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mercoledì 28 giugno 2017

L'Italia ed i suoi grovigli

Caso Regeni
Italia-Egitto: ambasciatore è passo indietro
Antonio Marchesi
22/06/2017
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Si susseguono (due sono stati pubblicati nei giorni scorsi su AffarInternazionali, a firma di Ugo Tramballi e Nino Sergi, mentre la tesi contraria è stata sostenuta da Paola Caridi) i commenti di coloro che suggeriscono di rimandare in Egitto il nostro ambasciatore, nonostante la mancanza - o proprio a causa della mancanza - di sviluppi nel caso di Giulio Regeni.

Tutti gli osservatori, a quanto pare, sono concordi nell’attribuire la circostanza che non sia ancora emersa la verità, né tantomeno fatta giustizia, all’insufficiente collaborazione da parte delle autorità egiziane. E tutti, favorevoli e contrari al ritorno dell’ambasciatore, sembrano ritenere particolarmente preoccupante - e forse in ulteriore peggioramento - la situazione dei diritti umani in Egitto. Cosa spinge, allora, alcuni a proporre una modifica della scelta compiuta a suo tempo dal nostro governo di ritirare il rappresentante italiano, facendo quello che, nei fatti, è un passo indietro?

Le tesi a favore
Gli argomenti, in sostanza, sono due. Il primo è che, visto l’insuccesso dell’attuale strategia, un cambiamento di rotta sarebbe funzionale alla soluzione dello stesso caso Regeni. Si sostiene che un ambasciatore nella pienezza delle sue funzioni potrebbe fare di più. Nino Sergi aggiunge che questo ritorno dovrebbe essere accompagnato da un mandato preciso del nostro governo a lavorare per la soluzione del caso e propone una serie di “altre significative azioni positive” (alcune di carattere simbolico, altre consistenti in “interventi di cooperazione finalizzati all’affermazione e alla tutela dei diritti umani”).

Il problema, a nostro avviso, è che non bastano i ragionamenti astratti (“la presenza può fare più dell’assenza”, sarebbe “un segno di forza e non di debolezza”), anche se basati sulla lunga esperienza di chi li fa, né l’idea dell’integrazione con una serie di altre azioni, a fare pensare che le cose andrebbero nel modo che i sostenitori del ritorno dell’ambasciatore s’immaginano. Perché tutto, al momento, fa pensare il contrario.

Lo stesso Tramballi riporta il pensiero di “un diplomatico europeo che conosce bene l’Egitto”, il quale si dice convinto che “la fine del boicottaggio italiano sarebbe la fine di ogni speranza di conoscere la verità: il regime prenderebbe il ritorno del vostro ambasciatore come la rinuncia ufficiale a proseguire il caso”.

Basta fare, del resto, un po’ di attenzione alla lettura che, nei mesi scorsi, hanno dato del possibile ritorno al Cairo del rappresentante italiano i media filogovernativi egiziani per comprendere che, dal loro punto di vista, si tratterebbe proprio di quel “ritorno alla normalità” che Nino Sergi sostiene che non sarebbe. E la percezione (sia pure interessata) della parte egiziana è ben più rilevante, ahimè, delle intenzioni e del wishful thinking della parte italiana.

Se le cose stanno in questo modo, il rischio è che la tesi dell’utilità della piena ripresa delle relazioni diplomatiche con l’Egitto per la soluzione dello stesso caso Regeni diventi una copertura per il secondo argomento addotto dai suoi sostenitori: quello che fa riferimento alla necessità di tenere in conto gli interessi strategici complessivi del nostro Paese in Egitto.

Non è un confronto fra idealisti e realisti
Paolo Valentino, sul Corriere della Sera del 19 giugno, ha scritto che i rapporti diplomatici fra Italia ed Egitto “non possono non avere come pilastro della loro architettura i diritti dell’uomo”, aggiungendo subito dopo che “questi non possono neppure esaurire e governare da soli la complessità delle relazioni internazionali”. Ha ragione. Ma questo non significa che i primi - se “pilastri” devono essere - siano a quella “complessità” sacrificabili, soprattutto se ad essere in gioco sono i diritti fondamentali di cittadini italiani all’estero, il cui rispetto è, non da oggi, un obiettivo tipico della politica estera.

Quel che si vuole dire è che la tragica uccisione di Giulio Regeni e la mancata punizione dei responsabili, oltre che una gravissima violazione dei diritti umani nei confronti della vittima e della sua famiglia, è una violazione di cui l’Egitto si è reso internazionalmente responsabile nei confronti dell’Italia - una violazione che il nostro Paese non può, perché non è nel suo interesse, rinunciare a fare valere. Come scrive Paola Caridi, “non riuscire a difendere la dignità di Giulio Regeni significa non difendere lo Stato di diritto italiano, e neanche il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, nella regione araba, nel grande Medio Oriente”. Non è cedendo qualcosa rispetto alla vicenda dell’italiano Regeni che l’Italia può difendere meglio interessi italiani di altro tipo.

Non è questione, in altre parole, di scegliere quale interesse sia più importante (o di confrontarsi - se vogliamo - fra idealisti e realisti). È l’insieme degli interessi del nostro Paese ed è la sua capacità di perseguirli in modo credibile ed efficace a sconsigliare di compiere quel gesto che, come si è detto, verrebbe inevitabilmente interpretato dalla controparte come una rinuncia.

Iniziative alternative per la diplomazia
Come fare, allora, per ottenere verità e giustizia per Giulio se l’ipotesi del rientro dell’ambasciatore al Cairo non è utile allo scopo? Noi siamo dell’idea che, nella logica delle misure “progressive” di cui lo stesso Paolo Gentiloni, da ministro degli Esteri, aveva parlato, si debbano prendere in esame altre possibili risposte alla mancanza di collaborazione da parte egiziana.

La gamma degli strumenti che il diritto internazionale mette a disposizione è piuttosto ampia - dal progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati fino alle convenzioni internazionali sui diritti umani (a cominciare da quella contro la tortura, ratificata sia dall’Italia che dall’Egitto). Così come non mancano le iniziative che la nostra diplomazia potrebbe porre in atto in sede multilaterale.

È vero, purtroppo, che gli altri Stati europei si sono sostanzialmente disinteressati della vicenda. Ma è stato davvero fatto tutto il possibile per coinvolgerli? E si è mai pensato di sollevare la questione nel quadro del sistema delle Nazioni Unite? Insomma, sono state prese in esame tutte le possibili opzioni? E l’Italia, tutta l’Italia, ci ha creduto fino in fondo? Non è possibile, invece, che l’Egitto abbia potuto fare, in qualche misura, affidamento su una prevedibile temporaneità della nostra reazione? Se non è così, e se c’è ancora, davvero, la volontà di ottenere verità e giustizia per Giulio, piuttosto che su un possibile passo indietro, sarebbe bene, a nostro avviso, ragionare con maggiore determinazione sui possibili passi avanti.

Antonio Marchesi è presidente di Amnesty International Italia.

Gli Italiani l'Europa ed i Migranti

Sondaggio Chatam House
Italiani e Ue: delusi, ma non ancora euroscettici
Riccardo Alcaro
20/06/2017
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Stando ad un recente sondaggio condotto dal think tank britannico Chatham House, l’entusiasmo con cui gli italiani hanno storicamente appoggiato il progetto europeo è cosa del passato.

L’Ue suscita più che altro sfiducia, incapace com’è di dare risposte efficaci alla crisi dei rifugiati o all’immigrazione di massa (gli italiani mettono le due cose in cima alla lista dei fallimenti dell’Ue). Pochi in Italia (22%) ritengono che l’Ue abbia portato loro vantaggi, e molti (40%) pensano che la politica di austerità abbia anzi peggiorato le cose.

Non a caso, il 50% degli intervistati pensa che la Germania, percepita come il campione dell’austerità, giochi un ruolo negativo. ‘Disgusto’, ‘disagio’, ‘rabbia’ e soprattutto ‘pessimismo’ sono le parole che gli italiani associano di più all’Ue. Non sorprende che il 55% pensi che la Brexit indebolirà ulteriormente l’Unione.

Tra delusioni e vantaggi
Gli italiani non sono ignari del fatto che l’Ue ha anche portato benefici. I più apprezzati sono quelli che hanno espanso tangibilmente le opzioni individuali, come attesta il 45% delle preferenze dato al sistema di frontiere aperte di Schengen e alla libertà di stabilirsi e lavorare dovunque nell’Unione. Le conquiste più celebrate da politici e accademici, come il mercato unico e in particolare la pace in Europa, raccolgono soltanto il 26% e il 23% dei consensi, mentre pochi (10%) pensano che l’Ue abbia contribuito al rafforzamento dei valori democratici.

Ciò detto, un senso di appartenenza europea è ancora vivo in Italia: il 51% degli intervistati si è detto orgoglioso di essere ‘italiano ed europeo’, il 39% crede che gli europei abbiano valori comuni (il doppio di quanti credono il contrario) e soprattutto il 44% ritiene pericoloso il nazionalismo (contro il 20%). Ma allora cos’è che gli italiani vogliono dall’Ue?

Idee chiare e contraddittorie
Il senso di diffusa sfiducia sembra aver generato una richiesta quasi istintiva di recupero di sovranità (il 52% vorrebbe che l’Ue avesse meno poteri). E tuttavia gli italiani esprimono anche una domanda di maggiore cooperazione a livello Ue: il 63% sostiene che i Paesi europei più ricchi devono aiutare quelli più poveri, e il 66% vuole un’equa distribuzione dei rifugiati tra tutti gli stati membri. Sorprendentemente, il 40% guarda con favore agli Stati Uniti d’Europa (il 30% è contrario).

Gli italiani sembrano avere dunque un’idea di Europa come di una comunità definita da valori e una relativa omogeneità culturale. Ciò spiega perché sono convinti che una pur amichevole relazione tra Ue e Regno Unito post-Brexit non debba compromettere i principi su cui è basata l’Unione; che l’allargamento è andato troppo in là; e che alla Turchia vada negato l’accesso (il 68%, 61% e 47% degli intervistati, rispettivamente, è d’accordo con queste affermazioni). Anche la percezione generalizzata (51%) che valori europei e musulmani siano difficilmente compatibili si inserisce in questo quadro.

Quella che questi numeri raccontano non è la storia di una società arrabbiata e sempre più xenofoba. La maggioranza degli italiani guarda con favore o indifferenza ai cittadini Ue residenti in Italia, e anche i rifugiati o gli immigrati venuti in cerca di fortuna suscitano sentimenti negativi in non più del 30% e 35% della popolazione.

Anche i dati sulla coesione sociale non rivelano insormontabili faglie di divisione. I giovani sono tendenzialmente ritenuti non avere gran rispetto dei valori tradizionali (ma quando mai lo sono stati?), eppure la maggioranza degli italiani (51%) ha abbracciato uno degli sviluppi culturali socialmente più importanti degli ultimi anni come i matrimoni omosessuali. Inoltre, se interrogati sulla loro situazione personale, gli italiani sono meno demoralizzati di quanto sembra. Solo il 13% è insoddisfatto della sua vita, e solo il 9% ritiene di non averne sufficiente controllo.

Una società più affaticata che disperata
Viene fuori insomma non tanto una società disperata quanto una società affaticata (il 74% degli italiani pensa che la vita fosse migliore vent’anni fa) che anela a una maggiore chiarezza sul futuro del paese edelle prospettive individuali.

Il sondaggio fa certamente luce sulle radici dell’ampia coalizione eurocritica italiana, che include partiti di destra e anti-immigrazione come la Lega, una parte di Forza Italia e soprattutto il Movimento 5 Stelle. I risultati spiegano anche perché un leader fondamentalmente europeista come Matteo Renzi abbia cercato di migliorare le sue sorti usando toni duri verso Bruxelles o Berlino. Con un tale livello di risentimento generale, prendersela con l’Ue sembra portareun ritorno elettorale.

Eppure, un’analisi più approfondita del sondaggio dovrebbe dar da pensare. Gli italiani sono certamente delusi, ma in nessun modo si può evincere dai risultati che ci sia una gran voglia di avventure pericolose come uscire dall’Ue o anche solo dall’eurozona. Significativamente, l’euro è considerato un fallimento da non più del 30% degli italiani.

Europeismo ed euroscetticismo in chiave elettorale
Quando un orientamento europeista si è associato a una credibile promessa di cambiamento interno, come nella primissima fase del governoRenzi, gli italiani hanno premiato quell’opzione con il 40% dei voti presi dal Pd alle elezioni europee 2014. Ora che Renzi è di nuovo in sella, in vista delle prossime elezioni potrebbe concludere che l’Europa è un tema su cui conviene attaccare piuttosto che difendersi. Le critiche di Emmanuel Macron all’euroscetticismo di Marine Le Pen durante le presidenziali francesi sono dopotutto state molto efficaci a indebolire la credibilità della leader del Front National.

Anche le forze eurocritiche italiane farebbero bene a riconsiderare le loro opzioni. Ciò vale, in particolare, per la più grande tra loro, il M5S. I Cinque Stelle devono il loro successo non tanto alle posizioni critiche sull’Ue quanto al generale disprezzo in cui è tenuta la classe politica italiana (solo il 4% degli italiani pensa che i politici siano interessati ai loro problemi). Possono quindi permettersi di assorbire lo shock di un ridimensionamento della loro piattaforma euroscettica, in particolare ritirando la proposta di tenere un referendum sull’adesione dell’Italia all’euro. Dal momento che una manovra del genere li esporrebbe meno ad attacchi alla Macron, potrebbero anzi beneficiarne.

Forse è presto per prevedere quali saranno i temi caldi della campagna elettorale. Ma i risultati del sondaggio indicano che i due maggiori partiti, Pd e M5S, potrebbero presentare varianti alternative di un’opzione di riforma dell’Ue ‘dal di dentro’ invece che l’antagonismo radicale tra pro-Ue e anti-Ue che si è visto in Francia. Può essere anti-intuitivo, ma il dato di fondo del sondaggio è che una piattaforma fortemente euroscettica potrebbe essere, elettoralmente parlando, un peso piuttosto cheun vantaggio.

Riccardo Alcaro è Coordinatore delle Ricerche, Istituto Affari Internazionali (IAI).

mercoledì 21 giugno 2017

Un nodo da sciogliere

Caso Regeni
Italia-Egitto: sull’ambasciatore ho cambiato idea
Nino Sergi
19/06/2017
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Giungere alla verità ed ottenere giustizia per Giulio Regeni è un imperativo per ognuno di noi e lo Stato deve fare di tutto per pretenderle, con fermezza e perseveranza, senza alcun cedimento. L'Italia ha dato un segnale forte con il richiamo a Roma per consultazioni dell'ambasciatore in Egitto, ormai più di un anno fa.

Ma siamo quasi ad un anno e mezzo dal ritrovamento del corpo martoriato del giovane ricercatore e il raggiungimento della verità rimane in mano alle procure egiziana e italiana che continueranno ad avere periodi di collaborazione, come è stato negli ultimi mesi del 2016, e periodi di stallo che potrebbero prolungarsi anni e anni.

È giusto pretendere sostegno e pressioni da parte europea, più di quanto non sia forse stato fatto attraverso i canali diplomatici, ma stiamo toccando con mano il debole grado di solidarietà tra gli Stati dell’Unione. Occorre quindi altro. Altro che non si limiti a ferme dichiarazioni negli incontri internazionali, all’utile ma alquanto inefficace azione parallela delle imprese italiane operanti in Egitto o alla mobilitazione della pubblica opinione.

Un anno fa ho firmato anch’io l’appello per il richiamo dell’ambasciatore e faccio parte da sempre del mondo che promuove e difende i diritti umani ed è solidale con chi li vede quotidianamente calpestati. La realtà dell’Egitto è indescrivibile: decine di migliaia i detenuti politici, persone scomparse e probabilmente torturate e massacrate, ristretta libertà di stampa, severi controlli su decine di migliaia di ong e associazioni. Su tutto questo non si deve chiudere gli occhi.

Con il passare del tempo e con la mancanza di significativi progressi nelle indagini sull’assassinio di Giulio Regeni è però cresciuta in me la convinzione che l’Italia debba rimandare al Cairo il proprio ambasciatore. Negli ultimi mesi ci sono stati autorevoli pronunciamenti in questo senso ma le posizioni continuano a rimanere molto differenti e apparentemente inconciliabili, come d’altronde è apparso su queste colonne con le riflessioni di Ugo Tramballi e Paola Caridi.

L’assenza non è più l’arma migliore
Grazie anche al mio vissuto nelle relazioni internazionali ed alla pluriennale esperienza umanitaria in contesti di gravi tensioni, ritengo che il ritiro dell’ambasciatore italiano non rappresenti più l’arma migliore per fare pressioni sul governo egiziano ai fini della piena verità. Anzi, sono convinto che ora, in questa fase, tale assenza contribuisca a rallentarla - e questo non deve succedere – e che sia quindi giunto il momento di rinviare l’ambasciatore, proprio per uscire da questa attesa inconcludente e indefinita nel tempo (fino a quando si protrarrà?) e per esercitare meglio e in modo diretto, deciso e continuativo le necessarie pressioni per il raggiungimento della verità, a fianco e a sostegno dell’azione della magistratura. La presenza, ne sono convinto, può ottenere molto più dell’assenza ai fini dell’accertamento di quanto è avvenuto e delle responsabilità.

Il prolungato richiamo a Roma dell’ambasciatore si è dimostrato improduttivo e rischia di divenire un gesto politico sempre più fiacco e senza grande utilità. Non è affatto detto che il suo ritorno significhi ripresa della ‘normalità’, prescrizione de facto dell’orrendo delitto commesso, sottomissione alla realpolitik. Al contrario: un mandato preciso del nostro governo, fermo e reso pubblico in Italia ed in Egitto, impegnerebbe l’ambasciatore ad intervenire, in ogni occasione, in favore della verità e di tutto ciò che in quel Paese potrebbe accelerarla.

Una rappresentanza diplomatica autorevole, con un chiaro mandato, può infatti contribuire all’accertamento della verità non solo agendo sulla procura generale ma sulle stesse autorità egiziane, ai vari livelli istituzionali, in ogni occasione e in modo sistematico. Il suo ritorno permetterebbe inoltre la ripresa di contatti ministeriali e parlamentari e quindi la possibilità di una decisa e costante azione di pressione in ogni incontro tra ministri egiziani e italiani o tra membri dei due Parlamenti. Anche la parallela presenza a Roma dell’ambasciatore egiziano consentirebbe un dialogo e una pressione costanti, indispensabili allo scopo.

Ampio raggio d’azione
Non è attraverso i media e i comunicati, infatti, che gli Stati devono parlarsi, in particolare su una questione come questa. Come non è fermandosi alle denunce, alle ferme prese di posizione, alle conferenze stampa, agli articoli di giornale, ai convegni in Italia che si ottiene il rispetto dei diritti umani in Egitto. Non bastano.

Ad essi, tutti doverosi e indispensabili, va affiancato altro, tra cui proprio ciò che ci siamo preclusi: il dialogo politico bilaterale, ad ogni livello istituzionale, per potere esprimere in modo diretto le posizioni e la denuncia del nostro Paese e per potere intervenire - come non di rado è accaduto in situazioni analoghe nel mondo - a difesa dei diritti umani nel tentativo di salvare vite a rischio e proteggere persone o gruppi sociali perseguitati, facendolo in modo tempestivo e con autorevolezza.

Il ritorno dell’ambasciatore potrebbe avere un valore aggiunto ancora più forte ai fini del raggiungimento della verità se accompagnato da altre significative azioni positive. Da un lato, iniziative che possono essere dedicate a Giulio Regeni, al fine di ricordarlo, onorarlo e ricordare continuamente, in Egitto, la necessità di verità e giustizia.

Si potrebbero intitolare a Giulio aule, premi per tesi di laurea, programmi di formazione e scambi universitari, borse di studio e iniziative a favore di start-up di giovani egiziani come lui e molte altre ancora che le realtà italiane presenti in Egitto potrebbero a loro volta sostenere e moltiplicare. Dall’altro, interventi di cooperazione finalizzati all’affermazione e alla tutela dei diritti umani e della dignità della persona, come in parte fanno altre cooperazioni europee, al fine di continuare ad affermarne l’importanza e la priorità anche nell’Egitto di oggi.

Ampio potrebbe essere l’ambito degli interventi: dalla formazione di magistrati, pubblici ministeri, operatori di polizia, alle iniziative a sostegno delle minoranze e delle fasce più vulnerabili, dei diritti dei migranti, della partecipazione delle donne alla vita politica e al sistema giudiziario, della good governance a livello locale e nazionale, alla formazione nel campo della libertà di stampa, di espressione, di associazione, di tutela dei lavoratori e così via.

Segnale di forza, non di debolezza
Si tratterebbe, quindi, di una presenza e di iniziative che non ammetterebbero interpretazioni distorte sul significato del ritorno dell’ambasciatore. Non sarebbe infatti un segnale di debolezza o di cedimento ma una ferma, tenace e chiara azione di pressione politica per ottenere dall’Egitto verità e giustizia e per favorire al contempo i diritti umani nel Paese;quei diritti che sono stati negati a Giulio e che continuano ad essere negati quotidianamente e brutalmente a molti altri. L’Italia dimostrerebbe così quella fermezza che la statura del nostro Paese impone.

“Cosa può fare l’Italia per ottenere verità e giustizia per Giulio Regeni?” è stato recentemente chiesto al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. “Insistere e dare la sensazione che un Paese come il nostro non dimentica e non rinuncia alla ricerca della verità”, ha risposto. L’invio in Egitto di una persona capace e determinata come l’ambasciatore Giampaolo Cantini, nominato ben un anno fa, con ampie conoscenza ed esperienza del Mediterraneo, risponderebbe pienamente alle intenzioni manifestate dal premier.

L’alternativa sarebbe quella di continuare a sperare - in una lunga e snervante attesa - nel lavoro pur prezioso della procura di Roma e nella collaborazione con quella egiziana, senza alcuna certezza che questo possa bastare; insieme a quella di continuare a denunciare le repressioni senza poterlo fare in modo diretto e forte in incontri politici a tutti i livelli. Solo lo scambio dei due ambasciatori permetterebbe infatti la ripresa di incontri bilaterali tra ministri, parlamentari, amministratori regionali e locali, moltiplicando l’azione e la pressione italiana per la verità su Giulio e per i diritti fondamentali in Egitto.

Non è da sottovalutare, infine, che sono la difficile situazione internazionale, le crescenti tensioni che minacciano la pace e la sicurezza, la complessità delle migrazioni mediterranee a richiedere che i rapporti tra gli Stati dell’area si sviluppino con costanti relazioni e partenariati, pur basati sulla franchezza, l’esigenza di verità e la fermezza in merito al rispetto dei diritti fondamentali della persona e ai processi da mettere in atto per poterli garantire. E l’Egitto è al momento uno degli attori primari nei processi di ricomposizione e di influenza dell’area. Non si tratta solo di analisi geopolitica, ma del destino di centinaia di migliaia di persone, considerando le sofferenze che potrebbero derivare da un ulteriore peggioramento degli squilibri e della tensione nell’area.

Nino Sergi è presidente emerito di Intersos.
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domenica 18 giugno 2017

La Policy di Francoforte

Scelte in bilico
Bce: Draghi e un’Italia che non cresce 
Stefano Cavedagna
31/05/2017
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Il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi è tornato a parlare della politica monetaria davanti alla Commissione Economica del Parlamento europeo. Il presidente ha ancora riferito sulla situazione dell’Eurozona, quando ormai mancano pochi giorni all’8 giugno, data della prossima riunione del Consiglio direttivo della Bce: una data attesa perché si ipotizzano cambiamenti di rotta della policy di Francoforte.

Da Tel Aviv a Bruxelles, correzioni di rotta
Il recente discorso di Draghi a Tel Aviv, nel quale aveva detto che la ripresa è evidente nell’Eurozona e che la recessione è da considerarsi ormai alle spalle, aveva dato adito all’idea che il Quantitative Easing e le manovre espansive della Banca centrale potessero volgere rapidamente al termine.

Di fronte alla Commissione del Parlamento, però, Draghi dimostra di volere correggere le sue recenti affermazioni, confermando così che il QE non verrà ridotto a breve, e riafferma in particolare come, nonostante i tenui miglioramenti, gli interventi della Bce siano ancora necessari: “Restiamo convinti che una quantità straordinaria di sostegno da parte della politica monetariasia ancora necessaria” e ancor di più che “l’inflazione torni a stabilizzarsi attorno al 2% nel medio periodo”.

Queste esternazioni di Draghi sembrano ammortizzare le analisi di chi già teorizzava una conclusione repentina delle manovre super-espansive della Bce. La correzione alle affermazioni è anche un probabile segnale per tranquillizzare i mercati, soprattutto dei Paesi più in difficoltà, che stavano già risentendo di un probabile stop del sostegno alla politica monetaria.

Quali sviluppi per l’Italia?
Draghi si è inoltre soffermato sulla condizione dei Paesi ad alto debito, i cosiddetti Piigs, avvertendo che un eventuale ed auspicato ritorno dell’inflazione a livelli attorno al 2% (il cosiddetto livello di riferimento) avrà anche l’effetto di aumentare il costo del debito sovrano. Questa fattispecie potrà causare qualche problema ai Paesi più indebitati, soprattutto se non dovessero dimostrare una crescita economica sufficiente a rendere sostenibile il debito stesso.

L’Italia è il Paese che potrebbe rimanere più segnato dalle conseguenze di un aumento dell’inflazione, se questa non dovesse essere accompagnata da una sufficiente crescita economica. Con una crescita attesa soltanto dello 0,9% per il 2017, peraltro in un momento di politica fortemente espansiva, l'Italia è l’unico Paese della zona euro e dell'Ue ad avere un aumento atteso del Pil minore all'1% nel 2017.

È quindi necessario, e le parole di Draghi lo lasciano intendere, che l’Italia metta in atto idonee riforme che incentivino la produttività delle imprese. Una diminuzione della spinta del Quantitative Easing, che presto o tardi arriverà, potrebbe condannare l’Italia alla stagnazione economica, o peggio ad una lieve stagflazione, un’inflazione non sostenibile aggravata da una crescita tendente allo zero.

Gli effetti del Quantitative Easing
Per risolvere l’irrisolvibile, Draghi lanciò il Quantitative Easing, che venne ribattezzato ‘bazooka’ della base monetaria.Già nel gennaio del 2015 il presidente annunciò che la Banca centrale avrebbe acquisito titoli di debito pubblico a partire da marzo 2015 almeno fino a settembre 2016 per 60 miliardi di euro al mese, e comunque, fino a quando il tasso di inflazione nell'eurozona non si sarebbe riavvicinato al 2%, come prevede lo statuto della Bce stessa in materia di stabilità dei prezzi.

In base alle normative presenti nei trattati dell’Unione, la Bce però non può comprare titoli sul mercato primario, cioè direttamente dagli Stati, ma sul mercato secondario, quindi acquisendoli da altri istituti. Il QE è iniziato il 9 marzo del 2015 e non è mai stata fissata una data di scadenza: si considera che debba continuare semplicemente fino a quando ce ne sarà bisogno.

Non ritenendo ancora sufficientemente efficace la manovra, nel marzo 2016 la Bce ha deciso, con il voto contrario della Germania, di aumentare l’importo mensile di acquisto dei titoli da 60 a 80 miliardi. Inoltre, ha deliberato di estendere l'acquisto a titoli non governativi, purché emessi da società private non bancarie e aventi un rating migliore del BBB. Infine, contestualmente il tasso di interesse è sceso allo 0% e il tasso sui depositi delle banche al -0,4%.

Queste scelte senza precedenti nella storia della Bce, abituata a tassi stabili e a manovre impostate più sul rigore che sull’espansione indotta, hanno avuto anche l’effetto di svalutare l’euro rispetto al dollaro.

Quanto ne ha beneficiato l’Italia
Per quanto riguarda gli effetti sul nostro Paese, il QE ha senz’altro migliorato gli investimenti e i consumi, influendo positivamente sul Pil italiano. Si è anche registrata una maggiore crescita, e un nuovo flusso di prestiti bancari di bassa qualità dello 0,4%. Ma, accanto ad una crescita ancora non soddisfacente, si può soltanto dire che le politiche non convenzionali abbiano evitato effetti ancora peggiori per l'economia italiana.

Tali manovre infatti non sono in grado di risolvere da sole le problematiche di mancanza di produttività e di instabilità dei conti pubblici alla base della crisi, limiti noti nella penisola. È necessario un investimento, soprattutto da parte dei governi dei Paesi più in difficoltà, per rilanciare la crescita. Il dato aggregato del mercato unico europeo è tendenzialmente positivo, con una crescita media poco al di sotto del 2%.

La possibile futura fine del QE potrebbe pertanto avere un effetto benefico di stabilizzazione per la maggior parte dei Paesi europei che dimostrano una sufficiente ripresa, tranne che per quelli con bassa crescita ed alto debito, tra i quali proprio l’Italia, che potrebbero trovarsi nuovamente in difficoltà qualora dovessero cambiare le condizioni monetarie.

Stefano Cavedagna è analista Affari europei e Geopolitica.