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giovedì 18 aprile 2019

Alle radici della Repubblica Italiana


La Costituzione nel primo e nel secondo risorgimento”.

Adelio  Fabbris               

                   I documenti costituzionali sono nati per limitare il potere assoluto dei sovrani. In questo contesto si inquadra la “Magna Carta Libertatum” concessa da Giovanni Senza terra ai baroni d’Inghilterra nel 1215 e i documenti successivi, di analogo contenuto, concessi da Federico Barbarossa alla Lega Lombarda nel 1183 e dal re Andrea d’Ungheria ai propri vassalli nel 1222. Il contenuto di questi testi comprendeva, tra l’altro, il divieto di imporre nuove tasse senza il consenso degli interessati e la garanzia, per tutti gli uomini liberi, di non poter essere imprigionati senza aver subito un regolare processo da parte di una corte di  pari, secondo il principio del “ habeas corpus integrum”.Pur essendo stata interpretata come il primo documento fondamentale per il riconoscimento dei diritti dei cittadini, essa deve essere tuttavia iscritta ancora nel quadro del diritto feudale che prevede la concessione di privilegi (libertates) a comunità o sudditi da parte del sovrano.In questo contesto, di controllo delle spese del sovrano, si colloca la convocazione degli stati generali da parte di Luigi XVI che ha avuto come estrema conseguenza la rivoluzione francese e l’adozione della prima costituzione moderna. Con l’affermazione dei principi di libertà e uguaglianza (la “fratenitè” verrà introdotta in un momento successivo, soprattutto per giustificare l’attivismo internazionale della Francia) la rivoluzione francese scardina le basi dell’organizzazione feudale dello stato incentrato, fino a quel momento, sulla divisione in classi della società per diritto di nascita a prescindere da criteri di merito e di censo.
                    Ai nobili apparteneva la terra e in più si dividevano le cariche pubbliche    nell’amministrazione dello stato e i gradi di comando nell’esercito. Il clero faceva il proprio mestiere riscuotendo le decime e accumulando grandi possedimenti terrieri.  I contadini facevano i contadini per tutta la vita senza la possibilità di riscatto sociale e di arricchimento economico.
                     L’unica classe che non rimaneva negli argini dell’ordine sociale esistente era la nascente borghesia delle professioni e degli affari. Una stagione di straordinario sviluppo economico aveva permesso ad una borghesia intraprendente e creativa di cogliere i fermenti del nuovo che stava avanzando nel mondo della produzione e dei commerci. Siamo agli inizi della rivoluzione industriale e del grande sviluppo dei commerci e non la nobiltà, non il popolo, non certamente il clero sanno approfittare della nuova situazione.
                        Solo la borghesia, conscia del potere derivantegli dalla potenza economica acquisita,
pretende di svolgere un ruolo politico adeguato ai rapporti di forza instauratisi nel paese. Supportata in questo dalla nuova temperie culturale rappresentata dalla filosofia dei Lumi. Opere fondamentali come l’Esprit des Lois,(Montesquieu, 1748), l’Histoire naturelle,(Buffon, 1749) il primo volume dell’Encyclopedie di Diderot(1951)  vedevano la luce a cavallo del secolo, mentre Voltaire e Rousseau stavano per dare alle stampe le loro opere fondamentali (come il “Trattato sulla tolleranza” del 1763 e il “Dizionario filosofico” del 1764 per Voltaire; il “Contratto sociale” e “Emilio o dell’educazione” nel 1761 per Rousseau) In poco tempo, quindi, viene spezzato il rapporto che legava trono e altare distruggendo definitivamente il complesso sistema di legittimità e gerarchie che era alla base dell’Acien Regime.
 I tempi quindi sono maturi e l’occasione è offerta dalla convocazione degli Stati Generali da parte di Luigi XVI per una questione di tasse.
Non è questa la sede per ripercorrere lo stravolgimento prodotto in Francia e successivamente in tutta Europa dalla rivoluzione francese, ma è indubbio che in quella sede si posero le basi dei moderni testi costituzionali. Con la abolizione del regime feudale e la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino          si sancirono definitivamente i principi di libertà e uguaglianza, con la costituzione del 1791 si stabilì la divisione dei poteri ( ispirata dalle opere di Montesquieu) e la sovranità popolare ( ispirata dalle opere di Rousseau).
Su queste basi presero vita, tra varie vicissitudini, le costituzioni concesse dai vari sovrani ai loro popoli e tra esse anche lo Statuto Albertino.
             Concesso da Carlo Alberto al suo popolo in seguito ai motti del 1948 che sconvolsero tutta l’Europa esso nacque sotto un duplice segno : quello della democratizzazione del regno e quello della unificazione d’Italia. La concessione dello Statuto infatti coincide con il primo concreto tentativo di dare avvio all’unità d’Italia rappresentato della prima guerra di indipendenza . Lo sfortunato tentativo di Carlo Alberto lascerà tuttavia in vita uno strumento giuridico idoneo, all’ombra del quale si realizzerà comunque l’unita d’Italia.
             Esso disegna uno Stato in forma di monarchia costituzionale in cui il Re era il capo supremo dello Stato, esercitava il potere esecutivo attraverso i suoi ministri, convocava e scioglieva le camere e sanzionava le leggi attraverso la promulgazione.
              Lo Statuto Albertino ha le caratteristiche di essere una carta:
concessa “con lealtà di re e affetto di padre…….ai nostri amatissimi sudditi”;
breve in quanto si limita ad enunciare i diritti e ad individuare la forma di governo;
flessibile in quanto può essere cambiata con legge ordinaria.
La sovranità non appartiene alla Nazione, ma al Re il quale, tuttavia si  trasforma in principe costituzionale sottoposto egli stesso alle norme dello Statuto.
Il potere legislativo viene esercitato da due camere, una di nomina regia ed una eletta a suffragio maschile su base censuaria.
Il potere esecutivo rimane ampiamente in mano al Re, che lo esercita attraverso i suoi ministri, senza che sia necessaria la fiducia del parlamento. Nella prassi parlamentare, tuttavia, venne  presto ad affermarsi la necessità che il governo in carica godesse della fiducia del parlamento venendo così ad instaurarsi un governo di tipo parlamentare.
 La giustizia viene esercitata da un corpo di magistrati di nomina regia. La magistratura non rappresenta quindi un potere, ma un ordine soggetto al ministero della Giustizia.
                  E’ sotto questo cappello giuridico che si svolge il primo risorgimento italiano. Con tutti i suoi limiti, ma anche con tutte le sue novità lo Statuto Albertno ha permesso alle varie realtà italiane (Regno delle due Sicilie, Granducato di Toscana, Lombardo-Veneto, Stato Pontificio) di entrare a far parte di quella che sarebbe diventata l’Italia. E questo non solo perché si mossero gli eserciti, ma anche perché le elite dominanti nelle varie realtà italiane ritennero che il progetto politico di unificare la nazione fosse un progetto che andava perseguito con convinzione e determinazione.
                   Rispetto alla querelle storica tra gli assertori della “conquista” e quelli della “adesione” si deve comunque ammettere che il Regno di Sardegna era l’unica entità politico istituzionale ad avere un progetto chiaro e realistico di unificazione  dell’Italia. In questo ambito grande importanza svolse lo Statuto nel senso che chi aderiva all’unità d’Italia conosceva e condivideva le regole sotto cui si sarebbe organizzato il nuovo stato.
                    E condivisero e aderirono all’unità d’Italia, così come si andava formando, cioè attorno all’iniziativa di casa Savoia i ceti dominanti e la nascente borghesia. Nessuno degli altri stati italiani preunitari  seppe esercitare una simile attrazione e soluzioni alternative come la federazione di stati attorno al Papa (sostenuta dal Cattaeo) erano chiaramente cervellotiche e velleitarie.
                     Dicevamo che i ceti dominanti e la nascente borghesia fecero l’unità d’Italia. Quello che chiamiamo “il popolo” e che era rappresentato per la grande maggioranza da contadini, in parte partecipò, in gran parte stette a vedere, ma abbastanza presto si accorse che per lui le cose non mi- glioravano di molto, se non addirittura peggioravano. La nascente borghesia, che stava subentrando alla nobiltà assenteista nella gestione della proprietà terriera, era un padrone esigente ed esoso che voleva far fruttare i propri investimenti  e non era disponibile  ad atteggiamenti paternalistici nei confronti dei lavoratori agricoli.
                      Si aggiunga che il nuovo stato si era molto indebitato per condurre le sue campagne di guerra ed aveva bisogno di rientrare dal debito contratto imponendo subito nuove tasse e si capirà perché il popolo si accorse subito che forse si stava meglio prima. Da qui le radici del “brigantaggio” che dilagò in gran parte del mezzogiorno subito dopo l’unificazione. Il giudizio su un fenomeno così caratteristico e così complesso si divide in due filoni: quello marxista-gramsiano della sollevazione polare per fini democratici e quella liberale di Rosario Romeo di resistenza conservatrice al nuovo che avanza. Eviterei di inoltrarmi in questa vexata quetio, ma non si può non prendere atto di recenti interventi del Capo dello Stato che prendeva posizione in materia a favore della tesi di Romeo.

                       Ma lo Statuto Albertino è stato anche quello che ha permesso, in un quadro di sostanziale continuità giuridica, l’instaurarsi del fascismo e delle sue nefaste conseguenze. Essendo, come abbiamo visto, quello che i giuristi chiamano una costituzione “flessibile”, lo Statuto permise tutte quelle variazioni che trasformarono gradualmente l’Italia in uno stato “totalitario”. Ed appunto la “flessibilità” è una delle pecche dello Statuto che è stata corretta dai costituenti introducendo una costituzione “rigida”, cioè destinata ad essere modificata con un procedimento lungo, complicato e che alla fine può prevedere il ricorso al corpo elettorale.
                     Ma non anticipiamo tempi ed argomenti. Esaminiamo innanzitutto l’ambiente culturale e le classi sociali che anno dato vita alla costituzione vigente. L’ambiente culturale è quello che definiamo del “secondo risorgimento”, caratterizzato da un’ampia partecipazione popolare e segnatamente dall’ingresso in campo, con ruolo di protagoniste, di quelle forze politiche e sociali che erano rimaste ai margini del primo. Il popolo italiano, abbandonato a se stesso dalle istituzioni (governo, corona) nel bel mezzo di una guerra mondiale, con il proprio esercito disseminato in mezza Europa e privo di ordini, con il suolo patrio ridotto a terreno di scontro tra eserciti nemici, seppe dimostrare una straordinaria capacità di riscatto dallo sfacelo in cui il fascismo lo aveva gettato.   E fu veramente la guerra di un popolo che in quei tragici momenti seppe trovare unità di intenti tra tutte le forze che  si opponevano al nazi-fascismo in nome della libertà e della dignità nazionale.
                       Popolo in armi come i combattenti inquadrati nelle forze armate regolari che diedero immediatamente il loro contributo nella battaglia di Montelungo; civili che si sottrassero alla leva imposta dalla R.S.I. e si rifugiarono in montagna dando vita alle formazioni partigiane; cittadini comuni che accoglievano festosamente l’arrivo degli alleati come liberatori, (anche se non dappertutto andò così)(1) o subivano inorriditi le stragi e le inutili crudeltà di un esercito che si ritirava lasciando dietro di se una scia di sangue.
                       Questa partecipazione generalizzata alla guerra di liberazione pose le basi di quel consenso di massa alle nuove istituzioni che si manifestò il 2 giugno 1946 con la scelta della repubblica e l’elezione dell’assemblea costituente. Le forze presenti nell’assemblea costituente erano in gran parte rappresentate da quei partititi politici che erano stati soppressi dal fascismo e che ora facevano la loro ricomparsa con rapporti di forza assai mutati rispetto al periodo anteriore all’esperienza fascista.
                       Dei 556 deputati che componevano l’assemblea costituente 207 appartenevano alla Democrazia cristiana, 104 al Partito comunista, 116 al Partito socialista ( che si scinderà poi nel Partito socialista di Nenni, tanto per capirci e nel Partito socialista dei lavoratori di Saragat), 24 al Partito repubblicano, 21 al Partito liberale, 32 al Fronte dell’uomo qualunque, 9 all’Unione democratica nazionale, 9 alla Democrazia del lavoro,10 agli Autonomisti ed infine 24 di varia estrazione politica che partecipavano ai lavori nel Gruppo misto







Partito
Numero Deputati
%
Democrazia cristiana
207
37,2
Partito comunista
104
18,7
Partito socialista
64
11,5
Partito socialista dei lavoratori
52
9,3
Partito repubblicano
24
4,3
Partito liberale
21
3,7
Fronte dell’uomo qualunque
32
5,7
Unione democratica nazionale
9
1,6
Democrazia del lavoro
9
1,6
Autonomisti
10
1,8
Vari (gruppo misto)
24
4,3
                         
                            Da questi numeri si capisce che la nuova costituzione era nelle mani dei grandi partiti di massa che si ispiravano alle ideologie cattolica e social-comunista e che se si voleva un testo largamente condiviso si doveva trovare una intesa tra queste due componenti fondamentali della Assemblea costituente.  Paradossalmente possiamo dire che il primo compromesso storico della storia d’Italia è stato quello che si è realizzato nella stesura del testo costituzionale. 
                            Forze politiche molto diverse  e politicamente contrapposte trovarono la forza e la saggezza di stabilire un quadro di regole condivise in cui far vivere la vita democratica del paese. A tal proposito dobbiamo ricordare che questo esito non era né dovuto né scontato, anzi tutt’altro.                   Quel che succedeva nella vicina Francia non era affatto rassicurante, con un testo approvato dalla assemblea costituente largamente influenzato dal partito comunista e poi bocciato da un referendum popolare.
                         In Grecia poi il rifiuto del partito comunista di riconsegnare le armi a guerra finita era sfociato in una sanguinosa guerra civile. Dopo i morti e le devastazioni prodotte dalla seconda guerra mondiale la Grecia conobbe una guerra fratricida, protrattasi dal 1946 al 1949, con 80.000 morti, migliaia di profughi, una economia nazionale disastrata e uno strascico di veleni e di polemiche protrattosi fino al 1989.  Il conflitto  si è infatti formalmente chiuso solo nel 1989  con l’approvazione di una legge da parte del parlamento greco che riconosceva lo status di “combattenti” ad entrambi gli eserciti in campo.
                         Anche in casa nostra si erano manifestate le conseguenze dell’instaurarsi in europa di un clima di “guerra fredda”. Con la rottura del governo di unità nazionale e la cacciata dei social-comunisti all’opposizione c’erano tutte le premesse per l’apertura di una fase di duro scontro politico e la possibilità che questo si riverberasse sui lavori della assemblea costituente. Questo non avvenne. I lavori procedettero regolarmente fino alla  stesura di un testo largamente condiviso, approvato il 22 dicembre 1947 con 453 voti a favore e 62 contrari ed entrato in vigore il primo di gennaio del 1948. A favore votarono democristiani, comunisti e socialisti in gran parte autori del testo. Contro votarono i liberali e i deputati dell’uomo qualunque perché contrari agli articoli compresi nel titolo terzo della prima parte dedicati ai rapporti economici ed al titolo quinto della seconda parte dedicato alla istituzione delle regioni.
                         Le ragioni per cui all’Italia furono risparmiate sia la prospettiva greca che quella francese risiedono in gran parte nelle scelte fatte da Togliatti. Egli era infatti  consapevole del fatto che il nostro paese, con gli accordi di Yalta,  era stato ricompresso nella zona di influenza occidentale e che quindi era giocoforza accettare le regole di una democrazia liberale, piuttosto che imbarcarsi in pericolose avventure per realizzare una “democrazia popolare” come qualcuno nel suo partito chiedeva. All’interno del partito comunista (vedi Longo e Secchia) e delle formazioni partigiane erano infatti presenti zone di scontento per l’andamento che stavano prendendo  le cose rispetto al carico di aspettative che erano maturate durante la guerra di liberazione . Molti partigiani comunisti vissero il periodo come una specie di tradimento delle aspettative per cui avevano combattuto la guerra di liberazione e si disposero ad attendere tempi migliori nascondendo le armi invece di riconsegnarle a guerra finita(2).
                       Questa riserva mentale, per cui si aderisce perché in questa fase non è possibile ottenere di meglio, ma si sta con l’arma al piede in attesa  di condizioni migliori per la realizzazione di una autentica “democrazia popolare” (di quelle che si andavano realizzando oltre cortina) è chiaramente esplicitata in uno scritto di Umberto Terracini che vale la pena di citare per esteso. Parlando della costituzione dice:”…E’ stato così raggiunto in misura apprezzabile l’obiettivo di assicurare in generale ai cittadini uno standard di vita migliore per quanto compatibile col sistema storico in atto. Solo quando questo processo non avrà più margini ulteriori di svolgimento e cioè quando saranno storicamente mature le condizioni per il passaggio ad un sistema economico-sociale diverso e più avanzato si porrà il problema non già di questa o quella revisione parziale della costituzione democratica, ma della sua sostituzione totale.”.(3)     
                         Il primo gennaio 1948, comunque, l’Italia ebbe la sua nuova costituzione ad opera della Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946. Nella stessa data il popolo italiano aveva già scelto  la forma di stato sub specie di Repubblica.
                          Il nuovo testo si caratterizza per essere una costituzione “rigida”,  cioè modificabile solo tramite un procedimento lungo e complicato in sede parlamentare e salvo approvazione popolare tramite referendum confermativo se l’approvazione da parte del parlamento non è avvenuta con la maggioranza qualificata dei 2/3 dei componenti.
                           La costituzione stabilisce inoltre che la Repubblica  sia “parlamentare” a sistema “bicamerale perfetto” con elezioni a suffragio universale “differenziato” fra le due camere. Il sistema di separazione dei poteri (4) prevede che al Parlamento spetti in primis la formazione delle leggi, ma anche uno stringente potere di controllo esercitato attraverso “interrogazioni”, “interpellanze”, “mozioni e “commissioni d’inchiesta”. L’Assemblea costituente ha optato, inoltre, per affidare al Parlamento, integrato dai rappresentanti delle regioni, l’elezione del Presidente della Repubblica. Al Parlamento poi , come massima espressione della sovranità popolare, sono attribuiti altri notevoli poteri di cui tuttavia non è il caso di parlare in questa sede (uno per tutti: “Le Camere deliberano lo stato di guerra…” art. 78).
                            Venendo alla gestione effettiva del “potere esecutivola Costituzione ne investe il presidente del consiglio  cui spetta la scelta dei singoli ministri e la direzione generale della politica del Governo. Per poter realizzare il proprio programma il governo deve godere della fiducia del Parlamento.
                           Nell’abito della divisione dei poteri, per quanto riguarda la giustizia, la costituzione stabilisce che: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge”.art. 101; che                                                                                       La Magistratura  costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”  e che si autogoverna tramite un proprio organo denominato Consiglio Superiore della Magistratura presieduto dal Capo dello Stato, art.104, .  Vengono, inoltre, fissati i principi: - della obbligatorietà dell’azione penale, art.112 ; - del giudice naturale, dell’anteriorità della legge al reato art.25 - del diritto alla difesa e della possibilità di agire in giudizio, art. 24; della responsabilità penale personale.
                        Abbiamo così molto   brevemente tracciato le regole che hanno governato la vita politica e sociale del nostro paese negli ultimi 60 anni. Una valutazione del suo funzionamento a questo punto è d’uopo. La costituzione italiana ha operato nella seconda metà del XX° secolo.  Il quadro di riferimento internazionale è stato quello della divisione del mondo in 2 blocchi e della loro contrapposizione in quella che è stata chiamata “guerra fredda”, che in qualche momento ha minacciato di trasformarsi in guerra calda, come durante la crisi dei missili di Cuba nel 1962.
                     Ma l’evento più importante a livello mondiale è stato il crollo dell’Unione sovietica. Il vulnus inferto alla civiltà occidentale nel 1917 e che tanti disastri aveva creato nella Russia e nel mondo, cadeva per consunzione interna, senza neanche una “spintarella”da parte del mondo capitalista, nel 1989. Si chiudeva così il “secolo breve” (5) che ci aveva “regalato” i due totalitarismi più feroci e sanguinari(6) e le due guerre mondiali con il più alto numero di morti della storia dell’umanità. Dopo questo avvenimento nulla può essere più come prima. Non che all’umanità, da questo momento in poi, manchino i problemi, ma quella che è venuta meno è l’idea fideistica di poterli risolvere dando il potere assoluto alla “classe operaia” (la così detta “dittatura del proletariato”) che tramite il partito (novello principe) disponeva dei mezzi (leggi:- annientamento degli avversari-) per governare il mondo.
               Possiamo ricordare anche che nel frattempo l’uomo è andato sulla luna, si è dotato di un sistema di comunicazioni che possiamo definire “istantanee” e “globali”, nuove nazioni sono assurte al rango di super potenze, mentre l’europa è scaduta a regione periferica della scena mondiale. Il mondo, insomma, è molto cambiato da come lo conoscevano i padri costituenti e ho l’impressione che continuerà a farlo ad una velocità che dobbiamo imparare a padroneggiare. Non sarà certo continuando a guardare in dietro che comprenderemo la realtà mutevole e complessa che ci sta davanti. 
                      Sul piano interno tutto questo ha comportato una aspra contrapposizione tra  forze politiche e sociali, specialmente nei primi anni del dopoguerra. I partiti comunista e socialista (in stretta collaborazione tra loro fino al 1956), pur se cacciati dal governo, mantenevano comunque delle loro zone di forza, specialmente negli enti locali delle regioni rosse e nel sindacato. La democrazia cristiana governava con i partiti di centro portando l’Italia nell’Europa e nella Nato e avviando quel fenomeno che si sarebbe chiamato “miracolo economico”.
               Dopo i fatti d’Ungheria si ebbe la rottura tra PCI e PSI e la lenta marcia di avvicinamento di questo al potere e all’Europa. Con il 1963 si apre la lunga stagione dei governi di “centro-sinistra” che, con varie vicissitudini, governeranno l’Italia finchè i giudici di “mani pulite” non  spazzeranno via dalla scena politica nazionale i partiti che ne facevano parte.
                  Ma anche il partito comunista di Berlinguer, constatato l’esaurirsi della spinta innovativa proveniente dall’URSS, iniziava nel 1973, con una riflessione sui fatti Cileni, una sua marcia di avvicinamento al potere con l’elaborazione di quella dottrina che si sarebbe chiamata del “compromesso storico”.                                          
                    Dopo la stagione del miracolo economico è subentrato un periodo di aspre lotte sociali (con il ’68 studentesco) e sindacali (con “l’autunno caldo sindacale)  e la comparsa di fenomeni come quello del terrorismo (culminato nel rapimento di Ado Moro e nell’assassinio  della sua scorta il 16 marzo 1978 , nel giorno in cui si stava recando in parlamento per votare la fiducia al IV governo Andreotti, che vedeva per la prima volta il voto favorevole  dei comunisti.). La stagione dei governi di “solidarietà nazionale” durò poco e ben presto il PCI tornò all’opposizione, non prima però di aver approvato la riforma sanitaria che con la formula “tutto gratis a tutti” e con l’attivo contributo delle regioni, tanto avrebbe contribuito al dissesto del bilancio statale e all’incremento del debito pubblico. Con la crisi del governo Andreotti si andò ad elezioni politiche anticipate  (giugno 1979) e si concluse così la breve stagione dell’avvicinamento del PCI al potere.
                 Comunque, anche se lentamente e faticosamente, lo Stato è la società civile hanno saputo mettere in campo forze sufficienti e unità di intenti tali da sgominare il terrorismo (non senza aver prima pagato un altissimo tributo di sangue di servitori dello stato)  
                   Nel frattempo arrivava il crollo dell’Unione sovietica e con essa la liberazione di quegli Stati ai quali l’ideologia comunista era stata imposta con la forza. Con il crollo del muro di Berlino si ha l’immagine plastica del fallimento del comunismo che voleva realizzare in terra il paradiso della classe operaia, ma era costretto a tenerla chiusa in un immenso gulag altrimenti questa si sarebbe volentieri trasferita nel perfido mondo capitalista.
                   Non si può dire tuttavia che questa ideologia (il comunismo) abbia cessato di influenzare molte menti di quelli che ci avevano invitato a guardare a oriente per vedere sorgere il sole dell’avvenire. Concetti come “lotta di classe”, “internazionalismo proletario”, “superiorità morale”, “sfruttamento della classe operaia”, “egemonia intellettuale” continuano ad operare, più o meno sottotraccia, anche se con sempre minore efficacia e danni collaterali (speriamo). 
                   Con la caduta del muro di Berlino è venuta meno anche la funzione e il ruolo assunto dalla democrazia cristiana e dai suoi alleati di “muro” in funzione anticomunista. Come premio e riconoscimento per questo ruolo svolto nel dopoguerra furono tutti incriminati e qualcuno messo anche in prigione. I tardi epigoni del partito comunista, dai quali non si è sentita una parola di resipiscenza per i loro trascorsi,  sono stati destinati invece al futuro governo del paese. Ma le vicende della fine della prima repubblica sono ancora troppo vicino a noi perché se ne possa parlare con serenità distacco, per cui termino qui questo breve excursus storico sui fatti avvenuti in vigenza della costruzione repubblicana.
                    Ringrazio quanti hanno avuto la pazienza di starmi ad ascoltare, ringrazio la sezione dell’A.N.C.F.A.R.G.L di Matino nella persona del suo presidente Pasquale de Cataldis per avermi dato l’occasione di parlare a questo convegno, ringrazio gli amici che mi hanno sostenuto quando ho anticipato loro le linee portanti di questo lavoro, anche se rimango l’unico responsabile di quanto scritto e detto. Ricordo tuttavia come loro fossero particolarmente interessati alla parte del mio discorso che riguardava la necessità di un “terzo risorgimento”. Riassumerò qui allora brevemente  le ragioni che mi inducono a sostenere una tale tesi.
Vi sono ragioni :-storiche
                            -politiche
                            -giuridiche
                            -economiche
                            -morali
                            -geografiche.   
               Partiamo da una premessa che tutti possono condividere e cioè che, al di la del come e del perché la prima repubblica è finita. Se fossimo un paese normale sarebbe successo come in Francia nel passaggio dalla quarta alla quinta repubblica e cioè si prenderebbe atto della situazione e ci si darebbe una nuova costituzione. In Italia, invece, alcune delle forze politiche che aderirono alla prima repubblica, con che riserve mentali abbiamo visto, hanno scoperto di avere la costituzione più bella del mondo, (come quando si diceva che avevamo il campionato di calcio più bello de mondo, ricordate ?) ed ogni proposta di revisione viene bollata come un attentato alla costituzione.
                 Cominciamo ad esaminare le ragioni geografiche. Abbiamo visto sopra come il mondo sia radicalmente cambiato da come lo hanno conosciuto i padri costituenti, in una direzione e ad una velocità precedentemente sconosciute, che richiedono capacità di analisi e rapidità di decisioni.
                 Con una costituzione come la nostra, pensata per impedire l’avvento di un altro Mussolini, piena di pesi e contrappesi, di organi che si controllano l’un l’altro e che si bloccano a vicenda le decisioni rapide e veloci sono una chimera.
                  Veniamo alle ragioni storiche. Le forze partitiche e le ideologie sociali che hanno  impregnato con le loro idee la costituzione sono in gran parte finite. La democrazia cristiana e il partito socialista non esistono più, il partito comunista, salvato da “mani pulite”, ma condannato dalla storia, ha cambiato una mezza dozzina di nomi, ma non è mai andato a Bad Godesberg(7) , e i cardini partanti dell’ideologia marxista sono rimasti nel suo d.n.a. Altre forze politiche si sono imposte sulla scena politica del paese affermando principi nuovi e sconosciuti ai partiti storici, come la Lega col suo federalismo; il c.d. “arco costituzionale” non esiste più e anche il partito che si ispirava al fascismo è stato “sdoganato”. Adesso tutti si definiscono democratici e liberali, almeno a parole, ma sappiamo quanto il liberalismo abbia sempre avuto vita difficile in questo paese. 
                      Per ragioni politiche intendiamo sostanzialmente l’esaurirsi di quel sistema di governo che si è retto per un trentennio sui partiti di centro sinistra  e che rappresentava una certa visione del mondo in una precisa epoca storica. Il governo dei partiti di centro, con l’esclusione delle ali, ha fatto il suo tempo. Adesso l’organizzazione politica avviene  attorno a due partiti o a due coalizioni che si contendono il governo del paese, tendenzialmente per una intera legislatura e che si sottopongono al giudizio degli elettori che giudicano l’operato del governo. Questo sistema di scelta del governo da parte degli elettori e non più dei partiti con la ricerca di una maggioranza in parlamento è stato introdotto in via di fatto attraverso la legge elettorale e non anche un adeguamento della costituzione. Questo è l motivo per cui si impone un adeguamento della carta in senso maggioritario. 

                       Le ragioni giuridiche riguardano quella immensa mole di lavoro di commissioni, comitati, gruppi di studio, mozioni, messaggi che si sono succeduti dal lontano 1982 ai giorni nostri
 Li elenco brevemente:
- Comitati  di studio per l’esame delle questioni istituzionali costituiti nell’ambito delle Commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato nel 1982;
-    Commissione parlamentare per le riforme istituzionali (c.d. commissione Bozzi) X legislatura;
-     Dibattito sulle riforme istituzionali svoltosi alla Camera e al Senato il 18 e 19 maggio 1988;
-   Progetto di revisione di alcune disposizioni della Costituzione approvato dalla commissione Affari costituzionali della Camera nella X legislatura;
 -    Dibattito sui temi contenuti nel messaggio del Presidente della Repubblica in materia di riforme istituzionali inviato alle Camere il 26 giugno 1991 (23-25 luglio 1991;)
-     Commissione parlamentare per le riforme istituzionali (c.d. commissione De Mita – Iotti) XI legislatura;
-   Comitato di studio sulle riforme istituzionali, elettorali e costituzionali nominato nella XII legislatura (c.d. Comitato Speroni);
-      Mozioni in materia di riforme istituzionali del luglio 1996
-      Commissione parlamentare per le riforme istituzionali (c.d. commissione D’Alema) 1997.
             Ma c’è di più. Dal 1948 al settembre 2009 sono state approvate 34 leggi costituzionali così divise: 14    leggi costituzionali che hanno modificato il dettato costituzionale;
            11    leggi costituzionali di approvazione o  modifica degli statuti regionali;
              9    leggi costituzionali che hanno introdotto norme di rango costituzionale.
              Ma c’è ancora di più. Sembra che quello che non è consentito agli uni sia permesso agli altri. Si veda quello che è successo con l’approvazione della legge costituzionale del 18 ottobre 2001, n. 3 “ Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione”, approvata l’ultimo giorno della legislatura da un governo di centro sinistra con 4 voti di maggioranza
                Le ragioni economiche riguardano, a mio avviso, l’aspetto più interessante della faccenda e necessitano di una breve premessa.  La collocazione internazionale dell’Italia nel dopoguerra era nell’Europa e nella NATO. Questo aveva imposto l’allontanamento dei comunisti dal potere governativo centrale e la “condanna” dei partiti di centro e poi di centro-sinistra a governare il paese. Fino alla caduta del muro di Berlino si è parlato di “democrazia bloccata”e di “fattore K”(8) per spiegare la situazione italiana. Questo ha comportato una progressiva degenerazione della qualità della vita politica in quanto:
a)     chi era al governo poteva compiere qualsiasi “nefandezza”  a cuor leggero perché sapeva che non sarebbe mai stato chiamato a risponderne;
b)     chi era all’opposizione poteva avanzare irresponsabilmente le richieste più “sconclusionate” perché sapeva che non sarebbe mai stato chiamato a realizzarle.
            Lo stato di stallo istituzionale produceva continue tensioni nella società civile, specialmente ad opera di quelle forze che si vedevano escluse dall’area di governo e cercavano per altra via la realizzazione dei propri progetti. Si ebbero così, come abbiamo visto,  il “’68 studentesco”, “l’autunno caldo” ad pera del sindacato confederale nel  ’69,  la così detta “strategia della tensione” con le sue stragi e le feroci manifestazioni del terrorismo. Tutto questo può essere considerato il frutto avvelenato di quella che abbiamo chiamato “democrazia bloccata” . La soluzione che si trovò per uscire da questo stato di stallo è, secondo me, il peggiore peccato e la maggiore causa di fallimento della prima repubblica.
              Si trovò il modo di associare surrettiziamente il  partito comunista al governo del paese attraverso la gestione della spesa pubblica. Il PCI alleggeriva la pressione dell’opposizione sul governo in cambio di un incremento della spesa dello stato a favore dei ceti sociali da lui rappresenti. Il centrosinistra concedeva all’opposizione quello voleva, senza toglierlo, attraverso la tassazione, ai ceti da lui rappresentati e ponendolo invece sulle spalle delle generazioni future attraverso un allargamento a dismisura del debito pubblico.
                 A dire il vero un tenue argine al verificarsi del fenomeno la costituzione aveva provato a metterlo obbligando chi presentava una legge che comportava una spesa ad indicare i mezzi per farne fronte ( art. 81, quarto comma),  ma l’argine era troppo debole e di fatto non ha impedito il verificarsi dello scempio. Questo gioco disastroso è andato avanti così per più di quaranta anni accumulando a carico di figli e nipoti uno dei più grandi debiti pubblici d’Europa.



                     Vediamo in una tabella l’andamento del debito delle amministrazioni pubbliche comprendente il debito delle amministrazioni centrali, delle amministrazioni locali e degli enti di previdenza. In milioni di euro; per gli anni fino al 2002 i valori sono ottenuti applicando il tasso di conversione lira/euro pari a 1936,27). Fonte banca d’Italia.

1960
4.032
1970
13.086

1980
114.066
1990
667.847
2000
1.300.340
1961
4.238
1971
16.145

1981
142.427
1991
755.010
2001
1.358.333
1962
4.642
1972
20.107

1982
181.567
1992
849.920
2002
1.368.511
1963
4.898
1973
25.780

1983
232.385
1993
959.713
2003
1.393.495
1964
5.468
1974
32.403

1984
286.744
1994
1069.415
2004
1.444.603
1965
6.140
1975
41.899

1985
347.592
1995
1.151.488
2005
1.512.779
1966
7.837
1976
52.317

1986
404.335
1996
1.213.508
2006
1.582.008
1967
8.587
1977
62.459

1987
463.083
1997
1.238.196
2007
1.598.971
1968
10.024
1978
79.091

1988
524.528
1998
1.254386


1969
11.285
1979
94.800

1989
591.618
1999
1.282.061



      Ogni commento è superfluo. Il furore dissipativo comunque si concentra tra il 1983 e il 1994 in cui il rapporto debito/pil raggiunge il 120%.


    Questo grafico indica l’andamento del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo (PIL)
negli anni che vanno dal 1960 al 2009. Si nota la prima impennata successiva all’”autunno caldo”
del 1969, la stabilizzazione, attorno al 60%, degli anni tra il ’75 e ’82 per la crisi economica conseguente agli shok petroliferi, e infine l’autentica esplosione ’83-’94, con il raddoppio del rapporto debito/pil dovuto alle politiche di welfare per venire incontro alle richieste dei lavoratori, e l’applicazione delle ricette keynesiane di deficit spending , per sostenere la crescita.


Non voglio spingermi oltre in inutili tecnicismi. L’argomento potrebbe essere il soggetto di un altro intervento.  Voglio solo ribadire il concetto
1)     – il disastro dell’amministrazione della cosa pubblica è sotto gli occhi di tutti, anche se, tutto sommato, non se ne parla molto (avete notato?, molti hanno la coda di paglia !)
2)      - all’assalto alla diligenza hanno partecipato tutti, dal governo e dall’opposizione, dai sindacati operai alle associazioni padronali, al centro e alla periferia.
3)     – l’indebitamento dello stato è servito in minima parte alla realizzazione di opere pubbliche e al finanziamento dello sviluppo (secondo le ricette Keynesiane), andando invece a mantenere rendite parassitarie, apparati burocratici pletorici ed inefficienti e ultima, ma non ultima, una corruzione diffusa e devastante, condita di criminalità più o meno organizzata.
4)     – si è creata così una generazione di giovani senza un lavoro stabile e, quando sarà l’ora, senza una pensione decente, in un paese che non può investire in cultura, che non può investire in ricerca perché le generazioni politiche precedenti si sono mangiate il proprio e l’altrui tesoro di famiglia.
5)     – il tutto in regime di attuale costituzione vigente
6)     Ed è per questo che io auspico un sussulto morale da parte degli italiani, capace di portare ad un terzo risorgimento e ad una coraggiosa riscrittura  della nostra costituzione.

 D'altronde le cose da fare sono sotto gli occhi di tutti e riguardano:
   
-        la revisione del bicameralismo perfetto;
-        la riduzione del numero dei parlamentari;
-        la delegificazione  di alcune materie
-        la riforma dell’ordinamento della presidenza del consiglio
-        la riforma dei regolamenti parlamentari volta a rendere certi i tempi dell’approvazione delle leggi;
-        il controllo della spesa pubblica
-        la riduzione della pressione fiscale
-        il riequilibrio dei rapporti tra magistratura e politica.
-        E quant’altro si vuole aggiungere, nell’ambito di una discussione tra persone oneste che, autenticamente laiche e pragmatiche, vedano la realtà così com’è, senza avere la mente deformata da qualche impresentabile ideologia.

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