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lunedì 29 febbraio 2016

In Europa più flessibilità

Rapporto Italia-Ue
Juncker a Roma per far pace con Renzi
Antonio Scarazzini
28/02/2016
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La visita di venerdì scorso a Roma del Presidente della Commissione Jean Claude Juncker e l’incontro con il premier Matteo Renzi hanno costituito il banco di prova per una relazione, quella tra Roma e Bruxelles, che negli ultimi tempi era stata caratterizzata da vigorose prese di posizione italiane nei confronti dell’esecutivo europeo.

Le sferzate del presidente del Consiglio contro austerità e tecnocrazia e i più pacati appelli del Sottosegretario Gozi per una nuova Europa dei “figli fondatori” hanno costituito i due estremi di una nuova strategia europea favorita e obbligata dall’acutizzarsi di questioni, come la flessibilità sui conti pubblici e la stabilità del sistema bancario, che toccano nel vivo la politica nazionale e rendono logica la ricerca di una finestra di opportunità alla ricerca di convergenze per una soluzione a livello europeo.

Tentativi di convergenza sulla flessibilità
Nel vertice romano, convergenza è stata trovata sul tema della flessibilità fiscale tanto caro a Renzi, che tuttavia non sforerà i margini consentiti dal Patto di Stabilità, come già previsto dalla comunicazione della Commissione del gennaio 2015.

L’Italia può così continuare a godere di un margine discrezionale dello 0,75% sul suo deficit e difendere la linea anti-austerità, mentre Juncker può permettersi, tra le righe, di scrollarsi di dosso l’etichetta di ottuso burocrate, confermando il suo impegno per una strategia di crescita e allentamento del processo di consolidamento fiscale.

Prosegue anche l’intesa sulla prosecuzione del piano Juncker per gli investimenti strategici, dopo che lo stesso Mario Draghi, nel corso della sua recente audizione presso la Commissione affari economici del Parlamento europeo, ha dato il pieno endorsement ad un più consistente rilancio degli investimenti pubblici nei Paesi Ue.

L’incontro tra Renzi e Juncker è stato inoltre preceduto da ambo i lati da dimostrazioni di buona volontà, nella forma di documenti strategici e di programmazione che hanno delineato le posizioni dei rispettivi attori.

Facendo seguito alle proposte di riforma dell’Unione Economica e Monetaria presentate a metà dello scorso anno, il Ministero delle Finanze ha infatti presentato un documento per una “Strategia Europea Condivisa su Crescita, Occupazione e Stabilità”, che sostanzialmente raccoglie la posizione italiana sulla governance economica attorno ad una richiesta di mutualizzazione e condivisione dei rischi.

Da par suo, la Commissione si è mostrata piuttosto accomodante nella presentazione del suo rapporto sugli squilibri macroeconomici previsto nel quadro del Semestre Europeo, lodando gli sforzi italiani nella riforma del lavoro e del settore bancario, pur senza nascondere i forti rischi per la crescita creati da sofferenze bancarie, alto debito pubblico ed elevata tassazione sul lavoro.

Banche, capitolo “trascurato”
Per ammissione dello stesso Renzi, Italia e Commissione rimangono distanti su un tema centrale come quello delle crisi bancarie, ma la questione non è stata direttamente affrontata.

Anche il documento del Ministero dell’economia non fa menzione di una revisione delle nuove norme sul bail-in, proposta tra gli altri dal governatore di Bankitalia Ignazio Visco nel discorso di fine gennaio presso il Congresso Assiom Forex e apprezzata da un largo fronte di attori sociali, da Confindustria a Cgil.

L’Italia, giunta con quasi un anno di ritardo nella trasposizione della direttiva Brrd (Bank Recovery and Resolution Directive) - dopo aver peraltro ricevuto un’allerta dalla stesa Commissione nel maggio 2015 - ha testato la nuova disciplina di risoluzione senza infatti aver messo in atto gli stessi adattamenti normativi che hanno permesso ad altri Paesi (Francia, Germania, Regno Unito tra gli altri) di chiarificare e delimitare le categorie di crediti aggredibili dal bail-in.

Lo stop che la DG Concorrenza ha inoltre imposto all’utilizzo preventivo del Fondo Interbancario di Garanzia dei Depositi, per incompatibilità con la disciplina europea degli aiuti di Stato, sposta la strategia italiana sul raggiungimento a breve dell’Edis, il sistema europeo di garanzia dei depositi, terzo pilastro a completamento dell’architettura dell’unione bancaria.

La Commissione ha già presentato a dicembre una proposta legislativa sulla quale l’Italia trova la forte opposizione della Germania: Berlino vuole ridurre ulteriormente i rischi - in particolare quelli legati all’esposizione al debito sovrano, altro tasto dolente per Roma - prima di pensare alla mutualizzazione.

Politicizzazione della Commissione
Rimandato anche il confronto sulla maggiore politicizzazione della Commissione, sino ad ora descritta come tecnocratica e impopolare, esplicitata da Renzi nell’idea delle primarie per l’elezione del suo Presidente.

Per la sua intensità, il confronto tra Renzi e Juncker avrebbe addirittura potuto richiamare alla mente il precedente tra Hallstein e De Gaulle, in un decennio - gli anni Sessanta - non a caso dominato dalla logica intergovernativa. La visita romana di Juncker ha invece raffreddato i toni, consolidando i punti d’intesa già esistenti, senza toccare tasti dolenti né cambiare passo (o verso) sui dossier più scottanti.

Antonio Scarazzini è direttore della rivista Europae e MA Candidate presso il Collège d’Europe di Bruges.
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domenica 28 febbraio 2016

Libia: un rompi capo

Consiglio supremo di Difesa
L’Italia concede Sigonella, ma solo per scopo difensivo
Vincenzo Camporini
24/02/2016
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La Libia e la concretizzazione del Libro Bianco della Difesa. Sono questi gli argomenti che domineranno il Consiglio Supremo di Difesa che si terrà venerdì. Non è qui possibile esaminare in modo esaustivo tali temi, mi limiterò pertanto ad alcune osservazioni, pronto a discuterne approfonditamente se qualcuno lo vorrà.

Il rompicapo libico è ben lungi da essere prossimo a una ricomposizione; i recenti tentativi di Fayez Al-Serraj di mettere insieme una compagine di governo sembrano incontrare un insuperabile muro di gomma e l’ultimo rinvio di queste ore al voto del parlamento di Tobruk non induce all’ottimismo, nonostante la recente visita al Cairo, certamente ispirata anche alla ricerca di una autorevole sponda al superamento delle resistenze del generale Khalifa Haftar che non accetta l’estromissione dalla stanza dei bottoni, ma che purtroppo è rifiutato recisamente da Tripoli.

La partita è dunque ancora lunga e sarebbe azzardato ipotizzare una positiva soluzione a breve, soluzione che dovrà poi superare lo scoglio di un non scontato insediamento a Tripoli, dove il 20% delle milizie non ha garantito il proprio contributo alla sicurezza dell’esecutivo.

Dottrina Gates
Come è già stato autorevolmente osservato, il tempo stringe, anche a causa del progressivo rafforzamento delle fazioni più intransigenti che si richiamano all’autoproclamatosi califfato e questo gioco di veti incrociati non deve potere durare a lungo, anche a fronte di una ‘comunità internazionale’ che comincia a dare segni tangibili di avere perso la pazienza, in particolare da parte statunitense.

Gli Usa hanno chiarito in modo assai esplicito che non intendono impegnarsi in forze sul terreno, ma stanno applicando in modo sistematico quella che chiamo la ‘dottrina Gates’, che l’allora Segretario alla Difesa espose chiaramente in prossimità del termine del suo mandato.

In buona sostanza, le azioni fuori area delle forze armate americane si sarebbero limitate a quelle di tipo punitivo, senza più la pretesa di ricostruire le istituzioni secondo modelli democratici: pertanto sì a strikes di forze speciali, di azioni aeree condotte con armamento di precisione, no a operazioni durevoli di massa, lasciate agli alleati se e quando ne fossero capaci.

Base di Sigonella
Ecco spiegati l’attacco degli F15-E di Lakenheath a Sabratah e la richiesta di potere usare Sigonella per l’impiego dei Reaper armati, richiesta accordata purché usati solo a scopo difensivo (poi si vedrà in che modo tale requisito, autenticamente italiano, verrà verificato).

Certamente il Consiglio Supremo analizzerà tutta la problematica e credo che non si discosterà dalla linea fin qui coerentemente seguita dal governo di predisporre quanto sarà necessario in termini di uomini e mezzi per rispondere alle richieste che verranno formulate dal futuribile governo unitario libico, senza ipotizzare interventi di iniziativa, cui mancherebbe la legittimazione giuridica e che potrebbe scatenare la reazione, questa sì unitaria, di tutte le forze e le milizie libiche contro i ‘nuovi crociati’.

Mi piacerebbe però che l’attuale situazione di apparente stallo inducesse a una riflessione di più ampio respiro: davvero ci conviene puntare a una rappresentanza politica unitaria della Libia, che in ogni caso sarebbe afflitta da fragilità endemiche o non è forse il caso di esaminare l’opportunità di prendere atto che le diverse anime di quel vastissimo territorio possono ambire a forme statuali più articolate, ad esempio con un ritorno alle divisioni storiche di Cirenaica e Tripolitania (ed eventualmente Fezzan)?

Credo che varrebbe la pena di esaminare questa ipotesi, almeno a livello intellettuale, ovviamente discutendone con tutti gli alleati, considerando altresì che l’Egitto, con cui nonostante il caso Regeni dovremo continuare a coltivare rapporti, sarebbe ben lieto di un suo ‘protettorato’ sulla Cirenaica, mentre i nostri interessi più immediati sono concentrati nelle regioni occident223ali ed intorno a Tripoli, e sto parlando sia delle attività estrattive di E5444*t/, che del controllo dei flussi migratori, prevalentemente in partenza dalla costa nord-occidentale della Libia.

Una riflessione in tal senso nell’ambito riservato del Consiglio Supremo potrebbe essere opportuna.

Libro bianco della Difesa
Sul secondo tema che ho indicato, la concretizzazione del Libro Bianco della Difesa, mi aspetto uno scatto di reni: è ben vero che le ambizioni esplicitate in tale documento puntavano molto in alto e che si è reso necessario un accurato e dettagliato lavoro preparatorio al fine di predisporre i conseguenti atti normativi; è però altrettanto vero che finora - e sono passati dieci mesi dalla sua approvazione - di concreto non si è visto molto, a parte un maldestro tentativo di far passare la riforma della Commissione Superiore d’Avanzamento, infilandola nella legge di conversione del periodico decreto legge sulle missioni all’estero.

Conoscendo la sua determinazione e la sua volontà, credo che il vertice politico si trovi a dover superare le resistenze al cambiamento opposte dalle gerarchie militari, resistenze comprensibili, ma del tutto inaccettabili. Su questo tema l’imminente riunione del Consiglio Supremo potrà costituire un momento topico per l’avvio di un disegno di legge il cui fine deve essere il compimento della riforma avviata nel 1997 e poi tradita nei dettagli delle norme applicative.

Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è vicepresidente dello IAI.
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Europa e le Elezioni del 2019. L'Italia si attiva

Partiti europei
Renzi e le primarie europee, tutt’altro che una novità 
Enrico Calossi
23/02/2016
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La proposta di Matteo Renzi di organizzare le primarie “per scegliere il prossimo Presidente della Commissione Europea” ha suscitato una forte eco nel dibattito italiano (e europeo).

La battuta si è inserita all’interno di un prolungato botta e risposta tra il Presidente del Consiglio e il Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker. Tralasciando la polemica contingente, ci spinge a riflettere su come, nel 2014, furono scelti i candidati alla Presidenza. Nonostante la proposta di Renzi sia apparsa innovativa a molti osservatori, in realtà non si tratta di una novità assoluta.

Le primarie dei Socialisti
In realtà il Partito dei Socialisti Europei (del quale il Pd è membro) aveva già deciso di utilizzare le primarie per scegliere il proprio spitzen kandidat per le elezioni del 2014.

Secondo il regolamento adottato dal Pse, nell’ottobre 2013, ogni candidato avrebbe dovuto ricevere l’endorsement di sei partiti membri del Psee di cinque membri del segretariato. Ogni partito avrebbe potuto nominare solo un candidato.

In base a questi criteri quindi solo sei candidati potevano essere nominati per la corsa alle primarie. Nel novembre 2013 sarebbe cominciata la campagna elettorale. Le operazioni di voto, gestite direttamente dai partiti membri in linea con le loro tradizioni nazionali, si sarebbero svolte tra l’inizio di dicembre e la fine di gennaio.

Ogni partito membro avrebbe quindi inviato i propri delegati, divisi in proporzione ai voti ottenuti dai candidati nei diversi paesi, ad un congresso straordinario che si sarebbe svolto nel febbraio 2014 a Roma. Le cose andarono diversamente.

Infatti, tra i nomi che circolavano, quello del Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, emerse con forza, rimanendo ben presto l’unico candidato in lizza. Le primarie quindi non si svolsero: non per mancanza di volontà del Pse, ma per assenza di altri candidati.

Pertanto, il congresso di Roma (lo stesso che accolse il Pd nel Pse) investì ufficialmente Schulz come candidato del Pse, con la significativa eccezione dei laburisti inglesi che si rifiutarono di sostenere un candidato esplicito alla Presidenza.

Le primarie dei Verdi Europei
Anche il Partito Verde Europeo adottò e poi applicò effettivamente il metodo delle primarie. La procedura, come per i socialisti, prevedeva una prima fase nell’ottobre 2013 di endorsement dei potenziali candidati da parte di almeno cinque partiti nazionali per candidato. Ne emersero quattro: l’italiana Monica Frassoni (copresidente del Pve), il francese José Bové (parlamentare europeo) e le tedesche Rebecca Harms (vicepresidente del gruppo Gue-Ngl al parlamento europeo) e Ska Keller (parlamentare europea).

La modalità di votazione è stata unica in tutti i paesi membri. Gli iscritti ai partiti nazionali e i simpatizzanti hanno potuto votare online, sottoscrivendo anche un documento di condivisione dei principi politici degli ambientalisti, in un periodo di due mesi e mezzo, fino al 28 gennaio 2014.

Keller e Bové risultarono i più votati e, in quanto uomo e donna, secondo la tradizione verde, furono indicati entrambi come candidati alla carica di Presidente della Commissione. La partecipazione non fu però massiccia: solo 22.676 elettori (in tutta Europa!) aderirono all’esperimento.

Gli altri candidati alla Presidenza e gli altri Europartiti
Gli altri spitzen kandidaten furono scelti dai delegati dei partiti nazionali nei congressi straordinari dei rispettivi Europartiti. Il greco Alexis Tsipras fu scelto nel dicembre 2013 dal Congresso del Partito della Sinistra Europea, senza alcun concorrente. Anche l’ex premier belga Guy Verhofstadt fu scelto senza oppositori interni nel meeting del partito liberale Alde.

Infine, nel marzo 2014, in occasione del congresso del Ppe a Dublino, l’ex premier lussemburghese Jean-Claude Juncker fu eletto con 382 preferenze contro le 245 del francese Michel Barnier, commissario europeo.

Il quadro estremamente diversificato si completa con gli altri Europartiti che non hanno presentato candidati alla Presidenza. Alcuni hanno sostenuto i candidati dei principali Europartiti, come il Partito Democratico Europeo con Verhofstadt e l’Alleanza Libera Europea con Ska e Bové; altri, come i Conservatori e Riformatori Europei (Erc) e i vari gruppi euroscettici o antieuropeisti, hanno duramente contestato l’esperimento degli spitzen kandidaten, a causa della potenziale legittimazione elettorale e della possibile politicizzazione della Commissione.

Verso le elezioni del 2019
Oggi, oltre ai vari attori che rifiutano la politicizzazione della Commissione Europea, altri contestano che la scelta del Presidente debba avvenire tramite le elezioni Europee e preferiscono che siano i governi (legittimamente eletti) a scegliere le cariche Europee.

Altri ancora, pur accettando il legame tra esito delle elezioni e scelta del Presidente (come, per altro, indicato dal trattato di Lisbona), contestano lo strumento delle primarie, considerandole uno strumento populista ed estraneo alla tradizione nazionale di molti paesi membri.

Di sicuro, il tema della legittimazione democratica delle cariche europee, compresa la Presidenza della Commissione, rimane di profonda attualità.

L’ampio ventaglio delle modalità decisionali adottate dagli attori politici europei e le scelte adottate in altri contesti federali (ad esempio le primarie statunitensi) o nei paesi membri (come le primarie dei socialisti e dei democratici in Francia e in Italia), offrono agli attori stessi, alla società civile e agli studiosi un ricco materiale da analizzare e numerosi spunti per proporre soluzioni che siano all’altezza delle sfide che l’Unione dovrà affrontare nei prossimi anni.

Enrico Calossi, California State University, ex coordinatore osservatorio sui partiti politici e la rappresentanza a EUI.
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lunedì 22 febbraio 2016

Un altro caso spinoso nelle relazioni internazionali

Caso Regeni
Se la realpolitik di oggi mina gli interessi di domani
Paola Caridi, Azzurra Meringolo
18/02/2016
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C’è un convitato di pietra, a cui ogni tanto si accenna quando si parla dell’assassinio di Giulio Regeni. È una parola all’apparenza rassicurante, e allo stesso tempo saggia. Stabilità. È la stabilità dell’Egitto alla quale dobbiamo guardare con estrema attenzione, nel nostro delicato ruolo politico nel Mediterraneo.

È la stabilità dell’Egitto che ci proteggerà dall’attacco dell’autoproclamatosi “stato islamico”. È la stabilità del più importante Paese della costa settentrionale dell’Africa che dobbiamo proteggere, per tutte le ragioni politiche, economiche, strategiche che toccano l’Italia: la crisi libica, le migrazioni, il contenimento dell’integralismo di marca islamista.

La stabilità è la nostra trincea e per mantenerla dobbiamo ingoiare bocconi amari. La Realpolitik è razionale, seria. La ricerca di verità e giustizia sul caso Regeni è carica di troppo idealismo. Che cosa intendiamo, però, per stabilità? Siamo sicuri, dal punto di vista concettuale e da quello storico, che la stabilità debba essere coniugata a un atteggiamento morbido verso le violazioni dei diritti umani e civili? Siamo sicuri che la stabilità si costruisca e si mantenga con il pugno duro, e con un sistema istituzionale e politico autoritario?

La stabilità insostenibile dell’Egitto
La recente storia egiziana ci mostra che non è così. Già in passato la stabilità del regime egiziano è stata erroneamente ritenuta sostenibile, dimenticandosi che sostenibilità e stabilità sono due concetti distinti, dove il primo è molto più ampio, profondo e lungimirante del secondo.

Durante l’epoca di Hosni Mubarak - decenni segnati da autoritarismo, repressione ed esclusione politica - l’Italia ha speso molte energie per sostenere la stabilità egiziana. Una stabilità molto cara anche in termini di diritti umani, il cui perseguimento ha spesso agito a danno della sostenibilità del regime, entrato infatti in crisi all’inizio del 2011.

Quanti si sono affannati nel ricercare quella stabilità che rende il terreno fertile al business non lo hanno fatto avendo pensieri di lungo periodo. Hanno preferito accontentarsi di conservare il business as usual, ignorando tutti i segnali che mostravano che il popolo egiziano non era interamente rappresentato dai politici o dagli imprenditori autorizzati e sponsorizzati dal regime a fare affari con noi.

Oltre a questi c’erano quei cittadini ridotti da anni in stato di sudditanza. Persone non solo escluse dalla vita politica, ma anche private dei loro diritti e dei più semplici servizi che garantiscono una vita degna. Egiziani in un continuo stato di paura e terrore causato dall’apparto di sicurezza che servendosi di repressione e cooptazione ha tenuto sotto controllo non solo i Fratelli Musulmani - clandestini fino al 2011 e nuovamente dalla fine del 2013 - ma anche gli attivisti di sinistra e ogni voce stonata rispetto al coro ufficiale.

Gruppi, questi ultimi, che riuscivano comunque a far venire a galla un certo malcontento sfociato in tentativi di manifestazioni o proteste sindacali brutalmente represse sul nascere, come hanno sempre denunciato le più attente Ong attive sul campo, e ignorate da un Occidente superficiale.

Una parte di mondo cieca anche ai più evidenti segnali di turbolenza messi a nudo, nel 2004, dalle manifestazioni di strada organizzate da Kifaya. Un movimento che ha avuto il merito di mettere in luce una montante insoddisfazione che metteva in pericolo la stabilità di facciata. Un’insoddisfazione condivisa da milioni di giovani egiziani disoccupati, umiliati e privati di dignità e diritti che impossibilitati a trovare una qualsiasi realizzazione hanno trovato infine il coraggio di battere la barriera della paura per rivendicare i diritti che gli erano stati sottratti.

La goccia che fece traboccare il vaso fu la morte di Khaled Said, un giovane attivista pestato a morte, nel giugno 2010, da due poliziotti all’uscita di un internet caffè. La sua tragica fine spinse i giovani a ribellarsi al dittatore di turno, facendo crollare la facciata di stabilità dietro la quale si barricava il regime.

L’Europa nata sullo stato di diritto 
Senza mettere in discussione il rapporto stretto tra stabilità e assenza di diritti, siamo sicuri che la Realpolitik protegga più i nostri interessi di quanto non li protegga una posizione chiara verso i diritti?

A sorreggere la nostra tesi è una riflessione sulla storia europea. Sino al 1945, l’Europa è stata al centro di un '900 percorso da due guerre mondiali, la fine dell’imperialismo classico, una crisi economica profondissima, due tra le peggiori ideologie razziste e almeno tre dittature, e la vergogna eterna della Shoah.

L’Europa della crisi dei diritti è stata una peste che ha infiammato tutto il mondo. Dopo la seconda guerra mondiale, la parte occidentale dell’Europa è risorta attraverso una stagione rivoluzionaria poggiata sulle costituzioni e sulla protezione dei diritti fondamentali: una stagione che ha avuto proprio nell’Italia e nella Germania i due esempi più interessanti.

È una sintesi che avrebbe bisogno di una riflessione più complessa, certo. Parla, però, di una realtà incontrovertibile: la stabilità dell’Europa si è legata del tutto e in maniera indissolubile al sostegno degli Stati di diritto e all’affermazione dei diritti umani e civili.

Lo dimostrano le due instabilità degli scorsi decenni: la caduta del sistema dei satelliti dell’Unione Sovietica, causata dall’assenza delle libertà, e la disgregazione della Jugoslavia, dissolta anche per il peso di una crisi della rappresentanza. A darci la prova del nove è l’attuale crisi dell’Europa, che trova proprio nell’indebolimento dei diritti il suo vulnus, nel modo in cui affronta le migrazioni.

Rivoluzione della nostra politica mediterranea
Ciò che applichiamo a all’Europa, va applicato - come chiedono le Convenzioni internazionali nate non casualmente dopo la seconda guerra mondiale - al resto del pianeta. A meno che non si voglia credere veramente alla follia che gli arabi non siano costituzionalmente portati alla democrazia, o credere a chi - tra coloro che detengono il potere nelle capitali arabe - afferma che ci sia ancora bisogno di decenni per portare la democrazia in Medio Oriente e Nord Africa.

La stabilità araba è, per citare l'intellettuale libanese Samir Qassir, inversamente proporzionale alla “infelicità araba”. Solo la difesa dei diritti e una posizione ferma verso le autocrazie al potere e le controrivoluzioni in corso possono sostenere la stabilità.

Si tratta di una rivoluzione necessaria nella nostra politica mediterranea che trova il suo terreno primo proprio in Egitto. È la stessa storia recente egiziana, infatti, a dirci a gran voce che la stabilità al Cairo, da dove sono mesi che arrivano gli stessi segnali allarmanti che hanno anticipato lo scoppio della rivoluzione del 2011, non parla la lingua delle violazioni dei diritti.

Paola Caridi è analista e scrittrice, autrice di “Gerusalemme senza Dio. Ritratto di una città crudele”, Feltrinelli 2013 (@invisiblearabs).
Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinternazionali. Coordinatrice scientifica di Arab Media Report. Potete seguirla sul suo blog e su twitter a @ragazzitahrir
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venerdì 19 febbraio 2016

Roma-Berlino: tra ambizioni ed egemonia vulnerabile

Italia-Germania
Renzi-Merkel, le differenze possono convergere
Gian Enrico Rusconi
01/02/2016
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L'incontro tra Matteo Renzi e la cancelliera Angela Merkel non si è sottratto al consueto squilibrio di attenzione che esiste tra Italia e Germania, nella stampa e nei commenti qualificati. Molta enfasi da noi, relativo distacco in Germania.

In compenso, in questa occasione si è accentuata ulteriormente la personalizzazione dei due protagonisti. A prima vista c'è ben poco che assimili caratterialmente o per stile comunicativo i due politici. Eppure si continua a parlare di un feeling particolare tra loro: è autentico o simulato? Strumentale o guidato da una convinzione o intuizione politica che potrebbe dare uno sbocco diverso al sempre complicato, ambivalente e mai risolto rapporto tra tedeschi e italiani?

Merkel e il il contenimento della migrazione 
Ci sono differenze tra il premier italiano e la cancelliera Merkel che vanno verificate con i dati di fatto. Partiamo dalla difficile congiuntura politica interna in cui entrambi si trovano. Mentre nel caso italiano essa ha le sue radici nella precarietà dell'equilibrio delle forze politiche, che Renzi sta prendendo di petto, nel caso tedesco tutto è precipitato negli ultimi tre mesi.

In modo inatteso e con conseguenze politiche tuttora imprevedibili. Nessuno immaginava che la decisione della cancelliera di aprire le porte a centinaia di migliaia di migranti, presentata come una iniziativa "umanitaria" definita di volta in volta coraggiosa, arrischiata o irresponsabile, innescasse una crisi europea di cui oggi si tende a dissimulare il carattere fortemente politico.

L'erezione dei "muri" di filo spinato anti-immigrazione, la messa in mora del trattato di Schengen non sono deplorevoli comportamenti da deprecare ( "se si distrugge Schengen, si distrugge l'Europa"). L'Unione europea non è già più quella che era sei mesi fa o che riteneva di essere. Non sa più come ri-distinguere tra confini interni e confini esterni. Per tacere delle retoriche sulla "identità europea".

È in questo contesto che vanno collocate le posizioni emerse nell'incontro tra Renzi e Merkel. La cancelliera ha una priorità assoluta: il contenimento tangibile della migrazione, per salvare insieme al proprio governo, la posizione di sicurezza e di influenza della Germania, inaspettatamente indebolita in Europa. Punta sul contributo considerato determinante della Turchia, opportunamente compensata da tre miliardi di euro e, in misura diversa, con un mix di minacce e di offerte, sull'apporto della Grecia, tornata di nuovo d'attualità. Per queste operazioni la cancelliera ritiene di poter contare sull'aiuto o quanto meno sul consenso della Commissione europea.

Le ambizioni di Renzi
Proprio su questo punto si intravvede qualche novità di atteggiamento della Merkel, legato a quelle che la Faz chiama "le ambizioni di Renzi". L'ordine di priorità del premier italiano non coincide con quello della cancelliera, anche se con la sua abilità comunicativa accentua la comunanza delle grandi visioni.

L'obiettivo primario di Renzi infatti è di ottenere quella "flessibilità" nell'esecuzione del Patto di stabilità che consentirebbe di consolidare il trend positivo che caratterizzerebbe lo sviluppo italiano e che la cancelliera generosamente riconosce. L’energica richiesta/rivendicazione di questa flessibilità è rivolta da Renzi alla Commissione europea, in particolare a Jean Claude Juncker con toni che riecheggiano le polemiche di settimane fa.

Abilmente il premier riesce ad includervi anche il contributo italiano alla Turchia - mai negato in linea di principio, ma da non computare nel calcolo del deficit nazionale - che sta a cuore a Merkel.

La reazione di quest'ultima è singolare: "La cosa bella - dice - è che quando si tratta della comunicazione sulla flessibilità, entrambi accettiamo che ci siano interpretazioni della Commissione divergenti. Non mi immischio in queste cose. È compito della Commissione decidere l'interpretazione". È malizioso leggere tra queste righe l'invito a Juncker di accontentare Renzi ? La cancelliera avrebbe usato queste parole se non fosse preoccupatissima dell'operazione Turchia?

Ciononostante, è sbagliato spingere oltre la speculazione sino a ritenere che la cancelliera approvi le critiche di Renzi a Juncker e tantomeno le obiezioni al rapporto privilegiato tra Francia e Germania, con la riapertura del classico contenzioso storico del triangolo Parigi-Berlino-Roma.

Non rientra nella prospettiva politica della pragmatica Merkel e della sua visione storica, compreso il rapporto preferenziale con la Francia. Ma allora quella della cancelliera è solo una benevolenza strumentale verso l'inquieto, ma in definitiva "innocuo" premier italiano?

Germania, egemone vulnerabile
È verosimilmente una pura coincidenza che alla vigilia dell'incontro berlinese, il ministro degli esteri italiano, Paolo Gentiloni, abbia concesso un'ampia intervista a La Stampa, dedicata ai problemi di politica estera (in particolare alla questione della Libia) che non hanno trovato particolare spazio nell'incontro Merkel/Renzi.

Il ministro però, davanti alle difficoltà dell'Ue ha allargato il discorso sino a parlare dell'ipotesi di ripensare il vecchio progetto di un'Europa a due velocità - per ridarle la capacità di decisione consensuale ed efficace. Non mi pare ci sia stata alcuna reazione, da nessuna parte, a questa ipotesi - tantomeno in Germania dove pure questa idea nei primi anni novanta era stata sostenuta da politici della statura di Wolfgang Schaueble.

In realtà, al momento la politica tedesca è concentrata sulle difficoltà quotidiane con un occhio ansioso alla prevedibile crescita del partito "Alternative fuer Deutschland", genericamente definito "populista" che coltiva la visione più radicale dell'abbandono dell'euro.

Non c'è più traccia di quell'ambizione egemonica che in modo molto ambivalente concentrava l'attenzione di tutti sino a non molti mesi fa. Sembra incredibile quanto rapidamente "l'egemonia tedesca", insieme alla sua frustrazione, abbia rivelato tutta la sua vulnerabilità.

Gian Enrico Rusconi è professore emerito di Scienza politica dell’Università di Torino. Per alcuni anni Gastprofessor presso la Freie Universitaet di Berlino. Tra le sue pubblicazioni: Germania Italia Europa. Dallo Stato di potenza alla ‘potenza civile’ (Einaudi 2003, trad. tedesca, 2006); Berlino. La reinvenzione della Germania (Laterza 2009). Cavour e Bismarck (il Mulino 2011; trad. tedesca 2013).
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mercoledì 10 febbraio 2016

Caso Fucilieri di Marina in India: aggiornamento

Contenzioso Italia-India
Caso Marò, l’effetto della diplomazia internazionale 
Antonio Armellini
02/02/2016
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L’attenzione per la vicenda dei marò è diventata un po’ come l’onda di marea: arriva rapidamente, sommerge tutto e poi si ritira senza lasciare tracce, a parte qualche detrito (ovvero - nel nostro caso - qualche strascico poco informato). Indignazione gridata e scetticismo rassegnato si alternano con regolarità e può essere utile cercare di fare un po’ di chiarezza.

Sarà il Tribunale arbitrale a stabilire il prossimo destino dei due fucilieri di Marina. Non nella sostanza, si badi bene, ma solo per quel che riguarda la giurisdizione competente per il processo che si dovrà tenerein Italia o in India, a seconda della decisione.

Tutto ciò non prima del 2018: scandalizzarsi - come è avvenuto da noi nei giorni scorsi - non ha molto senso e vorrebbe dire solo non avere cognizione del fatto - noto a chiunque abbia esperienza della materia - che i tempi delle decisioni arbitrali sono sempre lunghi (anche prescindendo dalla tendenza dei giudici di prendersela comoda, per varie ragioni).

La domanda, piuttosto, dovrebbe essere perché si è atteso quasi quattro anni prima di ricorrere a una procedura che avrebbe fatto guadagnare tempo e, a detta di molti, sarebbe stata uno strumento di pressione efficace nei confronti dell’India.

La lunga attesa dei Marò
Mi sono chiesto più volte come mai il Tribunale del Mare di Amburgo non avesse accolto la scorsa estate la richiesta italiana di consentire a Massimiliano Latorre di restare e a Salvatore Girone di rientrare in Italia, rimettendo il tutto all’arbitrato.

Molti segnali lasciavano pensare che il governo di Narendra Modi - una volta esaurita l’utilità strumentale del tema marò per la campagna elettorale contro Sonia Gandhi - condividesse il desiderio di facilitare una via d’uscita da una controversia che per l’India era abbastanza marginale.

Lasciar partire Girone avrebbe significato rinunciare a un chip negoziale valido, ma sarebbe servito ad abbassare il livello della tensione e far sì che la fase giurisdizionale si svolgesse senza per l’Italia la spina nel fianco di un suo militare forzosamente trattenuto in India.

L’opposizione indiana alla richiesta italiana ad Amburgo fu inaspettatamente dura: segno che seppure un qualche accordo si era profilato, si è scontrato con resistenze non previste, forse ad opera della magistratura indiana.

La sospensione della giurisdizione di entrambi i paesi decretata ad Amburgo, col congelamento delle procedure connesse, ha comportato che per l’Italia non vi è più alcun obbligo di chiedere proroghe della permanenza di Latorre in Italia.

Correlativamente però, l’India non ha la possibilità di modificare lo status di Girone. Non abbiamo perso tempo nel rinnovare la richiesta di una misura provvisoria che consenta a entrambi di attendere in Italia il lodo arbitrale e la decisione del Tribunale arbitrale, prevista per marzo, è di importanza fondamentale.

Se la misura dovesse essere accordata tutto si farebbe più piano, ma se dovesse essere rifiutata il garbuglio si farebbe grosso: Latorre non soffrirebbe granché, ma Girone resterebbe nella posizione di ostaggio a tempo indefinito, che una problematica assegnazione all’ambasciata di Delhi servirebbe in parte a mascherare, ma non certo a superare.

L’India, che era sembrata contestare in un primo tempo la competenza arbitrale, ha modificato i toni e il segnalepotrebbe essere positivo. Anche se la sua rigidità negoziale - e l’imprevedibilità della magistratura - possono sempre riservare sorprese.

Per Latorre e Girone si prospetta un’attesa di ancora due, tre anni per sapere chi dovrà processarli, e di almeno altrettanti - se non di più - per avere un verdetto definitivo che ne sanzioni, come mi auguro, la non colpevolezza.

Sui tempi della giurisdizione non c’è molto da fare; l’unico modo per accorciarli è quello di un’intesa fra i due governi che chiuda politicamente la questione senza aspettare l’esito dell’arbitrato.

Un fastidio per la diplomazia internazionale
Per il governo di Modi, come si è detto, il tema dei marò non costituisce una priorità. È però un fastidio che potrebbe complicarsi ulteriormente, nei rapporti con gli altri paesi europei e con gli Usa come sul piano internazionale, dove i margini di ambiguità nella vicenda - che non sono pochi - rischiano di riverberarsi sulle ambizioni di un paese che si vede già membro permanente del Consiglio di Sicurezza.

L’India in politica estera ragiona in primo luogo in termini di rapporti di forza e la sua hubris porta a chiedersi come mai, mentre il mondo intero fa la fila a Delhi dall’Italia le presenze siano state sporadiche (ben prima che i marò rendessero le cose più difficili).

Noi siamo demandeurs; godiamo di un buon capitale di simpatia, ma dobbiamo correggere una immagine di debolezza che ci fa apparire politicamente irrilevanti (debolezza, sia detto per inciso, che abbiamo contribuito non poco a rafforzare con alcune mosse difficilmente comprensibili, specie nelle prime fasi della crisi).

Fatte le differenze del caso, fra Modi e Matteo Renzi vi sono somiglianze di visione che un dialogo diretto potrebbe far risaltare a nostro vantaggio, a condizione di svolgersi direttamente, senza troppe mediazioni. Non è necessario venire a Canossa: basterebbe l’occasione di un G20 o altro per imbastire un discorso che sin qui è stato troppo fugace.

La diplomazia dovrebbe aiutare, sfruttando fuori dal fascio dei riflettori le non molte carte a nostra disposizione e facendo bene attenzione all’equilibrio fra il dare e l’avere. In tema di Nazioni Unite abbiamo strumenti per una pressione efficace, ma sinora in pratica non ne abbiamo usati.

L’economia indiana è cresciuta più di tutti nel 2015 e restare ai margini di quel mercato significa rinunciare a recuperare almeno parte delle posizioni che in passato abbiamo avuto. Le opportunità non mancano, come dimostra la recente acquisizione di Pininfarina da parte del gruppo Mahindra.

Separare la questione dei marò dai rapporti commerciali non risponde solo ad un discorso economico: rendendo più consistente la rete delle reciproche interdipendenze, e stimolando un maggior flusso di investimenti indiani, potremmo dare al rapporto di forze una diversa sostanza.

Adesione al Mtcr e accordo di libero scambio con l’Ue
Abbiamo bloccato l’adesione dell’India al Mtcr - l’accordo sul controllo della missilistica militare - che costituisce un passaggio importante per il suo definitivo sdoganamento come potenza nucleare, con l’ingresso nel Nuclear Suppliers Group, NSG, l’organo di governo del Trattato di non Proliferazione.

C’è una certa ironia in tutto ciò, visto che il TNP nacque proprio in reazione all’esplosione della prima bomba nucleare indiana, ma le cose sono cambiate: americani, europei e fra questi anche noi abbiamo a lungo premuto perché l’India si uniformasse pienamente al regime di controlli internazionale sul nucleare.

Bloccando l’adesione al Mtcr, ritardiamo un processo che risponde a un fondamentale interesse occidentale, mentre per l’India attendere non è un peso. L’accordo di libero scambio Ue-India, sul quale pure abbiamo posto una riserva,interessa i paesi europei forse più dell’India, che è alla radice dei ritardi che hanno rallentato sin qui il negoziato: ostacolandone la ripresa non è chiaro a chi facciamo più danno.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
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venerdì 5 febbraio 2016

Un sistema bancario sotto osservazione

Sofferenze bancarie e aiuti di stato
L'accordo Ue a sostegno delle banche italiane 
Gian Luigi Tosato
01/02/2016
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In presenza di un mercato dubbioso circa gli effetti dell’accordo tra il nostro governo e la Commissione sulla gestione delle sofferenze bancarie, può essere utile riflettere sui termini giuridici della soluzione convenuta alla luce della normativa europea sugli aiuti di Stato.

Per quel che qui rileva, l’accordo prevede l’emissione di garanzie statali nell’ambito di operazioni di cartolizzazione aventi come sottostante crediti deteriorati. Le garanzie, concesse su richiesta delle banche interessate, sono destinate a coprire solo le tranche più sicure (senior) dei crediti cartolizzati e comportano il pagamento di un premio calcolato in base al prezzo dei Credit Default Swaps, Cds, per rischi comparabili.

Ue e aiuti di stato
Venendo alle regole Ue sugli aiuti, in buona sostanza si possono dare quattro categorie di misure erogate con risorse pubbliche: quelle che non costituiscono aiuti perché applicate a condizioni di mercato; quelle che costituiscono aiuti, ma sono di importo non significativo o godono di un’esenzione generale per categoria; quelle che costituiscono aiuti non esentati in via preventiva, ma autorizzabili caso per caso; infine, quelle irrimediabilmente vietate, perché in nessun modo compatibili con le regole del mercato interno.

Le due prime categorie di misure possono essere attuate direttamente senza previa notifica alla Commissione; la terza richiede la preventiva notifica e l’autorizzazione di quest’ultima; alla quarta non si può dare attuazione in nessun modo e, se ciò accade, l’aiuto deve essere recuperato.

Va da sé che il nostro caso non rientra fra gli aiuti incompatibili senza rimedio, diversamente non avrebbe ottenuto il nulla osta della Commissione. Non si colloca, d’altra parte, fra gli aiuti autorizzabili previa notifica, perché le nostre autorità possono passare direttamente alla fase attuativa.

Nemmeno è riconducibile a qualche categoria di aiuti esentati in via generale, dal momento che nessuna ipotesi di questo tipo è stata evocata. Non resta, allora, che l’ultima delle fattispecie sopra richiamate, vale a dire che le operazioni progettate non siano da qualificarsi come aiuti.

In effetti, la Commissione sembra essersi attenuta alla dottrina dell’operatore pubblico che agisce come un normale operatore di mercato. Ai sensi di tale dottrina, così come specificata nella Comunicazione del 2008 sulle garanzie statali, queste non costituiscono aiuti se la copertura non supera l’80% del rischio assicurato e il premio a carico dei beneficiari è in linea con quelli praticati sul mercato.

Non par dubbio che l’intesa di Bruxelles soddisfa l’uno e l’altro requisito: la garanzia statale copre solo le tranche senior di crediti deteriorati, restando verosimilmente ben al di sotto dell’80% di quelli cartolizzati; e, d’altra parte, il premio da pagare, rapportato nel tempo ai Cds, deve considerarsi in linea con il mercato.

La Commissione e la risoluzione delle crisi bancarie
Ci si potrebbe chiedere a questo punto perché un approdo del genere sia risultato tanto laborioso. In principio, data la riconosciuta assenza di una misura di aiuto, l’operazione avrebbe potuto realizzarsi senza il preventivo benestare della Commissione.

Evidentemente, il governo italiano puntava a favorire lo smobilizzo delle sofferenze bancarie con un sostegno pubblico più forte; e ha insistito per ottenere un disco verde da Bruxelles, che però non è venuto.

Per il vero, la Commissione avrebbe potuto tenere un atteggiamento meno rigoroso; avrebbe potuto considerare applicabile all’Italia l’esenzione dell’art. 107.3.b Tfue per aiuti “destinati a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro”.

Questa esenzione si trovava riflessa nella Comunicazione sul settore bancario del 2008, e ha ispirato l’atteggiamento della Commissione nei confronti di salvataggi bancari intervenuti in taluni Paesi nel periodo 2008-2012.

La Commissione si è attenuta invece all’impostazione più restrittiva introdotta nella Comunicazione del 2013, che ha modificato quella del 2008 e ha esteso fra l’altro ai creditori subordinati (oltre che agli azionisti) il principio della condivisione degli oneri (c.d. burdensharing).

Probabilmente, la Commissione ha tenuto anche conto che, per effetto della nuova disciplina sulla risoluzione delle crisi bancarie, a partire dal 2016 il principio in discorso è stato ulteriormente esteso (c.d. bail-in) e fa salvi solo i depositi fino a 100 mila euro.

Per evitare implicazioni del genere (anche se è discutibile un’applicazione retroattiva del burdensharing e del bail-in), bisognava uscire dal perimetro degli aiuti. E questo è puntualmente avvenuto con l’intesa raggiunta a Bruxelles sulla gestione delle sofferenze bancarie. La Commissione ha dato il suo benestare all’operazione solo dopo che la stessa è stata strutturata a condizioni di mercato, specie per quel che riguarda il costo della garanzia statale. In tal modo, l’operazione non si qualifica come aiuto e sfugge alle relative prescrizioni.

Governo italiano e Comissione Ue 
Ha fatto bene il nostro governo a seguire la Commissione su questo terreno? Propendo per una risposta affermativa. Certo, si sarebbe potuto insistere sull’applicabilità dell’esenzione di cui all’art. 107.3.b; si sarebbe potuto reclamare un trattamento non diverso a quello riservato in precedenza ad altri Stati membri. Ma ne sarebbe seguito il protrarsi di un contenzioso e di una situazione di incertezza, molto pregiudizievole per il settore bancario e con pesanti riflessi negativi sui mercati.

Si sarebbe potuto anche pensare a soluzioni alternative (vedi quella proposta da Bastasin, Messori e Micossi, Paper SEP 26.01.2016); e, d’altra parte, l’efficacia di quella concordata dovrà trovare conferma nei mesi a venire. Nondimeno, pur con i suoi limiti, la soluzione in discorso dovrebbe facilitare lo smobilizzo dei crediti deteriorati e non comportare oneri per il bilancio dello Stato (a meno di una - improbabile - escussione generalizzata delle garanzie statali).

Gian Luigi Tosato è Professore Emerito di Diritto dell’Unione Europea, Università “Sapienza” di Roma.
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martedì 2 febbraio 2016

Roma vuole rilanciare il progetto europeo

Unione Europea
L’Italia e la ristrutturazione dell’Ue
Marinella Neri Gualdesi
28/01/2016
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Di fronte alle sfide impegnative che l’Europa deve affrontare, mentre si avvicina nel marzo 2017 la scadenza dei sessant’anni dalla firma dei trattati di Roma, l’Italia punta a conquistare un ruolo centrale per rilanciare il progetto europeo e ribadire le ragioni di una crescente integrazione, riconoscendo che è necessario riformare profondamente l’Unione europea, Ue. L’ambizione del governo italiano è di contribuire da protagonista a un dibattito che faccia uscire l’Ue dalle secche della crisi.

Per le difficoltà interne al quadro europeo, e per la necessità di proporre idee intorno alle quali si coaguli il consenso di più partner, si apre una partita diplomatica non facile. La ricerca degli alleati giusti è quindi un passaggio di rilievo.

Perché non inseguire l’improbabile intesa con Londra
Nel funzionamento dell’Ue si sono registrati alcuni cambiamenti strutturali. I più evidenti sono l’incepparsi del motore franco-tedesco, diventato ormai a trazione esclusivamente tedesca, e il ruolo sempre più dominante nel sistema decisionale assunto dal Consiglio europeo. Il negoziato diretto tra i capi di governo esalta inevitabilmente il peso decisivo del paese più forte, ancora la Germania.

Giusto contestare una costruzione europea troppo sbilanciata su interessi e priorità stabilite a Berlino. Senza dimenticare però che la Germania resta un partner chiave per ogni ipotesi di riforma dell’Ue.

La soluzione per contrastare il primato tedesco non sta nell’inseguire un’improbabile intesa con Londra. La nota congiunta Gentiloni-Hammond del 15 dicembre scorso richiama un’altra iniziativa, la dichiarazione anglo-italiana del 4 ottobre 1991 sulla difesa europea presentata durante il negoziato per il trattato di Maastricht. Oggi come allora, un’iniziativa che rappresenta più il tentativo di sfuggire al peso dell’asse franco tedesco, che il tassello di una chiara strategia per portare avanti iniziative politiche comuni. Non si vede del resto come potrebbe essere possibile costruire una proposta che porti al superamento delle difficoltà dell’Ue con un paese che ha un piede fuori dalle principali politiche comuni, che ha giocato sistematicamente al ribasso delle risorse da assegnare al bilancio comune e ha una visione molto riduttiva dell’integrazione europea rispetto a quella coltivata sulle rive del Tevere.

A Roma i Ministri degli Esteri dei paesi fondatori dell'Europa 
Dall’Italia viene del resto un’altra iniziativa che di fatto ridimensiona il “giro di valzer” con Londra. A inizio febbraio a Roma si incontreranno i ministri degli Esteri dei sei paesi fondatori dell'Europa unita. Un’iniziativa voluta dal governo italiano, anch’essa in realtà non nuova, perché riprende un’idea del 2003 dell’allora Presidente della Repubblica Ciampi di giungere a un accordo tra i sei paesi fondatori per dare un impulso ai lavori della Convenzione. L’iniziativa non ebbe molta fortuna.

Prima ancora della formula in ogni iniziativa ciò che conta sono i contenuti. Su questi ancora non si intravede una strategia chiara del governo italiano. Il ministro degli Esteri Gentiloni in una recente intervista rilasciata a La Repubblica ha dichiarato che “II governo italiano lavora per rafforzare un europeismo possibile che deve rispondere ai cittadini”. Un approccio pragmatico che potrebbe trovarsi in sintonia con gli obiettivi appena delineati dalla presidenza olandese del Consiglio entrata in funzione il 1 gennaio scorso. La presidenza olandese ha dichiarato di impegnarsi per un’Ue che si concentri sulla creazione di crescita e lavoro attraverso l’innovazione e che sappia connettersi con la società civile.

Europa a cerchi concentrici
Nella nota Gentiloni-Hammond l’Italia dichiara di sottoscrivere un modello di funzionamento dell’Ue imperniato sul principio di flessibilità, in modo da consentire di avere diversi livelli di integrazione. Una soluzione che possa permettere ai paesi che vogliono approfondire l’integrazione di andare avanti, e a quelli che non intendono procedere oltre di potersi chiamare fuori. Nella Relazione programmatica sulla partecipazione dell’Italia all’Ue presentata al parlamento lo scorso dicembre, il governo italiano si dichiara disponibile a valutare l’ipotesi di un percorso che potrebbe sfociare in un’Europa “a cerchi concentrici”, che avrebbe al centro un’Eurozona rafforzata e aperta a un’evoluzione verso l’Unione politica, contornata da un cerchio di paesi interessati principalmente alle politiche riguardanti il mercato unico.

L’ “Europa differenziata”, senza escludere l’ipotesi di cambiare i trattati, sembra essere quindi l’obiettivo cui tende il governo italiano. Uno scenario non privo di incognite, perché dalla differenziazione potrebbe venire anche una dinamica di disintegrazione.

Ci si deve anche chiedere se esista davvero tra i Sei una visione comune sul futuro dell’Europa. Il gruppo dei sei fondatori è molto meno compatto di quanto sembri e sarebbe un errore non tenere conto del potere residuale dell’asse franco-tedesco.

Se una proposta comune sulla riforma dell’Ue emergesse tra i sei andrebbe poi presentata agli altri partner. Con una Spagna senza governo entrata in una fase di instabilità, una Grecia marginale e indebolita, la Gran Bretagna ripiegata sul Brexit, un gruppo di paesi nordici e di recente ingresso nell’Ue più “sovranisti” che “integrazionisti”, tessere la tela per le riforme non sarà una facile impresa.

Unione dei cittadini cercasi
Se da un lato va comunque riconosciuto all’iniziativa italiana il merito di puntare a un chiarimento delle posizioni sul futuro dell’architettura istituzionale dell’Ue, dall’altro non si deve trascurare di mettere in primo piano quello che chiedono gli europei, meno interessati a soluzioni istituzionali e più propensi a ottenere dall’Ue soluzioni efficaci alle grandi questioni di questi difficili tempi. L’ultimo Eurobarometro mostra che per rafforzare il sentimento di una cittadinanza europea gli europei chiedono ad esempio prima di tutto un sistema sociale europeo armonizzato tra gli Stati membri per sanità, educazione, pensioni. Fissare una soglia di protezione sociale, magari attraverso un Fondo europeo di assicurazione contro la disoccupazione - una proposta inserita dall’Italia nel contributo presentato nel maggio 2015 per il rafforzamento dell’Uem-risponde alla richiesta sempre più pressante di un’Unione dei cittadini.
Questa proposta, che può essere introdotta senza alcuna modifica dei trattati, è stata  recentemente rilanciata dal ministro Padoan in un dibattito al Parlamento europeo.

Vincere la disaffezione verso il progetto europeo di tanta parte dell’opinione pubblica europea è la sfida più impegnativa.

Marinella Neri Gualdesi Professore di Storia delle Relazioni internazionali all'Università di Pisa
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Il Gelo con l'Europa

Economia
Scontro italo-tedesco, il peso delle banche 
Marcello Messori
20/01/2016
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La polemica, scoppiata fra il presidente del Consiglio italiano e altri esponenti europei, ha radici anche economiche. Al riguardo sono di particolare rilievo i problemi che, negli ultimi mesi, hanno pesato sul settore bancario italiano e si sono intrecciati con il processo europeo di Unione bancaria. Si ricordino quattro fatti.

Aiuti di stato e banca ‘cattiva’
Primo: il passaggio dalla crisi finanziaria internazionale alle crisi europee ha trasformato le banche italiane da caso virtuoso a luogo di accumulazione di prestiti problematici, che hanno ormai superato i 350 miliardi di euro e frenano l’erogazione di credito alle imprese.

Dopo aver perduto l’occasione di finanziare la costruzione di una ‘banca cattiva’ con fondi europei (giugno 2012), il governo ha proposto fuori tempo massimo la costituzione di uno o più veicoli per l’acquisto di crediti problematici a prezzi sostenuti da garanzie pubbliche.

La posizione italiana è così incappata nelle nuove norme europee, emanate nell’estate del 2013, che vietano aiuti di stato per la soluzione di problemi bancari. Proprio in questi giorni si sta delineando un compromesso che rischia, però, di essere inadeguato alla portata del problema.

Obbligazioni ‘subordinate’
Secondo fatto: a metà dello scorso novembre, il governo italiano ha rinunciato al salvataggio di tre ex casse di risparmio (Banca Marche, Cassa di risparmio di Ferrara e Cassa di risparmio di Chieti) e di una banca popolare (Popolare dell’Etruria) mediante il ricorso al Fondo interbancario di tutela dei depositi che era stato utilizzato anche di recente per affrontare la crisi di un’altra ex cassa di risparmio (Banca Tercas).

Infatti, sebbene tale Fondo utilizzi risorse private stanziate ad hoc dalle restanti banche, la sua attivazione è pubblica e contrasta – quindi - con le nuove regole europee sopra menzionate.

La soluzione alternativa, che ha portato alla costituzione di una “banca cattiva” e di quattro nuove banche con bilanci ‘ripuliti’, ha causato un sostanziale azzeramento nel valore delle azioni e delle obbligazioni subordinate emesse dalle vecchie Banca Marche, Carife, CariChieti ed Etruria. Dato l’abnorme collocamento di vari tipi di obbligazioni bancarie presso i risparmiatori italiani avvenuto nel recente passato, questa soluzione ha suscitato allarme.

Il ‘bail in’
Terzo fatto: la soluzione adottata è stata realizzata in tempi rapidissimi per sfruttare la finestra temporale fra il recepimento italiano delle nuove norme europee in materia di risoluzione delle crisi bancarie e l’inizio del 2016. Con il nuovo anno è diventato infatti operativo il secondo pilastro dell’Unione bancaria che subordina la ristrutturazione di ogni banca in crisi alla prioritaria copertura delle relative perdite (fino allo 8% delle sue passività) mediante la decurtazione nel valore - in sequenza - delle sue azioni, delle sue varie tipologie di obbligazioni non garantite, dei suoi depositi per l’ammontare eccedente i 100mila euro.

Se applicato al caso delle quattro banche in esame, la nuova procedura di copertura delle perdite (nota come bail in) avrebbe potuto comportare il coinvolgimento anche dei detentori di obbligazioni non subordinate e - almeno in linea di principio - di una parte dei depositanti. Il che avrebbe accresciuto oneri e preoccupazioni per i risparmiatori.

Garanzie sui depositi
Quarto fatto: il bail in e le altre componenti di risoluzione delle crisi bancarie, approvate dal Consiglio Ue fra giugno e dicembre 2013, dovrebbero trovare completamento in un terzo pilastro dell’Unione bancaria: uno schema europeo di garanzia dei depositi.

Alla fine dello scorso anno, la Commissione europea ha avanzato una proposta per la graduale costituzione del relativo Fondo, ma è incorsa nel drastico veto della Germania che ha subordinato la creazione di tale Fondo al fatto che i settori bancari degli Stati membri più fragili riducano la loro esposizione rispetto ai titoli del debito pubblico nazionale.

Gli effetti sul settore bancario
Questi fatti hanno varie implicazioni. Innanzitutto il settore bancario italiano rischia di essere schiacciato da tre macigni: il peso dei crediti problematici e dei titoli pubblici nazionali; i passati eccessi nell’emissione bancaria di obbligazioni che, oltre a non trovare buoni sostituti, ne aumentano la vulnerabilità rispetto al bail in e ne riducono il potenziale di finanziamento.

Inoltre tale settore trarrebbe giovamento dalla cooperazione fra Stati membri e dal completamento dell’Unione bancaria: la prima faciliterebbe la liquidazione dell’eccesso di crediti problematici e di titoli pubblici; la seconda fornirebbe contrappesi rispetto al potenziale destabilizzante del bail in.

Viceversa, la Germania va in direzione opposta: reagendo al pieno utilizzo italiano della flessibilità sui bilanci pubblici, essa ha scelto il settore bancario per sperimentare soluzioni decentrate che spostino l’onere degli aggiustamenti sui singoli paesi.

Gli effetti macroeconomici
Gli atteggiamenti di sfida tra Italia e Ue minano così la capacità del settore bancario italiano di sostenere la crescita del nostro sistema produttivo. Si sarebbe quindi tentati di concludere che la sfida è appropriata solo se ci si aspetta che la flessibilità nella gestione del bilancio pubblico abbia un impatto così positivo sul tasso italiano di crescita da più che compensare l’impatto negativo derivante dai crescenti vincoli bancari.

Il nesso fra maggiore flessibilità nella gestione del bilancio pubblico e aumento nei tassi di crescita risulta però indeterminato se non si specifica l’uso di questa flessibilità. Al riguardo, si dovrebbe entrare nel merito delle iniziative di politica economica inserite nella Legge di stabilità per il 2016. In alternativa, ci si può chiedere se l’Italia non abbia terreni di confronto più costruttivi in ambito europeo.

Un possibile confronto con la Germania
Le critiche italiane, riguardanti le nuove norme sugli aiuti di stato nelle risoluzioni bancarie e sul bail in, e quelle tedesche, relative all’introduzione di uno schema europeo di garanzia dei depositi, hanno una radice comune: l’inefficace gestione di fattori pregressi o, come è più preciso dire, della legacy e degli stock.

Il governo italiano critica le nuove norme europee sulla risoluzione bancaria perché trascurano due elementi: i limitati aiuti statali erogati alle nostre banche durante le recenti crisi; la minore rischiosità che era incorporata nello stock di obbligazioni, emesse da queste stesse banche prima delle nuove norme europee, rispetto alla situazione attuale.

Analogamente, il governo tedesco ritiene inaccettabile che la Commissione europea proponga un fondo unico di garanzia dei depositi senza preventive ‘pulizie’ di vecchie incrostazioni nei bilanci bancari dei paesi più fragili.

La sfida italiana alle istituzioni europee potrebbe, quindi, fondarsi sulla seguente domanda: perché dovremmo accettare una ‘forzatura’ della nostra legacy, qual è quella derivante dall’applicazione del bail in al preesistente stock di obbligazioni bancarie e dalla cancellazione dei pregressi aiuti di stato alle altre banche europee, quando la Germania non accetta la ‘forzatura’ della sua legacy, derivante dalla cancellazione della rischiosità specifica incorporata nello stock di titoli pubblici detenuti nei singoli settori bancari?

Marcello Messori è Direttore della LUISS School of European Political Economy.
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