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sabato 29 marzo 2014

ENAC regola l'uso del pilotaggio remoto

UAV: regolamento da parte di ENAC

Il 22 gennaio 2014 è stato ufficialmente presentato il regolamento italiano sui sistemi aerei pilotati a distanza (CPT). Dopo l'introduzione del CPT nel "concetto di aeromobili" (cfr. art.743 del Codice della Navigazione italiano), l'Ente Nazionale per l'Aviazione Civile (ENAC aka) alla fine ha elaborato un nuovo regolamento concernente tali sistemi aeronautici che sono sempre più popolando i nostri cieli.
Ai sensi del regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio (CE) n 216/2008, il CPT di massa massima al decollo non superiore a 150 kg e quelle che sono progettati o modificati per scopi di ricerca, sperimentazione o scientifici sono ora messo sotto la responsabilità del ENAC.
Questo regolamento era necessario per irreggimentare le ops di questi sistemi aerei, oggi sempre più utilizzati da altri che gli attori militari per attività polivalenti.
Il documento cuciture di essere abbastanza esauriente, ma non comprende (citazione):
  1. Stato RPAS, di cui agli articoli 744, 746 e 748 del Codice della Navigazione;
  2. Sistemi con caratteristiche progettuali tale che il pilota non ha la possibilità di intervenire nel controllo del volo;
  3. operazioni CPT interni;
  4. d.      palloni utilizzati per le osservazioni scientifiche o palloni frenati.
La carta si rompe le regole sia per i sistemi aerei pilotati in remoto con massa massima al decollo "inferiore a 25 kg" e quelli con una massa "uguale o superiore a 25 kg" (ma meno di 150 kg).
Ops CPT, comprendono attività VLOS o BLOS in operazioni specializzate ed eventi sperimentali, gli operatori sono autorizzati ad operare, previa apposita autorizzazione rilasciata dall'ENAC o con una dichiarazione di operatore di ENAC in conformità con le disposizioni specifiche del regolamento.
Oltre a questo, molto interessante è la sezione riguardante aeromodelli che possono essere utilizzati solo per scopi ricreativi e sportivi. Il regolamento stabilisce norme specifiche per regolamentare il loro utilizzo al fine di garantire la sicurezza di persone e proprietà sul terreno.
In somma, essendo un documento abbastanza completo e chiaro, una lettura attenta si suggerisce a tutti gli operatori (la versione inglese è disponibile all'indirizzohttp://www.enac.gov.it/Servizio/Info_in_English/Courtesy_translations/info-1220929004.html ).
Fonte: A.Mucedola per AOS Fonte Ii Atlantic Organization Security Brief 2014 March 

venerdì 28 marzo 2014

Orizzonti Cina. Numero di febbraio 2014


Bentornati alla newsletter OrizzonteCina (ISSN 2280-8035). Il numero di febbraio  tratta di:
• Lo spettro del collasso ambientale

• Prospettive economiche per il 2014

• Classe media alla ribalta

• Pechino e la comunità uigura del Pakistan

• La marcia verso ovest attraverso la Via della seta

• Il “sogno cinese” e i rapporti con l’Italia. Intervista all’ambasciatore cinese in Italia, Li Ruiyu

Buona lettura!

mercoledì 26 marzo 2014

Difesa: nuove prospettive e nuovi orizzonti.

Dopo il Consiglio Supremo di Difesa
Produrre un Libro Bianco, istruzioni per gli operatori
Stefano Silvestri
24/03/2014
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Il Consiglio Supremo di Difesa ha deciso di varare un nuovo “Libro Bianco” , che delinei un profilo completo e coerente della politica di difesa italiana (ed europea) e serva da falsariga per la riforma delle Forze Armate. È una decisione importante, che però non sarà facile attuare in modo serio.

In Italia abbiamo avuto vari tentativi di produrre un libro bianco della difesa, in genere tutti miseramente falliti, con la sola parziale eccezione di quello a suo tempo (1985-86) prodotto quando Giovanni Spadolini si trovò alla testa della Difesa. Quel (parziale) successo fu dovuto ad una felice combinazione di cooperazione tra il Gabinetto del ministro e un piccolo gruppo di esperti civili, che riuscirono a “cortocircuitare”, in parte, la macchina amministrativa.

Di grande aiuto fu il fatto che quel ministro della Difesa non riteneva di dover rendere conto a nessuno, salvo forse il Presidente della Repubblica, di quello che faceva, per cui il lavoro proseguì indisturbato. Da ultimo fu un successo parziale perché gli estensori dovettero comunque tener conto della natura delle Forze Armate italiane e soprattutto della struttura della Nato, fortemente mutuata dal modello americano, che in sostanza prevedeva che ogni Forza Armata, di terra, di mare o dell’aria, combattesse la sua eventuale guerra in modo autonomo, per cui ogni tentativo di integrare e unificare i comandi e le operazioni era fortemente limitato in partenza.

Ciò non toglie che il seme fu comunque gettato (con la individuazione di cinque “missioni interforze”, tra le quali due lo erano realmente, e si rivelarono all’atto pratico le più rilevanti sul piano operativo) e riuscì a dare i suoi frutti dalla fine degli anni Novanta, con la creazione di un vero Capo di Stato Maggiore della Difesa, un vero Comando Operativo Interforze, eccetera.

LB nella realtà politica interna e esterna
Un Libro Bianco quindi può essere utile ed importante, ma deve essere pensato per innovare e provocare, non per servire come mediocre strumento propagandistico o per esprimere il consenso medio maturato nell’amministrazione. Se fa solo queste cose è semplicemente uno spreco di tempo e di carta.

Allo stesso tempo un Libro Bianco deve esprimere la volontà politica del Governo, poiché le sue formulazioni dovranno essere accettate e difese in sede politica, mentre le sue scelte dovranno diventare la falsariga su cui impostare la futura pianificazione della spesa e delle riforme necessarie.

Ciò significa quindi che il Libro Bianco non può ignorare il quadro politico e le posizioni dei vari gruppi. Tuttavia non può essere semplicemente il prodotto di un compromesso tra politici: deve avere una più alta coerenza analitica e propositiva.

Se il Governo non accetterà le proposte degli estensori, dovrà essere in grado di spiegare perché e trovare soluzioni alternative ugualmente soddisfacenti. In altre parole un Libro Bianco di peso non ignora la realtà politica, ma la mette alla prova. In questa direzione, ad esempio è andata la Francia, i cui due ultimi Libri Bianchi sono stati scritti da Commissioni create ad hoc, direttamente responsabili nei confronti del vertice politico.

Un Libro Bianco deve cominciare con il delineare le caratteristiche del quadro strategico (non solo le “minacce” o i “rischi” cui è esposto il paese, ma anche il quadro delle alleanze, degli impegni presi, delle possibili sinergie, eccetera) e deve poi stabilire quali siano le priorità cui si deve fare fronte.

È infatti del tutto improbabile che un paese come l’Italia possa pretendere di bloccare ogni minaccia e ogni rischio: deve quindi decidere cosa è veramente importante e cosa lo è meno, e proporre le soluzioni coerenti con tale scelta.

Malgrado il diverso peso specifico della difesa francese (che include anche la dimensione nucleare nazionale indipendente) rispetto a quella italiana, può essere utile ricordare come anche i Libri Bianchi prodotti in Francia abbiano sottolineato la centralità e l’importanza dell’integrazione europea, oltre che dell’Alleanza Atlantica.

Qualsivoglia politica e strategia italiana devono essere concepite per inserirsi pienamente in tale quadro: l’unico che può anche garantirne il successo in caso di gravi crisi. Si tratta quindi di stabilire quale contributo potremo dare e cosa dobbiamo chiedere in cambio. Se lo scambio sarà equo, esso sorreggerà anche l’autorevolezza italiana nelle sedi decisionali comuni.

LB come strumento di pianificazione
Un Libro Bianco è anche uno strumento di pianificazione amministrativa, finanziaria e di bilancio. Esso deve quindi calcolare le risorse necessarie, valutare le risorse disponibili e proporre la strada migliore per cercare di conciliare al meglio risorse quasi certamente insufficienti con i bisogni da soddisfare per poter attuare la strategia prevista.

E naturalmente questo non può essere stabilito sulla base del bilancio di un anno, o neanche di tre, ma quanto meno di un decennio (anche se poi le programmazioni annuali e triennali dovranno modulare tale quadro adattandolo al mutare delle circostanze): una volta approvato, ove il Governo o il Parlamento volessero mutare significativamente una tale pianificazione dovrebbero spiegare come e perché, assumendosi la diretta responsabilità delle scelte che ne conseguiranno. Eventualmente produrre un nuovo Libro Bianco.

Il gruppo di lavoro dovrebbe quindi essere direttamente collegato con il vertice politico, ed avere un rapporto quanto più possibile libero di costrizioni con l’amministrazione. Esso sarà tenuto alla riservatezza ed eventualmente al segreto, ma deve poter ottenere tutte le informazioni necessarie per svolgere il suo lavoro.

Poiché ciò sarà tutt’altro che evidente, il gruppo dovrà avere la collaborazione diretta e continuativa di rappresentanti personali dei vari Capi di Stato Maggiore, del Gabinetto del ministro e del Segretario generale, ma sarebbe probabilmente molto utile mantenere anche un rapporto stretto con la Presidenza della Repubblica, in particolare con il Consiglio Supremo della Difesa.

Cooperazione tra dicasteri
Infine, il comunicato del Consiglio richiede un Libro Bianco circoscritto alla Difesa, e questo potrebbe rivelarsi un problema, poiché ormai la distinzione tra sicurezza e difesa si è fatta sempre più evanescente sul terreno, ma resta forte sul piano amministrativo e delle competenze governative.

Il Libro Bianco francese coniuga ormai insieme i due termini. L’Unione europea, pur puntando ad una Politica di Difesa europea, di fatto si è soprattutto esercitata nell’area della sicurezza. La natura duale di buona parte delle tecnologie usate per la difesa e per la sicurezza, rende più forte tale commistione.

Bisognerebbe quindi valutare la situazione anche dal punto di vista italiano. Ciò naturalmente potrebbe complicare la vita al gruppo di lavoro, costringendolo a cercare la cooperazione di altri dicasteri, come soprattutto quello dell’Interno e quelli da cui dipendono altri Corpi armati dello Stato (anche se in molti casi potrebbe essere sufficiente una collaborazione diretta con tali Corpi). Ciò potrebbe richiedere l’attenzione della Presidenza del Consiglio, oltre che di quella della Repubblica.

Nel complesso però spetta in primo luogo al ministro della Difesa fissare i paletti, stabilire il gruppo di lavoro e assicurare il rispetto delle regole che possono consentire l’elaborazione di un prodotto realmente utile ed innovativo.

Egli dovrà certo consultarsi con la Presidenza della Repubblica, con quella del Consiglio e con il suo collega degli Esteri, così come indicato dal Comunicato del Consiglio Supremo di Difesa, ma il Libro Bianco riguarda in primo luogo la sua sfera di competenza e le sue responsabilità. È una sua creatura, e come tale ha tutto l’interesse a far sì che esso sia un successo.

Stefano Silvestri è direttore di Affarinternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
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lunedì 17 marzo 2014

Un altro tassello per la ripresa

Diplomazia culturale
“Marchio Italia” da rinnovare
Iacopo Viciani
10/03/2014
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L’italiano è la quarta lingua studiata al mondo, l’ottava più usata su Facebook, con un bacino potenziale d’interessati di 250milioni di persone. Molti sono gli italofoni influenti nei paesi, e la diaspora italiana, con 80-100 milioni di italo discendenti, è la più estesa dopo quella cinese e rappresenta un gruppo economico influente in molti paesi.

L’Italia ha un capitale di reputazione legato alla cultura, alla lingua e al turismo non intaccato dalla crisi, ma sottoutilizzato perché frammentato. La semplice concentrazione può generare immediati ritorni turistici, d’investimenti, di export e d’influenza.

Promozione culturale
Il “marchio Italia” ha già una sua identificabilità all’estero, vi concorrono a formarlo i vari elementi che rappresentano il sistema Italia all’estero: studenti, nuova e vecchia emigrazione, beni materiali e immateriali, prodotti creativi, patrimonio culturale, audiovisivo, letterario e linguistico.

Il marchio non è stato ancora assunto, valorizzato, monitorato e gestito a livello istituzionale. Il rischio è che la reputazione e l’immagine dell’Italia siano etero-determinate negativamente e che il Paese subisca un’immagine troppo stereotipata, eccessivamente ancorata al passato.

Solo la rete di promozione culturale e linguistica dell’Italia è presente in più di 250 città al mondo, ma la sua presenza potrebbe essere molto più estesa e il suo impatto maggiore se fosse gestita in maniera unitaria. Vi sono duplicazioni e obiettivi differenti, anche per la presenza di vari testi legislativi che disciplinano separatamente la promozione della lingua, la scuola e la cultura italiana all’estero.

La rete di promozione nel “marchio Italia” è composta dai circa 80 istituti italiani di cultura, dalle 140 istituzioni scolastiche all’estero, dalle 146 associazioni che insegnano la lingua italiana, dai 322 lettori di lingua italiana nelle università straniere, i 20 addetti scientifici per la promozione della ricerca italiana e i 28 uffici dell’Ente nazionale del turismo.

A questi si aggiungo i comitati Dante Alighieri, associazioni private, che possono essere inserite in una strategia di sistema, così come le azioni di promozione territoriale degli enti locali e i comitati degli italiani all’estero.

Rete limitata
La rete è troppo concentrata in Europa, risultato della sua stratificazione storica nata nei luoghi d’aggregazione dell’emigrazione degli inizi del ‘900 e del dopo guerra. È ben posizionata in America Latina e nel nord Africa, ma resta limitata nel Golfo Persico e in Asia. Le recente proposta della chiusura di otto istituti italiani di cultura hanno alleggerito la presenza in Europa e mantenuto la copertura su 60 paesi.

Le competenze sono in capo al Ministero degli affari esteri (Mae), inclusa la gestione del personale degli insegnanti. Manca un coordinamento strutturato con le amministrazioni del Ministero dei beni e delle attività culturali e turismo (Mibact), del Ministero dell’università e della ricerca (Miur), e con altri soggetti pubblici attivi nella promozione linguistica e culturale.

La situazione è peggiorata a seguito dell’abolizione della consulta nazionale per la promozione della cultura nel 2011 che era un organismo che con il tempo si era sclerotizzato. Oggi manca un luogo di discussione condiviso per l’elaborazione di una strategia pluriennale di promozione culturale, intesa in senso ampio.

Francia, Spagna, Regno Unito e Germania dedicano maggiori risorse alla promozione linguistica e culturale e hanno una struttura più autonoma dalla rete diplomatica, affidata a fondazioni o agenzie. In questi paesi la struttura centrale elabora gli spunti strategici e fornisce sostegno tecnico alle sedi nei paesi.

Nella scorsa legislatura alcuni parlamentari hanno presentato proposte di modifica della sola legge relativa agli istituti italiani di cultura, puntando ad aumentarne l’autonomia e a creare una sorta di agenzia autonoma, senza portare a sistema gli altri aspetti legati alla promozione della lingua, disciplinati da altri testi normativi.

Proposta
È possibile utilizzare la rete per aumentare un flusso turistico-culturale-linguistico e di domanda d’Italia, permettendo a chiunque di fare esperienza d’Italia a 360°, evitando la separazione troppo netta tra lingua, cultura, scienza, beni di consumo, regioni e turismo.

È importante monitorare e contribuire a formare la reputazione dell’Italia nei differenti paesi, utilizzando la rete e la nuova emigrazione, intervenendo in casi di criticità dannose politicamente ed economicamente. Questa più ampia rete potrebbe lavorare in sinergia con il nuovo Istituto nazionale per il commercio estero, ma non si configurerebbe per il servizio alle imprese.

La proposta è di nominare una figura politica con un forte mandato che si avvalga del dipartimento del turismo del Mibact, della direzione promozione del sistema paese e della Direzione italiani all’estero relativamente all’emigrazione italiana, entrambe del Ministero degli affari esteri.

Il primo obiettivo è quello di riattivare un luogo di programmazione strategica complessiva che coinvolga esperti del turismo, cultura, istruzione, enti locali, ricerca scientifica.

Contemporaneamente, si miri ad attivare programmi di sensibilizzazione di studenti e ricercatori in partenza per l’estero sul loro ruolo di “Ambasciatori dell’Italia nel mondo”, in collaborazione con scuole, università e organizzazioni di scambio studentesco, prevedendo che al programma partecipino anche esponenti delle comunità straniere che ritornano nei paesi di origine e coinvolgendo le élites straniere “italofone” che hanno studiato e conoscono l’italiano.

Importante è anche realizzare la prima rilevazione mondiale sulla reputazione dell’Italia nel mondo e convocare un Forum periodico sull’immagine e reputazione dell’Italia nel mondo a cui partecipino anche operatori economici, sportivi, della solidarietà ed enti territoriali attivi nel mondo.

Infine, l’obiettivo che richiede il maggiore investimento politico è riformare il sistema di governance complessivo dell’Ente nazionale per il turismo, Istituti Italiani di Cultura, scuole d’italiano, e associazioni per la promozione dell’Italia all’estero e comitati italiani all’estero in un'unica agenzia di diritto privato o in una Fondazione pubblico privata, vigilata dalla Presidenza del consiglio.

Le articolazione nelle città del mondo dell’agenzia sarebbero dei “Palazzi Italia”, luoghi dove fare incontro e esperienza d’Italia, intesa in senso ampio dalla cultura, all’economia, enogastronomia, conoscenza dei territori, scienza e design.

Iacopo Viciani è senior policy officer presso Actionaid.
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sabato 15 marzo 2014

Ucraina: la presa di posizione dell'Europa. Conseguenze per l'Italia?


ucraina 142

L’Unione Europea (UE) e il G7 hanno dichiarato che l’eventuale annessione della Crimea alla Federazione Russa costituirebbe una violazione al diritto internazionale e per questa ragione, il referendum di domenica 16 marzo è da considerarsi illegittimo e illegale qualsiasi sia il suo risultato. Negli ultimi giorni UE e Stati Uniti hanno preso in considerazione la possibilità di applicare sanzioni economiche contro la Russia per tentare di dissuadere il Presidente Putin dal proseguire le operazioni in Crimea e riconoscere l’esito del referendum.
Il Congresso americano, a seguito dell’incontro del 12 marzo tra il Presidente Barack Obama e il Primo Ministro ucraino Arseni Iatseniuk, ha approvato misure contro funzionari e banche russe coinvolti nella questione crimeana, mentre l’UE si è dichiarata pronta ad inasprire le sanzioni contro il Cremlino, aggiungendo alle restrizioni sui visti e al congelamento degli assetti finanziari m! isure di interdizione commerciale e finanziaria.
Le sanzioni, a cui la Russia si è dichiarata pronta a rispondere, sono state accompagnate dalla radicalizzazione dello scontro diplomatico internazionale e dal preoccupante e provocatorio susseguirsi di esercitazioni militari russe ai confini ucraini. Inoltre, le aree orientali ucraine, in particolare Donetsk, sono state oggetto di scontri tra manifestanti filo-russi e filo-ucraini, terminati con 4 morti e diversi feriti. Nonostante la crescente tensione delle ultime ore, la Comunità Internazionale continua a cercare una soluzione pacifica alla crisi, rifulgendo qualsiasi possibilità di intervento armato.

Fonte CESI

venerdì 7 marzo 2014

Comunicazione

COLORO CHE INTENDONO USUFRUIRE
PER LE RICERCHE DI QUESTO BLOG SONO PREGATI DI SCRIVERE AL SEGUENTE INDIRIZZO:
 

giovedì 6 marzo 2014

Italia: il ruolo di Londra nella finanza islamica e le opportunità per il Bel Paese

Paolo Gaspare Conforti Di Lorenzo Geoeconomia 0 commentI
Il ruolo di Londra nella finanza islamica e le opportunità per l’Italia
Un quarto della popolazione mondiale è musulmana – 2 miliardi circa di individui – ma solo l’1% delle attività finanziarie mondiali è conforme alla Sharia’a. La finanza islamica, a livello globale, cresce del 50% più veloce della finanza tradizionale, come sottolinea il premier inglese David Cameron, ma anche in Italia ci sono i primi indizi.

Si è tenuta a Londra, dal 29 al 31 ottobre 2013, la nona edizione del “World Islamic Economic Forum”, la più importante conferenza annuale a livello globale sulla finanza islamica, per la prima volta in una piazza finanziaria al di fuori del “mondo mussulmano”.
Fortemente voluto dal premier David Cameron, questo evento ha visto la partecipazione di 1.800 persone provenienti da 115 Paesi e un certo numero di leaders mondiali, tra cui il re Abdullah II di Giordania e il sultano del Brunei Hassanal Bolkiah.
Lo stesso primo ministro britannico, intervenendo al forum, ha espresso il desiderio che Londra possa diventare, al pari di Dubai e Kuala Lumpur, una delle più grandi piazze finanziarie islamiche di tutto il mondo, e ha annunciato, nella stessa occasione, che la Gran Bretagna sarà la prima nazione occidentale a emettere sukuk sovrani (erroneamente perché nel 2004 in Germania è stato emesso il primo Sukukeuropeo dal valore di 100 milioni di euro, su iniziativa del Land della Sassonia-Anhalt) ossia “bond islamici” conformi alla Sharia’a, la legge religiosa islamica, che non permette il carico o il pagamento di interessi; ma questi strumenti1, offrono agli investitori profitti dalle attività.
Inoltre, contestualmente, la Borsa di Londra lancerà un indice per identificare le opportunità di investimento conforme ai principi islamici, che mirerà a capitalizzare la forte crescita del settore. Il previsto “Islamic Market Index”, quindi, identificherà le aziende che soddisfano i principi di investimento tradizionali islamici e aiuterà Londra a consolidare la sua posizione e a diventare il più grande centro per la finanza islamica fuori del mondo islamico. Inoltre, la Gran Bretagna ha già rimosso la doppia imposizione sui mutui islamici e ha esteso sgravi fiscali sui mutui a persone fisiche e giuridiche. Già il 2011 è stato un anno prevalentemente orientato alla ricapitalizzazione e al riordinamento strategico del settore finanziario islamico.
“Quando la finanza islamica è in crescita al 50 % più veloce del settore bancario tradizionale e quando gli investimenti islamici globali sono destinati a crescere a 1,3 trilioni di sterline (1500 mld. €) entro il 20142dobbiamo puntare ad assicurarci che, una grande proporzione di quel nuovo investimento, sarà fatto qui in Gran Bretagna”, ha detto David Cameron al forum. Anche il cancelliere dello scacchiere britannico, George Osbourne, ha scritto, in un editoriale del “Financial Times” pubblicato lunedì 28 ottobre, che è giunto il momento di “cementare la reputazione della Gran Bretagna” nel mondo islamico3.
Un quarto della popolazione mondiale è musulmana – 2 miliardi circa di individui – ma solo l’1% delle attività finanziarie mondiali, sono conformi alla Sharia’a. In tutto il Medio Oriente e Nord Africa, meno del 20% degli adulti hanno un deposito formale del credito.
La finanza islamica si basa sul pilastro concettuale coranico che il denaro non genera da sé altro denaro, esso non ha alcun valore intrinseco e deve essere utilizzato solo come una misura della pena, precludendo il coinvolgimento di investimenti speculativi (principio di Maisir) o l’adozione e la ricezione di interesse (principio di Ribā). Pertanto, gli investimenti Shari’a compliant (conformi alla Shari’a), sono invece strutturati sullo scambio della proprietà dei beni o di servizi tangibili.
L’emissione del sukuk “britannico” nel 2014 che, come preannunciato dal primo ministro, avrà valore di 200 milioni di sterline (circa 236 mil. €), è sicuramente considerata una piccola emissione ed è probabilmente da interpretarsi come una mossa politica, segnalando agli investitori che la Gran Bretagna vuole un pezzo del mercato finanziario islamico, dato che, negli ultimi 5 anni, la Borsa di Londra ha ospitato annunci di sukuk dal valore di oltre 34 miliardi di dollari (circa 25 mld. €), come riporta un comunicato dell’ufficio di gabinetto del governo britannico.
Circa il 60% dei sukuk al mondo è emesso dalla Malesia, secondo il Malaysia International Islamic Financial Centre. La legge coranica proibisce il prestito a interesse (Ribā), oltre all’investimento in bevande alcoliche, tabacco, carni di maiale, pornografia e gioco d’azzardo, ragione per cui, a differenza dei bond tradizionali, i sukuk devono corrispondere a un progetto ben determinato, generalmente di natura infrastrutturale o immobiliare, e rappresentano una quota dei profitti; quindi i sukuk sarebbero più propriamente titoli, denominati in materia finanziaria tradizionale asset-backed, ossia obbligazioni la cui emissione ha come fine la realizzazione di attività reali sottostanti.
Tuttavia, Londra è già il centro trainante della finanza islamica con più di venti istituti di credito cui sono state concesse le “Islamic windows” (uffici e sportelli ad hoc)4 ossia la possibilità di creare conti correnti speciali che utilizzano la compartecipazione agli utili al posto della garanzia sul valore nominale del deposito attraverso i tassi di interesse, vietati dalla Shari’a.
La stretta del credito, in questi ultimi anni, ha giocato a favore della finanza islamica, resa sempre più attraente dai suoi principi e dalle sue regole, ancorate a un’etica in virtù di rigorosi precetti morali, che escludono quei fenomeni speculativi che sono stati in parte causa della crisi economica mondiale. In Europa non solo l’Inghilterra, anche Francia e Germania hanno cominciato ad aprirsi, recentemente, alla finanza islamica. In particolare in Francia (dove vivono 6 milioni di musulmani, con un potenziale di mercato retail di circa 1,5 milioni di clienti), a partire da giugno 2011 la Chaabi bank ha cominciato a offrire conti deposito per clienti, arrivando a 500 nuovi depositi registrati ogni mese e a un tasso di acquisizione in continua crescita.
Il predetto divario, tra finanza tradizionale e finanza islamica, rappresenta una grande opportunità economica per il Regno Unito, ma anche per l’Italia. Per il nostro Paese dovrebbe risultare un obiettivo da raggiungere quello dell’integrazione economica islamica, in considerazione degli storici rapporti con i popoli arabi che fin dall’antichità sono stati uniti da un sottile filo rosso che arriva sino ai nostri giorni, sussumibile dall’interesse che gli investitori internazionali, provenienti dalle aree a sud del bacino del Mediterraneo, mostrano verso il Belpaese.
La popolazione islamica residente in Italia costituisce il 24,4% della presenza straniera e l‘1,4% della popolazione italiana, pertanto non dovrebbe accadere che un musulmano in Italia, a differenza degli altri paesi, non debba sentirsi in grado di avviare un’impresa perché non può ottenere un prestito di start-upsemplicemente a causa della sua fede (o l’accensione di un comune mutuo per l’acquisto di una casa). In uno Stato di diritto, ciò non dovrebbe accadere finanche per responsabilità sociale pubblica e per giustizia sociale.
Questo segmento risulta agli albori, anche se si stanno moltiplicando i segnali di attenzione e interesse da parte di operatori del settore finanziario per favorire forme di integrazione economica. Attualmente, per l’investitore italiano è disponibile un solo fondo “Shari’a compliant” (l’Az multi asset global sukuk), lanciato recentemente sul mercato italiano da Azimut Investments, che investe in titoli obbligazionarisukuk. Inoltre, l’AIAF, sigla italiana degli analisti finanziari, recentemente, ha messo a punto un indice islamico della Borsa di Milano “Potremmo proprio chiamarlo Ftse islamic italian index”, afferma Enrico Giustiniani, analista di Banca Finnat e responsabile del progetto per conto dell’associazione, “si tratta di un paniere di società quotate che rispondono ai requisiti richiesti”. Insomma, un basket, per ora solo virtuale ma che ambisce ad avere un riscontro pratico5.
Lo stesso Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, nell’aprile 2013, in occasione del quarto forum della finanza islamica, tenutosi a Roma, diceva: “L’opportunità di attrarre capitali stranieri e l’intensità di legami commerciali e finanziari con la sponda sud del Mediterraneo rende sempre più importante, per il nostro paese e il suo sistema finanziario, essere preparato alla conoscenza e agli strumenti operativi per interagire con quei sistemi che obbediscono ai principi della finanza islamica”6. Esistono, nondimeno, tre fattori che limitano lo sviluppo di questo segmento oggi in Italia: 1. la struttura dell’Eurosistema che si basa su strumenti finanziari fondati sul tasso di interesse; 2. l’obbligo da parte delle banche europee di garantire uno schema di assicurazione dei depositi (non permesso dalla giurisprudenza islamica); 3. la responsabilità unica del consiglio di amministrazione della banca, in contrasto con lo “Shari’a board” che ha il compito di certificare che i prodotti finanziari siano conformi alla Shari’a
Nel mondo si muovono fondi sovrani7 o fondi pensione, società di gestione del risparmio o finanziarie che fanno capo a ricchi emiri, proprietari di giacimenti petroliferi, che guardano costantemente l’occidente per cercare buone occasioni di investimento.
L’Italia non dovrebbe rifuggire da investimenti esteri, tirando su “ponti levatoi” e in modo particolare verso il mondo mussulmano, per l’enorme liquidità di denaro posseduta. La società italiana, ancora oggi, osservando gli investitori stranieri, che investono nelle nostre imprese, finanziando la nostra infrastruttura e l’industria del paese, riflette sulla seguente domanda “Non dovremmo fare qualcosa per fermarli?”. La risposta è evidentemente “No”, poiché si correrebbe il rischio di restare indietro e non si può perdere altro tempo, per ritrovare quel ciclo, in cui, noi italiani, saremo gli stessi investitori indigeni della cara Italia, oggi ferma e priva di forze sullo scacchiere economico globale.

Paolo Gaspare Conforti Di Lorenzo è un professionista nel settore legale presso lo Studio Legale Delfino e Associati Willkie Farr & Gallagher LLP, per il partner Fabrizio Petrucci, nelle pratiche di Infrastructure and Energy, International Contracts, Islamic Finance, Merger and Acquisitions, Private Equity and Sovereign Wealth Fund.

(1) Non sempre viene accettata la denominazione di “bond islamici” o “obbligazioni islamiche” rifacendosi a motivazioni puramente linguistiche. Sukuk è il plurale di “sakk” che significa “strumento”.
(2) Per saperne di più: International Business Times - “Finanza islamica: previsti 1,8 trilioni US$ nel 2013 di beni bancari islamici a livello globale” – Paolo Gaspare Conforti Di Lorenzo - http://it.ibtimes.com/articles/44131/20130303/report-ernst-young-banca-islamica-sukuk-finanza-islamica-indonesia-egitto-iraq-libia-arabia-saudita.htm#ixzz2jwniJav0
(3) Financial Times - “London can lead the world as an Islamic finance hub” - George Osborne - http://www.ft.com/intl/cms/s/0/42766334-3fc2-11e3-a890-00144feabdc0.html#axzz2jlTYFtmG
(4) Inizialmente concentrata nei Paesi del Golfo Persico, la finanza islamica moderna si è poi diffusa dal 2000 anche a livello internazionale in paesi anche non musulmani (ad esempio negli Usa, nel Regno Unito e successivamente nel resto d’Europa). Molte banche d’investimento internazionali (i.e. HSBC, Citibank, BNP Paribas, ABN Amro, Société Generale, UBS, Pictet&Cie, Barclays) hanno aperto singole divisioni, sportelli islamici e filiali che operano conformemente alla Shari’a (islamic banking units), in risposta alla crescente domanda di prodotti finanziari islamici strutturati da parte dei consumatori.
(5) Per saperne di più: Il mondo - “Ecco le aziende italiane quotate che soddisfano i criteri della finanza islamica” - Fabio Sottocornola - http://www.ilmondo.it/finanza/2013-06-14/il-mondo-ecco-aziende-italiane-quotate-che-soddisfano-criteri-della-finanza-islamica_275360.shtml
(6) “IFSB FORUM – THE EUROPEAN CHALLENGE”, Opening address by Governor Ignazio Visco http://www.bancaditalia.it/interventi/integov/2013/visco-09-04-13.pdf
(7) Per saperne di più: International Business Times - “Fondi Sovrani, nuovi orizzonti geoeconomici internazionali” - Paolo Gaspare Conforti Di Lorenzo - http://it.ibtimes.com/articles/38511/20121118/swf-sovereign-wealth-fund.htm
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mercoledì 5 marzo 2014

Le eccellenze italiane: Eni e Finmeccanica

Eni e Finmeccanica sono due aziende italiane che rappresentano dei veri e propri punti di eccellenza a livello europeo e mondiale. La prima, nota soprattutto per le vicende che coinvolsero Enrico Mattei negli anni ’50 e ‘60, opera in particolare nel campo del petrolio e del gas naturale, attraverso attività di ricerca, commercio e sviluppo che coinvolgono all’incirca 90 paesi e 78.000 persone. Si tratta della prima società per capitalizzazione a Piazza Affari, con un rendimento pari a circa il 6% annuo. La sua importanza, però, va oltre le sole logiche del mercato, in quanto Eni ha da sempre dovuto confrontarsi su scala globale con concorrenti importanti, rappresentando spesso gli interessi italiani nello scacchiere geopolitico. Pensiamo ad esempio alla sfida delle cosiddette “sette sorelle” in ambito petrolifero o agli interessi in campo nel recente conflitto in Libia.
Per quanto riguarda Finmeccanica il discorso di fondo è simile. Siamo in presenza di uno dei pochi colossi dell’industria italiana a partecipazione pubblica, che opera nei settori dell’aerospazio, della difesa, della sicurezza, dell’energia e dei trasporti civili. Con il suo imponente complesso di partecipate e controllate (come Agusta Westland), si è affermata quale fiore all’occhiello dell’intelaiatura industriale del paese, potendo contare su circa 73.000 dipendenti e ricavi per decine di miliardi di euro. E’ un agente strategico fondamentale per la proiezione estera dell’Italia, difficilmente eguagliabile sul piano della ricerca, dello sviluppo e dell’alta tecnologia in ogni ambito di riferimento.
Entrambe le società però, sono note al grande pubblico anche per via delle inchieste della magistratura che hanno visto protagonisti diversi dirigenti, dagli anni passati fino ad oggi. Il caso più eclatante ha riguardato l’indagine per frode fiscale e false fatturazioni per operazioni inesistenti che coinvolse nel 2011 il presidente di Finmeccanica Pier Francesco Guarguaglini, che proprio per questo dovette lasciare l’incarico (con buonuscita di 5,5 milioni euro). Anche il suo successore, Giuseppe Orsi, si vide accusato di corruzione internazionale, concussione e peculato per presunte tangenti che sarebbero state pagate per la vendita di 12 elicotteri al governo indiano. Le indagini sono andate di pari passo con le richieste di privatizzazione di Finmeccanica ed Eni che, da qualche anno a questa parte, costituiscono il leit-motiv della classe politica italiana, in particolare dei cosiddetti “tecnici”. Le due aziende infatti, sono due spa all’interno delle quali il governo italiano (attraverso Ministero del Tesoro e Cassa depositi e prestiti) detiene la maggioranza e il potere decisionale. Anche l’attuale ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha manifestato con forza la stessa volontà, seguito a ruota dal premier Enrico Letta. Un progetto che, per i motivi elencati in apertura, appare poco vantaggioso e suicida dal punto di vista della sovranità nazionale, sebbene ovviamente non manchino nelle due aziende settori in difficoltà economica e preoccupazioni derivanti dall’attuale crisi.
Quindi, proprio per via dell’importanza politica e strategica di queste due società, è oggi più che mai fondamentale capirne le strategie e lo stato di salute, per provare ad ipotizzare un futuro che inevitabilmente coinvolgerà l’Italia intera.
Uno dei primi paesi che viene in mente a proposito di Eni è la Libia, dove a partire dalla guerra iniziata nel febbraio 2011 lo scenario si è fatto caldo e incerto. A seguito del crollo del regime guidato dal colonnello Gheddafi, con il quale l’azienda e il governo allora guidato da Silvio Berlusconi avevano firmato una serie di vantaggiosi accordi, alcuni paesi (Francia in primis) hanno tentato di scalzare la nostra posizione di interlocutori privilegiati del paese africano, da cui importiamo considerevoli quantità di gas e petrolio. D’altro canto, non sono una novità gli “attacchi” sul piano geopolitico che diverse potenze, come Inghilterra e Usa, hanno spesso scagliato verso l’Italia e ogni sua iniziativa economica indipendente, in particolare nel Mediterraneo. Un’attenta lettura delle posizioni emerse nel caso “wikileaks” è solo l’ultimo esempio. Di conseguenza, nello scenario libico l’Eni appare oggi notevolmente indebolito, secondo le parole dello stesso amministratore delegato Paolo Scaroni pronunciate il 28 novembre nel corso del ‘World Energy Outlook 2013′. Per di più, il perdurante caos istituzionale del paese aggrava la situazione: il 6 novembre la centrale di Mellitah (punto di partenza del cosiddetto greenstream che raggiunge la Sicilia), posseduta injoint venture con l’azienda locale Noc, ha subito un attacco da parte dei berberi, circostanza che sta frenando il flusso di esportazioni di gas in Italia. Intenzione dei rivoltosi sarebbe quella di bloccare ogni tipo di approvvigionamento verso l’Italia. Dalla Libia arriva circa il 15% dei nostri idrocarburi, e la serietà della situazione è quindi facilmente immaginabile.
Anche i sommovimenti politici in Nigeria, altro paese importante nelle strategie Eni, non fanno dormire sonni tranquilli alla società. In più, qui l’ente deve fronteggiare le pesanti accuse di gravi danni arrecati dai suoi stabilimenti a persone ed ambiente (formulate da ong come Amnesty International), e nuove  accuse di corruzione. Nonostante queste due situazioni spinose, l’Africa rimane centrale nei piani di sviluppo di Scaroni. L’azienda è presente in questo continente sin dagli anni ’60, ed è operativa in progetti di esplorazione e produzione in Angola, Ghana, Gabon,  Repubblica Democratica del Congo, Togo, Kenya e Liberia. Le ultime mosse hanno riguardato in modo particolare Congo e Mozambico. Nel primo caso l’Eni ha siglato un importante accordo con la compagnia di Stato congolese Société Nationale des Pétroles du Congo (SNPC). Con essa esplorerà congiuntamente il potenziale di idrocarburi del blocco Ngolo, che fa parte del bacino geologico della Cuvette ed e’ situato circa 350 chilometri a nord est dalla capitale Brazaville, su una superficie di oltre 16 mila chilometri quadrati. Le attività esplorative si svolgeranno lungo un periodo di 10 anni utilizzando le più sofisticate tecniche di prospezione, di telerilevamento e geofisiche. Il bacino della Cuvette, finora poco esplorato, rappresenta uno dei nuovi temi di frontiera dell’esplorazione in Africa. Accanto a questo progetto a lungo termine, spiccano le attività in Mozambico. La recente scoperta del più grande giacimento di gas della storia della compagnia in questo paese, ha portato una decisa intensificazione dell’impegno nella zona. L’obiettivo è quello di sfruttare al massimo le potenzialità del “prospetto esplorativo Agulha”, dove è stata fatta la scoperta, per trarre nuova linfa verso il rilancio della produzione.
Una parte di capitali necessari all’impresa deriva da una recente cessioni di Eni, quella della quota del 60% detenuta nella società Arctic Russia (che detiene 49% di Severenergia, titolare di quattro licenze di esplorazione e produzione di idrocarburi nella regione dello Yamal Nenets) a Yamal Development, società paritetica tra Novatek e GazpromNeft. Nonostante questo disimpegno, la Russia rimane uno dei partner principali dell’Eni, da cui l’Italia importa ingenti quantità di gas naturale. Il nodo principale è quello rappresentato dal completamento del gasdotto South Stream, attraverso il quale Putin vuole far arrivare il gas in Europa (e in Italia) “bypassando” l’inaffidabile Ucraina e attirandosi quindi le rimostranze americane. Eni è impegnata fortemente in questo progetto, la cui conclusione è prevista nel 2015 e da cui dipenderà una discreta parte del nostro futuro energetico e politico. Le collaborazioni con colossi russi qualiGazprom e Rosneft non finiscono qui. Tra le più importanti vi sono quelle relative alla costruzione del gasdotto nordeuropeo Nordstream e altre due nell’offshore russo del Mare di Barents (licenze di Fedynsky e Central Barents) e del Mar Nero (licenza di Western Chernomorsky), bacini promettenti in cui la compagnia sta avviando attività esplorative. Questi, come molti altri accordi economici, sono stati confermati anche dal presidente Letta, nella recente visita di Putin in Italia, per la soddisfazione di Scaroni.
L’Amministratore Delegato del gruppo continua allo stesso tempo a muoversi verso progetti importanti per diversificare le fonti di fornitura. All’ordine del giorno vi è la questione della costruzione della Tap (Trans Adriatic Pipeline),  che dovrebbe portare gas naturale dall’Azerbaijan all’Italia tramite Grecia e Albania. Questo progetto di Gasdotto Trans-Adriatico prevede la realizzazione di un nuovo metanodotto di importazione di gas naturale dalla regione del Mar Caspio all’Europa, lungo circa 870 km, con approdo sulla costa italiana,  nella provincia di Lecce. Numerose sono state le critiche da parte di partiti politici come Sel e comitati cittadini, riguardanti l’impatto ambientale dell’opera e le presunte attività di corruzione che coprirebbe. Comunque, a prima vista, il progetto appare politicamente importante nell’ottica di una necessaria diversificazione dei fornitori per il nostro paese. Un altro crocevia di estremo interesse è rappresentato dal Kazakistan, al centro del dibattito politico per il chiacchierato “caso – Ablyazov”, in cui è stato aperto nei mesi scorsi uno dei più vasti giacimenti petroliferi offshore denominato Kashagan. A causa di perdite di gas, però, la produzione è stata recentemente interrotta e il caso ancora attende una soluzione.
Ma la nuova frontiera per Eni è rappresentata dai paesi emergenti del sud – est asiatico, in cui si preannunciano significativi progetti. I primi tasselli fondamentali sono il Pakistan e il Golfo del Bengala, nel quale l’azienda andrà per la prima volta alla ricerca di idrocarburi, passando per Indonesia, Cina – che significa soprattutto shale gas – e ancora, Vietnam e Myanmar «due nuovi paesi su cui puntiamo molto», secondo le parole di Scaroni. Suo obiettivo è di fare dell’Asia «una seconda grossa gamba di Eni, oltre a quella africana, dove i consumi sono crescenti e dove possiamo essere veramente “matteiani”, cioè le popolazioni devono sentire il beneficio della nostra presenza».
Giova qui aprire una parentesi sul sopracitato shale gas, un tipo di gas metano derivato da argille e prodotto in giacimenti non convenzionali, situati tra i 2000 e i 4000 metri di profondità e raggiungibili attraverso tecniche di perforazioni orizzontali e fratturazioni idrauliche che provocherebbe gravi danni ambientali. Negli ultimi anni gli Usa hanno intensificato in maniera massiccia la produzione in questo campo, ricavandone notevoli guadagni. Anche per questo Eni rimane vigile sul tema, ed ha avviato importanti ricerche in Ucraina e Polonia.
Prima di chiudere questa panoramica su alcune delle principali attività di Eni, non possiamo non citare le attività in Sud America (in particolare in Venezuela) e in Iran, dove la competenza della compagnia italiana in materia di idrocarburi rimane fondamentale. Il 23 novembre scorso, alla presenza del ministro del Petrolio venezuelano Rafael Ramirez e dei vertici Eni, è stato inaugurato il primo oleodotto per l’evacuazione dell’olio dal campo Junin-5, situato nella Faja petrolifera dell’Orinoco, testimonianza di un impegno non secondario. Anche nella Repubblica Islamica la società italiana ha saputo svolgere un’opera diplomatica intelligente, che promette guadagni ora che è avvenuta una temporanea sospensione delle sanzioni.
Dal breve profilo tracciato possiamo quindi concludere descrivendo Eni come un’azienda solida che ha tentato di rispondere alle difficoltà dettate dalla crisi e dalle interferenze estere attraverso un’azione dinamica, soprattutto in Africa e nei nuovi mercati asiatici. Fattore importante da rilevare è senza dubbio quello di continuare a puntare sull’estrazione, al contrario di molte grandi compagnie che preferiscono mirare sull’investimento di tipo finanziario (ad esempio utili reinvestiti in titoli), le cui conseguenze negative sono sotto gli occhi di tutti.
Sono molte le ardue sfide che caratterizzano la strada di Finmeccanica verso il futuro. Oltre alle difficoltà giudiziarie citate in apertura, che ne hanno indebolito la credibilità, l’azienda deve fronteggiare il momento attuale di crisi internazionale e alcune incertezze di tipo finanziario. Per questo sta operando anzitutto una ristrutturazione interna al fine di togliersi di dosso una parte del debito che ormai pesa come un macigno. L’idea e’ dismettere il comparto civile (come trasporti, energia, motori) per concentrarsi nell’ambito militare e sicurezza che offre margini più elevati, e dove Finmeccanica è un attore di peso a  livello mondiale. Importante mossa in questo senso è stata la creazione di Selex ES, che ha riunito in un’unica entità le aziende europee dell’elettronica per la Difesa e Sicurezza del Gruppo, dando vita a «un leader globale nel campo delle tecnologie elettroniche e informatiche, con 17.900 dipendenti, ricavi superiori a 3,5 miliardi di euro, mercati domestici in Italia e Regno Unito ed una forte presenza a livello internazionale. Una Selex unificata che potenzierà la presenza di Finmeccanica sui mercati – domestici ed export – ottimizzando gli investimenti nel settore e valorizzando le complementarità tecnologiche», come si legge sul sito ufficiale. Nello stesso discorso rientrano le forti pressioni del nuovo Amministratore Delegato Alessandro Pansa, per spingere l’Unione Europea a favorire gli investimenti degli stati membri nel settore militare e nelle tecnologie ad esso connesse, come lo sviluppo dei droni.
Oltre al nostro paese, i mercati definiti “domestici”, dove l’azienda basa la sua presenza e la sua forza, rimangono Gran Bretagna, Usa (il più grande mercato aerospaziale e della Difesa, di cui si è parlato soprattutto per la vicenda degli F-35) e Polonia, in cui Finmeccanica si sta sviluppando rapidamente. L’attività internazionale del Gruppo è comunque incessante e dinamica. Una delle prime zone d’interesse è senza dubbio quella del Golfo Arabico, che «vale da sola il 20 – 25% del nostro business», come ha dichiarato Pansa in occasione del recente Dubai Air Show.  In quell’occasione è stata inaugurata la nuova sede del Gruppo nella capitale emiratina Abu Dhabi, segno di una cresciuta e crescente incisività sul mercato della penisola arabica, con esplicito potenziale di espansione sia nell’ambito dell’aviazione civile che in quello della difesa. «Il nostro é un peso che ha a che fare con la gamma più alta dell’offerta tecnologica, qui volano oltre 150 elicotteri della Agusta Westland, si stanno trattando gli Eurofighter Typhoon, la marina militare emiratina usa i nostri sistemi integrati», ha spiegato Pansa. La trattativa in questione riguarda una gara  fondamentale, quella negli Emirati, che intendono acquistare nuovi caccia in sostituzione dei Mirage 2000: l’Eurofighter è allo stadio finale della trattativa, ma deve fronteggiare la minaccia del Rafale, prodotto dalla francese Dassault, che ha già fornito i Mirage. Finmeccanica detiene il 21% del consorzio Eurofighter con Alenia e ha una quota intorno al 30% nell’avionica del velivolo attraverso Selex Es. Il valore della potenziale commessa di almeno 60 aerei è stimabile in circa 10 miliardi di euro per tutti i quattro paesi del consorzio. Un’altra gara di estremo rilievo si sta svolgendo in Kuwait, dove Alenia è capofila commerciale per il consorzio Eurofighter, per la fornitura di 25 aerei, in competizione sempre con Dassault e con Boeing con l’F-18. Infine, la società missilistica europea Mbda, di cui Finmeccanica ha il 25%, è impegnata in discussioni per forniture agli Emirati arabi e soprattutto in Qatar, dove i missili servirebbero ad armare 20 nuovi elicotteri. In Qatar Mbda verrebbe prescelta in caso di aggiudicazione della commessa al consorzio europeo Nh90, di cui fa parte AgustaWestland.
Subito dopo si può citare la Russia, con cui gli stretti rapporti, come per Eni, sono stati confermati dagli accordi presi nella recente visita di Putin in Italia. Spiccano in particolare la partnership di Alenia Aermacchi con Sukhoi nel programma Superjet 100, a quella di Agusta Westland con Russian Helicopters, oltre alle attivita’ di Selex Es nel Paese, che promettono di ampliarsi.
La nuova frontiera per Finmeccanica è rappresentata dai mercati emergenti, dove il Gruppo vuole insediarsi stabilmente a livello industriale e commerciale intessendo relazioni durature con i principali attori locali a livello pubblico e privato. Stiamo parlando di Australia, Cina, India, Malesia, Brasile e Turchia. In ognuno di questi paesi gli sforzi sono non indifferenti. Un ruolo chiave lo riveste il Brasile, paese che impegnato nella modernizzazione del proprio settore di difesa e sicurezza, e che quindi promette ingenti investimenti. Per questo, nonostante la rottura di un importante accordo siglato con l’azienda locale Embraer ad inizio anno, l’Agusta Westland continuerà ad operare attraverso una propria linea di assemblaggio, tentando a tutti i costi di non perdere questo fondamentale mercato. Anche in India le difficoltà sono notevoli, dettate soprattutto dalla nota sospensione della commessa per 12 elicotteri AW 101. Una vicenda oggetto di due procedimenti giudiziari internazionali legati alle precedenti gestioni, i cui contorni appaiono quelli di un ennesimo attacco agli interessi italiani. Ad oggi, dei 12 elicotteri, tre sono già stati consegnati e volano a pieno ritmo. I rimanenti nove, seppure eventuali nuovi compratori non mancano, potrebbero essere a disposizione del Ministero della Difesa indiano in breve tempo. Per ora la società, rispetto ai rumors della cancellazione dell’ordine, ha ripetuto di non avere ricevuto alcuna indicazione in tal senso dal ministero della Difesa e rimane in attesa, anche rispetto alla sua richiesta di istituire un arbitrato internazionale. La spinosa e ancora non risolta questione dei marò potrebbe giocare un ruolo in questo poco dignitoso “gioco delle parti”.
Per contro, buone notizie giungono dalle collaborazioni consolidate in Turchia, e dal Perù. Qui Alenia Aermacchi, società di Finmeccanica, è stata selezionata dal ministero della Difesa per la fornitura di 2 velivoli da trasporto tattico C-27J Spartan. Il valore del contratto, che sarà firmato non appena completate le procedure amministrative previste dalla normativa peruviana, è di circa 100 milioni di euro e comprende, oltre ai due velivoli, un consistente pacchetto di supporto logistico.
Da questa breve analisi emerge il profilo di un Gruppo che si è fortemente focalizzato su determinati settori (Aerospazio e Difesa rappresentano attualmente circa il 91% degli asset in portafoglio), in cui continua a esprimere indubbia eccellenza e qualità. Ricordiamo ad esempio che proprio recentemente il governo norvegese, noto per imporre alti standard di efficienza tecnologica e trasparenza contrattuale, ha individuato Finmeccanica quale possibile unico fornitore di elicotteri AW 101. Le partnership con altri attori importanti, soprattutto europei (si pensi alla franco tedesca Eads), rimane una costante nella strategia, che sembra portare discreti frutti. I problemi derivano da un’azione di espansione nei principali mercati internazionali frenata da inchieste giudiziarie e contingenze sfavorevoli, davanti alle quali Finmeccanica dovrà dimostrare di saper reagire al meglio.

Francesco Carlesi è laureato in Relazioni Internazionali (Università Roma Tre) con Master in Europrogettazione (Università Sapienza).