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domenica 18 giugno 2017

La Policy di Francoforte

Scelte in bilico
Bce: Draghi e un’Italia che non cresce 
Stefano Cavedagna
31/05/2017
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Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi è tornato a parlare della politica monetaria davanti alla Commissione Economica del Parlamento europeo. Il presidente ha ancora riferito sulla situazione dell’Eurozona, quando ormai mancano pochi giorni all’8 giugno, data della prossima riunione del Consiglio direttivo della Bce: una data attesa perché si ipotizzano cambiamenti di rotta della policy di Francoforte.

Da Tel Aviv a Bruxelles, correzioni di rotta
Il recente discorso di Draghi a Tel Aviv, nel quale aveva detto che la ripresa è evidente nell’Eurozona e che la recessione è da considerarsi ormai alle spalle, aveva dato adito all’idea che il Quantitative Easing e le manovre espansive della Banca centrale potessero volgere rapidamente al termine.

Di fronte alla Commissione del Parlamento, però, Draghi dimostra di volere correggere le sue recenti affermazioni, confermando così che il QE non verrà ridotto a breve, e riafferma in particolare come, nonostante i tenui miglioramenti, gli interventi della Bce siano ancora necessari: “Restiamo convinti che una quantità straordinaria di sostegno da parte della politica monetariasia ancora necessaria” e ancor di più che “l’inflazione torni a stabilizzarsi attorno al 2% nel medio periodo”.

Queste esternazioni di Draghi sembrano ammortizzare le analisi di chi già teorizzava una conclusione repentina delle manovre super-espansive della Bce. La correzione alle affermazioni è anche un probabile segnale per tranquillizzare i mercati, soprattutto dei Paesi più in difficoltà, che stavano già risentendo di un probabile stop del sostegno alla politica monetaria.

Quali sviluppi per l’Italia?
Draghi si è inoltre soffermato sulla condizione dei Paesi ad alto debito, i cosiddetti Piigs, avvertendo che un eventuale ed auspicato ritorno dell’inflazione a livelli attorno al 2% (il cosiddetto livello di riferimento) avrà anche l’effetto di aumentare il costo del debito sovrano. Questa fattispecie potrà causare qualche problema ai Paesi più indebitati, soprattutto se non dovessero dimostrare una crescita economica sufficiente a rendere sostenibile il debito stesso.

L’Italia è il Paese che potrebbe rimanere più segnato dalle conseguenze di un aumento dell’inflazione, se questa non dovesse essere accompagnata da una sufficiente crescita economica. Con una crescita attesa soltanto dello 0,9% per il 2017, peraltro in un momento di politica fortemente espansiva, l'Italia è l’unico Paese della zona euro e dell'Ue ad avere un aumento atteso del Pil minore all'1% nel 2017.

È quindi necessario, e le parole di Draghi lo lasciano intendere, che l’Italia metta in atto idonee riforme che incentivino la produttività delle imprese. Una diminuzione della spinta del Quantitative Easing, che presto o tardi arriverà, potrebbe condannare l’Italia alla stagnazione economica, o peggio ad una lieve stagflazione, un’inflazione non sostenibile aggravata da una crescita tendente allo zero.

Gli effetti del Quantitative Easing
Per risolvere l’irrisolvibile, Draghi lanciò il Quantitative Easing, che venne ribattezzato ‘bazooka’ della base monetaria.Già nel gennaio del 2015 il presidente annunciò che la Banca centrale avrebbe acquisito titoli di debito pubblico a partire da marzo 2015 almeno fino a settembre 2016 per 60 miliardi di euro al mese, e comunque, fino a quando il tasso di inflazione nell'eurozona non si sarebbe riavvicinato al 2%, come prevede lo statuto della Bce stessa in materia di stabilità dei prezzi.

In base alle normative presenti nei trattati dell’Unione, la Bce però non può comprare titoli sul mercato primario, cioè direttamente dagli Stati, ma sul mercato secondario, quindi acquisendoli da altri istituti. Il QE è iniziato il 9 marzo del 2015 e non è mai stata fissata una data di scadenza: si considera che debba continuare semplicemente fino a quando ce ne sarà bisogno.

Non ritenendo ancora sufficientemente efficace la manovra, nel marzo 2016 la Bce ha deciso, con il voto contrario della Germania, di aumentare l’importo mensile di acquisto dei titoli da 60 a 80 miliardi. Inoltre, ha deliberato di estendere l'acquisto a titoli non governativi, purché emessi da società private non bancarie e aventi un rating migliore del BBB. Infine, contestualmente il tasso di interesse è sceso allo 0% e il tasso sui depositi delle banche al -0,4%.

Queste scelte senza precedenti nella storia della Bce, abituata a tassi stabili e a manovre impostate più sul rigore che sull’espansione indotta, hanno avuto anche l’effetto di svalutare l’euro rispetto al dollaro.

Quanto ne ha beneficiato l’Italia
Per quanto riguarda gli effetti sul nostro Paese, il QE ha senz’altro migliorato gli investimenti e i consumi, influendo positivamente sul Pil italiano. Si è anche registrata una maggiore crescita, e un nuovo flusso di prestiti bancari di bassa qualità dello 0,4%. Ma, accanto ad una crescita ancora non soddisfacente, si può soltanto dire che le politiche non convenzionali abbiano evitato effetti ancora peggiori per l'economia italiana.

Tali manovre infatti non sono in grado di risolvere da sole le problematiche di mancanza di produttività e di instabilità dei conti pubblici alla base della crisi, limiti noti nella penisola. È necessario un investimento, soprattutto da parte dei governi dei Paesi più in difficoltà, per rilanciare la crescita. Il dato aggregato del mercato unico europeo è tendenzialmente positivo, con una crescita media poco al di sotto del 2%.

La possibile futura fine del QE potrebbe pertanto avere un effetto benefico di stabilizzazione per la maggior parte dei Paesi europei che dimostrano una sufficiente ripresa, tranne che per quelli con bassa crescita ed alto debito, tra i quali proprio l’Italia, che potrebbero trovarsi nuovamente in difficoltà qualora dovessero cambiare le condizioni monetarie.

Stefano Cavedagna è analista Affari europei e Geopolitica.

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