?
Draghi si è inoltre soffermato sulla condizione dei Paesi ad alto debito, i cosiddetti Piigs, avvertendo che un eventuale ed auspicato ritorno dell’inflazione a livelli attorno al 2% (il cosiddetto livello di riferimento) avrà anche l’effetto di aumentare il costo del debito sovrano. Questa fattispecie potrà causare qualche problema ai Paesi più indebitati, soprattutto se non dovessero dimostrare una crescita economica sufficiente a rendere sostenibile il debito stesso.

L’Italia è il Paese che potrebbe rimanere più segnato dalle conseguenze di un aumento dell’inflazione, se questa non dovesse essere accompagnata da una sufficiente crescita economica. Con una crescita attesa soltanto dello 0,9% per il 2017, peraltro in un momento di politica fortemente espansiva, l'Italia è l’unico Paese della zona euro e dell'Ue ad avere un aumento atteso del Pil minore all'1% nel 2017.

È quindi necessario, e le parole di Draghi lo lasciano intendere, che l’Italia metta in atto idonee riforme che incentivino la produttività delle imprese. Una diminuzione della spinta del Quantitative Easing, che presto o tardi arriverà, potrebbe condannare l’Italia alla stagnazione economica, o peggio ad una lieve stagflazione, un’inflazione non sostenibile aggravata da una crescita tendente allo zero.

Gli effetti del Quantitative Easing
Per risolvere l’irrisolvibile, Draghi lanciò il Quantitative Easing, che venne ribattezzato ‘bazooka’ della base monetaria.Già nel gennaio del 2015 il presidente annunciò che la Banca centrale avrebbe acquisito titoli di debito pubblico a partire da marzo 2015 almeno fino a settembre 2016 per 60 miliardi di euro al mese, e comunque, fino a quando il tasso di inflazione nell'eurozona non si sarebbe riavvicinato al 2%, come prevede lo statuto della Bce stessa in materia di stabilità dei prezzi.

In base alle normative presenti nei trattati dell’Unione, la Bce però non può comprare titoli sul mercato primario, cioè direttamente dagli Stati, ma sul mercato secondario, quindi acquisendoli da altri istituti. Il QE è iniziato il 9 marzo del 2015 e non è mai stata fissata una data di scadenza: si considera che debba continuare semplicemente fino a quando ce ne sarà bisogno.

Non ritenendo ancora sufficientemente efficace la manovra, nel marzo 2016 la Bce ha deciso, con il voto contrario della Germania, di aumentare l’importo mensile di acquisto dei titoli da 60 a 80 miliardi. Inoltre, ha deliberato di estendere l'acquisto a titoli non governativi, purché emessi da società private non bancarie e aventi un rating migliore del BBB. Infine, contestualmente il tasso di interesse è sceso allo 0% e il tasso sui depositi delle banche al -0,4%.

Queste scelte senza precedenti nella storia della Bce, abituata a tassi stabili e a manovre impostate più sul rigore che sull’espansione indotta, hanno avuto anche l’effetto di svalutare l’euro rispetto al dollaro.

Quanto ne ha beneficiato l’Italia
Per quanto riguarda gli effetti sul nostro Paese, il QE ha senz’altro migliorato gli investimenti e i consumi, influendo positivamente sul Pil italiano. Si è anche registrata una maggiore crescita, e un nuovo flusso di prestiti bancari di bassa qualità dello 0,4%. Ma, accanto ad una crescita ancora non soddisfacente, si può soltanto dire che le politiche non convenzionali abbiano evitato effetti ancora peggiori per l'economia italiana.

Tali manovre infatti non sono in grado di risolvere da sole le problematiche di mancanza di produttività e di instabilità dei conti pubblici alla base della crisi, limiti noti nella penisola. È necessario un investimento, soprattutto da parte dei governi dei Paesi più in difficoltà, per rilanciare la crescita. Il dato aggregato del mercato unico europeo è tendenzialmente positivo, con una crescita media poco al di sotto del 2%.

La possibile futura fine del QE potrebbe pertanto avere un effetto benefico di stabilizzazione per la maggior parte dei Paesi europei che dimostrano una sufficiente ripresa, tranne che per quelli con bassa crescita ed alto debito, tra i quali proprio l’Italia, che potrebbero trovarsi nuovamente in difficoltà qualora dovessero cambiare le condizioni monetarie.

Stefano Cavedagna è analista Affari europei e Geopolitica.

mercoledì 31 maggio 2017

Agroalimentare italiano

Sistema Nutri-Score
Ue: Made in Italy contro etichette francesi
Antonio Scarazzini
29/05/2017
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Mentre è ancora fresco il giubilo europeo per l’avvento alla presidenza francese di Emmanuel Macron, gli ultimi giorni del governo Hollande hanno lasciato eredità che spaventano l’agroalimentare italiano.

Nutri-Score, un sistema di etichettatura d’informazione alimentare lanciato dall’ormai ex ministro della Salute Marisol Touraine, è stato infatti notificato alla Commissione europea il 24 aprile ed entrerà in vigore a partire dal 25 luglio se da Bruxelles non perverranno richieste di modifica.

Le caratteristiche del Nutri-Score
Basato su una scala alfabetica e cromatica a cinque tonalità tra il verde e il rosso per classificare il valore nutrizionale di ogni prodotto, il Nutri-Score si ispira alle cosiddette etichette a semaforo lanciate nel Regno Unito nel 2013. Identica è la base giuridica, il Regolamento Ue 1169 del 2011, che ha infatti modificato la normativa in materia di indicazioni nutrizionali obbligatorie, aprendo alla possibilità di utilizzare «pittogrammi o simboli» per il loro inserimento sulle confezioni.

I due sistemi differiscono in realtà per la loro definizione, l’uno misurando il tenore di grassi, grassi saturi, zuccheri e sodio in rapporto alla porzione, l’altro in base al contenuto per ogni 100 grammi di prodotto. Tuttavia, come già in Gran Bretagna, il coinvolgimento delle principali catene distributive è stato immediato: Intermarché, Leclerc, Auchan eFleury Michon hanno infatti annunciato la conclusione di un’intesa con il ministero francese per l’immediata applicazione in via volontaria del sistema di etichettatura.

In difesa del Made in Italy
La notifica di Nutri-Score ha trovato una pronta e sonora reazione nel mondo dell’agroalimentare italiano. Il timore, come già nel caso dei semafori britannici, è che il sistema di etichettatura finisca per fornire un’indicazione negativa anche a prodotti tradizionali tipici che pure godono di denominazioni di origine protetta.

L’anno scorso furono sei (Spagna, Cipro, Slovenia, Grecia, Portogallo e Romania) i Paesi che appoggiarono l’Italia nell’opposizione alle etichette britanniche, culminata con l’approvazione di una risoluzione del Parlamento europeo proposta dalla Commissione ENVI, guidata sino allo scorso febbraio dall’italiano Giovanni La Via, che invitava a ripensare la validità dell’etichettatura nutrizionale.

Ora l’Italia prova invece a rispondere con una task force presieduta dal ministro degli Esteri Alfano, in cui i ministeri delle Politiche agricole, della Salute e dello Sviluppo economico lavoreranno per la tutela del Made in Italy, con l’intento di spingere la Commissione e il nuovo governo Macron al ripensamento.

In ballo c’è la tenuta delle esportazioni verso un mercato, quello francese, che è secondo per la destinazione dei prodotti agroalimentari italiani dopo la Germania, con un valore di 4,1 miliardi di euro nel 2016. Tra i settori più a rischio per il tipo di indicazione nutrizionale, secondo le stime di Assolatte, vi è quello caseario: un business da oltre 450 milioni di euro in Francia nel 2016, in crescita del 7,5% rispetto all’anno prima e che nel febbraio 2017 ha fatto segnare un +9,6% rispetto allo stesso periodo nel 2016.

I timori delle associazioni di categoria hanno una base fattuale, come rilevato da uno studio del think tank Nomisma pubblicato nella primavera del 2016: dal dicembre 2013, cioè dall’introduzione dei semafori nella grande distribuzione britannica, al settembre 2015 prodotti italiani DOP come il Parmigiano Reggiano o il Prosciutto di Parma avevano perso il 13% ed il 14% delle vendite. Le grandi federazioni dei produttori italiani (Federalimentare, Confagricoltura e Coldiretti in primis) fanno quindi scudo comune per chiedere regole europee uniche ed evitare distorsioni di mercato.

Geopolitica del food
La difesa degli interessi dell’agroalimentare non è una novità per il governo italiano: non è mistero che il tiepido supporto del governo Renzi alle sanzioni contro la Russia per le aggressioni in Ucraina sia da addebitarsi anche ai malumori dei produttori italiani che, secondo stime Coldiretti, avrebbero perso circa 850 milioni di export.

Non stupisce, infatti, che la stessa federazione degli agricoltori abbia plaudito al recente incontro tra Putin e Gentiloni, auspicando un pronto disgelo tra i due Paesi. Favorito, perché no, dalla forte ascesa all’interno del Partito democratico del ministro per l’agricoltura Maurizio Martina. Spetterà anche a lui, inoltre, sorvegliare l’avvio dei negoziati per la Brexit, con 3,2 miliardi di export alimentare italiano che potrebbe venire penalizzato da altre iniziative simili al semaforo introdotte dalla Gran Bretagna al di fuori del mercato unico.

Da ultimo, alla bagarre sulle etichette si aggiunge anche un’iniziativa non governativa: sei grandi multinazionali del settore, Coca-Cola, Mars, Mondelez, Nestlé, PepsiCo e Unilever, stanno infatti mettendo a punto un proprio sistema di etichette per i mercati europei, che faranno riferimento ai nutrienti presenti per ciascuna porzione anziché in 100g, con l’intento di contribuire al controllo dei comportamenti alimentari scorretti. Un cambio di tattica rispetto al 2013, quando le majors dell’alimentare si scagliarono contro il sistema di etichettatura britannico, che rischia di prendere in contropiede i piccoli produttori italiani.

Antonio Scarazzini è direttore di Europae – Rivista di Affari Europei.

martedì 30 maggio 2017

Roma: Prospettive positive verso la Cina

Al Forum di Pechino
Nuova Via della Seta: Italia fra porti e investimenti
Lorenzo Bardia
25/05/2017
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Con il viaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella in Cina nel febbraio scorso e la recente partecipazione del premier Paolo Gentiloni al Belt and Road Forum for International Cooperation di Pechino, torna al centro dell’interesse italiano la nuova Via della Seta, la strategia di sviluppo promossa da Pechino volta a stimolare gli scambi commerciali, gli investimenti e la costruzione di infrastrutture nel territorio euroasiatico.

L’iniziativa, lanciata dal presidente cinese Xi Jinping all’inizio del suo mandato e articolata in Silk Road Economic Belt sul piano terrestre e in Maritime Silk Road sul piano marittimo, vede infatti nell’Italia la destinazione ideale di investimenti e potenziali infrastrutture. Quali saranno quindi le sfide che nei prossimi anni l’Italia dovrà affrontare?

Da Shanghai a Venezia 
Nel settore infrastrutturale, la penisola si prepara ad accogliere i flussi della Maritime Silk Road con il progetto dei “cinque porti”, l’alleanza tra cinque dei maggiori scali del Nord Adriatico pianificata dalla North Adriatic Ports Association (Napa).

Il consorzio interesserà le strutture portuali italiane di Venezia, Trieste e Ravenna e i porti di Capodistria, in Slovenia, e di Fiume, in Croazia, con l’obiettivo di attrarre le navi cargo cinesi che percorreranno il Mediterraneo attraverso il Canale di Suez e indirizzarle fino a Malamocco, località marittima nei pressi di Venezia dove è prevista la costruzione di una piattaforma off-shore.

Se la tratta Shanghai-Amburgo è lunga 11 mila miglia, il viaggio necessario per collegare Shanghai al Mar Adriatico del nord sarebbe di circa 8.600 miglia, con un tempo di percorrenza inferiore di 8 giorni rispetto al porto tedesco. Una volta operativo, il complesso portuale dovrebbe quindi essere in grado di gestire tra 1,8 e 3 milioni di TEU all’anno; numeri importanti, se consideriamo che, ad oggi, la totalità dei porti italiani può gestire fino a 6 milioni di TEU l’anno.

Il flusso di capitali cinesi
Come ha però sottolineato Xi nel discorso di apertura del Forum, nell’iniziativa non rientrano soltanto progetti di “infrastructure connectivity”, ma anche gli investimenti. In Italia si conta infatti che gli investimenti diretti esteri provenienti dalla Cina, nel periodo 2000-2016, si aggirano intorno ai 13 miliardi di euro, cifra che fa della penisola il terzo Paese europeo – dopo Regno Unito e Germania – destinatario dei flussi di capitali cinesi.

Tuttavia, è a partire dal 2014, pochi mesi dopo la proposta di Xi, che il cambio di passo della strategia cinese è diventato evidente. La People’s Bank of China ha rilevato il 2% di alcune tra le più grandi industrie italiane: Fiat Chrysler Automobiles, le partecipate Eni ed Enel e, nel campo delle telecomunicazioni, Telecom Italia e Prysmian, per un investimento totale di 3,2 miliardi di euro. Nel settore energetico, ricordiamo l’acquisizione da parte di Shanghai Electric del 40% di Ansaldo Energia, per un esborso totale di 400 milioni di euro, seguita dall’acquisto da parte di State Grid Corporation of China del 35% di Cassa Depositi e Prestiti Reti per 2,1 miliardi di euro.

Il 2015 si è aperto con la People’s Bank of China che, complice il periodo del sistema bancario italiano, ha rilevato il 2% di UniCredit, Monte dei Paschi di Siena e Intesa Sanpaolo, ed è terminato con la più grande operazione registrata fino a questo momento, la scalata per il controllo di Pirelli da parte di Chem China, per un totale di 7 miliardi di euro.

Tra gli investimenti, la Cina ha di recente iniziato a guardare al calcio. Dopo il passaggio di proprietà dell’Inter, che nel giugno 2016 è diventata asset del gruppo Suning, è di aprile la notizia della vendita da parte di Fininvest del Milan, rilevato dalla cordata guidata dall’uomo d’affari Yonghongh Li. Infine, sempre del mese scorso è la cessione da parte di Atlantia del 5% del capitale di Autostrade per l'Italia al Silk Road Fund.

L’Italia nella strategia di Pechino
Diverse sono le ragioni che hanno condotto in Italia il flusso di investimenti cinesi: il Paese è infatti la seconda manifattura d’Europa, con settori altamente all’avanguardia ed eccellenze che possono, con il loro alto know-how, aiutare lo sviluppo delle industrie cinesi. In secondo luogo, è chiara la volontà di Pechino di porsi nel mercato italiano come attore non aggressivo, ma partner presente e affidabile; in tale direzione vanno interpretate le acquisizioni cinesi di quote delle principali società italiane ma soprattutto i recenti passaggi di proprietà delle società calcistiche Inter e Milan.

Se, quindi, nei prossimi anni si prevede un incremento dei flussi per gli investimenti cinesi, è il piano infrastrutturale a vivere una situazione di incertezza. Il progetto dei “cinque porti”, a quattro anni dal lancio della Belt and Road Initiative, è ancora fermo alla fase di pianificazione: al momento sono stati stanziati per l’inizio dei lavori 350 milioni di euro da parte del governo, a fronte di un costo stimato di 2,2 miliardi di euro.

L’Italia sconta da una parte la concorrenza del porto del Pireo, per il quale la China Ocean Shipping Company già a partire dal 2008 ha investito più di 4,3 miliardi di dollari. Da allora, la capacità del porto greco è quadruplicata ed ha raggiunto nel 2015 un traffico di 3,36 milioni di TEU.

Dopo il Forum di Pechino e il Congresso del Partito comunista cinese di quest’anno, molti dei progetti della nuova Via della Seta entreranno nella fase di realizzazione: tocca ora all’Italia coglierne le potenzialità e non lasciare che la “win-win cooperation” evocata da Xi resti un’occasione mancata.

Lorenzo Bardia è assistente alla ricerca dell’area Asia dello IAI.

giovedì 25 maggio 2017

Taormina: opportunità sostanziali

Presidenza italiana
G7 all’italiana, un’occasione da non perdere
Simone Romano
02/11/2016
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Maggio 2017. Questo l’appuntamento per il quarantatreesimo summit del gruppo dei Sette, meglio noto come G7. I capi di Stato e di Governo che si riuniranno nel vertice si troveranno davanti una situazione tutt’altro che semplice da diversi punti di vista.

Ai problemi economici strutturali e di lungo periodo, quali una crescita sempre più anemica della produttività e la carenza ormai endemica di domanda aggregata, si vanno ad aggiungere problemi nuovi, come l’incertezza politica e finanziaria dovuta alle delicate elezioni in Francia e Germania, all’avvio del processo di uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, Ue, e alle crisi geopolitiche, prima fra tutte quella siriana.

Il compito di scegliere i temi al centro del prossimo summit che si prospetta innanzi alla presidenza italiana diviene così tanto fondamentale quanto arduo. La speranza è che ci si concentri sulle questioni comuni che sono alla base di questi molteplici problemi, senza focalizzarsi su ognuno di essi in modo singolo, ricercando soluzioni concrete ed effettive di lungo periodo, non solo palliativi di breve periodo, per quanto urgenti e necessari.

L’economia globale cresce meno del suo potenziale
Il quadro macroeconomico globale che emerge dai recenti annual meeting tenuti a Washington dal Fondo monetario internazionale, Fmi, è, a dir poco, scoraggiante. Alla perdurante recessione seguita alla crisi del 2008, non ha fatto seguito il “rimbalzo” sperato ed è ormai chiaro che l’economia globale stia crescendo al di sotto del suo potenziale da troppo tempo. Inoltre, le stime negli ultimi semestri sono state costantemente e ripetutamente riviste al ribasso.

Le risposte politiche messe in campo sino ad ora non hanno sortito gli effetti sperati ed è per questo che, ormai da mesi, gli esperti del Fmi sollecitano l’adozione di un mix di politiche economiche potente che faccia leva non solo sulla politica monetaria, ma usi anche gli strumenti fiscali e completi le riforme strutturali.

Il messaggio che viene lanciato da Washington è che non si può più aspettare: bisogna agire in fretta e in modo deciso, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione. Questo perché la stagnazione economica, che coinvolge la maggior parte delle economie mature ormai da lunghi anni, ha creato le condizioni perfette per la crescita del malcontento e della sfiducia, concretizzatisi poi nell’ascesa di movimenti populisti e xenofobi in Europa e nella storica decisione presa dai cittadini britannici di abbandonare l’Ue.

Anche negli Stati Uniti la recente campagna elettorale ha evidenziato come il malcontento popolare, critico delle élite e del sistema politico attuale, sia cresciuto in modo preoccupante.

Occorre dunque che i governi facciano ricorso sì a tutte le armi a loro disposizione per risollevare al più presto la situazione economica globale, allo stesso tempo però le dinamiche descritte esprimono con forza la necessità sempre più urgente di una riflessione che vada al di là dei rimedi di breve e medio periodo, concentrandosi sulle cause ultime che hanno reso questo periodo così difficile e delicato a livello economico, politico e sociale.

Crescente sperequazione nella distribuzione delle risorse e pessimismo diffuso
Come aveva già fatto notare Carlo Cottarelli nel suo intervento ad un convegno IAI, il problema fondamentale da risolvere riguarda la sperequazione nella distribuzione dei redditi e della ricchezza. Tale fenomeno si è venuto ingigantendo dagli anni ‘80 ad oggi, creando delle vere e proprie fratture sociali all’interno delle quali sono proliferate la sfiducia nelle élite, nelle istituzioni e nella classe politica.

Una distribuzione sempre più iniqua del reddito non è solo un problema etico e di uguaglianza, ma è un problema economico reale che è alla base di molte delle problematiche attuali. La dinamica che ha lentamente concentrato il reddito nella parte più ricca della popolazione ha colpito maggiormente la classe media, spina dorsale delle economie di mercato più mature, facendone crollare i consumi e con essi la domanda aggregata, con i conseguenti problemi di disoccupazione ormai tipici di molte economie europee.

Questa crescente disuguaglianza, insieme con la crisi e la lunga recessione, ha comportato la perdita di fiducia nella maggior parte della popolazione, che guarda ora al futuro con timore e non più con speranza. Questo spiega perché, anche in un periodo di tassi di interesse a zero e di prezzi in stallo da tempo, i consumi e gli investimenti non diano alcun segnale di ripresa.

Creare attraverso la politica monetaria le condizioni per un rilancio dei consumi e degli investimenti privati senza ridare risorse e fiducia alle famiglie e alle piccole e medie imprese è una strategia sterile, come d’altronde hanno pienamente dimostrato gli ultimi anni.

La presidenza italiana tra breve e lungo periodo
Considerando la difficoltà della situazione attuale a livello economico, politico e sociale, la presidenza italiana dovrebbe mirare sia a favorire soluzioni efficaci e concrete di breve periodo, quantomai urgenti, sia, nel contempo, a mettere l’accento sui problemi strutturali di lungo periodo.

In entrambi i casi sarà fondamentale che il governo italiano insista nel promuovere un approccio condiviso a livello internazionale. Il coordinamento delle politiche economiche, soprattutto in seno a un forum più ristretto e omogeneo quale quello del G7, è assolutamente irrinunciabile: pensare di risolvere problemi globali con approcci nazionali sarebbe quantomeno miope e non c’è davvero più tempo da perdere.

Simone Romano è ricercatore dello IAI.

martedì 23 maggio 2017

Italia: il 2% del PIL alla Difesa

Bilanci della difesa
Nato: Vertice, verso roadmap per 2%
Ester Sabatino, Paola Sartori
20/05/2017
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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump parteciperà al Vertice della Nato a Bruxelles il 25 maggio. L’incontro sarà il primo tra il nuovo presidente Usa e tutti i leader dei Paesi membri dell’Alleanza atlantica.

Trump intende riproporre le richieste americane per una maggiore partecipazione degli alleati alla ripartizione degli oneri (burden-sharing). Lo scorso mese il segretario di Stato Rex Tillerson ha chiesto ai Paesi della Nato di formulare una road map per raggiungere il livello di spesa del 2% del Pil, road map da discutere proprio nel prossimo Vertice alleato.

Il tema della ripartizione degli oneri - ovvero il raggiungimento della soglia di spesa per la difesa del 2% del Pil - sarà quindi argomento di confronto il 25 maggio, insieme a quelli di una maggiore assunzione di responsabilità e della definizione delle modalità di lotta al terrorismo.

I limiti di un target solo quantitativo
Nonostante il target del 2% abbia assunto un ruolo di primo piano nel dibattito attuale sulla difesa europea e transatlantica, questo parametro va comunque valutato con cautela per una serie di ragioni.

Innanzitutto, la difficoltà di applicare i parametri Nato alle diverse contabilità nazionali rende problematica una comparazione coerente e precisa delle effettive spese nazionali per le Forze Armate.

Inoltre, il riferimento al 2% fornisce una fotografia parziale delle capacità di difesa di un Paese.Questo parametro, infatti, non tiene conto di prontezza operativa, capacità di dispiegamento e sostenibilità delle Forze Armate. Inoltre, non fornisce indicazioni rispetto alla ripartizione delle spese all’interno dei bilanci nazionali, non valutando qualità ed efficienza degli investimenti.

Infine, il legame diretto con il Pil - che varia considerevolmente tra gli Stati membri - rende questo target poco sostenibile nel lungo periodoper alcuni Paesi. Ad esempio, la Germania dovrebbe sostenere una spesa di oltre 70 miliardi per raggiungere il 2% del proprio Pil.

Il quadro europeo
In Europa solamente Estonia, Grecia, Polonia e Regno Unito rispettano questo target; gli altri Stati se ne discostano, nonostante negli ultimi anni si registri una tendenza verso un aumento generale delle spese per la difesa.

Analizzando i piani di spesa relativi all’anno corrente, in Europa solamente Finlandia, Grecia e Romania hanno previsto, nelle rispettive leggi finanziarie, delle diminuzioni di spesa. Tutti gli altri hanno invece proposto aumenti che, in alcuni casi, raggiungono le due cifre percentuali.

Più nello specifico, Paesi come Francia e Germania sono ancora lontani dal raggiungimento della soglia. Parigi spenderà circa 40.3 miliardi nel 2017, circa l’1,8% del Pil nazionale. La percentuale include però anche la spesa per le pensioni - attorno ai 7,82 miliardi - che incide positivamente sulla proporzione con il Pil.

Berlino, per contro, che pure ha stanziato per il 2017 un aumento corrispondete a circa l’8% rispetto al budget della difesa del 2016, è ancora all’1,2% del Pil nazionale, prevedendo di raggiungere la soglia del 2% entro il 2024. Le prossime elezioni potrebbero però influenzare le tempistiche previste.

Il contesto italiano
In un quadro europeo generalmente positivo, anche l’Italia sembra seguire questo trend. Secondo il rapporto Nato pubblicato a marzo 2017, la spesa militare è aumentata tra il 2015 e il 2016, passando da 17,642 a 19,980 miliardi. Quest’incremento, che equivale ad un aumento del 10%, fa crescere la percentuale di spesa per la difesa in rapporto al Pil, dall’1,01% all’1,11%. Questi dati vanno tuttavia ridimensionati e valutati alla luce di due precisazioni.

In primo luogo, le cifre Nato includono anche la Funzione Sicurezza e Difesa del Territorio (Carabinieri), le Funzioni Esterne, e le pensioni provvisorie del Personale in Ausiliaria. Una valutazione più accurata dovrebbe considerare la Funzione Difesa unitamente alle spese relative agli investimenti stanziati dal MiSE, le risorse per il fondo missioni internazionali e una minima parte della Funzione Difesa e Sicurezza del Territorio relativa alle missioni Difesa e Polizia Militare dei Carabinieri.Secondo questa logica la spesa italiana per le Forze Armate nel 2016 si assesterebbe sui 17 miliardi, pari a circa l’1% del Pil nazionale.

In secondo luogo, considerando nello specifico la Funzione Difesa, l’aumento registrato tra il 2015 e il 2016, da 13.186 milioni a 13.360 milioni, è in realtà riconducibile all’incremento dei costi per il personale e solo marginalmente alla voce esercizio. Inoltre, le previsioni per le risorse destinate alla Funzione Difesa nel 2017 prevedono un lieve calo rispetto all’anno precedente, da 13,36 a 13,212 miliardi. Questo riduzione, nonostante un concomitante aumento degli investimenti MiSE - che nel 2017 dovrebbero assestarsi attorno ai 2,7 miliardi -, condurrebbe ad un ulteriore allontanamento del bilancio della difesa nazionale dal target del 2%.

L’importanza politica del 2% e l’Italia
Nonostante le sue limitazioni è importante sottolineare come questo target rimanga un valido punto di riferimento in termini politici. In questo senso, l’obiettivo del 2% ha valore programmatico e costituisce uno stimolo se non ad aumentare le risorse quantomeno ad arrestare i tagli. In effetti, esso fornisce una sorta di obbligazione esterna per i governi che spesso faticano a giustificare le spese per la difesa di fronte alle proprie opinioni pubbliche.

Anche nel caso italiano, benché questo parametro non valorizzi l’impegno nazionale in termini di prontezza operativa e partecipazione alle iniziative Nato, costituisce comunque un impegno politico sottoscritto in ambito alleato. È importante, quindi che anche l’Italia mostri la volontà di invertire la rotta attraverso l’elaborazione di una road map credibile e sostenibile nel lungo termine. Proprio il Vertice di Bruxelles potrebbe essere un buon punto di partenza.

Ester Sabatino e Paola Sartori sono Junior Fellow presso il programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter @Ester_Sab1, @SartoriPal)).