“La Costituzione nel primo e nel
secondo risorgimento”.
Adelio Fabbris
I documenti costituzionali
sono nati per limitare il potere assoluto dei sovrani. In questo contesto si
inquadra la “Magna Carta
Libertatum” concessa da Giovanni Senza terra ai baroni d’Inghilterra nel 1215 e
i documenti successivi, di analogo contenuto, concessi da Federico Barbarossa
alla Lega Lombarda nel 1183 e dal re Andrea d’Ungheria ai propri vassalli nel
1222. Il contenuto di questi testi comprendeva, tra l’altro, il divieto di
imporre nuove tasse senza il consenso degli interessati e la garanzia, per
tutti gli uomini liberi, di non poter essere imprigionati senza aver subito un
regolare processo da parte di una corte di
pari, secondo il principio del “ habeas corpus integrum”.Pur essendo
stata interpretata come il primo documento fondamentale per il riconoscimento
dei diritti dei cittadini, essa deve essere tuttavia iscritta ancora nel quadro
del diritto feudale che prevede la concessione di privilegi (libertates) a
comunità o sudditi da parte del sovrano.In questo contesto, di controllo delle
spese del sovrano, si colloca la convocazione degli stati generali da parte di
Luigi XVI che ha avuto come estrema conseguenza la rivoluzione francese e
l’adozione della prima costituzione moderna. Con l’affermazione dei principi di
libertà e uguaglianza (la “fratenitè” verrà introdotta in un momento
successivo, soprattutto per giustificare l’attivismo internazionale della
Francia) la rivoluzione francese scardina le basi dell’organizzazione feudale
dello stato incentrato, fino a quel momento, sulla divisione in classi della
società per diritto di nascita a prescindere da criteri di merito e di censo.
Ai nobili apparteneva la
terra e in più si dividevano le cariche pubbliche nell’amministrazione dello stato e i gradi
di comando nell’esercito. Il clero faceva il proprio mestiere riscuotendo le
decime e accumulando grandi possedimenti terrieri. I contadini facevano i contadini per tutta la
vita senza la possibilità di riscatto sociale e di arricchimento economico.
L’unica classe che non
rimaneva negli argini dell’ordine sociale esistente era la nascente borghesia
delle professioni e degli affari. Una stagione di straordinario sviluppo
economico aveva permesso ad una borghesia intraprendente e creativa di cogliere
i fermenti del nuovo che stava avanzando nel mondo della produzione e dei
commerci. Siamo agli inizi della rivoluzione industriale e del grande sviluppo
dei commerci e non la nobiltà, non il popolo, non certamente il clero sanno
approfittare della nuova situazione.
Solo la borghesia,
conscia del potere derivantegli dalla potenza economica acquisita,
pretende di svolgere un ruolo
politico adeguato ai rapporti di forza instauratisi nel paese. Supportata in
questo dalla nuova temperie culturale rappresentata dalla filosofia dei Lumi.
Opere fondamentali come l’Esprit des Lois,(Montesquieu,
1748), l’Histoire naturelle,(Buffon,
1749) il primo volume dell’Encyclopedie
di Diderot(1951) vedevano la luce a
cavallo del secolo, mentre Voltaire e Rousseau stavano per dare alle stampe le
loro opere fondamentali (come il “Trattato sulla tolleranza” del 1763 e il
“Dizionario filosofico” del 1764 per Voltaire; il “Contratto sociale” e “Emilio
o dell’educazione” nel 1761 per Rousseau) In poco tempo, quindi, viene spezzato
il rapporto che legava trono e altare distruggendo definitivamente il complesso
sistema di legittimità e gerarchie che era alla base dell’Acien Regime.
I tempi quindi sono maturi e l’occasione è
offerta dalla convocazione degli Stati Generali da parte di Luigi XVI per una
questione di tasse.
Non è questa la sede per
ripercorrere lo stravolgimento prodotto in Francia e successivamente in tutta
Europa dalla rivoluzione francese, ma è indubbio che in quella sede si posero
le basi dei moderni testi costituzionali. Con la abolizione del regime feudale e la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino si sancirono definitivamente i
principi di libertà e uguaglianza, con la costituzione del 1791 si stabilì la
divisione dei poteri ( ispirata dalle opere di Montesquieu) e la sovranità popolare
( ispirata dalle opere di Rousseau).
Su queste basi presero vita, tra
varie vicissitudini, le costituzioni concesse dai vari sovrani ai loro popoli e
tra esse anche lo Statuto Albertino.
Concesso da Carlo Alberto al suo
popolo in seguito ai motti del 1948 che sconvolsero tutta l’Europa esso nacque
sotto un duplice segno : quello della democratizzazione del regno e quello
della unificazione d’Italia. La concessione dello Statuto infatti coincide con
il primo concreto tentativo di dare avvio all’unità d’Italia rappresentato
della prima guerra di indipendenza . Lo sfortunato tentativo di Carlo Alberto lascerà
tuttavia in vita uno strumento giuridico idoneo, all’ombra del quale si
realizzerà comunque l’unita d’Italia.
Esso disegna uno Stato in forma di
monarchia costituzionale in cui il Re era il capo supremo dello Stato,
esercitava il potere esecutivo attraverso i suoi ministri, convocava e
scioglieva le camere e sanzionava le leggi attraverso la promulgazione.
Lo Statuto Albertino ha le
caratteristiche di essere una carta:
concessa “con lealtà di re e affetto di padre…….ai nostri
amatissimi sudditi”;
breve in quanto si limita ad enunciare i diritti e ad individuare
la forma di governo;
flessibile in quanto può essere cambiata con legge ordinaria.
La sovranità non appartiene alla
Nazione, ma al Re il quale, tuttavia si
trasforma in principe costituzionale sottoposto egli stesso alle norme
dello Statuto.
Il potere legislativo viene
esercitato da due camere, una di nomina regia ed una eletta a suffragio
maschile su base censuaria.
Il potere esecutivo rimane
ampiamente in mano al Re, che lo esercita attraverso i suoi ministri, senza che
sia necessaria la fiducia del parlamento. Nella prassi parlamentare, tuttavia,
venne presto ad affermarsi la necessità
che il governo in carica godesse della fiducia del parlamento venendo così ad
instaurarsi un governo di tipo parlamentare.
La giustizia viene esercitata da un corpo di
magistrati di nomina regia. La magistratura non rappresenta quindi un potere,
ma un ordine soggetto al ministero della Giustizia.
E’ sotto questo cappello
giuridico che si svolge il primo risorgimento italiano. Con tutti i suoi
limiti, ma anche con tutte le sue novità lo Statuto Albertno ha permesso alle
varie realtà italiane (Regno delle due Sicilie, Granducato di Toscana,
Lombardo-Veneto, Stato Pontificio) di entrare a far parte di quella che sarebbe
diventata l’Italia. E questo non solo perché si mossero gli eserciti, ma anche
perché le elite dominanti nelle varie realtà italiane ritennero che il progetto
politico di unificare la nazione fosse un progetto che andava perseguito con
convinzione e determinazione.
Rispetto alla querelle
storica tra gli assertori della “conquista” e quelli della “adesione” si deve
comunque ammettere che il Regno di Sardegna era l’unica entità politico
istituzionale ad avere un progetto chiaro e realistico di unificazione dell’Italia. In questo ambito grande
importanza svolse lo Statuto nel senso che chi aderiva all’unità d’Italia
conosceva e condivideva le regole sotto cui si sarebbe organizzato il nuovo
stato.
E condivisero e aderirono
all’unità d’Italia, così come si andava formando, cioè attorno all’iniziativa
di casa Savoia i ceti dominanti e la nascente borghesia. Nessuno degli altri
stati italiani preunitari seppe
esercitare una simile attrazione e soluzioni alternative come la federazione di
stati attorno al Papa (sostenuta dal Cattaeo) erano chiaramente cervellotiche e
velleitarie.
Dicevamo che i ceti
dominanti e la nascente borghesia fecero l’unità d’Italia. Quello che chiamiamo
“il popolo” e che era rappresentato per la grande maggioranza da contadini, in
parte partecipò, in gran parte stette a vedere, ma abbastanza presto si accorse
che per lui le cose non mi- glioravano di molto, se non addirittura
peggioravano. La nascente borghesia, che stava subentrando alla nobiltà
assenteista nella gestione della proprietà terriera, era un padrone esigente ed
esoso che voleva far fruttare i propri investimenti e non era disponibile ad atteggiamenti paternalistici nei confronti
dei lavoratori agricoli.
Si aggiunga che il nuovo
stato si era molto indebitato per condurre le sue campagne di guerra ed aveva
bisogno di rientrare dal debito contratto imponendo subito nuove tasse e si
capirà perché il popolo si accorse subito che forse si stava meglio prima. Da
qui le radici del “brigantaggio” che dilagò in gran parte del mezzogiorno subito
dopo l’unificazione. Il giudizio su un fenomeno così caratteristico e così
complesso si divide in due filoni: quello marxista-gramsiano della sollevazione
polare per fini democratici e quella liberale di Rosario Romeo di resistenza
conservatrice al nuovo che avanza. Eviterei di inoltrarmi in questa vexata
quetio, ma non si può non prendere atto di recenti interventi del Capo dello
Stato che prendeva posizione in materia a favore della tesi di Romeo.
Ma lo Statuto Albertino
è stato anche quello che ha permesso, in un quadro di sostanziale continuità
giuridica, l’instaurarsi del fascismo e delle sue nefaste conseguenze. Essendo,
come abbiamo visto, quello che i giuristi chiamano una costituzione
“flessibile”, lo Statuto permise tutte quelle variazioni che trasformarono
gradualmente l’Italia in uno stato “totalitario”. Ed appunto la “flessibilità”
è una delle pecche dello Statuto che è stata corretta dai costituenti
introducendo una costituzione “rigida”, cioè destinata ad essere modificata con
un procedimento lungo, complicato e che alla fine può prevedere il ricorso al
corpo elettorale.
Ma non anticipiamo tempi
ed argomenti. Esaminiamo innanzitutto l’ambiente culturale e le classi sociali
che anno dato vita alla costituzione vigente. L’ambiente culturale è quello che
definiamo del “secondo risorgimento”, caratterizzato da un’ampia partecipazione
popolare e segnatamente dall’ingresso in campo, con ruolo di protagoniste, di
quelle forze politiche e sociali che erano rimaste ai margini del primo. Il
popolo italiano, abbandonato a se stesso dalle istituzioni (governo, corona)
nel bel mezzo di una guerra mondiale, con il proprio esercito disseminato in
mezza Europa e privo di ordini, con il suolo patrio ridotto a terreno di
scontro tra eserciti nemici, seppe dimostrare una straordinaria capacità di
riscatto dallo sfacelo in cui il fascismo lo aveva gettato. E fu veramente la guerra di un popolo che in
quei tragici momenti seppe trovare unità di intenti tra tutte le forze che si opponevano al nazi-fascismo in nome della
libertà e della dignità nazionale.
Popolo in armi come i
combattenti inquadrati nelle forze armate regolari che diedero immediatamente
il loro contributo nella battaglia di Montelungo; civili che si sottrassero
alla leva imposta dalla R.S.I. e si rifugiarono in montagna dando vita alle
formazioni partigiane; cittadini comuni che accoglievano festosamente l’arrivo
degli alleati come liberatori, (anche se non dappertutto andò così)(1) o
subivano inorriditi le stragi e le inutili crudeltà di un esercito che si
ritirava lasciando dietro di se una scia di sangue.
Questa partecipazione
generalizzata alla guerra di liberazione pose le basi di quel consenso di massa
alle nuove istituzioni che si manifestò il 2 giugno 1946 con la scelta della
repubblica e l’elezione dell’assemblea costituente. Le forze presenti
nell’assemblea costituente erano in gran parte rappresentate da quei partititi
politici che erano stati soppressi dal fascismo e che ora facevano la loro
ricomparsa con rapporti di forza assai mutati rispetto al periodo anteriore
all’esperienza fascista.
Dei 556 deputati che
componevano l’assemblea costituente 207 appartenevano alla Democrazia
cristiana, 104 al Partito comunista, 116 al Partito socialista ( che si
scinderà poi nel Partito socialista di Nenni, tanto per capirci e nel Partito
socialista dei lavoratori di Saragat), 24 al Partito repubblicano, 21 al
Partito liberale, 32 al Fronte dell’uomo qualunque, 9 all’Unione democratica
nazionale, 9 alla Democrazia del lavoro,10 agli Autonomisti ed infine 24 di
varia estrazione politica che partecipavano ai lavori nel Gruppo misto
Partito
|
Numero Deputati
|
%
|
Democrazia cristiana
|
207
|
37,2
|
Partito comunista
|
104
|
18,7
|
Partito socialista
|
64
|
11,5
|
Partito socialista dei
lavoratori
|
52
|
9,3
|
Partito repubblicano
|
24
|
4,3
|
Partito liberale
|
21
|
3,7
|
Fronte dell’uomo qualunque
|
32
|
5,7
|
Unione democratica nazionale
|
9
|
1,6
|
Democrazia del lavoro
|
9
|
1,6
|
Autonomisti
|
10
|
1,8
|
Vari (gruppo misto)
|
24
|
4,3
|
Da questi numeri si
capisce che la nuova costituzione era nelle mani dei grandi partiti di massa
che si ispiravano alle ideologie cattolica e social-comunista e che se si
voleva un testo largamente condiviso si doveva trovare una intesa tra queste
due componenti fondamentali della Assemblea costituente. Paradossalmente possiamo dire che il primo
compromesso storico della storia d’Italia è stato quello che si è realizzato
nella stesura del testo costituzionale.
Forze politiche
molto diverse e politicamente
contrapposte trovarono la forza e la saggezza di stabilire un quadro di regole
condivise in cui far vivere la vita democratica del paese. A tal proposito
dobbiamo ricordare che questo esito non era né dovuto né scontato, anzi
tutt’altro. Quel che
succedeva nella vicina Francia non era affatto rassicurante, con un testo approvato
dalla assemblea costituente largamente influenzato dal partito comunista e poi
bocciato da un referendum popolare.
In Grecia poi il
rifiuto del partito comunista di riconsegnare le armi a guerra finita era
sfociato in una sanguinosa guerra civile. Dopo i morti e le devastazioni
prodotte dalla seconda guerra mondiale la Grecia conobbe una guerra fratricida, protrattasi
dal 1946 al 1949, con 80.000 morti, migliaia di profughi, una economia
nazionale disastrata e uno strascico di veleni e di polemiche protrattosi fino
al 1989. Il conflitto si è infatti formalmente chiuso solo nel
1989 con l’approvazione di una legge da
parte del parlamento greco che riconosceva lo status di “combattenti” ad
entrambi gli eserciti in campo.
Anche in casa nostra
si erano manifestate le conseguenze dell’instaurarsi in europa di un clima di
“guerra fredda”. Con la rottura del governo di unità nazionale e la cacciata
dei social-comunisti all’opposizione c’erano tutte le premesse per l’apertura
di una fase di duro scontro politico e la possibilità che questo si
riverberasse sui lavori della assemblea costituente. Questo non avvenne. I
lavori procedettero regolarmente fino alla
stesura di un testo largamente condiviso, approvato il 22 dicembre 1947
con 453 voti a favore e 62 contrari ed entrato in vigore il primo di gennaio
del 1948. A
favore votarono democristiani, comunisti e socialisti in gran parte autori del
testo. Contro votarono i liberali e i deputati dell’uomo qualunque perché
contrari agli articoli compresi nel titolo terzo della prima parte dedicati ai
rapporti economici ed al titolo quinto della seconda parte dedicato alla
istituzione delle regioni.
Le ragioni per cui
all’Italia furono risparmiate sia la prospettiva greca che quella francese
risiedono in gran parte nelle scelte fatte da Togliatti. Egli era infatti consapevole del fatto che il nostro paese,
con gli accordi di Yalta, era stato
ricompresso nella zona di influenza occidentale e che quindi era giocoforza
accettare le regole di una democrazia liberale, piuttosto che imbarcarsi in
pericolose avventure per realizzare una “democrazia popolare” come qualcuno nel
suo partito chiedeva. All’interno del partito comunista (vedi Longo e Secchia)
e delle formazioni partigiane erano infatti presenti zone di scontento per
l’andamento che stavano prendendo le
cose rispetto al carico di aspettative che erano maturate durante la guerra di
liberazione . Molti partigiani comunisti vissero il periodo come una specie di
tradimento delle aspettative per cui avevano combattuto la guerra di
liberazione e si disposero ad attendere tempi migliori nascondendo le armi
invece di riconsegnarle a guerra finita(2).
Questa riserva mentale,
per cui si aderisce perché in questa fase non è possibile ottenere di meglio,
ma si sta con l’arma al piede in attesa
di condizioni migliori per la realizzazione di una autentica “democrazia
popolare” (di quelle che si andavano realizzando oltre cortina) è chiaramente
esplicitata in uno scritto di Umberto Terracini che vale la pena di citare per
esteso. Parlando della costituzione dice:”…E’ stato così raggiunto in misura
apprezzabile l’obiettivo di assicurare in generale ai cittadini uno standard di
vita migliore per quanto compatibile col sistema storico in atto. Solo quando
questo processo non avrà più margini ulteriori di svolgimento e cioè quando
saranno storicamente mature le condizioni per il passaggio ad un sistema
economico-sociale diverso e più avanzato si porrà il problema non già di questa
o quella revisione parziale della costituzione democratica, ma della sua
sostituzione totale.”.(3)
Il primo gennaio 1948,
comunque, l’Italia ebbe la sua nuova costituzione ad opera della Assemblea
Costituente eletta il 2 giugno 1946. Nella stessa data il popolo italiano aveva
già scelto la forma di stato sub specie
di Repubblica.
Il nuovo testo si
caratterizza per essere una costituzione “rigida”, cioè modificabile solo tramite un
procedimento lungo e complicato in sede parlamentare e salvo approvazione
popolare tramite referendum confermativo se l’approvazione da parte del
parlamento non è avvenuta con la maggioranza qualificata dei 2/3 dei
componenti.
La costituzione
stabilisce inoltre che la
Repubblica sia “parlamentare” a sistema “bicamerale perfetto” con elezioni a
suffragio universale “differenziato”
fra le due camere. Il sistema di separazione dei poteri (4) prevede che al
Parlamento spetti in primis la formazione delle leggi, ma anche uno stringente
potere di controllo esercitato attraverso “interrogazioni”, “interpellanze”,
“mozioni e “commissioni d’inchiesta”. L’Assemblea costituente ha optato,
inoltre, per affidare al Parlamento, integrato dai rappresentanti delle
regioni, l’elezione del Presidente della Repubblica. Al Parlamento poi , come
massima espressione della sovranità popolare, sono attribuiti altri notevoli
poteri di cui tuttavia non è il caso di parlare in questa sede (uno per tutti:
“Le Camere deliberano lo stato di guerra…” art. 78).
Venendo alla
gestione effettiva del “potere esecutivo”
la Costituzione
ne investe il presidente del consiglio
cui spetta la scelta dei singoli ministri e la direzione generale della
politica del Governo. Per poter realizzare il proprio programma il governo deve
godere della fiducia del Parlamento.
Nell’abito della
divisione dei poteri, per quanto riguarda la giustizia, la costituzione
stabilisce che: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.art. 101;
che
“La Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente
da ogni altro potere” e che si
autogoverna tramite un proprio organo denominato Consiglio Superiore della
Magistratura presieduto dal Capo dello Stato, art.104, . Vengono, inoltre, fissati i principi: - della
obbligatorietà dell’azione penale, art.112 ; - del giudice naturale,
dell’anteriorità della legge al reato art.25 - del diritto alla difesa e della
possibilità di agire in giudizio, art. 24; della responsabilità penale
personale.
Abbiamo così molto brevemente tracciato le regole che hanno
governato la vita politica e sociale del nostro paese negli ultimi 60 anni. Una
valutazione del suo funzionamento a questo punto è d’uopo. La costituzione
italiana ha operato nella seconda metà del XX° secolo. Il quadro di riferimento internazionale è
stato quello della divisione del mondo in 2 blocchi e della loro
contrapposizione in quella che è stata chiamata “guerra fredda”, che in qualche
momento ha minacciato di trasformarsi in guerra calda, come durante la crisi
dei missili di Cuba nel 1962.
Ma l’evento più importante
a livello mondiale è stato il crollo dell’Unione sovietica. Il vulnus inferto
alla civiltà occidentale nel 1917 e che tanti disastri aveva creato nella
Russia e nel mondo, cadeva per consunzione interna, senza neanche una
“spintarella”da parte del mondo capitalista, nel 1989. Si chiudeva così il
“secolo breve” (5) che ci aveva “regalato” i due totalitarismi più feroci e
sanguinari(6) e le due guerre mondiali con il più alto numero di morti della
storia dell’umanità. Dopo questo avvenimento nulla può essere più come prima.
Non che all’umanità, da questo momento in poi, manchino i problemi, ma quella
che è venuta meno è l’idea fideistica di poterli risolvere dando il potere
assoluto alla “classe operaia” (la così detta “dittatura del proletariato”) che
tramite il partito (novello principe) disponeva dei mezzi (leggi:-
annientamento degli avversari-) per governare il mondo.
Possiamo ricordare anche che nel
frattempo l’uomo è andato sulla luna, si è dotato di un sistema di
comunicazioni che possiamo definire “istantanee” e “globali”, nuove nazioni
sono assurte al rango di super potenze, mentre l’europa è scaduta a regione
periferica della scena mondiale. Il mondo, insomma, è molto cambiato da come lo
conoscevano i padri costituenti e ho l’impressione che continuerà a farlo ad
una velocità che dobbiamo imparare a padroneggiare. Non sarà certo continuando
a guardare in dietro che comprenderemo la realtà mutevole e complessa che ci
sta davanti.
Sul piano interno tutto
questo ha comportato una aspra contrapposizione tra forze politiche e sociali, specialmente nei
primi anni del dopoguerra. I partiti comunista e socialista (in stretta
collaborazione tra loro fino al 1956), pur se cacciati dal governo, mantenevano
comunque delle loro zone di forza, specialmente negli enti locali delle regioni
rosse e nel sindacato. La democrazia cristiana governava con i partiti di
centro portando l’Italia nell’Europa e nella Nato e avviando quel fenomeno che
si sarebbe chiamato “miracolo economico”.
Dopo i fatti d’Ungheria si ebbe la
rottura tra PCI e PSI e la lenta marcia di avvicinamento di questo al potere e
all’Europa. Con il 1963 si apre la lunga stagione dei governi di
“centro-sinistra” che, con varie vicissitudini, governeranno l’Italia finchè i
giudici di “mani pulite” non spazzeranno
via dalla scena politica nazionale i partiti che ne facevano parte.
Ma anche il partito comunista
di Berlinguer, constatato l’esaurirsi della spinta innovativa proveniente
dall’URSS, iniziava nel 1973, con una riflessione sui fatti Cileni, una sua
marcia di avvicinamento al potere con l’elaborazione di quella dottrina che si
sarebbe chiamata del “compromesso storico”.
Dopo la stagione del
miracolo economico è subentrato un periodo di aspre lotte sociali (con il ’68 studentesco) e sindacali (con “l’autunno caldo sindacale) e la comparsa di fenomeni come quello del terrorismo (culminato nel rapimento di
Ado Moro e nell’assassinio della sua
scorta il 16 marzo 1978 , nel giorno in cui si stava recando in parlamento per
votare la fiducia al IV governo Andreotti, che vedeva per la prima volta il
voto favorevole dei comunisti.). La
stagione dei governi di “solidarietà nazionale” durò poco e ben presto il PCI
tornò all’opposizione, non prima però di aver approvato la riforma sanitaria
che con la formula “tutto gratis a tutti” e con l’attivo contributo delle
regioni, tanto avrebbe contribuito al dissesto del bilancio statale e all’incremento
del debito pubblico. Con la crisi del governo Andreotti si andò ad elezioni
politiche anticipate (giugno 1979) e si
concluse così la breve stagione dell’avvicinamento del PCI al potere.
Comunque, anche se lentamente
e faticosamente, lo Stato è la società civile hanno saputo mettere in campo
forze sufficienti e unità di intenti tali da sgominare il terrorismo (non senza
aver prima pagato un altissimo tributo di sangue di servitori dello stato)
Nel frattempo arrivava il
crollo dell’Unione sovietica e con essa la liberazione di quegli Stati ai quali
l’ideologia comunista era stata imposta con la forza. Con il crollo
del muro di Berlino si ha l’immagine plastica del fallimento del comunismo che
voleva realizzare in terra il paradiso della classe operaia, ma era costretto a
tenerla chiusa in un immenso gulag altrimenti questa si sarebbe volentieri
trasferita nel perfido mondo capitalista.
Non si può dire tuttavia che
questa ideologia (il comunismo) abbia cessato di influenzare molte menti di
quelli che ci avevano invitato a guardare a oriente per vedere sorgere il sole
dell’avvenire. Concetti come “lotta di classe”, “internazionalismo proletario”,
“superiorità morale”, “sfruttamento della classe operaia”, “egemonia
intellettuale” continuano ad operare, più o meno sottotraccia, anche se con
sempre minore efficacia e danni collaterali (speriamo).
Con la caduta del muro di
Berlino è venuta meno anche la funzione e il ruolo assunto dalla democrazia
cristiana e dai suoi alleati di “muro” in funzione anticomunista. Come premio e
riconoscimento per questo ruolo svolto nel dopoguerra furono tutti incriminati
e qualcuno messo anche in prigione. I tardi epigoni del partito comunista, dai
quali non si è sentita una parola di resipiscenza per i loro trascorsi, sono stati destinati invece al futuro governo
del paese. Ma le vicende della fine della prima repubblica sono ancora troppo
vicino a noi perché se ne possa parlare con serenità distacco, per cui termino
qui questo breve excursus storico sui fatti avvenuti in vigenza della
costruzione repubblicana.
Ringrazio quanti hanno
avuto la pazienza di starmi ad ascoltare, ringrazio la sezione
dell’A.N.C.F.A.R.G.L di Matino nella persona del suo presidente Pasquale de
Cataldis per avermi dato l’occasione di parlare a questo convegno, ringrazio
gli amici che mi hanno sostenuto quando ho anticipato loro le linee portanti di
questo lavoro, anche se rimango l’unico responsabile di quanto scritto e detto.
Ricordo tuttavia come loro fossero particolarmente interessati alla parte del
mio discorso che riguardava la necessità di un “terzo risorgimento”. Riassumerò
qui allora brevemente le ragioni che mi
inducono a sostenere una tale tesi.
Vi sono
ragioni :-storiche
-politiche
-giuridiche
-economiche
-morali
-geografiche.
Partiamo da una premessa che
tutti possono condividere e cioè che, al di la del come e del perché la prima
repubblica è finita. Se fossimo un paese normale sarebbe successo come in
Francia nel passaggio dalla quarta alla quinta repubblica e cioè si prenderebbe
atto della situazione e ci si darebbe una nuova costituzione. In Italia,
invece, alcune delle forze politiche che aderirono alla prima repubblica, con
che riserve mentali abbiamo visto, hanno scoperto di avere la costituzione più
bella del mondo, (come quando si diceva che avevamo il campionato di calcio più
bello de mondo, ricordate ?) ed ogni proposta di revisione viene bollata come
un attentato alla costituzione.
Cominciamo ad esaminare le ragioni geografiche. Abbiamo visto sopra come
il mondo sia radicalmente cambiato da come lo hanno conosciuto i padri
costituenti, in una direzione e ad una velocità precedentemente sconosciute,
che richiedono capacità di analisi e rapidità di decisioni.
Con una costituzione come la
nostra, pensata per impedire l’avvento di un altro Mussolini, piena di pesi e
contrappesi, di organi che si controllano l’un l’altro e che si bloccano a
vicenda le decisioni rapide e veloci sono una chimera.
Veniamo alle ragioni storiche. Le forze partitiche e le
ideologie sociali che hanno impregnato
con le loro idee la costituzione sono in gran parte finite. La democrazia
cristiana e il partito socialista non esistono più, il partito comunista,
salvato da “mani pulite”, ma condannato dalla storia, ha cambiato una mezza
dozzina di nomi, ma non è mai andato a Bad Godesberg(7) , e i cardini partanti
dell’ideologia marxista sono rimasti nel suo d.n.a. Altre forze politiche si
sono imposte sulla scena politica del paese affermando principi nuovi e sconosciuti
ai partiti storici, come la Lega
col suo federalismo; il c.d. “arco costituzionale” non esiste più e anche il
partito che si ispirava al fascismo è stato “sdoganato”. Adesso tutti si
definiscono democratici e liberali, almeno a parole, ma sappiamo quanto il
liberalismo abbia sempre avuto vita difficile in questo paese.
Per ragioni politiche intendiamo sostanzialmente
l’esaurirsi di quel sistema di governo che si è retto per un trentennio sui
partiti di centro sinistra e che
rappresentava una certa visione del mondo in una precisa epoca storica. Il
governo dei partiti di centro, con l’esclusione delle ali, ha fatto il suo
tempo. Adesso l’organizzazione politica avviene
attorno a due partiti o a due coalizioni che si contendono il governo
del paese, tendenzialmente per una intera legislatura e che si sottopongono al
giudizio degli elettori che giudicano l’operato del governo. Questo sistema di
scelta del governo da parte degli elettori e non più dei partiti con la ricerca
di una maggioranza in parlamento è stato introdotto in via di fatto attraverso
la legge elettorale e non anche un adeguamento della costituzione. Questo è l
motivo per cui si impone un adeguamento della carta in senso maggioritario.
Le ragioni giuridiche riguardano quella immensa mole di lavoro di commissioni,
comitati, gruppi di studio, mozioni, messaggi che si sono succeduti dal lontano
1982 ai giorni nostri
Li elenco brevemente:
- Comitati di studio per l’esame delle questioni istituzionali
costituiti nell’ambito delle Commissioni Affari Costituzionali di Camera e
Senato nel 1982;
- Commissione parlamentare per le riforme
istituzionali (c.d. commissione Bozzi) X legislatura;
- Dibattito sulle riforme istituzionali
svoltosi alla Camera e al Senato il 18 e 19 maggio 1988;
- Progetto di revisione di alcune disposizioni
della Costituzione approvato dalla commissione Affari costituzionali della
Camera nella X legislatura;
-
Dibattito sui temi contenuti nel messaggio del Presidente della
Repubblica in materia di riforme istituzionali inviato alle Camere il 26 giugno
1991 (23-25 luglio 1991;)
- Commissione parlamentare per le riforme
istituzionali (c.d. commissione De Mita – Iotti) XI legislatura;
- Comitato di studio sulle riforme
istituzionali, elettorali e costituzionali nominato nella XII legislatura (c.d.
Comitato Speroni);
- Mozioni in materia di riforme
istituzionali del luglio 1996
- Commissione parlamentare per le riforme
istituzionali (c.d. commissione D’Alema) 1997.
Ma c’è di più. Dal 1948 al
settembre 2009 sono state approvate 34 leggi costituzionali così divise:
14 leggi costituzionali che hanno
modificato il dettato costituzionale;
11 leggi costituzionali di approvazione o modifica degli statuti regionali;
9 leggi costituzionali che hanno introdotto
norme di rango costituzionale.
Ma c’è ancora di più. Sembra che
quello che non è consentito agli uni sia permesso agli altri. Si veda quello
che è successo con l’approvazione della legge costituzionale del 18 ottobre
2001, n. 3 “ Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”,
approvata l’ultimo giorno della legislatura da un governo di centro sinistra
con 4 voti di maggioranza
Le ragioni economiche riguardano, a mio avviso, l’aspetto più interessante
della faccenda e necessitano di una breve premessa. La collocazione internazionale dell’Italia
nel dopoguerra era nell’Europa e nella NATO. Questo aveva imposto l’allontanamento
dei comunisti dal potere governativo centrale e la “condanna” dei partiti di
centro e poi di centro-sinistra a governare il paese. Fino alla caduta del muro
di Berlino si è parlato di “democrazia bloccata”e di “fattore K”(8) per
spiegare la situazione italiana. Questo ha comportato una progressiva
degenerazione della qualità della vita politica in quanto:
a)
chi era al governo poteva compiere qualsiasi
“nefandezza” a cuor leggero perché
sapeva che non sarebbe mai stato chiamato a risponderne;
b)
chi era all’opposizione poteva avanzare
irresponsabilmente le richieste più “sconclusionate” perché sapeva che non
sarebbe mai stato chiamato a realizzarle.
Lo stato di stallo istituzionale
produceva continue tensioni nella società civile, specialmente ad opera di
quelle forze che si vedevano escluse dall’area di governo e cercavano per altra
via la realizzazione dei propri progetti. Si ebbero così, come abbiamo
visto, il “’68 studentesco”, “l’autunno
caldo” ad pera del sindacato confederale nel
’69, la così detta “strategia
della tensione” con le sue stragi e le feroci manifestazioni del terrorismo.
Tutto questo può essere considerato il frutto avvelenato di quella che abbiamo
chiamato “democrazia bloccata” . La
soluzione che si trovò per uscire da questo stato di stallo è, secondo me, il
peggiore peccato e la maggiore causa di fallimento della prima repubblica.
Si trovò il modo di associare
surrettiziamente il partito comunista al
governo del paese attraverso la gestione della spesa pubblica. Il PCI
alleggeriva la pressione dell’opposizione sul governo in cambio di un
incremento della spesa dello stato a favore dei ceti sociali da lui
rappresenti. Il centrosinistra concedeva all’opposizione quello voleva, senza
toglierlo, attraverso la tassazione, ai ceti da lui rappresentati e ponendolo
invece sulle spalle delle generazioni future attraverso un allargamento a
dismisura del debito pubblico.
A dire il vero un tenue argine
al verificarsi del fenomeno la costituzione aveva provato a metterlo obbligando
chi presentava una legge che comportava una spesa ad indicare i mezzi per farne
fronte ( art. 81, quarto comma), ma
l’argine era troppo debole e di fatto non ha impedito il verificarsi dello
scempio. Questo gioco disastroso è andato avanti così per più di quaranta anni
accumulando a carico di figli e nipoti uno dei più grandi debiti pubblici
d’Europa.
Vediamo in una tabella
l’andamento del debito delle amministrazioni pubbliche comprendente il debito
delle amministrazioni centrali, delle amministrazioni locali e degli enti di
previdenza. In milioni di euro; per gli anni fino al 2002 i valori sono
ottenuti applicando il tasso di conversione lira/euro pari a 1936,27). Fonte
banca d’Italia.
1960
|
4.032
|
1970
|
13.086
|
|
1980
|
114.066
|
1990
|
667.847
|
2000
|
1.300.340
|
1961
|
4.238
|
1971
|
16.145
|
|
1981
|
142.427
|
1991
|
755.010
|
2001
|
1.358.333
|
1962
|
4.642
|
1972
|
20.107
|
|
1982
|
181.567
|
1992
|
849.920
|
2002
|
1.368.511
|
1963
|
4.898
|
1973
|
25.780
|
|
1983
|
232.385
|
1993
|
959.713
|
2003
|
1.393.495
|
1964
|
5.468
|
1974
|
32.403
|
|
1984
|
286.744
|
1994
|
1069.415
|
2004
|
1.444.603
|
1965
|
6.140
|
1975
|
41.899
|
|
1985
|
347.592
|
1995
|
1.151.488
|
2005
|
1.512.779
|
1966
|
7.837
|
1976
|
52.317
|
|
1986
|
404.335
|
1996
|
1.213.508
|
2006
|
1.582.008
|
1967
|
8.587
|
1977
|
62.459
|
|
1987
|
463.083
|
1997
|
1.238.196
|
2007
|
1.598.971
|
1968
|
10.024
|
1978
|
79.091
|
|
1988
|
524.528
|
1998
|
1.254386
|
|
|
1969
|
11.285
|
1979
|
94.800
|
|
1989
|
591.618
|
1999
|
1.282.061
|
|
|
Ogni commento è superfluo. Il furore
dissipativo comunque si concentra tra il 1983 e il 1994 in cui il rapporto
debito/pil raggiunge il 120%.
Questo grafico indica l’andamento del
debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo (PIL)
negli anni che vanno dal 1960 al
2009. Si nota la prima impennata successiva all’”autunno caldo”
del 1969, la stabilizzazione, attorno
al 60%, degli anni tra il ’75 e ’82 per la crisi economica conseguente agli
shok petroliferi, e infine l’autentica esplosione ’83-’94, con il raddoppio del
rapporto debito/pil dovuto alle politiche di welfare per venire incontro alle
richieste dei lavoratori, e l’applicazione delle ricette keynesiane di deficit
spending , per sostenere la crescita.
Non voglio spingermi oltre in
inutili tecnicismi. L’argomento potrebbe essere il soggetto di un altro
intervento. Voglio solo ribadire il
concetto
1)
– il disastro dell’amministrazione della cosa pubblica
è sotto gli occhi di tutti, anche se, tutto sommato, non se ne parla molto
(avete notato?, molti hanno la coda di paglia !)
2)
- all’assalto
alla diligenza hanno partecipato tutti, dal governo e dall’opposizione, dai
sindacati operai alle associazioni padronali, al centro e alla periferia.
3)
– l’indebitamento dello stato è servito in minima parte
alla realizzazione di opere pubbliche e al finanziamento dello sviluppo
(secondo le ricette Keynesiane), andando invece a mantenere rendite
parassitarie, apparati burocratici pletorici ed inefficienti e ultima, ma non
ultima, una corruzione diffusa e devastante, condita di criminalità più o meno
organizzata.
4)
– si è creata così una generazione di giovani senza un
lavoro stabile e, quando sarà l’ora, senza una pensione decente, in un paese
che non può investire in cultura, che non può investire in ricerca perché le
generazioni politiche precedenti si sono mangiate il proprio e l’altrui tesoro
di famiglia.
5)
– il tutto in regime di attuale costituzione vigente
6)
Ed è per questo che io auspico un sussulto morale da parte degli italiani, capace di portare ad un terzo risorgimento e ad una coraggiosa
riscrittura della nostra costituzione.
D'altronde le cose da fare sono sotto gli
occhi di tutti e riguardano:
-
la revisione del bicameralismo perfetto;
-
la riduzione del numero dei parlamentari;
-
la delegificazione
di alcune materie
-
la riforma dell’ordinamento della presidenza del
consiglio
-
la riforma dei regolamenti parlamentari volta a rendere
certi i tempi dell’approvazione delle leggi;
-
il controllo della spesa pubblica
-
la riduzione della pressione fiscale
-
il riequilibrio dei rapporti tra magistratura e
politica.
-
E quant’altro si vuole aggiungere, nell’ambito di una
discussione tra persone oneste che, autenticamente laiche e pragmatiche, vedano
la realtà così com’è, senza avere la mente deformata da qualche impresentabile
ideologia.
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