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mercoledì 23 dicembre 2015

Soldati Italiani all'estero: 750 in Iraq, 1100 in Libano, 830 in Afganistan più

Impegno contro il Califfato
L’Italia tra Iraq e Libia
Alessandro Marrone
21/12/2015
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Nel discutere su cosa può fare militarmente l’Italia per combattere il sedicente “stato islamico” , Isis, sarebbe utile ricordarsi di cosa già fa il Paese nei teatri di crisi mediorientali, e di come ogni intervento militare - in Iraq, Libia o Siria - debba essere inquadrato in una strategia politico-diplomatica e non ridursi a una mera accettazione di richieste alleate.

Le missioni italiane in Iraq, Libano e Afghanistan
Nel momento in cui la Francia ha chiesto agli alleati europei di contribuire maggiormente alla lotta contro il terrorismo fondamentalista e l’Isis, ha fatto notizia la decisione tedesca di inviare un contingente militare in Mali a sostegno delle operazioni francesi, stante la tradizionale ritrosia di Berlino a partecipare a missioni internazionali con un certo tasso di rischio.

Meno attenzione hanno suscitato le decisioni dell’Italia, prima e dopo gli attentati di Parigi, di confermare, ed in alcuni casi incrementare, una serie di impegni militari significativi, tanto per quantità e qualità dei contingenti dispiegati quanto per i rischi associati alla missione.

Partendo dall’Iraq, al centro dell’attenzione mediatica italiana per la diga di Mosul, attualmente operano circa 530 militari italiani nella missione Prima Parthica, contingente di cui a novembre è stato deciso l’aumento a 750 unità.

Sulla base delle risoluzioni Onu 170/2014 e 2178/2014 e della richiesta ufficiale del governo di Baghdad, la missione, inquadrata nella coalition of the willing a guida Usa addestra le forze di sicurezza irachene e curde, fornendo assistenza, soprattutto aerea, nel contrasto all’Isis.

Rimanendo nei teatri a tiro del “califfato”, dal 2007 l’Italia ha il comando della missione Unifil delle Nazioni Unite in Libano, forte di 11 mila truppe nella delicata posizione tra Israele, Hezbollah e quel che resta della Siria, schierando finora un contingente nazionale di circa 1.100 unità (contro i 62 militari tedeschi, 800 francesi e 600 spagnoli e zero britannici).

In Afghanistan, nell’ambito della missione Nato Resolute Support, l’Italia dispiega circa 830 unità come la Germania (la Gran Bretagna ne impiega 450 e la Francia zero) e continua ad assistere le forze di sicurezza afgane nel tenere testa a insorti e terroristi imbaldanziti dal ritiro del grosso delle truppe occidentali avvenuto nel 2014.

A questi tre impegni principali, si affiancano contributi italiani relativamente importanti in missioni internazionali di dimensioni più ridotte, dispiegate in altri teatri di crisi a rischio terrorismo fondamentalista, quali le missioni Ue di addestramento delle forze di sicurezza governative in Afghanistan, Mali e Somalia.

Il significativo contributo italiano fin qui descritto - sia in termini assoluti sia in proporzione ai principali Paesi europei, sia quanto a ruoli di comando e qualità degli assetti impiegati - ha mostrato grande continuità nonostante le sfide sul terreno e il costo in termini di risorse militari, economiche ed in alcuni casi di vite umane.

A conti fatti, in Libano sono stati dispiegati sotto bandiera Onu quasi novemila militari italiani in 8 anni, mentre in Afghanistan hanno servito nelle due missioni Nato oltre 45 mila connazionali in divisa nell’arco di 10 anni.

Come fare di più contro il “ Califfato”
È in questo contesto di sforzo significativo e costante di stabilizzazione anche con compiti di combattimento (senza contare le missioni ancora in corso nei Balcani o quelle di contrasto alla pirateria nel Golfo di Aden) che va misurato il “fare di più” da parte dell’Italia contro l’Isis.

Ma quella delle risorse già impegnate e realisticamente impegnabili, peraltro a fronte di ridotte spese per la difesa e dell’impiego di circa 4.800 militari nelle città italiane a sostegno delle già numerose forze di polizia, è solo una faccia della medaglia. L’altra faccia è quella della strategia al cui interno è utilizzato lo strumento militare che dovrebbe fissarne gli obiettivi politici e la cornice diplomatica affinché l’uso della forza abbia chance di successo.

Non occorre conoscere Clausewitz, secondo cui la guerra è la prosecuzione della politica con l’aggiunta di altri mezzi, per comprendere che senza un accordo tra le potenze regionali e le fazioni locali loro clientes, mediato e garantito dall’Occidente, il mero bombardamento aereo di obiettivi Isis, a Raqqa ieri o eventualmente a Sirte domani, è militarmente poco utile e politicamente molto dannoso.

Ciò non vuol dire per l’Italia tirarsi indietro quando la solidarietà europea viene invocata dopo gli attacchi di Parigi, ma significa piuttosto collocare la riflessione e la pianificazione riguardo un nuovo o maggiore impegno militare all’estero in un adeguato contesto politico-diplomatico, in modo da servire davvero la sicurezza internazionale e gli interessi nazionali.

Sicurezza internazionale e interessi italiani
Sicurezza internazionale e interessi nazionali sono due obiettivi che in larga parte coincidono, in quanto l’Italia trae beneficio diretto o indiretto da un quadro globale più sicuro e stabile, ma che non si sovrappongono completamente.

Ad esempio, è evidente che Libia e Mali sono due vulnus della sicurezza internazionale rilevanti per Roma, ma l’interesse nazionale italiano è molto più forte nel primo caso che nel secondo per motivi di sicurezza, economici, energetici, storici e geografici, e non basta la solidarietà alla Francia per invertire questo ordine di priorità.

Allo stesso tempo, non bisogna vedere i teatri di crisi della regione euro-mediterranea come isolati l’uno dall’altro, né dal punto di vista della minaccia - specialmente data la natura transnazionale dell’Isis e le dinamiche di competizione regionale - né della risposta, perché gli alleati Nato a cui Roma potrebbe chiedere appoggio per la stabilizzazione della Libia sono sostanzialmente gli stessi interessati ad un contributo italiano in Siria, Iraq o Mali.

La sicurezza nella regione euro-mediterranea è per l’Italia una questione tanto importante quanto complessa e articolata, rispetto alla quale il dibattito pubblico dovrebbe guardare alla luna e non al dito che la indica.

Alessandro Marrone, Responsabile di Ricerca Programma Sicurezza e Difesa; Twitter @Alessandro__Ma.
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martedì 15 dicembre 2015

Sicurezza ed innovazione per l'Italia?

Šefčovič allo IAI
Quale ruolo per l’Italia nella nuova Unione Energetica?
Lorenzo Colantoni, Nicolò Sartori
13/12/2015
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La scorsa settimana il Vice Presidente della Commissione europea per l’Unione energetica Maroš Šefčovič ha effettuato la tappa italiana del suo Energy Union Tour, lanciato per promuovere e spiegare gli obiettivi dell’ambiziosa politica energetica avviata da Bruxelles lo scorso 25 febbraio.

Con questa iniziativa l’Ue “sta cambiando il modo in cui guarda alla questione” dell’energia, egli ha affermato durante una conferenza organizzata dallo IAI - in collaborazione con la Rappresentanza in Italia della Commissione europea - per discutere le priorità italiane nell’ambito dell’Unione Energetica, e dove è stato presentato il secondo numero dell’Energy Union Watch, la pubblicazione IAI che monitora l’evoluzione dell’iniziativa.

Un’Europa più energica
Riferendosi al lavoro delle differenti Direzioni Generali e dei Commissari, il Vice Presidente ha commentato: “Vogliamo mettere tutto sotto un unico tetto […] Se riusciremo a farlo per bene, potremmo ottenere quella che chiamo una tripla vittoria: per i nostri cittadini, per l’economia e per l’ambiente”.

Questo approccio olistico è uno dei capisaldi del programma dell’Unione Energetica. Diviso in cinque dimensioni, questo tocca appunto la sicurezza energetica, il mercato dell’energia, l’efficienza energetica, la decarbonizzazionee l’ambito ricerca e sviluppo.

Settori su cui la Commissione è stata attiva negli ultimi mesi, in particolare con il “Summer Package” legislativo dello scorso luglio, e attraverso lo Stato dell’Unione Energetica, la Comunicazione che ha fatto una prima valutazione dell’iniziativa.

La necessità di un approccio olistico è stata poi sottolineata anche dal governo italiano. Il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Sandro Gozi, ha ricordato l’importanza dell’Unione Energetica come priorità per la Commissione e per l’Italia.

Questa dovrà contribuire a ridefinire le modalità d’azione in diversi settori, come la competizione - dove verrà richiesta una visione meno ortodossa e più globale - e la decarbonizzazione, dove la riforma dell’Emission Trading System dovrà evitare carbon leakages, fughe di emissioni verso paesi con regolazioni meno stringenti.

Sicurezza e innovazione per l’Italia?
Šefčovič non ha mancato di sottolineare il ruolo dell’Italia in questo settore chiave per l’integrazione europea. Nello specifico, ha nominato l’importanza delle interconnessioni - citando il caso del cavo tra Malta e Sicilia - in particolare per fornire una scelta diversificata e prezzi inferiori ai consumatori, sia domestici che industriali.

Il nostro paese, in questo contesto, giocherà un ruolo fondamentale nel Mediterraneo, soprattutto per potenziare le interconnessioni ed evitare la concentrazione delle forniture di gas europee, sia a livello intra che extra Ue.

Un obiettivo che includerà necessariamente il rafforzamento della cooperazione con i partner esistenti, e il supporto allo sviluppo del Mediterraneo orientale, dove gli sforzi industriali dovranno essere accompagnati da un processo diplomatico di trust building regionale.

L’Italia si propone in questo senso tanto come una porta per il Mediterraneo, quanto un energy hub, sia per l’elettricità che il gas. Un proposito che si inquadra in un contesto europeo favorevole, grazie soprattutto alle tre piattaforme energetiche euro-mediterranee, di cui due già lanciate dalla Commissione, e la cui creazione è stata fortemente incoraggiata dall’Italia durante il semestre di Presidenza Ue nel 2014.

Non va poi dimenticato il ruolo del nostro paese nella crescita delle rinnovabili in Europa che - come sottolineato da Šefčovič - ha visto oltre 3.000 brevetti registrati in Italia. Un’innovazione tecnologica che si riflette anche nel primato italiano per gli smartmeters, e nel ruolo delle “smartcities” per la decarbonizzazione dell’economia europea e mondiale, per cui il Vice Presidente ha nominato, in particolare, il caso di Torino.

2016: un anno chiave
Le iniziative della Commissione nel primo anno dell’Unione Energetica si sono soprattutto focalizzate sulla pianificazione e la costruzione del consenso, sia a livello politico che popolare. Nel 2016, l’azione della Commissione entrerà in una fase più concreta e propositiva.

Tra le misure chiave che verranno lanciate dalla Commissione ci sarà la strategia per il Gnl, la revisione della Direttiva sulla sicurezza nelle forniture di elettricità, il Regolamento sulla sicurezza delle forniture di gas, la nuova Direttiva sulle rinnovabili, la revisione della Direttiva sull’efficienza energetica e la finalizzazione della riforma dell’Emission Trading System (Ets).

La Commissione sarà poi chiamata a fare maggiore chiarezza su alcuni temi spinosi, il primo tra i quali la realizzazione di Nord Stream 2, che ha alimentato forti risentimenti da parte dei paesi membri dell’Europa centro-orientale, ma che potrebbe determinare anche un indebolimento delle strategie di diversificazione energetica dell’Italia.

Temi di grande importanza per il nostro paese e più in generale per i processi di integrazione europea, e per i quali l’Energy Union - in caso di successo - potrebbe rappresentare un valido modello.

Lorenzo Colantoni è Associate Fellow del Programma Energia dello IAI.
Nicolò Sartori è responsabile di ricerca del Programma Energia dello IAI (Twitter: @_nsartori)
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sabato 5 dicembre 2015

Minacce a tutto tondo

Lotta al Califfato
L’Italia e le minacce del cyber Califfo
Tommaso De Zan
03/12/2015
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Il tema delle “capacità” delle organizzazioni terroristiche non riguarda il solo dominio fisico, ma anche quello virtuale.

Basta pensare a quanto ha fatto fino ad ora l’autoproclamatosi “stato islamico” che ha impiegato lo spazio cibernetico ai fini di propaganda, reclutamento, finanziamento e coordinamento.

Recentemente il Califfato e la sua rete di affiliati si sono cimentati in operazioni cibernetiche nel tentativo di ottenere l’accesso a sistemi informatici (“hacking”) appartenenti a individui o istituzioni considerate nemiche.

In questo contesto, una delle principali infrastrutture da salvaguardare è il sistema di gestione del traffico aereo (Air Traffic Management, Atm), la cui protezione dalle minacce cibernetiche sarà al centro di una conferenza organizzata a Roma dallo IAI il 9 dicembre.

Le operazioni cibernetiche dello “stato islamico”
Secondo Raymond Benjamin, segretario generale dell’International Civil Aviation Organisation (Icao) - l’agenzia Onu che regola l’aviazione civile mondiale - le organizzazioni terroristiche sono fra le principali minacce verso l’aviazione civile, ma lo “stato islamico” e la sua rete di hackers sono effettivamente in grado di mettere in ginocchio le reti informatiche dei sistemi Atm?

L’analisi delle loro attività cibernetiche indica, per ora, un livello di complessità nelle tecniche di hacking ben inferiore rispetto alla promozione mediatica ricevuta. Tre sono gli esempi più significativi.

Nel gennaio 2015, la violazione dell’account Twitter del Commando Centrale statunitense da parte del Cyber Caliphate, collettivo di hackers pro “stato islamico”, ha suscitato grande scalpore.

Questi hackers, dopo essere entrati in possesso dell’account per qualche ora, hanno dichiarato di aver diffuso “materiale classificato” attraverso lo stesso social network. Lungi dall’aver violato le ben più protette reti militari americane (classificate e non), il Pentagono ha poi smentito categoricamente che ci sia stato un furto di dati protetti.

Altro episodio che ha avuto ampio seguito mediatico è avvenuto ad agosto, quando un altro gruppo di hackers a favore dello “stato islamico”, l’Islamic State Hacking Division(Ishd), ha pubblicato online i dati personali di oltre mille militari statunitensi. Anche in questo caso, però, sebbene i presunti hackers si siano vantati di aver recuperato le informazioni penetrando reti militari protette, l’estrazione di dati non è mai avvenuta.

Infatti, in ottobre, il cittadino kosovaro Ardit Ferizi è stato arrestato in Malesia per aver fornito ai jihadisti il materiale poi diffuso via Twitter dallo stesso “stato islamico”. Secondo il Dipartimento di Giustizia Usa, Ferizi ha ottenuto le informazioni sul personale statunitense attaccando il sistema informatico di un’azienda locale, non un dominio della rete della difesa Usa.

L’Italia e gli hacker del Califfo
Pochi ne sono a conoscenza, ma anche la Difesa italiana è stata “vittima” delle presunte azioni offensive dello “stato islamico” e della sua galassia di hackers.

Nel maggio 2015, un documento a firma Ishd contenente le informazioni personali di dieci militari italiani è circolato su Twitter fra i followers dell’organizzazione terroristica. Anche in questo caso, l’Ishd ha affermato di aver ottenuto le informazioni grazie all’accesso a “server sicuri”. Nonostante non ci siano state smentite o conferme ufficiali, si nutrono dei fortissimi dubbi sulla veridicità dell’operazione. È più probabile, infatti, che essa sia stato il risultato di un’attenta attività di profilazione condotta sulla base di fonti aperte, quindi già disponibili pubblicamente.

Tranquilli, ma non abbassare la guardia
Tutto ciò ci suggerisce che lo “stato islamico” non disponga attualmente delle capacità di hacking per piegare le difese di reti informatiche ben protette. Inoltre, nel caso specifico dei sistemi Atm italiani, gli hackers dello “stato islamico” si troverebbe davanti un bell’osso duro.

Enav è l’unico fornitore europeo di servizi Atm certificato ISO 27001, norma di standardizzazione nel campo della sicurezza delle informazioni che denota uno standard di sicurezza piuttosto elevato. In pratica la società italiana ha messo in campo una serie di contromisure a tutela dei propri sistemi, tra cui un Security Operations Center (Soc) dedicato, che darebbero del filo da torcere anche ad hackers ben più sofisticati di quelli dell’Is.

Possiamo quindi considerarci sicuri? Per ora si, anche se non possiamo abbassare la guardia. La presunta estrazione di dati ai danni della Difesa certifica, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l’Italia è un obiettivo reale e concreto dello “stato islamico”, anche da un punto di vista cibernetico. La minaccia proveniente dal gruppo jihadista è destinata a incrementare, e non ad affievolirsi.

In futuro, è possibile che il gruppo terrorista sia in grado di attrarre esperti informatici, magari anche proveniente dall’Occidente, o più semplicemente continui a ispirare “crew” di simpatizzanti hackers a condurre azioni online a suo vantaggio. L’imperativo è dunque continuare a mantenere alto il livello di attenzione e diffondere, a livello nazionale e non solo, “buone pratiche” come quelle di Enav.

Tommaso De Zan è Assistente alla ricerca presso l'Area Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter @tdezan21).

mercoledì 2 dicembre 2015

Europa e Gran Bretagna e prospettive future

Brexit
L’Italia dica la sua sulla Brexit
Riccardo Alcaro
25/11/2015
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Rimanere nell’Ue, solo se le relazioni con Londra saranno ricalibrate. È questo il messaggio delle proposte di riforma presentate dal primo ministro britannico David Cameron in previsione del referendum in cui - tra il 2016 e il 2017- i cittadini britannici sceglieranno se restare o meno nell’Ue.

L’Italia, il quarto paese Ue per dimensioni economiche e demografiche, è destinata ad avere una parte molto importante nel negoziato.

Proposta di riforma o ricatto?
Le proposte di Cameron, messe nero su bianco nella lettera spedito al presidente Ue Donald Tusk, hanno suscitato reazioni contrastanti in Italia.

Da una parte, funzionari, politici ed esperti vi hanno visto un incoraggiante - e lungamente attesto - primo passo verso una rapida risoluzione del problema del travagliato rapporto con l’Ue del Regno Unito. Dall’altra, molti si risentono del fatto che la questione di cui Cameron ha proposto una soluzione è un problema creato da lui stesso.

Dopo la pubblicazione della lettera, Cameron si è espresso positivamente sull’Ue, ricordando i molti vantaggi che il Regno Unito trae dalla sua appartenenza all’Unione, anche in termini di sicurezza nazionale.

Molti in Italia (e di certo anche in altri paesi) si chiedono pertanto come mai il governo britannico consideri lo status quo insostenibile. In fin dei conti, molte delle proposte di riforma fatte da Cameron potrebbero essere discusse in un normale contesto di negoziato interno all’Ue. Condizionarle all’uscita del Regno Unito sembra a molti una forma nemmeno troppo nascosta di ricatto.

Altri lamentano che l’intera vicenda puzzi di opportunismo politico, visto che Cameron ha promesso di tenere il referendum per riportare all’ordine la fazione più euroscettica del Partito conservatore e contenere l’avanzata dello UK Independence Party (Ukip), visceralmente anti-Ue. Altri ancora temono una sorta di effetto domino: se si fanno concessioni speciali ai britannici, cosa impedirà ad altri di avanzare simili pretese?

Regno Unito caso speciale
Il governo di Matteo Renzi non deve farsi influenzare da questi argomenti. Che considerazioni di politica interna entrino nel calcolo strategico di leader nazionali non è uno scandalo - in un modo o nell’altro, succede a tutti i leader europei.

Agitando lo spettro della ‘Brexit’ (come colloquialmente ci si riferisce all’uscita del Regno Unito dall’Ue) Cameron sta indubbiamente giocando duro, ma il premier sa che può permetterselo perché molti non vogliono lasciar andare un paese dell’importanza economica, politica e strategica come il Regno Unito.

Per quanto opportunistico, se non cinico, il calcolo di Cameron è anche realistico. Pochi stati membri, forse solo Francia e Germania, hanno la stessa influenza - e conseguentemente la stessa forza negoziale - del Regno Unito. Se gli altri provassero a emulare Cameron scoprirebbero che anche nell’Ue alcuni stati membri sono più uguali di altri.

Renzi farebbe meglio a impostare il suo approccio su una spassionata e pragmatica valutazione degli interessi italiani in gioco. L’Italia ha un interesse vitale a tutelare la strada dell’integrazione evitandone la preclusione a quegli stati - soprattutto i membri dell’eurozona - che vogliano continuare a percorrerla.

Dobbiamo inoltre evitare che i risultati conseguiti dall’integrazione siano compromessi. Al contempo però, l’Italia ha anche interesse a tenere il Regno Unito nell’Ue perché, senza Londra, l’Unione sarebbe più piccola economicamente e meno influente sul piano internazionale.

Le riforme volute da Cameron
Cameron ha avuto il buon senso di avanzare proposte ragionevoli (pur con qualche eccezione). Delle aree che il premier britannico vorrebbe riformare, l’unica che presenta ostacoli forse insormontabili riguarda l’immigrazione da paesi Ue.

Su questo fronte l’Italia deve guardarsi bene dal fare concessioni che riducano la libertà di circolazione dei lavoratori, una delle quattro libertà fondamentali - insieme alla libera circolazione di merci, servizi e capitali - su cui il processo d’integrazione europea è storicamente basato.

Le altre aree offrono prospettive di accordo più incoraggianti. L’Italia ha interesse sia ad appoggiare la proposta di creare un’unione digitale e di capitali, sia a tenere sotto controllo la regolamentazione Ue.

Le piccole e medie imprese italiane beneficerebbero infatti dall’avere maggiore accesso a fonti di credito (una conseguenza dell’integrazione dei capitali) e una burocrazia più snella.

Cameron vuole anche porre fine all’obbligo del Regno Unito a lavorare verso una ‘unione sempre più stretta’. Purché non si aprano le porte ad un’Europa à la carte, l’Italia non deve opporsi all’introduzione di maggiore flessibilità nella governance dell’Ue.

L’Unione, dopotutto, già ora opera come un sistema di governance multi-livello, visto che un certo grado di differenziazione è già presente in questioni di difesa, giustizia e affari interni, nonché ovviamente affari economici e monetari.

A questo proposito, la richiesta di Cameron di tutelare i paesi Ue fuori dalla zona euro da possibili forme di discriminazione e proteggere il mercato unico ha senso, ma non a tal punto da acconsentire che le decisioni degli stati euro possano essere bloccate dai non-euro semplicemente richiamandosi all’integrità del mercato comune. Molto meglio orientarsi verso soluzioni ad hoc, decise caso per caso.

La strada per un accordo con i britannici è meno stretta di quanto sembri. Gli italiani possono contribuirvi senza sacrificare il loro interesse nell’integrazione europea. L’alternativa - un’Ue più modesta e un Regno Unito estraniato - potrebbe dimostrarsi ben peggiore.

Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca dello Iai e non-resident fellow presso la Brookings Institution di Washington. Di recente ha pubblicato una serie di raccomandazioni al governo italiano su come reagire alle proposte di riforma di Cameron.
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L'Italia sul "suo mare"

Traffici navali, portualità e logistica
Un Mediterraneo a 360 gradi e l’Italia
Alessandro Ungaro
26/11/2015
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Non solo crisi, minacce e instabilità - come troppo spesso siamo ormai abituati a sentire - ma anche grandi opportunità economiche, commerciali e infrastrutturali per l’Italia. È un Mediterraneo a 360 gradi quello che verrà discusso il prossimo 30 novembrea Roma durante una conferenza IAI, la quale tratterà in maniera olistica il concetto di sicurezza nella regione mediterranea, declinandola nei suoi principali aspetti politici, economici, energetici, migratori e militari.

Un’analisi che cerca altresì di fotografare una realtà - quella dei porti e della logistica italiana - alla ricerca di un nuovo vantaggio competitivo all’interno della regione, a fronte di nuove direttrici di sviluppo navali, commerciali e infrastrutturali.

Il Mediterraneo punto nevralgico per i commerci e l’economia internazionali
Nonostante l’instabile contesto politico regionale, il Mediterraneo rappresenta ancora un punto nevralgico per i commerci e l’economia internazionali. Vi transita il 19%-20% del traffico marittimo mondiale (nel 2005 era il 15%). In questo bacino passa il 30% del petrolio mondiale e circa i 2/3 delle altre risorse energetiche destinate all’Italia e ai Paesi europei.

Se dalle merci si passa ai passeggeri, nel 2014 sono transitati dai porti del Mediterraneo circa 26 milioni di crocieristi, grazie alla presenza di 152 navi e l’offerta di 2.615 itinerari: è la seconda destinazione al mondo dopo i Caraibi.

Pertanto, la regione a sud del Mediterraneo rimane cruciale per l’Italia non solo in termini di performance commerciali - di prodotti energetici e non - ma anche per una potenziale crescita economica ed occupazionale della regione del Mezzogiorno, quella più direttamente coinvolta e interessata ad accrescere il suo ruolo nella partita.

L’interscambio dell’Italia con la sola area mediterranea è cresciuto del 64,4% tra il 2001 al 2013, passando da 33,3 a 54,8 miliardi di euro. Il fatto che tale interscambio si svolga per il 75% via mare dimostra ulteriormente quanto siano fondamentali i traffici marittimi per un Paese come l’Italia e, più in generale, quanto sia fondamentale il sistema marittimo per l’economia nazionale.

Ad esempio, il solo segmento della cantieristica occupa un ruolo di primo piano: esso si posiziona ai primi posti tra le imprese della cosiddetta “economia del mare”, con circa 27 mila attività imprenditoriali, il 64,2% delle quali localizzate nei comuni costieri, che incidono per il 15,2% sul totale delle imprese del settore.

Nel suo complesso, la filiera della cantieristica è capace di generare un effetto moltiplicatore pari a 2,4 euro sul resto dell’economia: a fronte di 7,2 miliardi di euro prodotti nel 2014 ne sono stati attivati 17,4 derivanti in primo luogo da attività legate alla metallurgia, alla ricerca e sviluppo, ecc.

Portualità e logistica mediterranea: nuovi trend di sviluppo 
Il potenziamento logistico e infrastrutturale dei porti dei Paesi della sponda sud ha contribuito a cambiare il panorama dell’economia marittima mediterranea europea e internazionale. Lo sviluppo dei terminali di transhipment in Egitto e Marocco ha permesso a questi Paesi di entrare nel mercato della gestione del traffico di container.

Ciò, da una parte, ha certamente generato nuove opportunità per molti Paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo (tra cui l’Italia) ma, d’altra, i nuovi hub mediterranei si sono affermati come alternativa ai porti europei, proprio per le caratteristiche logistiche (e non solo) che meglio si adattano alle esigenze dell’odierno commercio marittimo.

Fonte: Piano strategico nazionale della portualità e della logistica.

I porti della sponda sud del Mediterraneo tra il 2005 e il 2013 hanno aumentato la propria quota di mercato, passando dal 18% al 27%, a discapito dei porti italiani di Gioia Tauro, Cagliari e Taranto che sono passati complessivamente dal 28% al 16%.

Nello stesso periodo i due hub del Pireo e di Malta hanno incrementato la loro quota di mercato dal 17% al 23%, mentre due nuovi concorrenti si sono affacciati nel panorama mediterraneo: Tanger Med in Marocco (da 0 a 10% tra il 2005 e il 2013) e Port Said in Egitto (da 10 a 14%).

A queste tendenze si aggiungono necessariamente l’ampliamento del Canale di Suez e le prospettive di crescita di quei Paesi che si trovano lungo la direttrice Mediterraneo-Golfo, quali Egitto, Israele ed Emirati Arabi, fino a includere anche l’Iran alla luce del raggiunto accordo sul nucleare e la progressiva rimozione delle regime sanzionatorio.

Fonte: IAI su dati Studi e Ricerche per il Mezzogiorno (SRM).

Il Piano strategico nazionale della portualità e della logistica (Psnpl)
Ed è in questo contesto in piena evoluzione che si inquadra il recente Piano strategico nazionale della portualità e della logistica (Psnpl). Esso cerca di colmare quei gap organizzativi, burocratici e funzionali - che impediscono all’impianto portuale e logistico italiano nel suo complesso di esprimere pienamente le proprie qualità di asset strategico per il tutto sistema-Paese.

E proprio di “sistema” che l’Italia deve necessariamente dotarsi per “garantire un rilancio del settore portuale e logistico massimizzando sia il valore aggiunto che il ‘Sistema Mare’ può garantire in termini puramente quantitativi di aumento dei traffici sia affinché il ‘Sistema Mare’ arrivi ad esplicare tutto il suo potenziale nella creazione di nuovo valore aggiunto in termini economici ed occupazionali per l’intero Paese.

Alessandro R. Ungaro è ricercatore del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: @AleRUnga).
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venerdì 27 novembre 2015

L'Italia e il suo ruolo militare nel contesto medioorientale

Guerra al Califfato
Dopo Parigi, il ruolo dell’Italia 
Mario Arpino
19/11/2015
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È in atto una guerra privata tra il “califfo” e la Francia? Al momento, questo è ciò che appare. Il presidente François Hollande tende a coinvolgere un po’ tutti, appellandosi alla solidarietà europea prevista dall’articolo 42, comma 7, del Trattato di Lisbona e citando, solo di conseguenza, l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite e il 5 del Trattato dell’alleanza atlantica.

Poteva anche rivolgersi solo alla Nato, ma così avrebbe escluso la Russia, al momento il principale “alleato” in termini di capacità e volontà di intervento. E tutti gli altri? La trattativa sul tipo e sul livello di supporto sarà bilaterale. Un “porta a porta” necessario, se si considera che nessuno degli articoli comporta obblighi specifici.

Che cosa l’Italia sta già facendo 
L’Italia si era già mossa da tempo, molto prima dell’appello francese. Nella lotta contro al Califfo risulta essere sin dall’inizio in primo piano in termini di presenza in cielo, in mare e sul terreno. Quello che stiamo facendo è poco noto al pubblico perché, come spesso accade quando stiamo lavorando bene, ha avuto scarsa diffusione sotto il profilo mediatico.

Per richiamare l’attenzione sul nostro sforzo militare c’è voluta, giorni addietro, l’improduttiva polemica se i nostri quattro Tornado rischierati in Kuwait debbano “solo” continuare a produrre intelligence o possano “anche” sganciare qualche bomba .

Ma non ci sono solo i Tornado. Il contributo informativo prodotto dai due ricognitori a pilotaggio remoto Reaper è giudicato essenziale e, in alcune circostanze, unico.

Siamo stati i primi, dopo gli Stati Uniti e con anni di anticipo sulla Gran Bretagna, a disporre di questa capacità che potrebbe in seguito completarsi anche con armamenti di precisione. Molto apprezzata poi la disponibilità del tanker KC-767, asset prezioso che contribuisce al rifornimento in volo di tutti i velivoli della coalizione. In queste attività sono impegnati da oltre un anno circa 250 uomini e donne dell’Aeronautica.

Sempre nell’ambito della missione internazionale “Inherent Resolve”, l’Italia fornisce sin dall’inizio personale di staff ai comandi multinazionali in Kuwait e in Iraq (Baghdad ed Erbil), nonché capacità di addestramento ed assistenza alle forze armate e di polizia irachene. Sono impiegate Forze Speciali, genieri a carabinieri per un totale di oltre 400 persone, in aumento fino a 750 con i decreti in corso di rinnovo.

Contribuisce anche la Marina. Queste attività si svolgono prevalentemente in Kurdistan, dove, in ricordo di Settimio Severo che sconfisse i Persiani, le forze hanno assunto il suggestivo nome della legione “Prima Parthica”.

Che cosa ci si aspetta dall’Italia 
Che cosa faremo in seguito? Hollande probabilmente si attende una partecipazione ai bombardamenti o un supporto combat in Siria e magari nel Mali, per liberare forze da destinare altrove. Al momento, tuttavia, è destinato a rimanere deluso, se non isolato.

D’altro canto, le solitarie “fughe in avanti” alle quali la Francia ci ha abituato non hanno portato bene: pochi i vantaggi operativi, ma tanta la confusione. Le attività di consultazione e doverosa preparazione fervono in ambito militare e se ne discute in sede parlamentare e di governo, ma non sono attese decisioni epocali.

I tre mantra che circolano sono: “non possiamo lasciare sola la Francia”, “in questa lotta manca una strategia” e, la frase che recita sempre chi proprio non sa cosa fare, “l’Italia farà la sua parte”.

Senonché, con il vertice di Antalyia, i tavoli di Vienna ed il prossimo summit sul clima di Parigi, nel quale certamente si parlerà anche d’altro, una qualche sorta di strategia comune comincia ad emergere.

Questo è sicuramente apprezzato, ma è anche fonte di preoccupazione per i decisori politici che vengono messi un po’ alle strette, sapendo che spetta a loro tradurre in pratica i buoni principi. È in questa direzione che spingono soprattutto i nove punti del consenso raggiunto a Vienna.

Il presidente del Consiglio, come pure i ministri degli Esteri e della Difesa - ma anche quello degli Interni - comprensibilmente non si trovano in una posizione invidiabile. Tuttavia sottovoce, in modo frammentato e con molti condizionali, avvertono la necessità di esprimersi in pubblico.

Salto di qualità
Ciò che emerge, può essere sintetizzato come segue: si esclude, al momento, qualsiasi partecipazione di carattere combat con forze terrestri; si lascia una porta aperta a un eventuale salto di qualità nelle operazioni aeree; la via diplomatica è preferibile, ma non si possono escludere altre forme di intervento; è necessario potenziare l’Intelligence e le forze speciali.

Tra le altre forme di intervento e di supporto, è in particolare il ministro della Difesa ad allargare lo spettro delle nostre possibilità, includendo la propaganda sul web, la lotta ai finanziamenti occulti, lo scambio dei risultati delle indagini e un maggior coordinamento a livello operativo. Tutto giusto e corretto.

Resta però un quesito fondamentale, al quale forse nessuno, ormai, si attende una risposta che forse non c’è: oltre a riunire il Parlamento sovrano, cosa avremmo fatto noi - o cosa faremo - qualora ci trovassimo al posto della Francia?

Ufficiale pilota in congedo dell’Aeronautica Militare, Mario Arpino collabora come pubblicista a diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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venerdì 20 novembre 2015

UN Anniversario importante

Storia dell’Istituto Affari Internazionali
Lo IAI compie cinquant’anni, una riflessione 
Stefano Silvestri
12/11/2015
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In cinquant’anni sono cambiate più cose ancora di quante non ci aspettassimo alla metà degli anni ’60, quando Altiero Spinelli fondò l’Istituto Affari Internazionali.

Allora, la politica internazionale era influenzata dall’eredità di John F. Kennedy e la politica europea da quella di Konrad Adenauer, ambedue da poco spariti per lasciare il passo a più modesti successori.

Erano forti e presenti leader dello stampo di Charles De Gaulle in Francia, Nikita Krusciov in Unione Sovietica, Mao Zedong in Cina, Gamal Abd el-Nasser in Egitto, Josip Broz Tito in quella che era ancora la Jugoslavia.

In Italia si tentavano le prime esperienze di centro-sinistra. Il leader socialista, Pietro Nenni, diverrà per alcuni mesi Ministro degli Esteri nel 1968-69 (governo Rumor). Presidente della Repubblica era Giuseppe Saragat, dopo la fine anticipata del mandato di Antonio Segni.

La spinta europeista di Altiero Spinelli 
Molto stava cambiando. La fine degli imperi coloniali, il movimento dei paesi non allineati, i primi passi della distensione dopo la grande paura dello scontro a Cuba, la guerra del Vietnam, la crescente presenza della Cina: in quest’ultimo caso fu proprio Nenni a lanciare il processo per il nostro riconoscimento diplomatico di Pechino, che avvenne nel 1970 (e un anno dopo la Cina Popolare divenne anche l’unica Cina presente all’Onu, espellendo i rappresentanti di Taiwan che sino ad allora sedevano nel Consiglio di Sicurezza).

L’Italia si ritrovava a dover pensare in termini di politica internazionale e in particolare in termini di politica europea, come uno dei membri fondatori delle istituzioni comunitarie.

L’obiettivo esplicito di Spinelli era quello di contribuire alla consapevolezza delle problematiche internazionali in Italia e allo stesso tempo di alimentare il dibattito internazionale, formando competenze italiane che accrescessero la visibilità e l’utilità del nostro contributo.

Il centro dell’attenzione era evidentemente l’Europa, il suo processo di integrazione e la volontà di dare corpo a un nuovo grande interlocutore internazionale europeo comune, ma era ormai chiaro come la piena restaurazione degli stati nazionali europei dopo la II guerra mondiale, obbligasse anche i federalisti più convinti a passare per un processo di europeizzazione delle identità e delle politiche nazionali: processo lungo, che richiedeva competenze nuove e soprattutto continuità di attenzione e capacità di affrontare i temi internazionali senza gli stretti paraocchi delle singole tradizioni nazionali.

Missione IAI senza paraocchi
Questa è stata, fra alti e bassi, ma senza significative deviazioni, la “missione” dello IAI, nel corso di questi cinquant’anni. Oggi ci ritroviamo in una situazione apparentemente molto diversa da quella di ieri, con nuove problematiche e nuovi attori internazionali, ma nello stesso tempo dobbiamo constatare come la problematica iniziale impostata da Spinelli non sia ancora obsoleta.

La crisi europea è soprattutto una crisi degli stati nazionali che compongono l’Unione e della loro difficoltà di superare le loro forti resistenze “souverainistes”.

Allo stesso tempo, il moltiplicarsi delle guerre civili, degli stati falliti, delle derive totalitarie, in Europa, Africa ed Asia preannuncia la necessità di un nuovo ordine internazionale che, oltre a riconoscere il peso e il ruolo di nuovi importanti interlocutori, passa anche per l’accettazione dei limiti della “sovranità nazionale”.

La sfida del futuro 
Ma resta lungi da noi l’illusione del Gattopardo, per cui il cambiamento ci riporta all’esistente. Tutto cambia e cambiano anche gli equilibri e le soluzioni possibili o auspicabili.

Basti pensare alla globalizzazione e alla crescente importanza di nuove realtà tecnologiche come il cyber spazio, o alla nostra progressiva dipendenza dalle tecnologie spaziali: il governo di questi nuovi fenomeni richiederà soluzioni inedite e un eventuale fallimento comporterà costi e rischi del tutto nuovi.

L’Europa resta il centro delle nostre problematiche, ma deve ormai collocarsi in un contesto internazionale molto più complesso.

Lo IAI affronta oggi questi temi partendo da molti diversi punti di vista, politici, economici, tecnologici, strategici, restando in stretto collegamento con una sempre più numerosa comunità internazionale di analisti e studiosi, anche grazie alla parallela crescita di capacità e consapevolezza nella società italiana nel suo insieme.

Al suo interno non rimangono più molti testimoni dei suoi inizi, ma non è cambiato lo spirito né la volontà di cercare di andare oltre le convenzioni e l’illusione delle certezze acquisite.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
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mercoledì 18 novembre 2015

Prospettive positive per l'approvigionamento di pretrolio

Energia
Eni, il super hub del gas nel Mediterraneo
Azzurra Meringolo
05/11/2015
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Un’intesa a quattro per la creazione di super-hub del gas. È questo l’obiettivo della missione appena conclusasi di Claudio Descalzi a Gerusalemme. Coinvolgendo anche Cipro - dove il Ceo di Eni è già volato a settembre - ed Egitto, l’uomo al vertice del Cane a sei zampe vuole realizzare un progetto che, partendo dal Mediterraneo orientale, potrebbe allargarsi alla sicurezza energetica continentale, in primis a quella dei Paesi della sponda nord del Mediterraneo.

E c’è già chi scommette che, nel lungo periodo, questo nuovo scenario potrebbe anche lanciare una sfida ai giganti russi, principali fornitori di gas all’Europa.

Guardando la mappa di questo mare, Descalzi immagina di disegnarci un hub in grado di ricevere gas da diverse nazioni della zona per poi portare tutta la materia prima a Damietta, dove Eni controlla gli stabilimenti di liquefazione della spagnola Union Fenosa.

Una volta liquefatto, il gas potrebbe arrivare via nave in Italia, e da qui potrebbe essere smistato in Europa.

Figura 1: attività Eni in Egitto fino al 2014, Fonte: Eni.

La scoperta del giacimento di Zohr
Quello di Descalzi è un progetto che può già contare sull’intesa e sui buoni rapporti tra Benjamin Netanyahu e Matteo Renzi evidenziati dalla cordialità del loro incontro a fine agosto a Firenze.

In quella occasione i due leader avevano parlato di cooperazione in ambito energetico, lasciando però da parte le questioni affrontate invece in questi giorni da Descalzi che negli ultimi mesi ha spinto il piede sull’acceleratore.

Dopo la recente scoperta, da parte di Eni, del mega giacimento egiziano di Zohr - stimato in 850 miliardi di metri cubi - sono settimane che il Cane a sei zampe si pregusta i successi che la realizzazione di questo hub potrebbe garantire.

Figura 2: Eni scopre il giacimento di Zohr, Fonte: Eni.

L’Egitto, che dovrà ancora aspettare un paio di anni per toccare con mano i vantaggi derivanti da questa scoperta, sembra per ora intenzionato a sfruttare il gas in arrivo soprattutto per soddisfare il suo crescente fabbisogno interno.

Nel 2014, il Cairo è infatti passato dal club dei paesi esportatori a quello degli importatori. Declassamento difficile da digerire, soprattutto se si pensa che per tenersi in vita, negli ultimi anni l’Egitto si è dovuto rivolgere allo stato ebraico, al quale per decenni ha svenduto importanti quantità di gas, invertendo quindi la rotta del tanto discusso gasdotto che fino al 2012 aveva portato gas a Israele e Giordania.

Il gas egiziano sgonfia le ambizioni di Israele
Oltre all’Egitto c’è però Israele che potrebbe essere interessato a utilizzare l’hub voluto da Descalzi per esportare il gas naturale che produce nei giacimenti di Leviatano e Tamar. Il tutto grazie a un gasdotto sottomarino capace di raggiungere gli stabilimenti di liquefazione di Damietta, prima di arrivare in Europa.

Nel farlo cercherebbe di seguire due rotte di esportazione: quella egiziana e quella turca. Mentre la seconda è complicata dai delicati rapporti con Ankara, la prima è facilitata dalla collaborazione sempre più stretta - soprattutto sulla sicurezza dei confini lungo la Striscia di Gaza - con l’Egitto dell’ex generale, ora presidente, Abdel Fattah Al-Sisi.

Stando a una lettera di intenti firmata lo scorso anno dal Cairo e Noble e Delek -compagnie al vertice del consorzio di Leviatano e Tamar - l’Egitto si aspettava di ricevere da Israele 68 miliardi di metri cubi di gas nell’arco dei prossimi 15 anni. La scoperta di Zohr potrebbe mescolare le carte in tavola.

Quest’ultima ha infatti rivoluzionato lo scenario strategico ed energetico di Israele, Paese che ora rischia di perdere il suo cliente più sicuro, il Cairo, e di dover rivedere al ribasso i prezzi che in questi anni era convinto di potere dettare. Basta pensare al crollo in borsa subito dagli israeliani di Delek e dai texani di Noble Energy dopo la notizia della scoperta dei giacimenti egiziani.

Italia assetata di gas 
Ed è anche per questo che Netanyahu ha fatto capire che sarà pronto a scendere in campo personalmente per trattare con Eni l’assegnazione delle licenze di esportazione. Ma al momento la situazione è ancora in fase di stallo, anche a causa di un acceso dibattito interno al governo israeliano proprio su queste questioni.

Il ministro dell'Energia, Yuval Steinitz, è stato infatti accusato pubblicamente dal suo collega Aryeh Deri, a capo del dicastero dell'Economia, di una vera debacle in termini d'intelligence economica. Secondo Deri, infatti, Israele era totalmente all'oscuro del positivo risultato delle ricerche esplorative egiziane relative al giacimento Zohr e si è fatto, così, cogliere impreparato.

Ecco perché anche se Netanyahu e Descalzi hanno "convenuto che alla luce della crescente domanda di gas naturale nella regione è necessario esplorare ulteriori possibilità di cooperazione, compreso lo sviluppo congiunto o il trasporto di gas naturale a diversi clienti", lo sbocco di un'alleanza energetica tra Israele ed Egitto sembra al momento difficile.

I passaggi da superare non sono pochi, ma se si arriverà in fondo, Eni esporterà in Europa il gas dei giacimenti israeliani e ciprioti. Considerando solo i giacimenti scoperti nel 2013, nel bacino di Tamar si stimano 282 miliardi di metri cubi, (mld mc), mentre in quello di Leviatano 536 mld mc.

Non sazia, l’Italia - che ogni anno si scola circa 70 mld mc di metano - guarda anche anche altri giacimenti. Già Descalzi non esclude di includere nel progetto di questo hub la Libia, paese che ha grandi potenzialità di sviluppo sulla base delle recenti scoperte nell’offshore.

E lungo lo stivale c’è anche chi guarda i giacimenti israeliani minori. Basta pensare all’attività di Edison che per guadagnare quote importanti del mercato interno tiene sott’occhio i giacimenti di Karish e Tanin.

Azzurra Meringolo è ricercatrice dello IAI. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir.
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venerdì 6 novembre 2015

Economia Globale

Economia
Pmi, la forza motrice della crescita
Eleonora Poli
28/10/2015
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Una forza motrice per la crescita. Anche se il terreno economico degli ultimi anni ha reso il loro sviluppo molto difficile, le piccole e medie imprese, Pmi, dominano non solo il contesto economico europeo, ma anche quello asiatico. La tematica è stata discussa al Seminario ASEM, "Financing SMEs in Asia and Europe", organizzato dal Ministero Affari Esteri e Cooperazione Internazionale e Banca d'Italia in collaborazione con l'Istituto Affari Internazionali, che si è tenuto a Roma il 29-30 ottobre.

Le Pmi nell’economia globale
Secondo il rapporto annuale della Commissione europea, nel 2014 9,9 aziende europee su dieci sono Pmi; esse impiegano due dipendenti su tre e producono 58 centesimi per ogni euro di valore aggiunto. Inoltre, più della metà delle Pmi europee ha aspettative di crescita economica, mentre solo una su dieci crede che il proprio fatturato diminuirà.

L’Italia annovera circa 200 mila Pmi e il 17,6% delle micro imprese europee. Nelle Micro Pmi italiane trova impiego l’81% dell’occupazione totale e si produce il 71,3% del valore aggiunto.

Rilevante è anche il contributo in termini di esportazioni, circa il 54% del totale. Secondo il rapporto annuale dell’Asian Development Bank (ADB), le Pmi rappresentano il 96% delle imprese, forniscono il 62% dei posti di lavoro e il loro contributo al Pil è intorno al 42%.

Pmi e accesso al credito
Tuttavia, sia in Italia che in Europa, ma anche in Asia, lo sviluppo delle Pmi viene ostacolato da un accesso limitato ai finanziamenti dovuto ad una bassa propensione degli istituti di credito a erogare loro prestiti.

Secondo l’ADB, anche se le Pmi della regione hanno contribuito alla crescita economica, lo scarso accesso al credito ha visto diminuire il loro potenziale contributo allo sviluppo. Questo trend si riscontra anche in Europa, dove nel 2014, il 14% delle Pmi annovera tra i cinque ostacoli allo sviluppo uno scarso accesso al credito.

Dati: Survey on the access to finance of enterprises (SAFE) Analytical Report 2014.

Tuttavia, diversamente dall’Asia, sebbene nel 2013 le Pmi europee abbiano registrato un aumento del valore del 1,1%, la positività di questo risultato è temperato da un generale rallentamento rispetto al 2012 e al 2011, quando si era rispettivamente registrato un aumento dell’1,5 % (2012) e del 4,2% (2011). Inoltre nel 2013, non solo il numero delle Pmi europee si è ridotto dello 0,9%, ma anche le persone impiegate da quest’ ultime sono diminuite dello 0,5%.

Tale trend risulta tuttavia molto più grave in Italia. Secondo il rapporto CERVED, tra il 2011 e il 2013, l’accesso al credito per le Pmi italiane si è ridotto del 4,1 %. Tra il 2008 e la prima metà del 2014, 13 mila piccole e medie imprese italiane sono fallite, oltre 5 mila sono state insolventi e 23 mila hanno liquidato le loro attività.

Politiche a sostegno delle Pmi
Per garantire l’accesso al credito alle Pmi è necessario favorire lo sviluppo di strategie coordinate. Tuttavia, in Asia governi e banche centrali hanno sostenuto misure che variano da paese e da settore e che vanno dalla creazione di forme di garanzie per il credito sviluppate in Indonesia e in Thailandia a politiche di intervento pubblico in Bangladesh, Malaysia e Vietnam.

In Europa invece, al fine di far fronte ai trend negativi che colpiscono gli oltre 21 milioni di Pmi, la Commissione ha lanciato diversi piani d'azione, come il programma 2014-2020 per la competitività delle piccole e medie imprese che renderà più facile l’accesso a prestiti e finanziamenti.

A tali misure si deve poi aggiungere l’iniziativa Europea del Fondo per la Crescita Sostenibile. Quasi 200 delle 271 domande presentate nel 2013 proviene dalle Pmi.

In linea con i trend europei, il governo italiano ha inoltre favorito una serie di azioni per le Pmi quali l'individuazione di nuovi soggetti finanziatori come le compagnie di assicurazione, il rimborso di ulteriori tranche di debiti arretrati della Pubblica Amministrazione ed il potenziamento del Fondo di Garanzia per le Pmi destinato a coprire l'eventuale insolvenza delle imprese sui crediti bancari.

In un mercato globale dagli scenari sempre più complessi, le Pmi rappresentano una forza trainante per una crescita economica sostenibile ed inclusiva sia in Europa che in Asia.

È quindi necessario assicurare loro un giusto accesso al credito tramite politiche coordinate anche per rilanciare l’economia globale. Grazie alla flessibilità delle loro strutture produttive, le Pmi possono infatti facilmente adattarsi ai cambiamenti del mercato, stimolare la concorrenza e favorire l’occupazione.

Inoltre, sviluppando attività economiche e produttive diversificate, le Pmi sono un importante motore di innovazione e hanno il potenziale per stimolare una crescita sostenibile a livello internazionale.

Eleonora Poli è ricercatrice dello IAI.
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giovedì 29 ottobre 2015

Rapporti Roma La Valletta sulla ricerca petrolifera

Mediterraneo, energia 
Malta e Italia concordano moratoria trivellazioni
Fabio Caffio
19/10/2015
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Un nuovo capitolo si è aperto nelle relazioni italo-maltesi: Roma e Valletta hanno concordato "informalmente" di sospendere le trivellazioni nell'area a sud-est della Sicilia, lasciando intravedere una possibile soluzione della controversia su questa porzione di mare.

L'intesa sembra frutto di scelte politiche che non possono prescindere dalla risoluzione delle questioni marittime di delimitazione. Otre all’Italia e a Malta, vi è un terzo interessato: la Libia che dovrebbe diventare parte della trattativa.

Moratoria sulle esplorazioni di idrocarburi 
L'Ambasciata d'Italia a Valletta ha dato notizia della conclusione di un accordo informale grazie al quale i due Paesi hanno stabilito una moratoria sulle attività di esplorazione di idrocarburi in una vasta area offshore ad est di Malta.

La trattativa intavolata da Matteo Renzi e il suo omonimo Joseph Muscat - che si sono incontrati più volte - avrebbe anche riguardato un più stretto coordinamento nella gestione delle operazioni di salvataggio nella zona Sar (Search and rescue) maltese.

Rivendicazioni italiane
Tutto bene dunque? Sembrerebbe di sì per chi ricordi le violente polemiche del passato sulle operazioni Sar e sul luogo in cui trasportare i migranti o analizzi il testo del decreto del 27 dicembre 2012 (Decreto Passera).

Con tale decreto depositato alle Nazioni Unite, l'Italia ha aperto alla ricerca una grande area ad est del meridiano 15° 10' tenendo conto delle indicazioni risultanti dalla sentenza emessa nel 1985 dalla Corte internazionale di giustizia nella causa Malta-Libia.

Il nostro Paese era intervenuto nel procedimento per affermare, come terzo, i suoi diritti a un confine tracciato secondo principi equitativi di proporzionalità tra le coste rilevanti da prendere a riferimento per la delimitazione (Malta aspira invece ad una rigida linea di equidistanza con la Sicilia).

Lo stesso decreto era strumentale all'avvio di attività di ricerca congiunta con Malta, ma Valletta lo ha implicitamente contestato dando concessioni per prospezioni in proprie pretese aree ricadenti nella zona italiana.

Di qui l'esigenza di stemperare la tensione diplomatica con una misura di confidenza reciproca come la moratoria.

Libia nelle questioni energetiche italo-maltesi 
La Libia, qualunque sia il suo governo di riferimento, è direttamente interessata alle questioni energetiche italo-maltesi considerato che in passato si è aperta una disputa tra Tripoli e Valletta per le trivellazioni in un'area a sud di Malta ed a est di quella definita con accordo nel 1985.

Il problema è che il limite meridionale della zona disputata da Roma e Valletta confina in ogni caso con la piattaforma continentale (Pc) libica; perciò è indispensabile che i due Paesi rassicurino la dirigenza libica sul fatto che gli interessi libici saranno tenuti in debito conto.

D'altronde, non a caso, l'area italiana di ricerca stabilita con il decreto Passera si tiene prudentemente a nord dell'ipotetica Pc libica.

Le zone di Pc italiana aperte alla ricerca: in rosso la zona contestata da Malta (fonte MISE).

Piattaforma continentale e Zona economica esclusiva
Il limite stabilito per la Pc vale oramai, secondo la prassi più recente, anche per la sovrastante colonna d'acqua della Zona economica esclusiva, Zee, a meno di diversa scelta delle parti interessate.

Italia e Malta hanno sinora sempre parlato di Pc, ma domani i confini concordati potranno essere gli stessi della Zee. I settori del nostro Paese ostili alle trivellazioni potrebbero plaudere alla moratoria italo-maltese.

Ma è bene sapere che l'Italia è paladina nel Mediterraneo della tutela dell'ambiente marino e che questo postula la creazione di estese zone nazionali di protezione ecologica (Zpe): concordare con Malta un determinato confine per la Pc potrebbe poi limitare le nostre ambizioni ambientaliste.

Oltretutto se Malta dichiarasse una Zee anche i pescatori italiani subirebbero restrizioni (già ora sono penalizzati nella zona di protezione della pesca maltese di 25 mg).

Relazioni italo-maltesi
Dal 1980 l'Italia è legata a Malta da un Trattato di garanzia della neutralità maltese che sinora è stato l'architrave della relazione speciale che unisce i due Paesi.

Rilanciare tale relazione, attualizzarla nell'odierno contesto europeo e strutturarla in modo duraturo è ora la sfida che dovrà essere vinta dopo la moratoria informale sulle trivellazioni.

Per far questo è necessario che i due Paesi trasformino in atti concreti l'intesa politica, stipulando un accordo sulle frontiere marittime o richiedendo a un organo di giurisdizione internazionale come la Corte Internazionale di Giustizia di risolvere la controversia.

È tempo inoltre che l'Italia proponga a Malta di regolamentare con un memorandum la cooperazione Sar visto che non è più possibile per noi continuare ad operare de facto, con ingenti oneri, nella zona Sar maltese i cui limiti si sovrappongono a quelli italiani, persino nelle Isole Pelagie.

Fabio Caffio è ufficiale della Marina militare in congedo, esperto di diritto internazionale marittimo.
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lunedì 19 ottobre 2015

La PEV e il dialogo critico con la Russia

Politica europea di vicinato
Italia, la vicina dei vicini dice la sua
Giulia Bonacquisti
16/10/2015
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Lungi dall’essere realizzati. Così appaiono, a undici anni dal lancio della Politica Europea di Vicinato, Pev, gli obiettivi chiave che ne erano alla base.

La creazione alle frontiere dell’Unione europea, Ue, di uno spazio di prosperità e di buon vicinato caratterizzato da relazioni strette e pacifiche e la nascita di un’area di stabilità intorno all’Ue che evitino la formazione di nuove linee di divisione tra l’Europa allargata e suoi vicini sono ancora lontane.

Al contrario, la Pev fronteggia oggi un numero considerevole di sfide provenienti da più parti. Non solo questa politica ha messo in evidenza un fallimento del potere strutturale dell’Ue, ma quest’ultima si trova inoltre a fronteggiare sempre di più dei poteri strutturali concorrenti nel proprio vicinato - come la Russia ad Est o l’autoproclamatosi “stato islamico” a Sud.

Mogherini e la consultazione pubblica sulla Pev
Alla luce di tale fallimento, il Commissario per il vicinato e l’allargamento Johannes Hahn e l’Alta Rappresentante/Vice-Presidente della Commissione Federica Mogherini hanno lanciato all’inizio di quest’anno una consultazione pubblica in merito ad una “riforma fondamentale” di tale politica, che culminerà in novembre, quando verrà probabilmente presentata una proposta di riforma della Pev.

Tra le centinaia di contributi ricevuti dalla Commissione e pubblicati sul sito della consultazione, una risoluzione redatta dalla Commissione Affari Esteri del Senato della Repubblica permette di gettare uno sguardo sul punto di vista italiano sulla questione, nonché di osservare come il punto di vista di uno Stato membro in merito ad un’importante politica estera europea si inserisca e sia influenzato dalle specificità della sua politica estera nazionale.

Il documento redatto dal Senato affronta numerose questioni sollevate dalla Commissione Europea e dall’Alta Rappresentante all’apertura della consultazione. Tuttavia, alcune ci sembrano particolarmente cruciali al fine di situare il Senato nel più ampio dibattito in sede europea.

La Pev dovrebbe essere mantenuta entro un quadro istituzionale unitario? Gli strumenti attuali sono ancora pertinenti? Quale dovrebbe essere l’approccio della nuova politica nei confronti dei cosiddetti “vicini dei vicini”? Quale il ruolo della Pev all’interno della più ampia politica estera dell’Ue?

Senato, proposte di riforma della Pev
La constatazione di partenza del Senato, comune a molti dei contributi circolati in questi mesi sulla politica di vicinato, è quello di una eccessiva burocratizzazione della Pev, che sarebbe oggi svincolata da una visione politica sottostante.

Dunque, secondo la Camera Alta, la nuova politica di vicinato dovrebbe sì inscriversi in un quadro istituzionale unitario - così come avviene attualmente - ma dovrebbe essere integrata all’interno della politica estera, di sicurezza e di difesa dell’Ue, e il ruolo dell’Alto Rappresentante e del Servizio Europeo per l’azione esterna (Seae) rafforzato.

È interessante notare come questo tema sia evocato da molte autorevoli voci all’interno del dibattito europeo sulla riforma della Pev, le quali auspicano che tale riforma avvenga di pari passo con la revisione della Strategia Europea di Sicurezza.

La specificità italiana emerge soprattutto in merito alla tematica dei “vicini dei vicini”, quella che nel dibattito sulla riforma della Pev è forse la più spinosa e controversa, soprattutto per quanto riguarda il vicinato orientale. Infatti, il coinvolgimento di tali attori nella nuova politica rappresenta per il Senato “un’assoluta necessità”, e nonostante la tradizionale priorità accordata dall’Italia al vicinato mediterraneo, la Camera Alta dedica anche alcuni passaggi fondamentali proprio al versante Est.

Dialogo critico con la Russia
Se a Sud l’Assemblea esorta a un rafforzamento del dialogo con i paesi di origine dei flussi migratori, per quanto riguarda il vicinato orientale emerge nella risoluzione l’urgenza di un dialogo ravvicinato e sistematico con la Russia.

Questo approccio appare coerente con la linea adottata dall’Italia nei confronti del grande paese eurasiatico in un momento carico di tensioni come quello che caratterizza le relazioni Russia-Ue negli ultimi anni.

Tale approccio, sintetizzabile nella formula del “dialogo critico”, mira infatti a combinare una certa risolutezza in merito al dossier ucraino e la piena consapevolezza dell’importanza di mantenere dei canali di dialogo con Mosca. Infatti, si legge nella risoluzione, tale dialogo “non sempre si è dispiegato pienamente, come nel caso dell’Accordo di partenariato con l’Ucraina, concluso senza considerazione delle legittime preoccupazioni della Federazione Russa”.

Il Senato s’inserisce inoltre nel dibattito riguardante gli strumenti della Pev affermando la necessità di mitigare il modello del “more for more” - un’espressione di quella condizionalità della Pev da più parti criticata per la sua incoerenza e la sua scarsa legittimità.

Inoltre, prosegue la Camera Alta, se è vero che gli accordi di associazione e di libero scambio - a oggi i due strumenti principali della Pev - rappresentano l’obiettivo ottimale nei rapporti di vicinato, è anche vero che questi non possono essere considerati l’unica loro possibile evoluzione.

Emerge qui tutta la critica all’approccio one-size-fits-all che l’Ue non è riuscita a scongiurare nel mettere a punto una politica unica destinata a paesi profondamente diversi tra loro, una politica che ad oggi non ha saputo tenere adeguatamente in considerazione le condizioni, i bisogni e le aspirazioni specifici ad ogni paese né gli interessi dell’Ue stessa.

Resta da vedere quanto la Commissione e l’Alta Rappresentante faranno proprio degli input ricevuti dagli Stati membri, ma anche da associazioni, think tank e università, nella riforma di questa politica indirizzata a un vicinato sempre più turbolento.

Giulia Bonacquisti è laureata in Scienze Politiche e Studi europei presso l'Università degli Studi Roma Tre. Si occupa principalmente di Unione europea e Politica europea di Vicinato.
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mercoledì 14 ottobre 2015

Camporini: riflessioni pertinenti: siamo o non siamo?

La forza e le baionette 
Italia grande potenza oppure no 
Vincenzo Camporini
08/10/2015
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Stimare le capacità militari di un determinato Stato è uno degli esercizi più complessi e difficili con cui gli Stati Maggiori dei maggiori Paesi si misurano continuamente, investendovi significative risorse umane (a livello di analisti e di “intelligence”) e finanziarie.

Le capacità militari sono il prodotto di numerosi e diversi fattori, fra cui: la qualità e l’età media degli uomini impiegati, l’organizzazione e la struttura delle Forze Armate, la catena di comando, l’esperienza e l’addestramento, le modalità di reclutamento e di formazione, gli equipaggiamenti di cui è dotato lo strumento militare in tutti i campi (sorveglianza, acquisizione informazioni, comunicazione, elaborazione, sistemi di difesa e di attacco, capacità di trasporto e di supporto logistico, ecc.).

Anche limitandosi agli equipaggiamenti, incidono molteplici fattori, fra cui: età e modernità, standardizzazione e omogeneità, stato di usura, manutenzione, oltre che numero reale (cioè quanti sono effettivamente operativi e non quanti sono stati acquistati e magari sono ormai inutilizzabili o richiedono tempo per tornare disponibili).

La maggior parte di queste informazioni sono gelosamente custodite perché coinvolgono la sicurezza nazionale (anche sul piano della deterrenza) o semplicemente per ragioni di immagine. In ogni caso richiedono una grande competenza per poter essere tenute aggiornate e analizzate, fornendo valutazioni credibili sulle effettive capacità militari.

Si potrebbero, quindi, semplificare queste riflessioni sostenendo che queste capacità non si “contano” ma si “pesano”. La storia offre innumerevoli esempi contrari. Con gli “otto milioni di baionette” il Duce pensava di poter sfondare facilmente il confine italo-francese, “spezzare le reni alla Grecia”, occupare Malta, difendere le colonie: si sa come è finita. Nelle guerre arabo-israeliane, i Paesi arabi contavano sulla loro assoluta superiorità in termini di uomini e mezzi: non è servita a niente.

Il rapporto dell’Istituto di Ricerca del Credit Suisse
Stupiscono, quindi, solo in parte i dati riportati dal quotidiano Italia Oggi del 1̊ ottobre e attribuiti ad un rapporto dell’Istituto di Ricerca del Credit Suisse: sulla base di un discutibile paniere, che per di più si riferisce alle quantità di mezzi acquistati, è stata stilata una classifica della “potenza militare” dei vari Paesi, in cui l’Italia è collocata all’ottavo posto nel mondo e al secondo in Europa, davanti a Regno Unito e Germania.

Il paniere fa riferimento al personale e al numero di carri armati, aerei, elicotteri d’attacco, portaerei e sottomarini. Già questa scelta appare opinabile, ma, soprattutto, “datata”: con lo sviluppo tecnologico e le guerre asimmetriche, forse contano di più le capacità di sorveglianza (anche satellitare), di comunicazione, di guerra elettronica, di trasporto.

Ma resta sullo sfondo soprattutto una domanda: se il risultato di una determinata analisi è palesemente ai limiti del ridicolo, per lo meno per l’Italia, non dovrebbe sorgere il dubbio che la metodologia sia sbagliata?

Sulla base delle informazioni pubblicate, questo dubbio avrebbe dovuto sicuramente consigliare maggiore prudenza: se questa è la capacità di analisi dell’Istituto di Ricerca del Credit Suisse, sono ben felice di non avere mai affidato loro i miei risparmi.

In realtà l’Italia è, fra i Paesi Nato e dell’Unione Europea, fra quelli che spendono di meno per la difesa. Siamo da anni sotto l’1% contro l’1,5% considerato soglia minima nell’Alleanza Atlantica e riferimento internazionale. Poiché la moltiplicazione dei pani e dei pesci è di un altro mondo, non si capisce come con questi investimenti l’Italia potrebbe avere sviluppato la potenza militare che nel rapporto le sarebbe stata attribuita.

Forse anche per questo, la notizia non sembra aver destato grande curiosità. Ma magari, con questa scusa, qualcuno potrebbe pensare che in tempi di spending review permanente, il Bancomat della Difesa possa ancora essere utilizzato.

Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.
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venerdì 9 ottobre 2015

Italia e Califfato . IV Il pensiero del gen. Mario Arpino

Impegno italiano contro il Califfo
Iraq, se per i nostri cambiano le regole di ingaggio
Mario Arpino
08/10/2015
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Ci risiamo. Il governo ha appena accennato all'eventualità, tuttora allo studio, che Tornado italiani possano partecipare - nell'ambito della coalizione di cui facciamo parte - alle operazioni contro l’autoproclamatosi “stato islamico” in Iraq, che i soliti noti si stanno scatenando.

Verrebbe da porsi anche una domanda: perché per l'attacco alla Libia, con mesi di bombardamenti sui nostri stessi interessi nazionali, nessuno ha avuto niente da dire? Mistero. Se si bombardano i tagliagole in Italia si protesta, se si bombardano i nostri interessi tutto va bene. Prendiamone atto, e ringraziamo chi di dovere.

Verso un maggior contributo italiano
Nel quadro delle operazioni contro il Califfato, il pattugliamento spetta al Centocom, il Comando Centrale Usa geograficamente competente, dove siedono permanentemente anche i rappresentanti dei partecipanti alla coalizione.

Il distaccamento svolge a supporto di questo Comando, quindi a beneficio di tutti gli alleati, un ruolo di rilievo fornendo in tempo reale buona parte dell’intelligence necessaria per le operazioni.

Ora che queste attività si stanno intensificando, è assai probabile - forse è già stato fatto nell'ambito della "secret diplomacy" - che sia richiesto anche all’Italia, che ha già sul terreno, in qualità di addestratori, paracadutisti della Folgore e carabinieri, di allargare il proprio contributo partecipando con gli stessi velivoli anche agli attacchi contro le forze dello “stato islamico”.

Tornado sull’Iraq
Nulla di nuovo: a venticinque anni da Desert Storm - quella che i piloti chiamano la “guerra dimenticata” - i Tornado forse ritorneranno a sganciare bombe sull’Iraq.

Di precisione, questa volta, come in Libia, visto che velivoli, armamenti, tattiche e addestramento da allora sono stati significativamente aggiornati.

Il Governo ha fatto sapere che questa è solo un’ipotesi da valutare, ma certamente l’Aeronautica Militare è pronta a farlo a poche ore dall'ordine, essendo i Tornado multiruolo, gli equipaggi polivalenti e l'armamento con ogni probabilità già disponibile in loco.

D’altro canto, mantenere prontezza immediata per ogni evenienza è compito di istituto delle Forze Armate. Sempre che continuino ad essere in condizione di svolgerlo, considerati i nuovi tagli già annunciati nelle incombenti leggi di stabilità.

Iraq e Siria, il diverso approccio italiano
Perché in Iraq forse interverremo a fuoco, ed in Siria no? Buona domanda.

Innanzitutto è questione di legittimità: il governo iracheno ha chiesto a tutta la coalizione di bombardare lo “stato islamico”, mentre la Siria lo ha chiesto solamente ai russi.

Secondo, perché, anche grazie al nostro contributo di intelligence, in Iraq la situazione sul terreno è molto più chiara. Quindi eventuali errori - sempre possibili - sono assai meno probabili.

I cacciabombardieri servono?
Visto che parliamo di bombe, sorgono spontanei altri interrogativi.

Si è mai accorto nessuno che ogni volta che il nostro Parlamento autorizza nelle varie coalizioni il contributo della nostra Aeronautica, da 25 anni invia i "cattivi" cacciabombardieri?

Chi ha partecipato alle operazioni belliche di Desert Storm in Iraq nel 1991 ricorda ancora le polemiche contro questo tipo di impiego. Tornado che, successivamente, assieme agli Amx-Ghibli hanno sganciato bombe contro le batterie che martoriavano Sarajevo e, ancora, per la liberazione del Kosovo. E così in Iraq, e poi ancora in Afganistan.

Allora, i cacciabombardieri servono o non servono? Sono o non sono gli strumenti della nostra politica più frequentemente utilizzati? E allora, dobbiamo uscire dal paradosso: o cambiamo politica, o la smettiamo con le lagne ideologiche sui cattivi cacciabombardieri. Incluso l'F-35 Joint Strike Fighter, unico successore di Tornado e Amx.

Fatte queste riflessioni, semplici e forse ingenue, è chiaro che ogni decisione in termini di intervento armato, di approvvigionamento dei mezzi e di reperimento dei fondi ricade nelle responsabilità del Parlamento.

Le forze Armate si faranno trovare pronte ed eseguiranno bene le missioni loro ordinate. Anche quelle sbagliate, come in Libia nel 2011.

Ufficiale pilota in congedo dell’aeronautica Militare, Mario Arpino collabora come pubblicista a diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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Italia ed Califfato. III Analisi della nostra partecipazione militare

Impegno italiano contro il Califfo
Chiarezza e paradossi sui Tornado anti-Isis
Alessandro Marrone
08/10/2015
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La questione di eventuali bombardamenti aerei italiani in Iraq, di cui ha parlato la stampa, senza però che ci sia stata, per ora, una conferma ufficiale, presenta diversi aspetti da chiarire e tre paradossi.

Targeting, ovvero quasi bombardare
Chiariamo innanzitutto quali sonoi compiti svolti oggi dai velivoli italiani impegnati in Iraq. Gli aerei Tornado, ed i velivoli a pilotaggio remoto Predator, compiono sortite di intelligence, ricognizione, sorveglianza, ed acquisizione degli obiettivi (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition and Reconnaissance - ISTAR).

In particolare, l’acquisizione dell’obiettivo consiste nell’identificazione e localizzazione del bersaglio attraverso i sensori in dotazione ai velivolo, al fine di colpirlo e distruggerlo.

I Tornado non compiono questa ultima azione, che è invece svolta dai velivoli alleati a cui i caccia italiani passano, spesso in tempo reale, il compito. Se è quindi vero che i piloti italiani non effettuano bombardamenti, è altrettanto vero che sono pienamente integrati nelle operazioni svolte dal contingente internazionale. Il passo tra indicare il bersaglio da colpire (targeting) e colpirlo direttamente (bombing) è breve, in termini militari.

Il ruolo italiano nella coalizione internazionale
L’azione dei velivoli italiano si colloca in un più ampio contributo nazionale che vede anche la presenza significativa di addestratori delle forze armate irachene, le quali combattono sul terreno lo stato islamico, la fornitura di equipaggiamenti militari, ed altre forme di supporto, su richiesta del legittimo governo iracheno.

Una situazione politica, diplomatica e militare diversa da quella della Siria, fermo restando la forte interconnessione dei due teatri operativi.

In questo contesto, l’eventuale scelta di includere nei compiti dei Tornado anche quello di bombardare sarebbe in linea con l’azione dell’Italia svolta dal 2014 nel teatro iracheno, e con le relative decisioni prese a suo tempo dalle autorità politiche italiane.

È quindi paradossale parlare di “entrata in guerra” dell’Italia: il contingente italiano è già parte del dispositivo militare internazionale che da più di un anno combatte lo stato islamico.

È una questione politica…
Il fatto che passare dal targeting al bombardamento sia un passo militarmente breve non diminuisce la valenza politica di una eventuale scelta in tal senso. Si tratta infatti di collocare il contributo militare in una strategia volta sia a stabilizzare la regione del Mediterraneo, sia ad ottenere dagli alleati maggiore ascolto per le istanze italiane nelle aree di crisi più importanti per gli interessi nazionali, a partire dalla Libia.

In altre parole, si tratta di fare politica di difesa e politica estera, collocando ogni azione militare - con i suoi inevitabili costi e rischi - in una strategia che raccorda obiettivi, mezzi e modi per raggiungerli, considerando eventuali cambiamenti in teatro e/o nei rapporti con gli alleati.

Sarebbe quindi bello se, anche in Italia, la riflessione ed il processo decisionale si svolgessero in primo luogo nelle istituzioni competenti, quali il Ministero della Difesa, il Ministero degli Esteri e soprattutto la Presidenza del Consiglio.

Un dibattito che, a quel che pare, avviene al traino di anticipazioni giornalistiche che sembrano aver preceduto l’inizio dell’eventuale processo decisionale, è piuttosto paradossale e di certo non promette bene.

Il coniglio dal cilindro e i tagli alla difesa
Un terzo paradosso è costituito dalla disconnessione tra la fiammata di dibattito su eventuali bombardamenti italiani e le risorse necessarie per questa campagna militare, ed in generale per raggiungere gli obiettivi della politica di difesa - ed estera – dell’Italia.

Lo strumento rappresentato per l’Italia dalla sua partecipazione alla missione internazionale in Iraq, e concretizzato dai caccia Tornado, dai droni Predator e da assetti ed uomini dispiegati in teatro, non è un coniglio magicamente uscito dal cilindro di un prestigiatore.

È il frutto di un investimento fatto da un lato negli equipaggiamenti oggi in servizio e d’altro lato nella formazione e nell’addestramento dei militari oggi impegnati nelle missioni internazionali.

È quindi paradossale che si parli di ampliare i compiti dei militari italiani senza preoccuparsi dei tagli che negli ultimi anni hanno investito il bilancio della difesa, sia nell’acquisizione dei mezzi, sia nella formazione e addestramento delle forze armate, nella manutenzione degli equipaggiamenti e negli altri costi operativi.

Tagli che invece oggi andrebbero compensati da maggiori risorse, come fanno i maggiori Paesi europei viste le crisi in corso ai confini dell’Ue.

Se non si fa seriamente politica di difesa, l’attuale dibattito su eventuali bombardamenti italiani in Iraq rimarrà non solo paradossale, ma anche infondato e forse dannoso.

Alessandro Marrone è Responsabile di Ricerca nel Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: Alessandro_Ma).
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