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giovedì 29 ottobre 2015

Rapporti Roma La Valletta sulla ricerca petrolifera

Mediterraneo, energia 
Malta e Italia concordano moratoria trivellazioni
Fabio Caffio
19/10/2015
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Un nuovo capitolo si è aperto nelle relazioni italo-maltesi: Roma e Valletta hanno concordato "informalmente" di sospendere le trivellazioni nell'area a sud-est della Sicilia, lasciando intravedere una possibile soluzione della controversia su questa porzione di mare.

L'intesa sembra frutto di scelte politiche che non possono prescindere dalla risoluzione delle questioni marittime di delimitazione. Otre all’Italia e a Malta, vi è un terzo interessato: la Libia che dovrebbe diventare parte della trattativa.

Moratoria sulle esplorazioni di idrocarburi 
L'Ambasciata d'Italia a Valletta ha dato notizia della conclusione di un accordo informale grazie al quale i due Paesi hanno stabilito una moratoria sulle attività di esplorazione di idrocarburi in una vasta area offshore ad est di Malta.

La trattativa intavolata da Matteo Renzi e il suo omonimo Joseph Muscat - che si sono incontrati più volte - avrebbe anche riguardato un più stretto coordinamento nella gestione delle operazioni di salvataggio nella zona Sar (Search and rescue) maltese.

Rivendicazioni italiane
Tutto bene dunque? Sembrerebbe di sì per chi ricordi le violente polemiche del passato sulle operazioni Sar e sul luogo in cui trasportare i migranti o analizzi il testo del decreto del 27 dicembre 2012 (Decreto Passera).

Con tale decreto depositato alle Nazioni Unite, l'Italia ha aperto alla ricerca una grande area ad est del meridiano 15° 10' tenendo conto delle indicazioni risultanti dalla sentenza emessa nel 1985 dalla Corte internazionale di giustizia nella causa Malta-Libia.

Il nostro Paese era intervenuto nel procedimento per affermare, come terzo, i suoi diritti a un confine tracciato secondo principi equitativi di proporzionalità tra le coste rilevanti da prendere a riferimento per la delimitazione (Malta aspira invece ad una rigida linea di equidistanza con la Sicilia).

Lo stesso decreto era strumentale all'avvio di attività di ricerca congiunta con Malta, ma Valletta lo ha implicitamente contestato dando concessioni per prospezioni in proprie pretese aree ricadenti nella zona italiana.

Di qui l'esigenza di stemperare la tensione diplomatica con una misura di confidenza reciproca come la moratoria.

Libia nelle questioni energetiche italo-maltesi 
La Libia, qualunque sia il suo governo di riferimento, è direttamente interessata alle questioni energetiche italo-maltesi considerato che in passato si è aperta una disputa tra Tripoli e Valletta per le trivellazioni in un'area a sud di Malta ed a est di quella definita con accordo nel 1985.

Il problema è che il limite meridionale della zona disputata da Roma e Valletta confina in ogni caso con la piattaforma continentale (Pc) libica; perciò è indispensabile che i due Paesi rassicurino la dirigenza libica sul fatto che gli interessi libici saranno tenuti in debito conto.

D'altronde, non a caso, l'area italiana di ricerca stabilita con il decreto Passera si tiene prudentemente a nord dell'ipotetica Pc libica.

Le zone di Pc italiana aperte alla ricerca: in rosso la zona contestata da Malta (fonte MISE).

Piattaforma continentale e Zona economica esclusiva
Il limite stabilito per la Pc vale oramai, secondo la prassi più recente, anche per la sovrastante colonna d'acqua della Zona economica esclusiva, Zee, a meno di diversa scelta delle parti interessate.

Italia e Malta hanno sinora sempre parlato di Pc, ma domani i confini concordati potranno essere gli stessi della Zee. I settori del nostro Paese ostili alle trivellazioni potrebbero plaudere alla moratoria italo-maltese.

Ma è bene sapere che l'Italia è paladina nel Mediterraneo della tutela dell'ambiente marino e che questo postula la creazione di estese zone nazionali di protezione ecologica (Zpe): concordare con Malta un determinato confine per la Pc potrebbe poi limitare le nostre ambizioni ambientaliste.

Oltretutto se Malta dichiarasse una Zee anche i pescatori italiani subirebbero restrizioni (già ora sono penalizzati nella zona di protezione della pesca maltese di 25 mg).

Relazioni italo-maltesi
Dal 1980 l'Italia è legata a Malta da un Trattato di garanzia della neutralità maltese che sinora è stato l'architrave della relazione speciale che unisce i due Paesi.

Rilanciare tale relazione, attualizzarla nell'odierno contesto europeo e strutturarla in modo duraturo è ora la sfida che dovrà essere vinta dopo la moratoria informale sulle trivellazioni.

Per far questo è necessario che i due Paesi trasformino in atti concreti l'intesa politica, stipulando un accordo sulle frontiere marittime o richiedendo a un organo di giurisdizione internazionale come la Corte Internazionale di Giustizia di risolvere la controversia.

È tempo inoltre che l'Italia proponga a Malta di regolamentare con un memorandum la cooperazione Sar visto che non è più possibile per noi continuare ad operare de facto, con ingenti oneri, nella zona Sar maltese i cui limiti si sovrappongono a quelli italiani, persino nelle Isole Pelagie.

Fabio Caffio è ufficiale della Marina militare in congedo, esperto di diritto internazionale marittimo.
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lunedì 19 ottobre 2015

La PEV e il dialogo critico con la Russia

Politica europea di vicinato
Italia, la vicina dei vicini dice la sua
Giulia Bonacquisti
16/10/2015
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Lungi dall’essere realizzati. Così appaiono, a undici anni dal lancio della Politica Europea di Vicinato, Pev, gli obiettivi chiave che ne erano alla base.

La creazione alle frontiere dell’Unione europea, Ue, di uno spazio di prosperità e di buon vicinato caratterizzato da relazioni strette e pacifiche e la nascita di un’area di stabilità intorno all’Ue che evitino la formazione di nuove linee di divisione tra l’Europa allargata e suoi vicini sono ancora lontane.

Al contrario, la Pev fronteggia oggi un numero considerevole di sfide provenienti da più parti. Non solo questa politica ha messo in evidenza un fallimento del potere strutturale dell’Ue, ma quest’ultima si trova inoltre a fronteggiare sempre di più dei poteri strutturali concorrenti nel proprio vicinato - come la Russia ad Est o l’autoproclamatosi “stato islamico” a Sud.

Mogherini e la consultazione pubblica sulla Pev
Alla luce di tale fallimento, il Commissario per il vicinato e l’allargamento Johannes Hahn e l’Alta Rappresentante/Vice-Presidente della Commissione Federica Mogherini hanno lanciato all’inizio di quest’anno una consultazione pubblica in merito ad una “riforma fondamentale” di tale politica, che culminerà in novembre, quando verrà probabilmente presentata una proposta di riforma della Pev.

Tra le centinaia di contributi ricevuti dalla Commissione e pubblicati sul sito della consultazione, una risoluzione redatta dalla Commissione Affari Esteri del Senato della Repubblica permette di gettare uno sguardo sul punto di vista italiano sulla questione, nonché di osservare come il punto di vista di uno Stato membro in merito ad un’importante politica estera europea si inserisca e sia influenzato dalle specificità della sua politica estera nazionale.

Il documento redatto dal Senato affronta numerose questioni sollevate dalla Commissione Europea e dall’Alta Rappresentante all’apertura della consultazione. Tuttavia, alcune ci sembrano particolarmente cruciali al fine di situare il Senato nel più ampio dibattito in sede europea.

La Pev dovrebbe essere mantenuta entro un quadro istituzionale unitario? Gli strumenti attuali sono ancora pertinenti? Quale dovrebbe essere l’approccio della nuova politica nei confronti dei cosiddetti “vicini dei vicini”? Quale il ruolo della Pev all’interno della più ampia politica estera dell’Ue?

Senato, proposte di riforma della Pev
La constatazione di partenza del Senato, comune a molti dei contributi circolati in questi mesi sulla politica di vicinato, è quello di una eccessiva burocratizzazione della Pev, che sarebbe oggi svincolata da una visione politica sottostante.

Dunque, secondo la Camera Alta, la nuova politica di vicinato dovrebbe sì inscriversi in un quadro istituzionale unitario - così come avviene attualmente - ma dovrebbe essere integrata all’interno della politica estera, di sicurezza e di difesa dell’Ue, e il ruolo dell’Alto Rappresentante e del Servizio Europeo per l’azione esterna (Seae) rafforzato.

È interessante notare come questo tema sia evocato da molte autorevoli voci all’interno del dibattito europeo sulla riforma della Pev, le quali auspicano che tale riforma avvenga di pari passo con la revisione della Strategia Europea di Sicurezza.

La specificità italiana emerge soprattutto in merito alla tematica dei “vicini dei vicini”, quella che nel dibattito sulla riforma della Pev è forse la più spinosa e controversa, soprattutto per quanto riguarda il vicinato orientale. Infatti, il coinvolgimento di tali attori nella nuova politica rappresenta per il Senato “un’assoluta necessità”, e nonostante la tradizionale priorità accordata dall’Italia al vicinato mediterraneo, la Camera Alta dedica anche alcuni passaggi fondamentali proprio al versante Est.

Dialogo critico con la Russia
Se a Sud l’Assemblea esorta a un rafforzamento del dialogo con i paesi di origine dei flussi migratori, per quanto riguarda il vicinato orientale emerge nella risoluzione l’urgenza di un dialogo ravvicinato e sistematico con la Russia.

Questo approccio appare coerente con la linea adottata dall’Italia nei confronti del grande paese eurasiatico in un momento carico di tensioni come quello che caratterizza le relazioni Russia-Ue negli ultimi anni.

Tale approccio, sintetizzabile nella formula del “dialogo critico”, mira infatti a combinare una certa risolutezza in merito al dossier ucraino e la piena consapevolezza dell’importanza di mantenere dei canali di dialogo con Mosca. Infatti, si legge nella risoluzione, tale dialogo “non sempre si è dispiegato pienamente, come nel caso dell’Accordo di partenariato con l’Ucraina, concluso senza considerazione delle legittime preoccupazioni della Federazione Russa”.

Il Senato s’inserisce inoltre nel dibattito riguardante gli strumenti della Pev affermando la necessità di mitigare il modello del “more for more” - un’espressione di quella condizionalità della Pev da più parti criticata per la sua incoerenza e la sua scarsa legittimità.

Inoltre, prosegue la Camera Alta, se è vero che gli accordi di associazione e di libero scambio - a oggi i due strumenti principali della Pev - rappresentano l’obiettivo ottimale nei rapporti di vicinato, è anche vero che questi non possono essere considerati l’unica loro possibile evoluzione.

Emerge qui tutta la critica all’approccio one-size-fits-all che l’Ue non è riuscita a scongiurare nel mettere a punto una politica unica destinata a paesi profondamente diversi tra loro, una politica che ad oggi non ha saputo tenere adeguatamente in considerazione le condizioni, i bisogni e le aspirazioni specifici ad ogni paese né gli interessi dell’Ue stessa.

Resta da vedere quanto la Commissione e l’Alta Rappresentante faranno proprio degli input ricevuti dagli Stati membri, ma anche da associazioni, think tank e università, nella riforma di questa politica indirizzata a un vicinato sempre più turbolento.

Giulia Bonacquisti è laureata in Scienze Politiche e Studi europei presso l'Università degli Studi Roma Tre. Si occupa principalmente di Unione europea e Politica europea di Vicinato.
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mercoledì 14 ottobre 2015

Camporini: riflessioni pertinenti: siamo o non siamo?

La forza e le baionette 
Italia grande potenza oppure no 
Vincenzo Camporini
08/10/2015
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Stimare le capacità militari di un determinato Stato è uno degli esercizi più complessi e difficili con cui gli Stati Maggiori dei maggiori Paesi si misurano continuamente, investendovi significative risorse umane (a livello di analisti e di “intelligence”) e finanziarie.

Le capacità militari sono il prodotto di numerosi e diversi fattori, fra cui: la qualità e l’età media degli uomini impiegati, l’organizzazione e la struttura delle Forze Armate, la catena di comando, l’esperienza e l’addestramento, le modalità di reclutamento e di formazione, gli equipaggiamenti di cui è dotato lo strumento militare in tutti i campi (sorveglianza, acquisizione informazioni, comunicazione, elaborazione, sistemi di difesa e di attacco, capacità di trasporto e di supporto logistico, ecc.).

Anche limitandosi agli equipaggiamenti, incidono molteplici fattori, fra cui: età e modernità, standardizzazione e omogeneità, stato di usura, manutenzione, oltre che numero reale (cioè quanti sono effettivamente operativi e non quanti sono stati acquistati e magari sono ormai inutilizzabili o richiedono tempo per tornare disponibili).

La maggior parte di queste informazioni sono gelosamente custodite perché coinvolgono la sicurezza nazionale (anche sul piano della deterrenza) o semplicemente per ragioni di immagine. In ogni caso richiedono una grande competenza per poter essere tenute aggiornate e analizzate, fornendo valutazioni credibili sulle effettive capacità militari.

Si potrebbero, quindi, semplificare queste riflessioni sostenendo che queste capacità non si “contano” ma si “pesano”. La storia offre innumerevoli esempi contrari. Con gli “otto milioni di baionette” il Duce pensava di poter sfondare facilmente il confine italo-francese, “spezzare le reni alla Grecia”, occupare Malta, difendere le colonie: si sa come è finita. Nelle guerre arabo-israeliane, i Paesi arabi contavano sulla loro assoluta superiorità in termini di uomini e mezzi: non è servita a niente.

Il rapporto dell’Istituto di Ricerca del Credit Suisse
Stupiscono, quindi, solo in parte i dati riportati dal quotidiano Italia Oggi del 1̊ ottobre e attribuiti ad un rapporto dell’Istituto di Ricerca del Credit Suisse: sulla base di un discutibile paniere, che per di più si riferisce alle quantità di mezzi acquistati, è stata stilata una classifica della “potenza militare” dei vari Paesi, in cui l’Italia è collocata all’ottavo posto nel mondo e al secondo in Europa, davanti a Regno Unito e Germania.

Il paniere fa riferimento al personale e al numero di carri armati, aerei, elicotteri d’attacco, portaerei e sottomarini. Già questa scelta appare opinabile, ma, soprattutto, “datata”: con lo sviluppo tecnologico e le guerre asimmetriche, forse contano di più le capacità di sorveglianza (anche satellitare), di comunicazione, di guerra elettronica, di trasporto.

Ma resta sullo sfondo soprattutto una domanda: se il risultato di una determinata analisi è palesemente ai limiti del ridicolo, per lo meno per l’Italia, non dovrebbe sorgere il dubbio che la metodologia sia sbagliata?

Sulla base delle informazioni pubblicate, questo dubbio avrebbe dovuto sicuramente consigliare maggiore prudenza: se questa è la capacità di analisi dell’Istituto di Ricerca del Credit Suisse, sono ben felice di non avere mai affidato loro i miei risparmi.

In realtà l’Italia è, fra i Paesi Nato e dell’Unione Europea, fra quelli che spendono di meno per la difesa. Siamo da anni sotto l’1% contro l’1,5% considerato soglia minima nell’Alleanza Atlantica e riferimento internazionale. Poiché la moltiplicazione dei pani e dei pesci è di un altro mondo, non si capisce come con questi investimenti l’Italia potrebbe avere sviluppato la potenza militare che nel rapporto le sarebbe stata attribuita.

Forse anche per questo, la notizia non sembra aver destato grande curiosità. Ma magari, con questa scusa, qualcuno potrebbe pensare che in tempi di spending review permanente, il Bancomat della Difesa possa ancora essere utilizzato.

Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.
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venerdì 9 ottobre 2015

Italia e Califfato . IV Il pensiero del gen. Mario Arpino

Impegno italiano contro il Califfo
Iraq, se per i nostri cambiano le regole di ingaggio
Mario Arpino
08/10/2015
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Ci risiamo. Il governo ha appena accennato all'eventualità, tuttora allo studio, che Tornado italiani possano partecipare - nell'ambito della coalizione di cui facciamo parte - alle operazioni contro l’autoproclamatosi “stato islamico” in Iraq, che i soliti noti si stanno scatenando.

Verrebbe da porsi anche una domanda: perché per l'attacco alla Libia, con mesi di bombardamenti sui nostri stessi interessi nazionali, nessuno ha avuto niente da dire? Mistero. Se si bombardano i tagliagole in Italia si protesta, se si bombardano i nostri interessi tutto va bene. Prendiamone atto, e ringraziamo chi di dovere.

Verso un maggior contributo italiano
Nel quadro delle operazioni contro il Califfato, il pattugliamento spetta al Centocom, il Comando Centrale Usa geograficamente competente, dove siedono permanentemente anche i rappresentanti dei partecipanti alla coalizione.

Il distaccamento svolge a supporto di questo Comando, quindi a beneficio di tutti gli alleati, un ruolo di rilievo fornendo in tempo reale buona parte dell’intelligence necessaria per le operazioni.

Ora che queste attività si stanno intensificando, è assai probabile - forse è già stato fatto nell'ambito della "secret diplomacy" - che sia richiesto anche all’Italia, che ha già sul terreno, in qualità di addestratori, paracadutisti della Folgore e carabinieri, di allargare il proprio contributo partecipando con gli stessi velivoli anche agli attacchi contro le forze dello “stato islamico”.

Tornado sull’Iraq
Nulla di nuovo: a venticinque anni da Desert Storm - quella che i piloti chiamano la “guerra dimenticata” - i Tornado forse ritorneranno a sganciare bombe sull’Iraq.

Di precisione, questa volta, come in Libia, visto che velivoli, armamenti, tattiche e addestramento da allora sono stati significativamente aggiornati.

Il Governo ha fatto sapere che questa è solo un’ipotesi da valutare, ma certamente l’Aeronautica Militare è pronta a farlo a poche ore dall'ordine, essendo i Tornado multiruolo, gli equipaggi polivalenti e l'armamento con ogni probabilità già disponibile in loco.

D’altro canto, mantenere prontezza immediata per ogni evenienza è compito di istituto delle Forze Armate. Sempre che continuino ad essere in condizione di svolgerlo, considerati i nuovi tagli già annunciati nelle incombenti leggi di stabilità.

Iraq e Siria, il diverso approccio italiano
Perché in Iraq forse interverremo a fuoco, ed in Siria no? Buona domanda.

Innanzitutto è questione di legittimità: il governo iracheno ha chiesto a tutta la coalizione di bombardare lo “stato islamico”, mentre la Siria lo ha chiesto solamente ai russi.

Secondo, perché, anche grazie al nostro contributo di intelligence, in Iraq la situazione sul terreno è molto più chiara. Quindi eventuali errori - sempre possibili - sono assai meno probabili.

I cacciabombardieri servono?
Visto che parliamo di bombe, sorgono spontanei altri interrogativi.

Si è mai accorto nessuno che ogni volta che il nostro Parlamento autorizza nelle varie coalizioni il contributo della nostra Aeronautica, da 25 anni invia i "cattivi" cacciabombardieri?

Chi ha partecipato alle operazioni belliche di Desert Storm in Iraq nel 1991 ricorda ancora le polemiche contro questo tipo di impiego. Tornado che, successivamente, assieme agli Amx-Ghibli hanno sganciato bombe contro le batterie che martoriavano Sarajevo e, ancora, per la liberazione del Kosovo. E così in Iraq, e poi ancora in Afganistan.

Allora, i cacciabombardieri servono o non servono? Sono o non sono gli strumenti della nostra politica più frequentemente utilizzati? E allora, dobbiamo uscire dal paradosso: o cambiamo politica, o la smettiamo con le lagne ideologiche sui cattivi cacciabombardieri. Incluso l'F-35 Joint Strike Fighter, unico successore di Tornado e Amx.

Fatte queste riflessioni, semplici e forse ingenue, è chiaro che ogni decisione in termini di intervento armato, di approvvigionamento dei mezzi e di reperimento dei fondi ricade nelle responsabilità del Parlamento.

Le forze Armate si faranno trovare pronte ed eseguiranno bene le missioni loro ordinate. Anche quelle sbagliate, come in Libia nel 2011.

Ufficiale pilota in congedo dell’aeronautica Militare, Mario Arpino collabora come pubblicista a diversi quotidiani e riviste su temi relativi a politica militare, relazioni internazionali e Medioriente. È membro del Comitato direttivo dello IAI.
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Italia ed Califfato. III Analisi della nostra partecipazione militare

Impegno italiano contro il Califfo
Chiarezza e paradossi sui Tornado anti-Isis
Alessandro Marrone
08/10/2015
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La questione di eventuali bombardamenti aerei italiani in Iraq, di cui ha parlato la stampa, senza però che ci sia stata, per ora, una conferma ufficiale, presenta diversi aspetti da chiarire e tre paradossi.

Targeting, ovvero quasi bombardare
Chiariamo innanzitutto quali sonoi compiti svolti oggi dai velivoli italiani impegnati in Iraq. Gli aerei Tornado, ed i velivoli a pilotaggio remoto Predator, compiono sortite di intelligence, ricognizione, sorveglianza, ed acquisizione degli obiettivi (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition and Reconnaissance - ISTAR).

In particolare, l’acquisizione dell’obiettivo consiste nell’identificazione e localizzazione del bersaglio attraverso i sensori in dotazione ai velivolo, al fine di colpirlo e distruggerlo.

I Tornado non compiono questa ultima azione, che è invece svolta dai velivoli alleati a cui i caccia italiani passano, spesso in tempo reale, il compito. Se è quindi vero che i piloti italiani non effettuano bombardamenti, è altrettanto vero che sono pienamente integrati nelle operazioni svolte dal contingente internazionale. Il passo tra indicare il bersaglio da colpire (targeting) e colpirlo direttamente (bombing) è breve, in termini militari.

Il ruolo italiano nella coalizione internazionale
L’azione dei velivoli italiano si colloca in un più ampio contributo nazionale che vede anche la presenza significativa di addestratori delle forze armate irachene, le quali combattono sul terreno lo stato islamico, la fornitura di equipaggiamenti militari, ed altre forme di supporto, su richiesta del legittimo governo iracheno.

Una situazione politica, diplomatica e militare diversa da quella della Siria, fermo restando la forte interconnessione dei due teatri operativi.

In questo contesto, l’eventuale scelta di includere nei compiti dei Tornado anche quello di bombardare sarebbe in linea con l’azione dell’Italia svolta dal 2014 nel teatro iracheno, e con le relative decisioni prese a suo tempo dalle autorità politiche italiane.

È quindi paradossale parlare di “entrata in guerra” dell’Italia: il contingente italiano è già parte del dispositivo militare internazionale che da più di un anno combatte lo stato islamico.

È una questione politica…
Il fatto che passare dal targeting al bombardamento sia un passo militarmente breve non diminuisce la valenza politica di una eventuale scelta in tal senso. Si tratta infatti di collocare il contributo militare in una strategia volta sia a stabilizzare la regione del Mediterraneo, sia ad ottenere dagli alleati maggiore ascolto per le istanze italiane nelle aree di crisi più importanti per gli interessi nazionali, a partire dalla Libia.

In altre parole, si tratta di fare politica di difesa e politica estera, collocando ogni azione militare - con i suoi inevitabili costi e rischi - in una strategia che raccorda obiettivi, mezzi e modi per raggiungerli, considerando eventuali cambiamenti in teatro e/o nei rapporti con gli alleati.

Sarebbe quindi bello se, anche in Italia, la riflessione ed il processo decisionale si svolgessero in primo luogo nelle istituzioni competenti, quali il Ministero della Difesa, il Ministero degli Esteri e soprattutto la Presidenza del Consiglio.

Un dibattito che, a quel che pare, avviene al traino di anticipazioni giornalistiche che sembrano aver preceduto l’inizio dell’eventuale processo decisionale, è piuttosto paradossale e di certo non promette bene.

Il coniglio dal cilindro e i tagli alla difesa
Un terzo paradosso è costituito dalla disconnessione tra la fiammata di dibattito su eventuali bombardamenti italiani e le risorse necessarie per questa campagna militare, ed in generale per raggiungere gli obiettivi della politica di difesa - ed estera – dell’Italia.

Lo strumento rappresentato per l’Italia dalla sua partecipazione alla missione internazionale in Iraq, e concretizzato dai caccia Tornado, dai droni Predator e da assetti ed uomini dispiegati in teatro, non è un coniglio magicamente uscito dal cilindro di un prestigiatore.

È il frutto di un investimento fatto da un lato negli equipaggiamenti oggi in servizio e d’altro lato nella formazione e nell’addestramento dei militari oggi impegnati nelle missioni internazionali.

È quindi paradossale che si parli di ampliare i compiti dei militari italiani senza preoccuparsi dei tagli che negli ultimi anni hanno investito il bilancio della difesa, sia nell’acquisizione dei mezzi, sia nella formazione e addestramento delle forze armate, nella manutenzione degli equipaggiamenti e negli altri costi operativi.

Tagli che invece oggi andrebbero compensati da maggiori risorse, come fanno i maggiori Paesi europei viste le crisi in corso ai confini dell’Ue.

Se non si fa seriamente politica di difesa, l’attuale dibattito su eventuali bombardamenti italiani in Iraq rimarrà non solo paradossale, ma anche infondato e forse dannoso.

Alessandro Marrone è Responsabile di Ricerca nel Programma Sicurezza e Difesa dello IAI (Twitter: Alessandro_Ma).
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Italia ed il Califfato. II I bombardamenti: leciti o non leciti?

Impegno italiano contro il Califfo
La legittimità dei nostri Tornado in Iraq
Natalino Ronzitti
09/10/2015
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Nonostante la confusione che viene fatta, non solo nell’opposizione, ma anche nella maggioranza di governo, da quanti invocano a sproposito l’art. 11 della Costituzione o la Carta delle Nazioni Unite, Nu, la prospettiva di bombardamenti in Iraq solleva, da un punto di viso giuridico, tre problemi: a) la liceità dell’azione militare sotto il profilo del diritto internazionale; b) la necessità di coinvolgere il Parlamento nella presa di decisione; c) il rispetto delle regole di diritto umanitario.

Un’eventuale operazione di bombardamento contro le postazioni dell’autoproclamatosi “stato islamico” in Iraq è legittima e non necessita nessuna autorizzazione del Consiglio di Sicurezza Onu, ma solo la richiesta/consenso del governo iracheno.

Una risoluzione parlamentare, quantunque non strettamente necessaria, è secondo prassi opportuna e dovrebbe, auspicabilmente, delineare l’indirizzo della missione che dovrebbe rispettare scrupolosamente le regole di diritto internazionale.

Ma procediamo con ordine.

Azione militare e il diritto internazionale
Il conflitto attualmente in corso in Iraq è da configurare come un conflitto armato interno (o guerra civile), che oppone il governo costituito iracheno all’autoproclamatosi “stato islamico”.

I ribelli dell’Isil non sono altro che un gruppo insurrezionale (non uno stato, nonostante la dizione usata), che si oppone al governo legittimo o costituito. Niente di nuovo rispetto ad altri movimenti insurrezionali. Nuovi, si fa per dire, sono i metodi di combattimento dell’Isil, che impiega il terrorismo come principale arma di violenza bellica. L’Isil gode di una certa effettività, poiché controlla abbastanza stabilmente il territorio in cui è insediato, ma questo non lo rende ancora uno stato.

Secondo il diritto internazionale è lecito aiutare il governo costituito alle prese con l’insurrezione. Tanto più che il governo iracheno non è un esecutivo che si è macchiato di gravi crimini nella repressione dell’insurrezione come quello di Bashar al Assad in Siria.

Del resto l’Italia già accorda un sostegno logistico all’Iraq, avendo fornito armi ai curdi che combattono lo “stato islamico”, partecipando al loro addestramento insieme a quello della polizia irachena e con l’invio di Tornado in missione di ricognizione e illuminazione dei bersagli.

Ovviamente l’intervento a favore del governo costituito ne presuppone la richiesta o il consenso. Ciò che è avvenuto. Non è invece necessaria un’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nu.

Risoluzione parlamentare di indirizzo
Lasciamo perdere l’art. 11 della Costituzione che vieta la guerra di aggressione e l’uso della forza come strumento di offesa alla libertà dei popoli, chiaramente non applicabile nella fattispecie. Lasciamo inoltre da parte l’art. 78 della Costituzione e la delibera dello stato di guerra da parte delle Camere, come pure l’art. 87 relativo alla dichiarazione dello stato di guerra da parte del Presidente della Repubblica.

Nel caso concreto non si tratterebbe di “guerra”, di cui alle disposizioni costituzionali, anche a supporre che si dovessero inviare i Tornado in missione di bombardamento.

Tecnicamente una risoluzione “autorizzativa” da parte del Parlamento non sarebbe strettamente necessaria per l’invio di truppe all’estero in conflitti non qualificabili come “guerra”. Ma ormai si è affermata la prassi di far precedere l’invio di truppe da un dibattito parlamentare, accompagnato da una risoluzione. Prassi, peraltro, non sempre seguita.

Attualmente si discute se la risoluzione votata a Commissioni congiunte (Esteri e Difesa) di Camera e Senato nell’agosto del 2014 per l’invio di materiale logistico in Iraq copra anche la partecipazione dei Tornado ad azioni di bombardamento. Probabilmente una risoluzione di indirizzo sarebbe opportuna, soprattutto per ribadire il rispetto del diritto internazionale umanitario.

Nessuna operazione ai danni dei civili
Le operazioni belliche sono soggette alle regole del diritto internazionale umanitario. Specialmente durante i bombardamenti aerei occorre attenersi strettamente al loro rispetto in modo da colpire solo gli obiettivi militari, senza coinvolgere i civili e limitare al massimo i danni collaterali, talvolta inevitabili.

Per quanto riguarda i conflitti armati interni, come quello attualmente in corso in Iraq, l’Italia è obbligata al rispetto delle regole contenute nel II Protocollo addizionale alle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, mentre gli Stati Uniti non lo sono, quantunque abbiano spesso dichiarato di rispettare tali regole a titolo di diritto consuetudinario. Neppure l’Iraq ha ratificato il II Protocollo.

In una coalizione militare, la selezione degli obiettivi può comportare problemi e i Tornado italiani dovrebbero astenersi dal partecipare ad operazioni suscettibili di arrecare danni alla popolazioni civile. Il recente caso del bombardamento (per errore?) da parte degli Stati Uniti dell’ospedale dei Medici senza Frontiere in Afghanistan dovrebbe spingere alla massima cautela.

Pertanto una risoluzione parlamentare di indirizzo dovrebbe impegnare il governo ad evitare che le operazioni militari possano provocare danni alla popolazione civile. Spetterà poi al governo e ai ministeri interessati dettare le regole d’ingaggio, che ovviamente sono riservate, ma possono essere dotate di meccanismi volti a evitare la partecipazione con gli alleati ad operazione rischiose sotto il profilo del diritto internazionale umanitario.

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e Consigliere scientifico dello IAI.
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Italia e il Califfato. I

Impegno italiano contro il Califfo
Se l'Italia bombarda il Califfo
Stefano Silvestri
08/10/2015
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È possibile che l’Italia aumenti il suo impegno militare in Iraq nelle operazioni contro il cosiddetto califfato. È molto probabile che la Nato richieda un prolungamento della presenza militare in Afghanistan.

Le operazioni navali nel Golfo della Sirte si fanno più stringenti ed è possibile che un eventuale, difficilissimo accordo tra le varie fazioni libiche debba essere accompagnato da una presenza militare internazionale che potrebbe estendersi all’Italia.

Continuano altri impegni come la lotta alla pirateria nell’Oceano indiano e nel Mar Rosso, e la missione Unifil in Libano. In questi anni l’Italia era andata progressivamente riducendo il suo impegno militare oltremare, passando da un impiego complessivo di circa 10mila uomini ad uno di circa 4mila, ma il pendolo sembra nuovamente oscillare nella direzione opposta.

Riaffermare il ruolo e le posizioni italiane
Questa volta però l’impegno è politicamente molto più complesso. In passato si trattava essenzialmente di consolidare il ruolo e il rango dell’Italia negli equilibri internazionale come paese membro del G8 e del “primo cerchio” dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione europea.

Il contributo militare italiano alla gestione delle crisi e alla lotta al terrorismo era compreso in un ben consolidato discorso strategico globale. Oggi la situazione è per molti versi differente.

Rimane naturalmente l’obiettivo di riaffermare il ruolo italiano, fragilizzato dalla crisi economica e dagli sbandamenti nazionalistici di alcuni importanti alleati (nonché dalla posizione più defilata assunta dagli Stati Uniti), ma si delinea anche l’esigenza di dare maggiore credibilità ed udienza a posizioni italiane non sempre perfettamente in linea con quelle assunte dagli alleati.

Il vero e proprio movimento migratorio verso l’Europa scatenato dalla povertà e dai conflitti in corso in Africa e in Asia ha visto l’Italia investita in pieno, assieme ad altri paesi “fragili” dell’Europa, a cominciare dalla Grecia.

La ricerca della solidarietà europea è stata lunga e difficile e, anche se ora sembrano aprirsi consistenti spiragli, grazie al cambiamento di posizione del governo tedesco, si delinea l’esigenza di intervenire in modo più efficace nei paesi d’origine dei profughi e nei confronti dei criminali che speculano su queste tragedie: tutte cose che richiedono una strategia comune ancora ben lungi dall’essere delineata.

A questo si somma la crisi libica, resa più difficile dalle “sponsorizzazioni” esterne delle diverse fazioni in lotta nel paese.

È essenziale chiudere questo conflitto per evitare che esso si espanda al resto dell’Africa settentrionale (come è già accaduto in Mali), ma anche questo obiettivo richiede una linea comune europea.

Il governo italiano sembra finora aver puntato da un lato sulla mediazione delle Nazioni Unite e dall’altro sui buoni rapporti stabiliti con l’Egitto (e con Israele) e aver mantenuto aperto un dialogo con la Turchia. Essenziale però trovare un accordo in sede europea.

Ritorno della Russia in Medio Oriente
La crisi siriana - irachena ha visto l’entrata in campo della Russia, con modalità e fini almeno per ora poco conciliabili con quelli del resto della coalizione, ma l’Italia ha sempre sostenuto l’esigenza di mantenere aperto un dialogo serio con la Russia che in qualche modo ne riconosca ed accetti almeno parte degli interessi sostenuti dal Presidente Vladimir Putin.

Su questo punto l’accordo tra gli alleati è ancora lontano, ed è certamente reso più difficile dalle iniziative offensive della Russia, dall’Ucraina al Medio Oriente. Persino l’idea, che sembrava delinearsi, della costituzione di un “gruppo di contatto”, simile a quello che aveva operato nel corso delle guerre balcaniche, sembra oggi allontanarsi.

Italia, pochi margini di iniziativa
In questa situazione l’Italia ha pochissimi margini di iniziativa e, se si limitasse a manifestare il suo dissenso dalle posizioni assunte dagli alleati resterebbe esclusa dalle loro decisioni e subirebbe l’iniziativa altrui.

È quindi importante recuperare spazi di dialogo e di credibilità. Questa potrebbe essere la logica dietro l’eventuale decisione di partecipare alle operazioni in Iraq e di confermare l’impegno italiano nella gestione delle crisi assieme con gli alleati.

Naturalmente però non basta.

È necessario anche riprendere le fila dell’iniziativa politica, innanzitutto in Europa e nell’Alleanza Atlantica, alla ricerca di una strategia più efficace e più rispettosa dei nostri oltre che degli altrui interessi e valutazioni.

Da questo punto di vista sarebbe errato mettersi a polemizzare con chi dirige le istituzioni comuni europee, a cominciare dall’Alto Rappresentante, Federica Mogherini. È inevitabile che la sua funzione la porti a prendere posizioni e iniziative non sempre in linea con quelle dell’Italia, ma è anche innegabile che un rafforzamento del suo ruolo comporterebbe un beneficio strategico per l’Italia, diminuendone l’isolamento.

Stefano Silvestri è direttore di AffarInternazionali e consigliere scientifico dello IAI.
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