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giovedì 21 gennaio 2016

Difesa Europea ed Industrie per la Difesa

Il mercato europeo della difesa
La montagna e il topolino della difesa Ue
Michele Nones
09/01/2016
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Le due Direttive del 2009 sugli acquisti pubblici di prodotti per la difesa e la sicurezza e sui trasferimenti intra-comunitari di equipaggiamenti militari hanno previsto per il 2016 una verifica dei risultati conseguiti.

Parafrasando il proverbio italiano si può già anticipare che la montagna (l’Unione europea, Ue,) ha partorito un topolino (un finto mercato europeo della difesa): a distanza di più di sei anni l’Europa è rimasta frammentata in 28 mercati nazionali.

Per quanto riguarda le acquisizioni, si può stimare che la quota di mercato europeo soggetta a competizione in base alla Direttiva 2009/81 arrivi, forse, al 15%. I casi di mancata applicazione delle regole della competizione europea sono uscite dalla porta (riducendo il ricorso all’articolo 346 del Trattato che consente di derogare quando siano in gioco “gli interessi essenziali della sicurezza” degli Stati membri) per rientrare dalla finestra (le eccezioni previste dalla Direttiva per tener conto delle specificità del mercato della difesa).

Agli Stati membri è stata, infatti, lasciata la possibilità di non fare competizione per gli acquisti tramite organizzazioni internazionali e accordi governo-governo, per necessità militari urgenti e per programmi europei di nuovi equipaggiamenti, per programmi nazionali di ricerca e sviluppo fino ai dimostratori tecnologici, ecc. Il tutto, però, sottoposto all’esplicito impegno a non utilizzare queste eccezioni per aggirare la normativa europea e, in qualche caso, al previsto vaglio della Commissione.

Rinazionalizzazione delle acquisizioni
È pur vero che crisi economica e finanziaria hanno portato a una riduzione delle spese europee per equipaggiamenti, ma lo è altrettanto che non è stata avviata nessuna collaborazione europea e che sono stati finanziati solo programmi nazionali.

Questa “ri-nazionalizzazione” delle acquisizioni è avvenuta e sta avvenendo sotto gli occhi di tutti e della stessa Commissione che sembra impotente di fronte alle forzature messe in atto dagli Stati membri e persino a espliciti comportamenti di mancato rispetto della Direttiva come la richiesta di offset a fornitori europei.

Emblematico è il caso della Polonia: dopo aver fatto una gara internazionale per nuovi cinquanta elicotteri multiruolo chiedendo esplicitamente un piano di compensazioni industriali, il Ministro della Difesa polacco ha recentemente dichiarato che il contratto assegnato ad Airbus potrebbe essere cancellato in caso di mancato accordo sugli offset. E questo è solo il caso più eclatante.

La disomogeneità della difesa Ue
Fra le altre cose, non si è considerato un problema di fondo dell’Ue, quello della sua disomogeneità. Un sistema complesso per le acquisizioni di equipaggiamenti militari è già presente e gestibile nei grandi e medi paesi, ma non in quelli più piccoli. Per far fronte alle loro limitate esigenze avrebbero dovuto essere previste efficaci alternative, come regole semplificate o, meglio, il supporto di organismi europei come EDA o OCCAR.

Per quanto riguarda i trasferimenti intra-comunitari, il sistema previsto dalla Direttiva 2009/43 non sta funzionando e acquisire un prodotto in un altro Stato europeo comporta ritardi ed extra-costi, oltre a rischi per la sicurezza degli approvvigionamenti (visto che non c’è alcuna garanzia, ma nemmeno un esplicito impegno politico, di non interferenza sulle autorizzazioni necessarie).

Una parte dei problemi è derivata dai ritardi nell’implementazione della Direttiva da parte degli Stati membri (definizione delle liste dei prodotti soggetti alla Licenza Generale e delle procedure per la certificazione delle imprese, istituzione di efficaci sistemi di controllo sulle esportazioni) anche perché ci si è dimenticati, anche in questo caso, che molti piccoli paesi non hanno alcuna esperienza in questo campo, né interesse a investire risorse umane e finanziarie per affrontare problemi che di fatto non li riguardano.

Un’altra parte dei problemi è derivata dall’aver voluto (per motivi politici) e dovuto (per motivi giuridici) lasciare molte responsabilità agli Stati membri, in primis quella di stabilire le liste dei prodotti che, grazie alla Licenza Generale, potrebbero essere trasferiti senza una specifica autorizzazione: ogni paese ha fatto le sue liste creando invece che un mercato comune, una vera e propria Torre di Babele.

D’altra parte, l’aver affidato ai responsabili dei controlli il compito di applicare un sistema che, di fatto, ne riduce competenze e “poteri”, costringendoli a cambiare buone e cattive abitudini, si è dimostrato fallimentare, incontrando ostacoli e resistenze non ancora superati.

Direttive del 2009 non ancora applicate
Tutto questo è dipeso sicuramente da alcuni punti deboli delle due Direttive, ma soprattutto dall’atteggiamento di gran parte degli Stati membri che, dopo averle approvate, sembrano essersene rapidamente pentiti, mettendo in atto forme di resistenza passiva e, in alcuni casi, anche attiva. Quello che sembra soprattutto essere venuta meno è però la capacità e la volontà della Commissione.

In altri termini il sistema si sarebbe dovuto basare su un bilanciamento fra corretto comportamento degli Stati membri e monitoraggio da parte della Commissione che, come “guardiana dei Trattati”, avrebbe dovuto assicurare, a tutela di tutti e in particolare degli Stati “virtuosi”, il rispetto degli impegni presi.

A questo proposito non è fuori luogo ricordare che le normative europee sono il frutto di un processo di approvazione che coinvolge la Commissione Europea (designata dal Consiglio e votata dal Parlamento europeo), il Consiglio Europeo e il Parlamento Europeo: rappresentano, quindi, le nostre leggi, non quelle di qualcun altro. Il che non vuol dire, evidentemente, che non possono essere migliorate, ma che, nel frattempo, devono essere rispettate.

Per inciso va anche ricordato che queste due Direttive furono definite con un forte impegno della Presidenza semestrale francese dell’Ue, senza il quale non si sarebbe probabilmente arrivati da nessuna parte, ma, negli anni successivi, anche la Francia sembra aver cambiato posizione. L’obiettivo di una piena attuazione delle due Direttive è stato, per altro, ribadito anche nei due Consigli Europei dei capi di Stato e di governo del dicembre 2013 e del maggio 2015, ma per ora resta ancora molto lontano.

Se chi deve far rispettare le regole non lo fa, non ci si può, d’altra parte, aspettare che tutto funzioni. E la Commissione resta evidentemente distratta: nel pacchetto di procedure di infrazione del 2015 approvato a dicembre, nessuna riguarda il settore difesa. Se non si vuole minare la credibilità della Commissione e della stessa Unione Europea, sarebbe bene ripensarci.

Ma parallelamente bisognerebbe prevedere una politica di incentivi per i programmi di collaborazione europea, a livello fiscale (eliminazione dell’IVA e non calcolo ai fini del Patto di Stabilità) ed economico (finanziamento di ricerca e sviluppo di apparati “duali”, finanziamento per l’acquisto di nuovi equipaggiamenti, acquisizione da parte di organismi europei di equipaggiamenti “duali” per gestire, svolgere e supportare le missioni internazionali decise dall’UE e le stesse attività dell’Ue, come il controllo delle frontiere esterne). Oltre al “bastone” è indispensabile anche la “carota”.

Michele Nones è Direttore del programma Sicurezza e Difesa dello IAI.
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lunedì 11 gennaio 2016

ITALIA: DISOCCUPAZIONE:UNA GENERAZIONE AL PALO



Secondo i dati del FMI,senza una crescita economica adeguata, ci vorranno venti anni per ridurre il tasso di disoccupazione in Italia e riportarlo ai livelli antecedenti la crisi del 2008. . La crescita in Europa è ancora troppo lenta per rilanciare il mercato del alvoroe a poco sono servite le riforme e le iniziative dei Governi e delle istituzioni comunitarie.L’FMI, con particolare riguardo all’Italia, insiste sulla necessità di migliorare la flessibilità del mercato del lavoro, e l’efficienza della pubblica amministrazione, e procedere con speditezza alla attuazione delle rifome già progettate sui modelli di retribuzione e sul sistema educativo.. Il PIL della zona euro, in cui l’Italia è inserita, che vede la Germania domiare lascena con un ritmo di crescita pari all’1,5% salira dell’1,5% nel 2015 e dello 1,7% nel 2016. (7)

Massimo Coltrinari

giovedì 7 gennaio 2016

Roma: igli interessanti rapporti con Mosca

Relazioni Italia-Russia
Sanzioni alla Russia: una chance per l’Italia?
Daniele Fattibene
06/01/2016
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La recente decisione del Consiglio dell’Unione Europea (Ue) di estendere le sanzioni nei confronti della Russia fino al 31 luglio a seguito del mancato raggiungimento degli obiettivi degli accordi di Minsk non è andata liscia come previsto.

Durante una precedente riunione del Comitato dei Rappresentanti Permanenti (Coreper), l’Italia ha infatti chiesto di avviare una “discussione politica” sull’efficacia delle sanzioni nei prossimi mesi.

Un difficile equilibrio
L’atteggiamento italiano non ha stupito. Le relazioni tra Roma e Mosca nel periodo post-guerra fredda sono sempre state contraddistinte da un notevole realismo, dettato principalmente da ragioni economiche visto che l’Italia è il secondo partner commerciale della Russia in Europa dopo la Germania.

I governi nazionali hanno sempre cercato di trovare un difficile equilibrio tra Mosca e i partner euro-atlantici, attirandosi spesso le accuse di “filo-russismo”, come avvenuto per la nomina di Federica Mogherini nel 2014.

Da una parte, il Premier Matteo Renzi ha mantenuto una posizione accomodante verso il Cremlino, come si evince dai tanti avvenimenti degli ultimi mesi: dal programma per la Presidenza Italiana del Consiglio dell’Ue, all’invito a Putin a partecipare al Forum Asem nel 2014, per non parlare poi del famoso Forum Eurasiatico e dei richiami a un maggiore coinvolgimento della Russia nella lotta contro l’autoproclamatosi “stato islamico”.

Dall’altra parte l’Italia non ha smesso di giocare un ruolo importante sul piano transatlantico, come dimostrato dall’importante contributo dato a diverse missioni internazionali, o al recente impegno in Siria e Iraq.

Gli effetti delle sanzioni
La scelta del governo è stata senza dubbio dettata da forti pressioni interne, provenienti sia dal settore agro-alimentare e industriale, sia dalle forze politiche dell’opposizione, che continuano a richiedere a gran voce la revoca delle sanzioni a Mosca.

È tuttavia ancora difficile analizzare l’impatto di queste misure sull’economia nazionale. Se da una parte è facile individuarne gli effetti diretti (ad esempio osservando l’andamento dell’interscambio commerciale), assai meno semplice risulta invece la misurazione degli effetti indiretti. Inoltre non è da escludere che molte aziende siano riuscite ad attenuare le loro perdite re-indirizzando le vendite su altri mercati.

Appare pertanto difficile riconciliare le due posizioni emerse nel dibattito sulle sanzioni alla Russia. Da un lato molti attori politici ed economici puntano il dito contro la forte contrazione dell’interscambio con Mosca registrata negli ultimi mesi ( -25.9 per cento tra gennaio e novembre 2015 rispetto al 2014).

Il settore che sta soffrendo maggiormente gli effetti di sanzioni dell’Ue e contro-sanzioni russe è senza dubbio l’agro-alimentare e la Coldiretti e l’Ice stimano in 250 milioni di euro le perdite per questo comparto dell’economia nazionale tra effetti diretti e indiretti.

Dall’altro lato la Banca d’Italia ha sostenuto posizioni più mitigate, affermando che le sanzioni nei confronti della Russia avranno un effetto limitato per la crescita dell’economia nazionale.

Come emerge inoltre da uno studio del Parlamento europeo, il crollo dell’interscambio a livello europeo è imputabile anche alla forte recessione interna al Paese, i cui sintomi erano evidenti già prima della crisi in Ucraina.

Il Pil in caduta libera (-3.7 per cento nel 2015) unito a una notevole riduzione del potere d’acquisto dei cittadini per effetto di un’elevata inflazione (13 per cento) e di un rublo fortemente svalutato, hanno infatti comportato una drastica riduzione della domanda interna e quindi delle importazioni. In questo contesto, la riduzione dell’interscambio commerciale sarebbe dunque legata ad un complessivo deterioramento delle relazioni economiche tra Ue e Mosca.

Italia alla ricerca di una strategia più efficace
I prossimi mesi saranno cruciali per l’Italia per elaborare una strategia più efficace di quella attuale. L’azione diplomatica del nostro paese dovrebbe seguire due direzioni. In primis è necessario portare a compimento le clausole degli accordi di Minsk, condizione imprescindibile per riprendere un dialogo costruttivo con il Cremlino ed evitare di estendere le misure restrittive dal prossimo agosto.

In secondo luogo, l’Italia non deve isolarsi troppo a livello europeo provocando uno strappo brusco con gli altri stati membri sul tema delle sanzioni. Il Governo dovrebbe piuttosto fare squadra con quei Paesi che hanno pagato di più finora e che sono maggiormente esposti a un ulteriore tracollo delle relazioni commerciali con Mosca.

In questo contesto, una chance potrebbe essere fornita dai recenti malumori emersi in merito all’accordo tra Gazprom e un gruppo di compagnie energetiche europee per l’espansione del gasdotto North Stream che rischia di minare i progetti di Unione energetica. L’Italia può e deve usare questa carta non solo per dimostrare che la politica di due pesi e due misure non fa che minare la coesione europea ma soprattutto per evitare un pericoloso e improduttivo isolamento dai tavoli decisionali.

Daniele Fattibene è Assistente alla Ricerca del programma “Sicurezza e Difesa”dello IAI (Twitter: @danifatti).
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domenica 3 gennaio 2016

Italia: le ripercussioni economiche delle decisioni dei Grandi

Economia
L’Italia tra Fed e Bce
Simone Romano
21/12/2015
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Mario Draghi e Janet Yellen protagonisti dell’ultimo mese del 2015. Il primo ha accelerato, potenziando il programma di Quantitative Easing, QE, europeo, mentre la seconda ha rallentato, alzando per la prima volta dal 2008 i tassi di interesse.

Queste mosse di politica monetaria messe in atto dalla Federal Reserve, Fed, e dalla Banca centrale europea, Bce, hanno conseguenze che si estendono ben oltre i confini della loro competenza geografica, andando a influenzare in modo decisivo gli scenari macroeconomici a livello mondiale.

Che cosa comporta questo per l’Italia? I cambiamenti provocati dalle leve monetarie nei mercati valutari, energetici, delle materie prime e dei fondi mutuabili finiranno per avvantaggiare o svantaggiare la timida ripresa dell’economia italiana?

Tassi di interesse, flussi di capitali e mercati valutari
Tutto il 2015 è stato contrassegnato dall’attesa da parte degli operatori economici di una mossa monetaria restrittiva da parte della banca centrale americana. Questa si è concretizzata solo il 16 dicembre, con il rialzo di 25 punti base del tasso di rifinanziamento principale federale che è passato dallo 0,25% al 0,50%.

Le motivazioni alla base di questo primo passo in senso restrittivo sono fornite dagli incoraggianti dati macroeconomici statunitensi che confermano la ripresa economica e i bassi livelli di disoccupazione. Anche se l’anticipabilità e la progressività di questa restrizione monetaria hanno evitato reazione brusche nei mercati, non c’è dubbio chei suoi effetti influenzeranno l’attività di molte economie globali.

Il rendimento più alto offerto dai titoli statunitensi, insieme con l’aspettativa che questo continui a crescere nei prossimi mesi e anni, attrarrà molti capitali in entrata.

I tassi d’interesse ai minimi storici prevalenti in tutte le economie più sviluppate nel periodo successivo alla crisi (Usa, Uk, Unione europea, Giappone) avevano favorito il fenomeno del carry trade che aveva portato ingenti flussi di capitali a dirigersi verso i paesi in via di sviluppo che assicuravano tassi di rendimento maggiori.

Questa dinamica di rientro dei capitali verso gli Stati Uniti comporterà diversi problemi per le economie dei Paesi emergenti e per la stabilità finanziaria globale.

La valuta statunitense si rafforzerà a seguito dell’afflusso di capitali, aumentando così il peso del debito denominato in dollari che molte imprese dei Paesi in via di sviluppo hanno contratto negli ultimi anni, approfittando delle condizioni vantaggiose.

Per evitare un deprezzamento eccessivo della loro valuta rispetto al dollaro e la massiccia fuoriuscita di capitali, questi paesi potrebbero trovarsi costretti a imporre politiche monetarie restrittive. Ciò avrebbe conseguenze molto negative sulle loro economie, molte delle quali sono già duramente colpite dal tracollo dei prezzi delle materie prime.

Il dollaro si è rafforzato anche nei confronti dell’euro a seguito delle divergenze nell’andamento delle politiche monetarie attualmente seguite da Fed e Bce. L’apprezzamento del dollaro influenzerà a sua volta i prezzi di tutte le merci internazionalmente quotate nella valuta statunitense, come, tra le altre, quelle delle materie prime energetiche, in primis petrolio e gas.

L’Italia tra petrolio ed esportazioni
La timida ripresa economica che l’Italia ha fatto registrare nel 2015 deve molto alle esportazioni e ai bassi prezzi delle materie prime energetiche, soprattutto considerando le difficoltà della domanda aggregata interna. In questo scenario le dinamiche internazionali innescate dalla mossa di Yellen finiranno per influenzare in maniera più o meno diretta l’attività dell’economia italiana nel breve e medio periodo.

Le buone notizie arrivano dal lato commerciale. Il buon andamento dell’economia statunitense e l’apprezzamento del dollaro nei confronti dell’euro favoriranno sicuramente le esportazioni italiane negli Stati Uniti, un mercato storicamente importante per le nostre imprese.

D’altro canto le dinamiche descritte porteranno verosimilmente un rallentamento dell’attività economica e quindi della domanda aggregata in paesi quali Brasile o Venezuela. L’effetto netto per l’economia italiana sembra essere comunque positivo, data la scarsa esposizione commerciale delle nostre imprese esportatrici in molti dei paesi in via di sviluppo.

Nel settore energetico le politiche della Fed rappresentano una nota dolente per la nostra economia. L’indebolimento dell’euro nei confronti della valuta statunitense comporterà una maggiorazione delle spese di approvvigionamento energetico per un paese importatore netto quale l’Italia, andando così ad aumentare i costi di produzione e ledendo la competitività delle imprese italiane.

Dal punto di vista del costo del denaro, la pressione che il rialzo dei tassi statunitensi potrebbe esercitare sui tassi di interesse offerti in Italia, soprattutto su quelli dei titoli di stato, sembra essere scongiurata dal massiccio programma di QE recentemente potenziato dalla Bce.

Ripresa italiana ancora fragile
Il quadro che emerge sembra non rappresentare una situazione più complicata per l’economia italiana alla luce della svolta in senso restrittivo della Fed. Va tuttavia segnalato come la ripresa attualmente in atto sia troppo fragile e troppo legata a fattori esterni. L’instabilità finanziaria,destinata ad aumentare a seguito della difficile situazione che stanno vivendo molti paesi emergenti, rappresenterebbe così una minaccia.

C’è bisogno di misure in grado di far ripartire investimenti e consumi interni, attenuando così il problema della disoccupazione e quello dell’eccessiva dipendenza della nostra ripresa da fattori esteri.

Simone Romano è ricercatore dello IAI.
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Roma: rapporti difficili con Bruxelles

Italia e Ue
Il vero negoziato non è con Cameron
Gianni Bonvicini
28/12/2015
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Pessimo fine d’anno per i nostri rapporti con l’Unione europea, Ue, e la Germania. Non si ricordano periodi altrettanto tesi e recriminazioni così violente su entrambi i fronti.

La querelle fra Roma e Bruxelles sulle modalità di salvataggio delle nostre quattro banche e la quasi contemporanea lista di accuse di Matteo Renzi nei confronti della cancelliera tedesca hanno creato negli ambienti tradizionalmente europeisti del nostro Paese un senso di disagio e scetticismo.

Due pilastri della politica estera dell’Italia, Ue e Germania, vengono messi in questione non solo su una serie di fatti concreti, ma anche sulla visione strategica dell’orientamento da dare all’integrazione europea.

Scontro Renzi–Merkel
Diciamo subito che per quanto riguarda i nostri dissapori con la Germania si ha la netta sensazione che l’atteggiamento di sfida di Renzi sia rivolto più all’opinione pubblica interna che al resto dell’Ue.

Se non fosse stato per una recente intervista del nostro premier al Financial Time, pochi in Europa si sarebbero in effetti accorti dei supposti contrasti Renzi-Merkel in seno all’ultimo Consiglio europeo dell’anno.

Ma a parte l’amara considerazione del sempre scarso peso dell’Italia negli organismi comunitari, a cominciare dallo stesso Consiglio europeo, non vi è dubbio che il clima dei nostri rapporti con Berlino abbia subìto un inaspettato peggioramento. Con l’inizio dell’anno è probabile che interverrà un chiarimento diretto fra i due leader e che i dissapori in parte rientrino. Tuttavia sarebbe bene riflettere a fondo sui nodi strutturali che sono all’origine dello scontro, o del quasi scontro, in atto.

Va innanzitutto precisato che lo stretto rapporto Roma-Berlino è stato quasi sempre legato al tema dell’Ue e ai suoi sviluppi, in genere positivi. Al di là quindi degli ottimi legami commerciali ed economici e degli interessi reciproci, la visione strategica dei due paesi sulla necessità di costruire una più forte Unione è stata quasi sempre condivisa.

Il ruolo dell’Italia si è caratterizzato nell’offrire il proprio sostegno alle iniziative di sviluppo dell’integrazione europea, a cominciare dall’Euro, che originavano da quello che veniva considerato il “motore” dell’Europa: l’accordo fra Francia e Germania.

Oggi, tuttavia, al di là del conflitto su interessi concreti, dai rapporti con Mosca alla politica energetica, il rapporto fra Roma e Berlino all’interno dell’Ue sconta due grandi debolezze strutturali.

Tandem franco-tedesco sbilanciato
La prima è che si assiste al progressivo, inarrestabile indebolimento proprio del “motore”, con una Francia sempre più ripiegata su sé stessa e priva di quello spirito europeo che in alcune stagioni della sua storia politica l’avevano aiutata a superare il suo connaturato nazionalismo. Il tandem franco-tedesco è ormai completamente sbilanciato ed è solo l’agenda di Berlino a dettare il cammino dell’Ue.

Sempre più potere al Consiglio europeo 
Qui si manifesta il secondo elemento di debolezza strutturale che incrina i rapporti fra Roma e Berlino. Si tratta della degenerazione del sistema decisionale comunitario, cioè il radicale spostamento dell’esercizio del potere nella direzione del Consiglio europeo, quale supremo organo dell’Ue.

È infatti evidente che all’interno di un collegio dove vale la regola del consenso, alla fine a prevalere è la volontà del Paese più forte ed autorevole. Di qui l’accusa di un’Unione sempre più “tedesca”.

Non è però certo Angela Merkel ad averla plasmata così: la responsabilità va fatta risalire a tutti i 28 membri dell’Ue, Italia compresa, che con l’accettazione del Trattato di Lisbona e delle ulteriori modifiche originate dalla gestione della crisi dell’Euro hanno finito con il rafforzare un sistema di “governance” prettamente intergovernativo.

Se quindi si vuole attaccare la cancelliera su questo evidente sbilanciamento decisionale, bisogna anche essere pronti a proporre delle riforme coraggiose dell’assetto comunitario.

Lettera Gentiloni-Hammond
Se questo deve essere l’obiettivo di un percorso politico volto a salvare l’Ue non si può però prescindere da una forte alleanza con Berlino. Non è certo strizzando l’occhiolino a Londra sul tema del rinegoziato con l’Ue che si controbilancia la forza di Berlino.

La lettera congiunta Gentiloni-Hammond può essere una cortese mossa nei confronti del governo di Sua Maestà, ma non sposta di un millimetro la questione centrale del nostro rapporto con Berlino che continua a rimanere decisivo per il futuro dell’Ue e degli interessi italiani in essa.

Da Londra non abbiamo mai ricevuto né sostegni né vantaggi, anzi. Per Renzi e per l’Italia è quindi opportuno non giocare sullo scacchiere europeo spostandoci senza reale necessità da una capitale all’altra, ma piuttosto chiarire onestamente il contenzioso con Berlino e costruire quindi una rinnovata, visionaria alleanza con la Germania per bloccare la deriva verso una progressiva frammentazione dell’Ue.

Non perdiamo quindi tempo a fare i primi della classe nel negoziato con David Cameron che da solo è andato a infilarsi nel vicolo cieco del referendum sull’Ue. Concentriamoci su ciò che è utile per noi, ricordando che all’Italia conviene un’Ue più integrata e democratica. Obiettivo che si può raggiungere solo con il convinto appoggio di Berlino.

Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.
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Europa: ancora esami per il Governo Renzi

Conti pubblici
Bruxelles rimanda l'Italia a primavera
Veronica De Romanis
26/12/2015
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La legge di stabilità italiana è a “rischio di non conformità con il patto di stabilità e crescita” questa la conclusione dell’analisi effettuata dalla Commissione europea.

Il giudizio definitivo è, però, rinviato alla prossima primavera, in attesa di un esame più approfondito. Ci sono essenzialmente tre motivi per cui l’Italia, insieme all’Austria e alla Lituania, è stata inserita nella categoria di “rischio di non conformità", dietro a otto paesi (su dodici che rispettano il criterio del 3 per cento) considerati conformi o ampiamente conformi.

L’Italia e la flessibilità di bilancio
In primo luogo, il disavanzo nel 2016 (2,4% del Pil con le spese per la sicurezza e per la cultura) è superiore alla previsione dell’1,8% del programma di stabilità presentato in aprile. In secondo luogo, il disavanzo strutturale, ossia il saldo nominale al netto della variazione ciclica e delle misure una-tantum, aumenta di mezzo punto percentuale rispetto allo scorso anno.

In base alle regole, il governo avrebbe dovuto prevedere un taglio - e non un incremento - del disavanzo strutturale dell’ordine dello 0,1% del Pil. Deviazioni dal percorso di aggiustamento dei conti sono, tuttavia, possibili solo se previste dalle linee guida sulle clausole di flessibilità pubblicate a inizio anno.

E qui si arriva al terzo punto. L’eleggibilità alle suddette clausole dipende dall’impatto che la maggiore spesa finanziata in disavanzo ha sul Pil potenziale e sulle finanze pubbliche. Per l’Italia, questo impatto è ancora da valutare.

L’Italia, ad oggi, è il paese che ha fatto maggiore ricorso alla flessibilità di bilancio. Dopo aver ottenuto margini pari allo 0,4% del Pil, il governo ha chiesto ulteriori spazi di manovra da giustificare attraverso la clausola delle riforme (0,1% del Pil, pari a circa 1.6 miliardi di euro), quella degli investimenti (0,3 per cento del Pil pari a 3.6 miliardi di euro) ed, infine, quella degli “eventi eccezionali”, ribattezzata clausola “sicurezza” (circa due miliardi e mezzo di euro di spesa aggiuntiva).

Le verifiche della Commissione
Prima di dare il via libera, la Commissione vuole, però, verificare quali nuove riforme - in aggiunta a quelle per cui è già stata attivata la clausola delle riforme nel luglio scorso -, il governo intenda realizzare e il loro effetto.

Per quanto riguarda la riforma della Pubblica amministrazione, in particolare, bisognerà aspettare i decreti attuativi. Anche perché non sono ancora stati definiti obiettivi quantitativi per i risparmi di spesa, non essendo la riforma stata collegata alla spending review.

L’esecutivo europeo vuole, inoltre, appurare l’effettivo incremento degli investimenti pubblici: i numeri forniti sembrano, infatti, indicare che la percentuale di investimenti fissi lordi per il 2016 dovrebbe rimanere pressoché invariata rispetto al 2015 (2,3% del Pil).

Per la Commissione, poi, una manovra per due terzi finanziata in disavanzo comporta dei rischi da non sottovalutare, soprattutto per il biennio 2017-2018: maggiore è il disavanzo consentito nel 2016, maggiore dovrà essere la correzione successiva per riprendere il processo di convergenza verso l’obiettivo di medio termine.

Nel 2017 saranno esauriti tutti i margini di flessibilità e, pertanto, dovrà essere implementato un taglio del disavanzo strutturale pari ad almeno lo 0,5% del Pil. Inoltre, il governo dovrà provvedere a disinnescare le clausole di salvaguardia rimaste in vigore per circa una trentina di miliardi di euro: per ora sono state cancellate solo quelle relative al 2016 (16 miliardi di euro).

A conti fatti, si tratta di un intervento fiscale di entità notevole che, con ogni probabilità, avverrà in una fase di rallentamento dell’economia globale e, quindi, anche di quella europea.

L’Italia rimanda l’aggiustamento
In sostanza, rimandando l’aggiustamento all’anno prossimo, l’Italia si potrebbe trovare nella situazione di dover attuare una politica fiscale molto restrittiva che vanificherebbe l’effetto espansivo di quest’anno. Un effetto espansivo che rimane, comunque, tutto da verificare. Già più volte, in passato, l’economia italiana ha dimostrato di non rispondere allo stimolo fiscale, soprattutto in assenza di coperture chiare.

E l’impatto complessivo si è tradotto in successivi incrementi del debito pubblico. Ecco perché, dal punto di vista della Commissione, l’impianto della legge di stabilità italiana, che si basa principalmente sull’equazione “più spesa pubblica finanziata in disavanzo-più crescita” viene considerato a rischio.

Veronica De Romanis, economista, è autrice de “Il Caso Germania: così la Merkel salva l’Europa” (Marsilio editori).
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