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Dato il ruolo sostanzialmente rappresentativo del presidente della Repubblica all’interno del sistema istituzionale serbo, l’interesse della competizione è principalmente politico. “Un referendum pro e contro Aleksandar Vučić”, per dirla con le parole di uno degli aspiranti presidenti. Il primo ministro serbo, in carica dal 2014, ha deciso di giocarsi il tutto per tutto in questa tornata elettorale, candidandosi in prima persona alla successione del suo compagno di partito Tomislav Nikolić, che i sondaggi vedevano in difficoltà davanti all’ipotesi di una rielezione. Se vincerà, Vučić sarà presidente fino al 2022, mantenendo verosimilmente anche il controllo del potente Partito progressista serbo (Sns), e nominando un uomo di fiducia alla guida del governo. Se perderà, il Paese vivrà invece un cambiamento radicale, che l’opposizione non esita a comparare alla caduta di Slobodan Milošević. Le voci dell’opposizione “La Serbia oggi è una finta democrazia, talmente finta che chi è al potere non si preoccupa nemmeno di nasconderlo”. L’accusa, pesantissima, viene da Saša Janković, l’ex ombudsman serbo, oggi candidato indipendente alla presidenza. “Il presidente rappresenta l’unità della Serbia e i suoi valori costituzionali. Io intendo far rispettare quei principi in modo da garantire, su un altro livello, una corretta competizione politica”, assicura Janković. Dopo che un centinaio di intellettuali ed artisti ne hanno pubblicamente invocato la candidatura, alcune formazioni di opposizione (come il Partito democratico, Ds, e il “Nuovo partito” dell’ex premier Zoran Živković) hanno assicurato il sostegno all’ex difensore civico. Allo stesso tempo, però, il fronte anti-Vučić ha partorito anche altri aspiranti presidenti, come l’ex ministro degli Esteri VukJeremić - che di recente è stato candidato di Belgrado come Segretario generale dell’Onu - e l’ex ministro dell’Economia Saša Radulović, leader del movimento “Dosta je bilo” (“Ora basta”). A destra dell’emisfero politico, ad aver raccolto le 10mila firme necessarie per concorrere alla presidenza sono il presidente del movimento nazionalista Dveri, Boško Obradović, l’esponente del Partito democratico di Serbia (Dss) Aleksandar Popović e l’immancabile Voijslav Šešelj, alla guida del Partito radicale serbo. Al primo turno, questa varietà di candidati potrebbe giocare a sfavore dell’attuale capo del governo, che punta ad ottenere più del 50% delle preferenze. In caso di ballottaggio il 16 aprile (data che coincide con la domenica di Pasqua), il risultato sarà invece determinato dal tasso di affluenza e dalla capacità dell’opposizione di convergere su un unico nome. Vučić, leader pro-Ue? Aleksandar Vučić, stando ai sondaggi, rimane comunque il favorito. Alle ultime elezioni, il suo partito ha incassato oltre il 48% dei voti ed una vittoria al primo turno sembra dunque essere a portata di mano. Dalla sua parte, inoltre, Vučić può contare sulla visibilità che gli è assicurata dalla posizione di primo ministro, a cui non ha rinunciato malgrado l’avvio della campagna elettorale. Una scelta che la minoranza ha denunciato come “illiberale”, al pari della decisione di sospendere i lavori del Parlamento fino all’esito del voto, benché ci si prepari ad un’elezione presidenziale e non legislativa. Ma se per l’opposizione pro-europea, questi fatti sono la prova della “finta democrazia” serba e dell’autoritarismo del suo leader, per i diplomatici occidentali di stanza a Belgrado, la situazione non è così grave. Il dialogo con il Kosovo, la dichiarazione congiunta per il miglioramento delle relazioni bilaterali firmata con la presidente croata Kolinda Grabar-Kitarović, o ancora la visita a Srebrenica, sono alcuni degli elementi positivi - forse più formali che sostanziali - che le cancellerie europee riconoscono al premier serbo. Ma per i detrattori di Vučić, si tratta di un approccio completamente sbagliato che confonde il piromane con il pompiere. Sicurezza contro stabilità Nel suo ultimo tour dei Balcani, a inizio marzo, l’Alto rappresentante dell'Unione europea (Ue) per la politica estera e di sicurezza comune Federica Mogherini ha dovuto fare i conti con diversi focolai di tensione, dalla volontà di Pristina di creare un esercito kosovaro alla sempre più grave crisi politica in Macedonia. A Belgrado, il Parlamento è stato riaperto per l’occasione (dopo le “ferie” decise il giorno prima) per permettere alla responsabile della diplomazia europea di tenere un breve discorso. Boicottato dall’opposizione pro-europea, che intendeva così mostrare la sua contrarietà alla sospensione dell’attività legislativa dell’assemblea, l’intervento della Mogherini è stato caratterizzato dai fischi e dalle urla dei radicali di Voijslav Šešelj, rispetto ai quali Aleksandar Vučić, impassibile tra le fila della maggioranza di governo, è apparso ancora una volta come l’unico interlocutore possibile per l’Ue. Per Janković, “tutti i problemi che oggi vive la Serbia” sono in qualche modo riconducibili all’Ue. “Così facendo, l’Ue sta infatti distruggendo la nostra prospettiva europea: i cittadini che sono sinceramente pro-europei finiranno presto col chiedersi perché l’Unione approvi tutto ciò. Bruxelles sta sacrificando la sicurezza di lungo termine per una stabilità di breve termine”, sentenzia l’ex ombudsman. A forza di chiudere un occhio sui limiti della democrazia serba, l’Ue potrebbe ritrovarsi insomma con una nuova crisi macedone, ma questa volta a Belgrado. Questo articolo è frutto di una collaborazione editoriale tra Istituto Affari Internazionali e Osservatorio Balcani e Caucaso. Giovanni Vale, giornalista, collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso. |
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martedì 21 marzo 2017
Il vicino inquieto 1
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