Blog di sviluppo per l'approfondimento della Geografia Politica ed Economica attraverso immagini, cartine, grafici e note.Atlante Geografico Statistico Capacità dello Stato.Parametrazione a 100 riferito all'Italia. Spazio esterno del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro. (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
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venerdì 31 marzo 2017
martedì 28 marzo 2017
Il vicino inquieto 4
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Il tempo previsto dalla Costituzione per creare una nuova maggioranza parlamentare è terminato e non vi è alcun segno che l’impasse possa essere presto sbloccata. Sono quindi possibili diversi esiti: dalla formazione di un governo guidato dall’opposizione ad un'ulteriore polarizzazione politica che potrebbe portare allo scontro etnico. Le elezioni del dicembre scorso hanno dato 51 seggi al Vmro-Dpmne, il partito conservatore al governo dal 2006; 49, invece, al maggior partito d’opposizione, il socialdemocratico Sdsm, mentre 10 sono andati al Dui (partner di coalizione del Vmro dal 2008). Vmro e Dui sono quindi riusciti a confermare la maggioranza uscente, ma di appena un seggio, conquistandone 61 sui 120 del Parlamento di Skopje. Nikola Gruevski, leader del Vmro, ha ricevuto un mandato dal presidente Gjorge Ivanov (anch’egli conservatore) per provare a formare un nuovo governo. I negoziati a porte chiuse con il Dui di Ali Ahmeti sono però falliti. La Piattaforma di Tirana Secondo la Costituzione, Ivanov avrebbe quindi dovuto dare un mandato esplorativo al secondo partito maggiormente rappresentato in Parlamento, l’Sdsm. Questo, tuttavia, non è mai avvenuto e, a partire dal 29 gennaio scorso, il Paese vive un nuovo stallo politico e istituzionale. Dopo l’insuccesso del Vmro, Ivanov ha chiesto a Zoran Zaev, a capo dei socialdemocratici, di presentare almeno 61 firme di parlamentari come prova dell’esistenza di una maggioranza in Parlamento; condizione che, tuttavia, il capo dello Stato non aveva precedentemente posto a Gruevski. E quando l'Sdsm ha presentato le firme richieste, Ivanov ha posto nuovi paletti: Zaev avrebbe dovuto ripudiare la cosiddetta “Piattaforma di Tirana”, che si era nel frattempo costituita, accusata di essere incostituzionale e di mettere a rischio la natura unitaria dello Stato. Il 7 gennaio, giorno del Natale Ortodosso, infatti, tutti i partiti etnici albanesi rappresentati in Parlamento - guidati dal Dui e coordinati da Tirana e Pristina - avevano reso pubblica una piattaforma politica congiunta capace di trasformare la natura dell'attuale crisi da politico-istituzionale a etnica. La piattaforma è stata posta come condizione necessaria dai leader dei partiti albanesi per entrare a fare parte della nuova coalizione di governo. La situazione è però diventata presto ancora più ingarbugliata: dopo il fallimento dei negoziati tra Vmro e Dui e l'apertura di quelli tra Sdsm e Dui, l’iniziativa civica “Per una Macedonia Unita” ha iniziato una protesta davanti al Parlamento e in tutto il Paese. Lo scopo dichiarato delle manifestazioni di piazza è preservare l’unità della Macedonia: ogni notte, in un’atmosfera tesa, migliaia di persone protestano contro il miliardario statunitense George Soros, la Piattaforma di Tirana e coloro che sono percepiti come nemici dello Stato. Tra le prime vittime della rabbia, anche giornalisti noti per essere voci dissenzienti. In un’atmosfera surriscaldata, Zaev ha dovuto trovare un modo per distanziarsi dalla Piattaforma, focalizzando l'attenzione su altri punti del suo programma. Il leader socialdemocratico ha inoltre dichiarato di essere pronto a dialogare su qualsiasi questione, ma che non andrà contro la Costituzione: ha accettato la richiesta di un maggiore uso della lingua albanese, ma rifiutato (nonostante il parere contrario del Dui) l’introduzione di insegne o banconote bilingui. E nonostante abbia nuovamente chiesto di poter formare un esecutivo, dal gabinetto di Ivanov hanno risposto che il presidente non consegnerà un mandato a chi “intende, o ha nel suo programma, di creare una piattaforma che mini la sovranità, l'integrità territoriale e l'indipendenza della Macedonia”. Reazioni di Ue e Russia La comunità internazionale ha iniziato a spingere per una rapida soluzione della crisi, temendo che questa possa dar vita a un conflitto etnico. Dopo aver visitato Skopje a inizio marzo, l'Alto rappresentante Ue per la politica estera e la sicurezza Federica Mogherini ha di fatto dato il via libera ad una possibile maggioranza tra socialdemocratici e partiti albanesi. La Mogherini ha infatti dichiarato che Ivanov dovrebbe riconsiderare la propria decisione e consegnare il mandato per formare un governo al leader che può garantire una maggioranza in Parlamento; mentre da Bruxelles si ventila anche il ricorso alle sanzioni contro i responsabili dello stallo istituzionale. La Russia ha, da par suo, utilizzato l'occasione per opporsi agli interessi Ue, sostenendo la narrativa del Vmro. “Le interferenze esterne negli affari interni della Macedonia stanno prendendo forme sempre più oltraggiose”, recita un comunicato del ministero degli Esteri di Mosca. Vi sono poi state altre dichiarazioni pubbliche che hanno ulteriormente riscaldato il clima. Un parlamentare albanese della maggioranzaha dichiarato in più occasioni che “la Macedonia non esiste e che non è altro che un’antica provincia albanese”, chiamando gli albanesi macedoni a prendere il destino nelle proprie mani. Frasi che hanno spinto la Mogherini a chiedere ai politici di “placare la loro retorica e non permettere a questa crisi di trasformarsi in un conflitto geopolitico buttando benzina sul fuoco”. Fuori l’Sdsm Vladimir Gligorov, analista e figlio dell'ex presidente macedone Kiro, ha sottolineato che l’obiettivo del Vmro è di delegittimare l’Sdsm su basi patriottiche, per accreditarsi così come l’unico rappresentante dei macedoni etnici: “Ogni modifica della Costituzione richiede una maggioranza dei due terzi in Parlamento, soglia difficile da raggiungere data la divisione politica macedone tra due partiti principali contrapposti. È quindi chiaro che tutto ciò che sta accadendo mira a tenere l’Sdsm fuori dal gioco politico e la Vmro al potere. Non si tratta di conflitto etnico”. I partiti albanesi,sostenuti dallo stesso premier di Tirana Edi Rama, stanno però paradossalmente giocando a favore di Gruevski, allo stesso modo in cui Erdoğan ha condizionato il voto in Olanda a favore dei partiti di governo. Anche Rama ha infatti il suo piccolo interesse di breve periodo da inseguire, giocando la carta del nazionalismo in vista delle legislative di giugno in Albania. Se non ci fosse stata alcuna Piattaforma di Tirana, Ivanov non avrebbe avuto scuse per non consegnare un mandato di governo ai socialdemocratici. Questo articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra Istituto Affari Internazionali e Osservatorio Balcani e Caucaso. Ilcho Cvetanoski, giornalista, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso |
venerdì 24 marzo 2017
Trattati di Roma: ci abbiamo guadagnato
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Il momento di ricordare i risultati acquisiti Sarà sicuramente necessario ricordare gli straordinari risultati acquisiti dall’Europa, dai suoi Stati membri e dai cittadini europei, in questi ultimi sessanta anni di storia di un continente, che nella prima metà del Novecento aveva conosciuto tutti i guasti di un nazionalismo esasperato che aveva prodotto guerre devastanti. Sarà necessario ricordare che, grazie all’intuizione felice di un ristretto gruppo di politici illuminati (e grazie anche a un contesto politico ed economico sicuramente più favorevole di quello attuale), l’Europa aveva saputo trasformarsi in un’area di pace, di progresso economico e di diffusione del welfare, di garanzia dei diritti fondamentali e di consolidamento della democrazia. E sarà necessario che questa narrativa si faccia sentire con autorevolezza e convinzione, non come esercizio retorico, ma proprio perché in questa congiuntura si ha l’impressione diffusa che nelle nostre opinioni pubbliche si tenda, con troppa facilità e superficialità, a dimenticare quali straordinari vantaggi abbia comportato per i cittadini europei il progetto comune europeo. E proprio perché con altrettanta leggerezza si invoca da più parti un improbabile ritorno al prevalente ruolo degli Stati nazionali, quale unica fonte di legittimità democratica, in un contesto in cui gli Stati nazionali non sono più in grado di garantire risposte adeguate alla sfide di un mondo sempre più globalizzato. L’occasione per tracciare un percorso Oltre però a ricordare il passato e a celebrare i risultati dei primi sessanta anni di vita di un progetto unico di integrazione a livello regionale, occorrerà che le celebrazioni del 25 Marzo siano anche un’occasione per tracciare un percorso che consenta all’Unione europea, Ue di ritrovare vitalità e dinamismo e soprattutto di recuperare quel consenso delle opinioni nazionali che oggi sembra in preoccupante calo. E questa è sicuramente la parte più difficile da realizzare. Esiste infatti una analisi sufficientemente condivisa delle debolezze della costruzione europea e dei fattori di crisi che caratterizzano la fase attuale del processo di integrazione in Europa: gli effetti della crisi economica e una ripresa ancora insufficiente dopo la grave depressione del 2008/2009; un senso diffuso di insicurezza; la minaccia del terrorismo di matrice islamica; flussi migratori destinati a diventare un fenomeno strutturale; la riduzione del peso specifico dell’Europa misurato sia in termini demografici sia in termini di Pil prodotto; un contesto internazionale instabile e preoccupante con minacce dirette all’Europa sia da est che da sud; un’Amministrazione americana indifferente se non addirittura ostile al progetto europeo; la diffusione di forze politiche nazionaliste, sovraniste e sostanzialmente anti-europee. D’accordo sull’analisi, divisi sull’azione Ma manca ancora un progetto altrettanto condiviso di rilancio della costruzione europea. E ancora fin troppo evidenti appaiono le divisioni fra gli Stati membri sulla direzione di marcia da intraprendere per restituire fiducia nell’Ue e nelle sue istituzioni. Una situazione che ha di fatto costretto troppo spesso il Consiglio europeo a limitarsi a faticosi compromessi ispirati dalla necessità di attestarsi sul minimo comune denominatore (sul governo dell’economia, sulle migrazioni, sulla sicurezza, sulla difesa, ecc,). Una situazionedi incertezza che ha indotto la Commissione (con il recente Libro Bianco) a limitarsi a presentare scenari alternativi piuttosto che prospettare idee e progetti concreti di rilancio. Per questi motivi l’Istituto Affari Internazionali ha presentato nei giorni scorsi, in occasione di un convegno internazionale svoltosi al Ministero degli Esteri, un policy paper che riprende e approfondisce il tema delle integrazioni differenziate. La proposta dello IAI (della quale hanno parlato più diffusamente Nicoletta Pirozzi, Lorenzo Vai e Piero Tortola in un precedente articolo di AffarInternazionali) parte dal presupposto che in queste ultime settimane l’argomento è stato evocato a più riprese, non solo in articoli e editoriali di specialisti della materia, ma anche da autorevoli policy makers, è stato discusso in incontri al più alto livello politico, ed è entrato ormai nel dibattito politico sul futuro dell’Europa. E muove dalla constatazione che l’Europa a più velocità è da anni una realtà, dal riconoscimento che la Brexit sollecita una riflessione approfondita su come procedere in un contesto di differenti sensibilità nazionali e dal convincimento che la chiave per avanzare nel processo di integrazione sta nel riconoscimento di queste diversità, anche se nel rispetto dell’unitarietà del progetto comune. La proposta dello IAI e lo stimolo al dibattito Il nostro documento si propone di stimolare un dibattito sul tema delle integrazioni differenziate, ma soprattutto offrire ai decisori politici alcuni suggerimenti molto concreti e operativi su come tradurre questo principio in decisioni e misure concrete in particolare in tre aree: il governo dell’economia, la difesa comune, le politiche in materia di libertà giustizia e sicurezza. Nessuna pretesa di avere detto l’ultima parola sul tema (fin troppo dibattuto) dell’Europa a più velocità; e piena consapevolezza delle complessità da affrontare in particolare per quanto attiene al ruolo delle istituzioni comuni, alla necessità di evitare di frammentare più del necessario il quadro comune e rimettere in gioco la solidarietà fra tutti gli Stati membri, alla delicata questione delle legittimità democratica dei processi decisionali. Ma un tentativo di indicare una strada intermedia, e soprattutto praticabile nell’attuale contesto politico, che consenta di superare lo stallo tra la conservazione dello status quo, o il consueto ma ormai insufficiente “muddling through”, e i più ambiziosi, ma poco realistici, progetti di riforma istituzionale, che necessiterebbero inevitabilmente una riforma dei Trattati per la quale oggi non sussistono le condizioni politiche. In un anno di importanti scadenze elettorali non possiamo aspettarci miracoli dalla giornata del 25 Marzo. Sarebbe già un risultato importante se i 27 si mettessero d’accordo sul riconoscimento degli straordinari meriti del progetto di integrazione realizzato in Europa (dando così un messaggio forte e chiaro a quelle forze politiche che oggi attribuiscono all’Ue tutte le responsabilità per tutto quello che non funziona nei rispettivi Paesi); se riuscissero a condividere l’analisi delle cause e origini delle crisi di questa congiuntura; e soprattutto se riuscissero concordare un percorso per restituire dinamismo e sostegno popolare alla costruzione europea. Magari riconoscendo anche la possibilità e il diritto di procedere più velocemente nella realizzazione di alcune politiche comuni a quei Paesi che lo vogliano e ne abbiano le capacità. Ferdinando Nelli Feroci è presidente dello IAI. | ||||||||
martedì 21 marzo 2017
Il vicino inquieto 3
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Tutto ciò a cinque settimane dalle elezioni presidenziali, il cui esito è molto incerto anche a causa delle inchieste giudiziarie che coinvolgono vari candidati: c’è lo scenario di una coabitazione tra presidente e maggioranza parlamentare di segno opposto. Comunque vada, sarà un appuntamento decisivo per l’Europa tutta, con la sicurezza che resta inevitabilmente al centro del dibattito. In questi anni, il governo francese ha risposto al terrorismo con una serie di misure e leggi ad hoc, in particolare nel novembre 2014, nel luglio 2015 e nel giugno 2016. Sul fronte militare, la reazione francese si è invece concretizzata con le Operazioni Barkhane, lanciata nel 2014 nella regione sahelo-sahariana, Chammal, dal 2014 in Iraq e in Siria, e la già citata Sentinelle dal gennaio 2015 sul territorio francese. La grandeur de la France fatica a convivere con queste minacce: i candidati alla presidenza lo sanno bene. Ma se l’obiettivo sicurezza è chiaro a tutti, le ricette proposte dai tre candidati più forti divergono decisamente, raccontando visioni del Paese a dire poco contrastanti. Macron: l’Europa cornice essenziale di una Francia forte Emmanuel Macron è un convinto europeista. Consapevole del carattere transnazionale delle sfide legate alla sicurezza del suo Paese, afferma che oggi l’Europa è il solo efficace mezzo per rinvigorire la Francia. Sostenitore di una difesa comune europea - discussa da tempo, ma mai propriamente realizzata -, intende creare due organi europei di coordinamento per accelerare il processo: un quartier generale permanente per pianificare e controllare le operazioni - nella scia di quanto già deciso a livello Ue - e un consiglio di sicurezza europeo per riunire i responsabili militari dei diversi Stati membri. Davanti al graduale disimpegno militare americano nel vicinato dell’Ue (ancora più verosimile con Donald Trump alla Casa Bianca), una risposta europea che vada al di là dell’attuale politica di sicurezza comune sembra l’unica via. Tranquillizzando anche gli alleati statunitensi, Macron propone inoltre un aumento delle spese militari affinché la Francia rispetti il parametro del 2% del Pil, stabilito come obiettivo Nato. A poche ore dall’attacco di Orly, annuncia poi la reintroduzione di un servizio militare obbligatorio - soppresso nel 1997 da Chirac - della durata di un mese per tutti i giovani della République. Un progetto sicuramente costoso ma dalla forte valenza simbolica. In generale, Macron sta accelerando molto su questi temi, per mostrarsi agli occhi di tutti come un candidato rassicurante in tempi d’emergenza. La gestione di coste e confini, sostiene il fondatore del movimento “En Marche”, sarà compito di una polizia di frontiera europea formata da 5.000 uomini, nell’ambito di una rafforzata cooperazione regionale con la Turchia e con l’area del Medio Oriente e Nord Africa. Macron ribadisce l’impegno per un’incisiva risposta alla violenza jihadista, con un pool anti-terrorismo che centralizzi la presenza delle singole unità sul territorio e con appositi centri di detenzione per i foreign fighters, evitando così la radicalizzazione e il reclutamento in carcere di nuove leve terroriste. A garanzia dell’ordine interno, promette inoltre ulteriori 10.000 uomini, tra poliziotti e gendarmi, nel prossimo quinquennio. Le Pen: integrazione? Quelle horreur! Di tutt’altro avviso Marine Le Pen, per la quale l’Ue uccide la sovranità del Paese e ne mina la sicurezza. La leader del Front National minaccia l’uscita della Francia dall’ Unione e dal comando militare integrato Nato (punti 1 e 118 del suo programma), immaginando una difesa francese completamente autonoma nei mezzi e nella linea strategica. Il relativo budget - da fissare in Costituzione al 2% del Pil - è previsto al 3% entro il 2022: stessa promessa fatta dal candidato socialista Hamon, e di difficile realizzazione visti i limiti strutturali di bilancio. Queste spese aggiuntive serviranno, secondo la candidata presidente, a finanziare moderni equipaggiamenti e a reintrodurre gradualmente un servizio militare obbligatorio di tre mesi. La sua politica di chiusura prevede naturalmente l’abbandono di Schengen. Il comodo leitmotiv della campagna elettorale del Front National, per cui immigrazione e terrorismo sono intimamente legati, trova riscontro nelle linee programmatiche: riduzione del numero degli arrivi, sospensione dell’automatismo dei ricongiungimenti familiari e dell’acquisizione della nazionalità francese, eliminazione dello ius soli e della doppia nazionalità extra-europea, inasprimento delle disposizioni sul culto islamico. La lotta al terrorismo passa anche attraverso un’agenzia unica di intelligence incaricata dell’analisi delle minacce e collegata direttamente al primo ministro. A garanzia dell’ordine interno, la Le Pen promette inoltre un massiccio aumento di uomini e mezzi su tutto il territorio. Fillon: una risposta a metà Anche il conservatore Francois Fillon gioca la carta dell’identità nazionale, ragionando sì di Europa ma anche di una Francia sovrana e attenta al proprio interesse. Si è infatti schierato a favore di una messa in comune delle capacità militari, del consolidamento dell’industria europea della difesa e della creazione di un fondo per finanziare le operazioni all’ estero. Fillon tuttavia non parla esplicitamente di difesa integrata europea, tentando così di sottrarre voti euroscettici al Front National. Promette inoltre ulteriori 10 miliardi al bilancio della difesa francese, auspicando una rinnovata e più risolutiva leadership Nato, soprattutto a sud dell’Europa. Per la lotta al terrorismo propone procedure giudiziarie più veloci ed efficaci, l’espulsione immediata degli stranieri pericolosi per la nazione, qualche misura simile - ma meno drastica - rispetto a quelle del Front National sul culto musulmano e la creazione di una sorta di super procura anti-terrorismo. Le due velocità Hollande-Hamon Un Paese dal peso politico importante come la Francia influenza senza dubbio la direzione dell’Ue nella delicata materia della sicurezza e difesa. Nel recente vertice di Versailles con Gentiloni, Merkel e Rajoy, il presidente uscente Hollande ha accelerato a favore di un’Europa a più velocità, anche e soprattutto nella difesa. L’idea cioè di un nocciolo duro di Stati più ambiziosi che possano avanzare insieme senza che altri membri dell’Ue blocchino il processo, come abbozzato in qualche modo anche nel Libro Bianco sul Futuro dell’Europa da poco presentato dalla Commissione europea. Questo disegno però non convince tutti a sinistra, a partire dal candidato del Front de Gauche Jean-Luc Melenchon. Benoît Hamon, socialista in corsa per l’Eliseo per succedere al compagno di partito Hollande, rallenta sull’Europa della difesa, vista come orizzonte di lungo periodo, puntando piuttosto nel breve termine ad un hub europeo a sostegno delle operazioni militari francesi all’estero. Infatti, secondo Hamon, con la Brexit la Francia sarà di fatto il garante della sicurezza europea. Le crisi, sosteneva Jean Monnet, offrono stimoli per unirsi, e in questo senso Trump potrebbe essere d’aiuto. La storia però ci ricorda che nel 1954 fu proprio un voto francese a bloccare la Comunità Europea di Difesa. Storia che rischia di ripetersi ora. Margherita Bianchi è stagista presso l’area Sicurezza e Difesa dello IAI. |
Il vicino inquieto 2
Il vicino inquieto 1
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Dato il ruolo sostanzialmente rappresentativo del presidente della Repubblica all’interno del sistema istituzionale serbo, l’interesse della competizione è principalmente politico. “Un referendum pro e contro Aleksandar Vučić”, per dirla con le parole di uno degli aspiranti presidenti. Il primo ministro serbo, in carica dal 2014, ha deciso di giocarsi il tutto per tutto in questa tornata elettorale, candidandosi in prima persona alla successione del suo compagno di partito Tomislav Nikolić, che i sondaggi vedevano in difficoltà davanti all’ipotesi di una rielezione. Se vincerà, Vučić sarà presidente fino al 2022, mantenendo verosimilmente anche il controllo del potente Partito progressista serbo (Sns), e nominando un uomo di fiducia alla guida del governo. Se perderà, il Paese vivrà invece un cambiamento radicale, che l’opposizione non esita a comparare alla caduta di Slobodan Milošević. Le voci dell’opposizione “La Serbia oggi è una finta democrazia, talmente finta che chi è al potere non si preoccupa nemmeno di nasconderlo”. L’accusa, pesantissima, viene da Saša Janković, l’ex ombudsman serbo, oggi candidato indipendente alla presidenza. “Il presidente rappresenta l’unità della Serbia e i suoi valori costituzionali. Io intendo far rispettare quei principi in modo da garantire, su un altro livello, una corretta competizione politica”, assicura Janković. Dopo che un centinaio di intellettuali ed artisti ne hanno pubblicamente invocato la candidatura, alcune formazioni di opposizione (come il Partito democratico, Ds, e il “Nuovo partito” dell’ex premier Zoran Živković) hanno assicurato il sostegno all’ex difensore civico. Allo stesso tempo, però, il fronte anti-Vučić ha partorito anche altri aspiranti presidenti, come l’ex ministro degli Esteri VukJeremić - che di recente è stato candidato di Belgrado come Segretario generale dell’Onu - e l’ex ministro dell’Economia Saša Radulović, leader del movimento “Dosta je bilo” (“Ora basta”). A destra dell’emisfero politico, ad aver raccolto le 10mila firme necessarie per concorrere alla presidenza sono il presidente del movimento nazionalista Dveri, Boško Obradović, l’esponente del Partito democratico di Serbia (Dss) Aleksandar Popović e l’immancabile Voijslav Šešelj, alla guida del Partito radicale serbo. Al primo turno, questa varietà di candidati potrebbe giocare a sfavore dell’attuale capo del governo, che punta ad ottenere più del 50% delle preferenze. In caso di ballottaggio il 16 aprile (data che coincide con la domenica di Pasqua), il risultato sarà invece determinato dal tasso di affluenza e dalla capacità dell’opposizione di convergere su un unico nome. Vučić, leader pro-Ue? Aleksandar Vučić, stando ai sondaggi, rimane comunque il favorito. Alle ultime elezioni, il suo partito ha incassato oltre il 48% dei voti ed una vittoria al primo turno sembra dunque essere a portata di mano. Dalla sua parte, inoltre, Vučić può contare sulla visibilità che gli è assicurata dalla posizione di primo ministro, a cui non ha rinunciato malgrado l’avvio della campagna elettorale. Una scelta che la minoranza ha denunciato come “illiberale”, al pari della decisione di sospendere i lavori del Parlamento fino all’esito del voto, benché ci si prepari ad un’elezione presidenziale e non legislativa. Ma se per l’opposizione pro-europea, questi fatti sono la prova della “finta democrazia” serba e dell’autoritarismo del suo leader, per i diplomatici occidentali di stanza a Belgrado, la situazione non è così grave. Il dialogo con il Kosovo, la dichiarazione congiunta per il miglioramento delle relazioni bilaterali firmata con la presidente croata Kolinda Grabar-Kitarović, o ancora la visita a Srebrenica, sono alcuni degli elementi positivi - forse più formali che sostanziali - che le cancellerie europee riconoscono al premier serbo. Ma per i detrattori di Vučić, si tratta di un approccio completamente sbagliato che confonde il piromane con il pompiere. Sicurezza contro stabilità Nel suo ultimo tour dei Balcani, a inizio marzo, l’Alto rappresentante dell'Unione europea (Ue) per la politica estera e di sicurezza comune Federica Mogherini ha dovuto fare i conti con diversi focolai di tensione, dalla volontà di Pristina di creare un esercito kosovaro alla sempre più grave crisi politica in Macedonia. A Belgrado, il Parlamento è stato riaperto per l’occasione (dopo le “ferie” decise il giorno prima) per permettere alla responsabile della diplomazia europea di tenere un breve discorso. Boicottato dall’opposizione pro-europea, che intendeva così mostrare la sua contrarietà alla sospensione dell’attività legislativa dell’assemblea, l’intervento della Mogherini è stato caratterizzato dai fischi e dalle urla dei radicali di Voijslav Šešelj, rispetto ai quali Aleksandar Vučić, impassibile tra le fila della maggioranza di governo, è apparso ancora una volta come l’unico interlocutore possibile per l’Ue. Per Janković, “tutti i problemi che oggi vive la Serbia” sono in qualche modo riconducibili all’Ue. “Così facendo, l’Ue sta infatti distruggendo la nostra prospettiva europea: i cittadini che sono sinceramente pro-europei finiranno presto col chiedersi perché l’Unione approvi tutto ciò. Bruxelles sta sacrificando la sicurezza di lungo termine per una stabilità di breve termine”, sentenzia l’ex ombudsman. A forza di chiudere un occhio sui limiti della democrazia serba, l’Ue potrebbe ritrovarsi insomma con una nuova crisi macedone, ma questa volta a Belgrado. Questo articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra Istituto Affari Internazionali e Osservatorio Balcani e Caucaso. Giovanni Vale, giornalista, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. |
lunedì 20 marzo 2017
Verso il Futuro
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È ormai il nuovo trend di sviluppo urbanistico a livello mondiale: solo nell’Unione europea, Ue le città “smart” sono 240. In Italia, invece, è ancora un argomento di nicchia, ma del resto siamo abituati al fatto che il treno del progresso arrivi in ritardo nel nostro Paese. Eppure, qualcosa sta accadendo anche qui. La febbre “smart” contagia l’Italia L’ultima dal mondo Smart City è la recente partnership per l’innovazione digitale siglata tra Roma e Barcellona. Gli obiettivi da raggiungere sono quelli tipici del modello di crescita urbana sostenibile: più inclusione e partecipazione dei cittadini, nuove forme di collaborazione tra pubblico e privato, software che permettano l’archivio e l’utilizzo degli open data al fine di creare servizi più efficienti. Ma Roma non è stata la prima città italiana ad affrettare il passo verso l’omologazione con le sorelle Smart City europee. Già Milano, Torino e Padova contano tra i 50 e gli 80 progetti Smart all’attivo, con centinaia di milioni di euro di investimenti; ma ci sono anche Bari, Genova, Venezia, Cagliari e altri 150 comuni. Nonostante la diffusione dei progetti nell’intero territorio della penisola, è impossibile non notare il divario tra Nord e Sud, in termini di quantità di fondi stanziati e numero di progetti realizzati. Altro ostacolo alla piena realizzazione delle Smart City in Italia è la scarsa coordinazione intercomunale: spesso le eccellenze rimangono isolate e non vengono replicate in un altro comune. Il problema principale, secondo gli esperti del settore, non solo in Italia ma in generale nel mondo Smart City, è la difficoltà nel cambio di governance. In poche parole, non ci si può aspettare che l’innovazione tecnologica da sola riesca a trainare l’intero processo di cambiamento da città “del vecchio mondo” a Smart City, ma si deve partire da un nuovo concetto di pubblica amministrazione “aperta”. Si deve avere cioè un cambio di governabilità prima che un cambio di tecnologia nella città. Italia vs. Europa: somiglianze e differenze Ad Amsterdam la “Klimaatstraat” (strada del clima) è un progetto mirato alla riduzione di CO2 nelle vie dello shopping. Nella fase pilota del progetto (2009-2011) sono state risparmiate 661 tonnellate di CO2, che si stima possano arrivare a 35 chilotonnellate l’anno nel caso di estensione del progetto all’intero centro urbano. Tra i fattori chiave di riuscita, la presenza sul posto di un pioniere-leader dell’iniziativa e lo spillover effect del successo del primo gruppo di utenti, che ha incoraggiato altri potenziali utenti della stessa via ad aderire al progetto. In ambito di e-governance, invece, a Barcellona sono nati i Quiosc Punt BCN, dei chioschi interattivi in diversi punti della città, come centri commerciali, biblioteche, ecc., per assicurare dovunque la presenza dell’autorità municipale. Simili a delle macchinette per prelevare denaro in contanti, questi chioschi rendono possibile ai cittadini effettuare procedure amministrative self-service, non in sostituzione ma in aggiunta agli uffici tradizionali. Il servizio consente ai cittadini di risparmiare tempo ed energie e si basa sulla fruizione dei dati in possesso dall’amministrazione municipale. Questi come altri esempi di successo hanno in comune un punto fondamentale: i cittadini sono attivi nel processo. E le amministrazioni calibrano le iniziative in base ai bisogni degli stessi cittadini. Oltre che secondo un piano più ampio di agenda urbana sostenibile. Smart City Expo World Congress L’esposizione universale targata Smart City, sostenuta dalla Commissione europea, si svolge ogni anno a Barcellona. Attraendo esperti, visionari e grandi marchi tech da tutto il mondo, è un affascinante hub di innovazione tecnologica e socio-politica. Moltissime le città coinvolte, dalle americane Boston, New York e San Francisco alle asiatiche Singapore e Kuala Lumpur, ma anche Tel Aviv, Edinburgo, Città del Messico, solo per citarne alcune. Nell’edizione 2016 l’Italia Smart era rappresentata dall’Ice, con ben 19 aziende espositrici di servizi e prodotti. Emanuela Ciccolella, manager Ice, si dichiara soddisfatta dell’evento, che ha offerto “grandi opportunità di networking e un feedback positivo sui progetti italiani”. Alla domanda su come colmare il gap tra Italia e resto del mondo sullo sviluppo urbano intelligente risponde: “La legislazione è stata fatta, a livello sia Ue sia nazionale. Il problema è antropologico e socio-culturale: viviamo ancora in un clima ‘anti-tecnologico’”. Le ultime sfide prima del cambiamento Se non ci sono più dubbi sulla necessità dello sviluppo urbano sostenibile, di cui le Smart City sono promotrici, vi sono ancora incertezze sulla sfera della sicurezza personale. Il difficile equilibrio tra protezione della privacy e utilizzo dei dati condivisi è una questione tutta europea ed è al centro di un dibattito sempre più infuocato. Nonostante le iniziative a livello comunitario, non ci sono ancora norme univoche su possesso, utilizzo e condivisione dei dati. In ogni caso, non si può arrestare il progresso e non si può fermare la diffusione della Smart City, con tutti i benefici che apporta: riduzione degli sprechi, aumento dei posti di lavoro, miglioramento della mobilità. In sintesi, miglioramento della qualità della vita dei cittadini. Inoltre, non si deve dimenticare che una Smart City rientra perfettamente in due prospettive ben più ampie lanciate recentemente dalla Commissione europea. Stiamo parlando di un nuovo modello di crescita economica, l’Economia circolare, e di un nuovo mercato, il Mercato unico digitale. Cos’è stato fatto finora a supporto della transizione? Le misure favorevoli all’Industria 4.0 e gli incentivi alla digitalizzazione e alle start-up nell’ultima Legge di Bilancio sono fattori necessari, ma non sufficienti ad avviare il vero processo di cambiamento. Finché non ci sarà volontà politica e collaborazione attiva dei cittadini, le città italiane rimarranno pur sempre belle, ma non “smart”. Sara Piacentini è tirocinante allo IAI nell'Area Europa |
venerdì 17 marzo 2017
Italia: prospettive di rilancio economico
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Chi, però, ha fatto un balzo impressionante è la Cina. Nell’area Mena (Medio Oriente e Nord Africa), l’interscambio di Pechino è passato dai 21,3 miliardi di dollari del 2001 ai 257,4 del 2015 (2), con stime in crescita fino ai 283 miliardi del 2018 (3). La gran parte di questo commercio avviene via nave. Questi dati essenziali consentono di comprendere l’evoluzione che è in corso e che tocca direttamente il futuro del Mediterraneo e la sua crescente centralità nella geo-economia marittima. Il raddoppio di Suez Il posto di prim’ordine del Mediterraneo si riscontra anche nella portualità. I suoi porti (tra cui Tangeri in Marocco) hanno accresciuto sensibilmente le loro quote di mercato passando dal 27% del totale della portualità euro-mediterranea nel 2008 al 34% nel 2015. Questo avveniva mentre l’efficiente portualità del Nord Europa (Amburgo, Rotterdam e Anversa) calava leggermente dal 46% (2008) al 42% (2015). Per essere ben compresi questi dati vanno letti contestualmente a quattro fenomeni tra loro interconnessi: il raddoppio del Canale di Suez e l’allargamento di quello di Panama, il crescente gigantismo navale e le nuove grandi alleanze nell’industria del trasporto via mare. Il raddoppio del Canale di Suez è avvenuto nel 2015. Si tratta di un’opera imponente che ha comportato lo scavo di un nuovo canale lungo 72 chilometri e profondo 24 metri che consente l’attraversamento nelle due direzioni contemporaneamente e il raddoppio del numero delle navi in transito giornaliero, con un tempo di passaggio fortemente ridotto. Il punto essenziale, però, è che il nuovo Canale di Suez consente il passaggio anche alle navi di grandissima dimensione. Il fenomeno del gigantismo navale sta infatti proseguendo senza sosta. Certo, le statistiche sulle navi porta-container in circolazione - che includono anche quelle costruite negli anni passati - mostrano che esse sono ancora in maggioranza di media stazza. Tuttavia, questo numero delle navi è in costante calo, a favore di navi di nuova costruzione e più grande dimensione. La concorrenza con Panama Allo scenario geo-economico che abbiamo finora descritto si è aggiunto un importante tassello lo scorso 26 giugno, quando è stato inaugurato l’allargamento del Canale di Panama, altro nodo marittimo strategico: un’opera ingegneristica sofisticata (realizzata anche da un’impresa italiana) che ha consentito di aumentare drasticamente sia la dimensione delle navi che possono attraversare lo stretto sia il numero dei transiti, che a regime potrebbe raggiungere i 50 passaggi giornalieri. Studi e analisi recenti hanno messo in risalto come, pur confermandosi come hub e snodo marittimo globale, Panama - grazie all’allargamento - si rafforzerà soprattutto come grande canale pan-americano al servizio del commercio tra le due coste del Nord e Sud America e avrà un effetto di potenziamento della portualità atlantica statunitense, che drena il maggior numero di scambi. Osservando Suez e Panama in connessione tra loro si comprende come questi due snodi - pur così lontani - siano in competizione. Per quanto riguarda i tempi di percorrenza di alcune rotte, già prima dell’allargamento dei due canali, il vantaggio di Panama era solo di un giorno di navigazione sulla rotta Hong Kong-New York e di quattro giorni sulla Shanghai-New York. Un vantaggio che rischia di essere troppo esiguo, soprattutto in considerazione del fatto che il nuovo Suez non presenta limiti al passaggio di meganavi. La concorrenza tra i due Canali è iniziata subito: già il 6 giugno scorso (prima dell’inaugurazione del nuovo Panama), le autorità di Suez hanno lanciato un nuovo piano tariffario con sconti fino al 65%, ma solo sul transito di navi che viaggiano su alcune rotte dalla costa atlantica degli Stati Uniti all’Asia. Inoltre, questa rotta risulta essere migliore soprattutto per le meganavi, perché consente più scali in aree strategiche e in forte crescita (partendo da Shanghai: India, Golfo arabico, Suez, Mediterraneo anche come base per scali in Europa, Stati Uniti), mentre nella rotta via Panama, dopo aver lasciato le coste cinesi, ci sono lunghe giornate di solitaria navigazione del Pacifico prima di giungere a destinazione. Pechino punta sui porti La Cina ha compreso perfettamente la crescente salienza strategica della rotta via Suez anche per raggiungere gli Stati Uniti e non solo l’Europa. È in questo scenario che si inserisce il robusto investimento del colosso di Stato cinese Cosco nel porto del Pireo come hub di transhipment e l’acquisizione del 20% di quello di Porto Said, allo sbocco mediterraneo del Canale di Suez. Se poi si guarda agli operatori, si vede chiaramente che i carrier cinesi dominano il mercato. La recente alleanza tra Cosco e China Shipping ha portato alla nascita di China Cosco Shipping Company, che rappresenta il 7% del mercato mondiale dei container con un valore di 22 miliardi di dollari, 1.114 navi e 46 terminal nel mondo. Questo operatore si è inoltre alleato con altri - prevalentemente asiatici - in una “Ocean Alliance” che controlla tra il 35% e il 40% del mercato nelle principali rotte Est-Ovest. Il nuovo canale di Suez è un tassello fondamentale in questo processo di rafforzamento della nuova Via della Seta marittima che dall’Asia porta all’Europa. Oggi la novità, accentuata anche dagli effetti del nuovo Panama, è che tale rotta non si ferma più alle nostre coste, ma dal Mediterraneo raggiunge gli Stati Uniti. La crescente centralità del Mediterraneo nello scenario geo-economico globale risulta evidente soprattutto sulle rotte marittime attraverso cui passano le merci. Ed è la Cina la vera protagonista di tutto ciò. Data la sua posizione, l’Italia potrebbe giocare il ruolo di hub logistico portuale, base per accedere direttamente all’Europa continentale. Ma servono visione strategica, investimenti nella portualità e migliore efficienza logistica. Ne saremo capaci? (1) Elaborazione SRM su dati Eurostat. (2) Elaborazione SRM su dati Unctad. (3) Stime SRM. Articolo pubblicato su OrizzonteCina, rivista online sulla Cina contemporanea a cura di Torino World Affairs Institute e Istituto Affari Internazionali. Massimo Deandreis, direttore generale, SRM Studi e Ricerche per il Mezzogiorno; presidente, GEI - Associazione italiana degli economisti d’impresa. | ||||||||
mercoledì 8 marzo 2017
Immigrazione: alla ricerca di una strategia
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"Con il sessantesimo anniversario dei trattati di Roma è giunto il momento per un’Europa unita a 27 di definire una visione per il futuro. È l’ora della leadership, dell’unità e della volontà comune" ha chiosato durante la presentazione del Libro Bianco sul Futuro dell’Europa il presidente della Commissione europea, lanciando la palla ai 27 capi di Stato o di governo attesi a Roma il 25 marzo per definire ruolo e prospettive dell’Unione dopo lo shock della Brexit, la grande crisi migratoria e la rimonta dilagante di protezionismi e nazionalismi. L’immigrazione nel Libro Bianco sul futuro dell’Europa In Europa pretendere azioni concrete sull’immigrazione può costare l’isolamento politico. E questo lo sa bene chi ha scritto il Libro Bianco. Un testo che nomina la parola immigrazione solo nove volte, e che dal punto di vista sia politico che programmatico ricorda proprio quanto questa continui a essere l’anello debole della strategia europea che ambirebbe a guidare i 27 fino alla nuova legislatura del 2019. Che la faccenda stia diventando di giorno in giorno più complicata lo dimostrano le esternazioni del commissario all’Immigrazione Dimitris Avramopoulos, a cui è spettato, soltanto un giorno, dopo la diffusione del Libro Bianco, per ribadire che senza solidarietà non può esserci alcuna condivisione di responsabilità e che non spetta agli Stati membri scegliere quali misure intendano mettere in atto per gestire i flussi. Dichiarazione che mette a nudo la riluttanza della DG Affari Interni verso ipotesi volte a smantellare quanto faticosamente avviato negli ultimi due anni in ambito immigrazione: approccio hotspot, accordi di partenariato nei Paesi terzi, ricollocamento, re-insediamento, rafforzamento del controllo delle frontiere esterne, riforma del sistema d’asilo e lotta ai trafficanti. Temi su cui sin dal lancio dell’agenda europea sull’immigrazione nel 2015, le cancellerie europee continuano a ricattarsi, litigare e negoziare approdando solo di rado a soluzione realizzabili. La verità di fondo è che, oggi, solo una manciata di Paesi, tra cui l’Italia, continua acredere al burdensharing dell’accoglienza dei migranti. Nemmeno la comunanza di intenti tra il presidente della Commissione europea, il commissario all’immigrazione Avramopoulos e l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune Federica Mogherini (espressa in tutta la sua potenza al Vertice di Valletta dello scorso febbraio) è valsa per convincere sull’unitarietà delle posizioni in seno al Consiglio e sulla bontà del cammino avviato. È anche per questo che, a due anni dal lancio dell’agenda immigrazione, la dimensione interna del piano caratterizzata dalla centralità di dispositivi umanitari, come il ricollocamento e il reinsediamento, è andata progressivamente virando verso una dimensione esterna marcatamente securitaria e contenitiva. Il principio di base non è più gestire le immigrazioni, ma contenerle e scoraggiarle. È questo l’unico modo per garantire convergenza in seno a un Consiglio terrorizzato dagli appuntamenti elettorali attesi in Olanda, Francia e Germania. Gli esiti dubbi della strategia della realpolitik e dei partenariati su misura In questa prospettiva, la strategia emersa dal Consiglio di Valletta formalizza il cambio di rotta avviato nel 2016, quando buttato alle spalle il coraggioso cambio di passo tedesco del wirschaffendas, anche il sognante “ce la faremo” della cancelliera Angela Merkel ha dovuto capitolare nel nome della realpolitik. Per questo, a tempo di record e in piena unitarietà, durante il 2016, i 27 hanno potenziato le risorse di Frontex, inaugurato una nuova guardia costiera europea e rafforzato l'assistenza finanziaria e operativa per gli Stati membri più esposti. In questo quadro, mentre il controverso accordo fra Unione e Turchia cominciava a indebolire la rotta balcanica che aveva portato più di 800 mila rifugiati in Europa, i 27 hanno creduto di replicare quel modello in Libia, il buco nero da cui solo nel 2016 sono partiti più di 181 mila migranti con destinazione Italia. Tuttavia, gli esiti dubbi di questa strategia hanno messo a nudo per l’ennesima volta l’inanità politica dell’Unione. Nel vuoto di potere seguito al rovesciamento di Gheddafi, l'Unione ha faticato a trovare un partner credibile per gestire la situazione sul terreno. Di conseguenza il traffico di migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana è continuato. Anche se la crisi dei rifugiati siriani ha avuto maggiore visibilità, per l’Unione la maggiore sfida nel lungo periodo è rappresentata dai flussi di migranti dall'Africa. Oltre il 40% dei 300 milioni di africani tra i 15 ei 30 anni sono Neet, “Not in education nor in employment”. Più di 300 milioni di africani vivono in assoluta povertà, con un reddito inferiore a 30 euro al mese. Dati acuiti dalle proiezioni demografiche delle Nazioni Unite, che per il 2050 prevedono una crescita della popolazione africana dal miliardo di abitanti odierno, a più di 2,4 miliardi di persone. Rispetto a dati di questo tipo è evidente che il problema non sta solo nelle centinaia di migliaia di cittadini africani intenzionati a emigrare irregolarmente verso l’Europa, ma nell’assenza di crescita economica, stabilità istituzionale e aspettativa di vita che alimenta l’emigrazione dai Paesi di provenienza. L’approccio contenitivo-difensivo del piano della Valletta Eppure, rispetto a queste criticità,il piano licenziato alla Valletta sulla scia del Partnership Framework di giugno 2016 sembra andare fuori pista. I partenariati "su misura" con i principali Paesi di origine e di transito dei migranti, immaginati per ridurre il numero di morti nel Mediterraneo, aumentare i ritorni, consentire ai migranti di rimanere vicino casa evitando così viaggi pericolosi, poggiano su una strategia totalmente improntata al do ut des: aiuti allo sviluppo utilizzati come leva o incentivo alla cooperazione nella gestione delle migrazioni irregolari e alla stabilizzazione dei quadri politico-istituzionali. La forte enfasi del piano sull’utilizzo strategico di tutto l’arsenale delle politiche con i Paesi terzi dall’istruzione e ricerca, al commercio, all’azione umanitaria come leverage per la collaborazione dei Paesi terzi la dice lunga sull’essenza degli obiettivi di breve periodo dei 27: fermare la rotta centro-mediterranea e bloccare le migrazioni lì dove cominciano. Peccato che nella lunga durata questo piano non convinca. L’Unione avrà sempre interessi strategici in Africa. Una delimitazione delle priorità strategiche e geopolitiche nel continente è necessaria, ma una subordinazione di tutte le aree di azione ad unico obiettivo e per di più a breve durata, è, come ha argomentato Carnegie Europe un'opzione irrealistica e pericolosa. L’assistenza umanitaria non può essere ipotecata alla collaborazione nella gestione delle migrazioni. Per di più, il piano fa accenno in modo piuttosto fumoso al nodo che risolverebbe parte dei flussi irregolari africani: l’apertura di canali legali per le migrazioni di lavoro. Tema accennato senza fare alcun riferimento al programma di azione che s’intende intraprendere. Allo stesso modo il piano pare dimenticare l’incidenza dei flussi di rifugiati nella mobilità africana. Limitandosi a ribadire “la determinazione ad agire nel pieno rispetto dei diritti umani, del diritto internazionale e dei valori europei” le conclusioni licenziate alla Valletta non nominano neanche una volta parole come protezione o rifugiati, chiudendo gli occhi sul fatto che i Paesi dell’Africa sub-sahariana accolgono il 26% dei 65.3 milioni dei rifugiati mondiali a fronte del 6% ospitato in Europa. Il prossimo Consiglio di Roma punterà i riflettori su un’Europa che mai come oggi appare confusa e lontana dai suoi principi fondatori. Se tra le ipotesi lanciate dal libro bianco di Juncker dovesse prevalere quella “dell’avanti così” sul fronte immigrazione l’approccio economico-centrico legittimato alla Valletta potrebbe portare al collasso della gestione dei flussi e peggio ancora alla marginalizzazione di molti di quei diritti che l’Europa si è sempre fregiata di tutelare. Queste lacune possono essere sanate solo sostituendo l’approccio contenitivo-difensivo con misure concrete e di lunga durata utili a gestire meglio le migrazioni forzate, siano esse di origini economiche o umanitarie. Da anni, le azioni da mettere in atto non sono un mistero: aprire canali per la migrazione legale, agevolare le politiche per i visti, offrire protezione a chi fugge da persecuzioni, potenziando sia la mai decollata politica del reinsediamento sia sostenendo le organizzazioni che sostengono l’apertura di corridoi umanitari. Banalmente solo una questione di coraggio. Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università “Sapienza” di Roma. Esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri (enzaroberta.petrillo@uniroma1.it). |
martedì 7 marzo 2017
Difesa: questa NATO come sarà?
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A tratti simile alla portata dei Vertici, la ministeriale di febbraio ha inciso in maniera notevole sul confronto dialettico del quale è tornata ad essere protagonista l’Alleanza atlantica, complice il cambio di Amministrazione statunitense e il timore di un disimpegno di Washington da questioni che non afferiscano direttamente i suoi interessi. L’incontro di Mattis con i colleghi europei Alla richiesta avanzata dagli alleati europei di rassicurazione e chiarezza sulle intenzioni statunitensi, il segretario alla Difesa Usa James Mattis ha risposto confermando il forte sostegno all’Alleanza atlantica e sollevando, al contempo, una questione non nuova, che attiene alla giusta ripartizione degli oneri all'interno dell'Alleanza e a un maggior impegno per fare fronte ai costi del dispositivo militare. Un’impostazione che potrebbe apparire ai meno attenti un “do ut des”, ma che si conferma una delle componenti più concrete ed essenziali in funzione di un processo di pianificazione della difesa Nato che garantisca l'interoperabilità e il più efficiente sfruttamento del pieno potenziale delle risorse dell’Alleanza. In realtà, infatti, quello che a molti è apparso come un ultimatum lanciato dal segretario alla Difesa Usa, e la cui sostanza è stata rimarcata anche dal nuovo presidente in occasione del suo primo discorso al Congresso, è un richiamo costante ad un impegno assunto 60 anni fa in direzione di una difesa collettiva che gli alleati, a partire da quelli europei, dovrebbero rispettare aderendo più convintamente al progetto di smart defence, attraverso una sincronizzazione delle priorità nazionali con gli obiettivi definiti dall’Alleanza, nonché mettendo a fattore comune le risorse e condividendo iniziative di innovazione. Valorizzare atlanticismo ed europeismo In questo, l’atlanticismo del nostro Paese passa anche attraverso il tentativo di sensibilizzare l’animo più propriamente europeista, sia lanciando il progetto di una Schengen della Difesa, sia proponendo ad esempio, nel momento in cui apparisse praticabile, uno scorporo dai vincoli europei di bilancio delle spese militari attinenti al piano della difesa europea. Ancora, la serietà dell’impegno italiano si evince anche dal piano di riorganizzazione delle Forze Armate iniziato con il Libro Bianco e proseguito con il decreto ministeriale in procinto di passare al vaglio della Camera. La rilevanza della ministeriale di Bruxelles si evidenzia anche nella sottolineatura posta al carattere difensivo e alla logica securitaria, sottesa alle ragioni costituenti della Nato, elemento che assume ulteriore importanza se contestualizzato rispetto all’attuale quadro geopolitico di riferimento. Progressi dopo il Vertice di Varsavia I nuovi progressi relativi al dispiegamento di nuove forze di dissuasione in Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, guidati attualmente da Gran Bretagna, Canada, Germania e Stati Uniti, in base al meccanismo di rotazione del battlegroup adottato tra le misure del vertice Nato di Varsavia nel luglio 2016, confermano la risposta dell’Alleanza rispetto alla richiesta di sicurezza lungo la parte orientale del territorio alleato. Analogamente si procede sul piano cibernetico (è stato siglato, ad esempio, un Political Framework Agreement con la Finlandia, senza dimenticare la sigla del Cyber Defence Pledge e della collaborazione con l’Unione europea raggiunta in occasione del Vertice di Varsavia), che ad oggi rappresenta la minaccia più insidiosa in un contesto privo di codificazione internazionale e ricco di profili di criticità e che, pertanto, contribuisce ad arricchire il dibattito relativo al ripensamento del ruolo complessivo e alle capacità dell’Alleanza atlantica. Joint Force Command-Naples Sul piano della situation awarenesse preventivo, un importante segnale di cooperazione è giunto in merito all’impegno nel contrasto al terrorismo internazionale e all’adozione della proposta italiana di costituire un centro di raccordo anti-terrorismo nel nostro Paese presso il Joint Force Command-Naples. Si tratta di una decisione molto importante per almeno tre ordini di motivi. Il primo, operativo, in quanto il Comando congiunto interforze di Napoli costituirà il punto di riferimento di una serie di attività che vanno dal coordinamento delle informazioni sui Paesi di crisi, dalla Libia all’Iraq e dunque alla considerazione delle situazioni locali, al coordinamento delle operazioni che attengono il quadrante Sud, comprese le operazioni di capacity-building che già la Nato conduce. Il secondo, di natura strategica, attiene alla riconsiderazione ed evoluzione del ruolo della Nato, in linea con quanto detto sul piano cibernetico, relativamente alle strategie da intraprendere in un contesto geopolitico segnato da dinamiche profondamente aggressive, e per fronteggiare l’emergere di nuove minacce, anche non tradizionali e asimmetriche. Infine, il terzo attiene alla considerazione e al riconoscimento del contributo apportato dall’Italia. Soprattutto negli ultimi anni, il nostro Paese, assieme alla determinante partecipazione alle missioni e operazioni internazionali, ha svolto un’intensa attività volta a riequilibrare e reindirizzare l’Alleanza atlantica sugli interessi del Mediterraneo, aprendo anche canali di dialogo e cooperazione nel quadro delle relazioni di partenariato con i paesi della sponda Sud. Il Mediterraneo è senza dubbio l’area dove si concentra una percentuale non esigua di interessi italiani, ma anche dove convogliano numerose preoccupazioni per la sicurezza. Il bisogno che l’Alleanza atlantica, così come l’Europa, spostino di più la loro attenzione sullo scenario di crisi che riguarda il loro versante meridionale deriva anche dalla consapevolezza che la stabilità del Mare Nostrum è nevralgica per la stabilità regionale ed euro-atlantica. In questo senso, sarebbe immeritevole non ricalcare il richiamo d’attenzione fatto dall’Italia sul fenomeno del terrorismo di matrice jihadista e dei foreign fighters, che pongono alla Nato e all’Europa una minaccia a 360 gradi. La costituzione dell’hub antiterrorismo a Napoli sia, quindi, un grande motivo di orgoglio per il nostro Paese. Ma ora spetta a tutta l’Alleanza lavorare affinché la decisione veda la sua adeguata implementazione. Al contempo, affinché la Nato continui ad affermarsi come il più grande successo di difesa internazionale, è bene che il dibattito sul rilancio dell’Alleanza non resti sterile, ma che si promuovano e si attuino nuove idee basate al contempo sui valori costituenti il legame transatlantico e le sfide attuali e future alla sicurezza. Andrea Manciulli, presidente della delegazione italiana presso l’Assemblea parlamentare della Nato. |
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