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martedì 28 giugno 2016

Roma: aperture verso Putin

Russia
Italia, giri di valzer a San Pietroburgo
Giovanna De Maio
26/06/2016
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Il premier italiano Matteo Renzi e il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker sono state le uniche rappresentanze europee al Forum economico di San Pietroburgo. Si tratta di un evento annuale che funge da piattaforma internazionale per la discussione di opportunità d’investimento in Russia e di mercati emergenti.

Il primo insiste sull’importanza della Russia sul piano economico e su quello delle relazioni internazionali. Il secondo si fa portavoce di un’Europa più realista che necessita di riaprire il dialogo con Mosca. Sullo sfondo, il presidente russo Vladimir Putin elogia Renzi e porge un ramoscello di ulivo all’Europa.

Applausi per Renzi
“L’Italia deve essere fiera di un premier così”, ha dichiarato Putin. L’intervento di Renzi all’Hermitage, intriso di riferimenti alla cultura russa e ai valori comuni di Russia ed Europa, si colloca nel solco di una lunga tradizione della politica italiana e dimostra che la sintonia tra Roma e Mosca va oltre i legami personali tra l’ex premier Silvio Berlusconi e Vladimir Putin.

L’assenza di fratture storiche e la fitta rete d’interessi commerciali hanno contribuito a mantenere pacifici e collaborativi i rapporti tra i due paesi. Alla luce dell’appartenenza alla cornice europea e atlantica, però, l’Italia si è comunque dovuta attenere alle direttive sanzionatorie e alle prese di posizione dei propri alleati più stretti.

Tuttavia, Roma non ha mai rinunciato a un ruolo di mediazione ed ha fortemente insistito affinché il rinnovo delle sanzioni alla Russia non avvenisse in modo automatico, ma fosse soggetto a periodica rivisitazione. L’intervento di Renzi deve essere letto in questa luce.

Al Forum di San Pietroburgo erano presenti i top manager di un terzo delle aziende italiane: il valore degli accordi commerciali conclusi tra Italia e Russia in quest’occasione ammonta a 1,3 miliardi di dollari e sono state poste le basi per nuovi investimenti di lungo periodo, specialmente nel settore energetico.

Tuttavia, per il nostro paese la partnership con Mosca non si esaurisce sul piano economico: Matteo Renzi ha più volte affermato l’importanza della collaborazione con la Russia per la risoluzione dei conflitti internazionali. Il riferimento è alla crisi libica: Roma crede che il coinvolgimento di Mosca possa contribuire alla ricerca di una soluzione di lungo periodo.

Juncker, segni di disgelo
Nonostante le critiche di Polonia e Paesi Baltici, Jean-Claude Juncker si è recato a San Pietroburgo con l’idea di riaprire il dialogo con la Russia. In un’atmosfera piuttosto distesa, il presidente della Commissione europea, pur ribadendo l’importanza dell’adempimento degli accordi di Minsk, si è spinto fino ad auspicare una forma di collaborazione più ampia tra l’Europa e Mosca in un’unica grande regione basata su stato di diritto, libero commercio e progetti comuni.

Al di là di ogni retorica, però, quest’obiettivo di lungo periodo è indice di un approccio più realista dell’Unione europea. Sebbene non ci siano le condizioni per un ritiro delle sanzioni, è sempre più pressante la necessità di collaborazione con Mosca, che si è rivelata utile in diversi scenari di crisi.

La Brexit, la crisi dei rifugiati e il terrorismo internazionale sono problemi più impellenti che fanno passare in secondo piano l’instabilità nella regione del Donbass ucraino.

Mosca cerca altri spunti
Nel frattempo, Putin ci tiene a far sapere che non nutre astio nei confronti dell’Europa e che Mosca è pronta al dialogo ma - precisa - la cosa non deve essere a senso unico. Il presidente russo non risparmia critiche all’ingerenza statunitense negli affari europei e in particolare sulle sanzioni, che “danneggiano più l’Europa che gli Stati Uniti”. Tipico del modo di ragionare russo, Putin prevede “alleanze a interazione flessibile” per la futura definizione degli equilibri economici mondiali.

Sebbene un approccio più collaborativo della Russia possa ben deporre per il ritiro delle sanzioni, Mosca si è data da fare, al Forum di San Pietroburgo, nella ricerca di soluzioni alternative per la sua ripresa economica e per il commercio estero.

Con Pechino la Russia ha concluso accordi per circa 600 milioni di dollari: tra questi, la costruzione della ferrovia che collega la Cina al porto russo di Zarubino e la cooperazione nell’ambito militare. Secondo alcuni esperti, però, Mosca sarebbe più interessata alle relazioni con i partner mediorientali soprattutto per gli investimenti diretti esteri nel settore agricolo e militare.

L’Europa resta ancora il mercato preferito dalla Russia per la qualità dei prodotti e per i forti legami economici con i singoli paesi. Tuttavia, senza riforme che limitino la corruzione e rendano più solido lo stato di diritto, gli investimenti diretti esteri, soprattutto da parte europea, resteranno difficili da realizzare.

Accordi economici a parte, il bilancio del Forum di San Pietroburgo può essere considerato positivo alla luce di un ritrovato clima di collaborazione: a piccoli passi, in settori specifici e sulla base di un comune interesse.

Giovanna De Maio è dottoranda di ricerca presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale; è stata stagista per la comunicazione presso lo IAI.

Roma: ancora una rincorsa

Nazioni Unite
Italia, corsa al seggio Onu 
Roberto Nigido
24/06/2016
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Il 28 giugno prossimo l’ Assemblea generale delle Nazioni Unite procederà al rinnovo dei dieci membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza. Attualmente questo organo è composto di quindici membri: cinque membri permanenti e con diritto di veto ( Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito e Francia ) e dieci non permanenti, con mandato biennale non rinnovabile immediatamente.

L’Italia si è candidata a uno dei posti di membro non permanente spettante al gruppo dei Paesi occidentali per il biennio 2017-2018. I Paesi occidentali concorrenti dell’Italia sono i Paesi Bassi e la Svezia.

Lo Statuto delle Nazioni Unite prevede che i membri non permanenti siano scelti tenendo in considerazione il loro contributo “al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale ed agli altri fini dell’Organizzazione, ed inoltre ad un’equa distribuzione geografica”. Quest’ultima viene assicurata dalla prassi di attribuire un numero fisso di posti ad ogni gruppo regionale ( 3 all’Africa, 2 all’Asia-Pacifico, 1 all’Europa orientale, 2 ai Paesi occidentali, 2 all’America Latina ) e, all’interno di ogni gruppo regionale, dal rispetto di ragionevoli periodi di tempo tra una candidatura e quella successiva.

Contributo italiano al mantenimento della pace
L’Italia si è proposta per l’elezione al Consiglio di Sicurezza dopo dieci anni dalla precedente candidatura; e questo è certamente un ragionevole lasso di tempo. Le nostre credenziali sono ineccepibili per quanto riguarda il requisito del mantenimento della pace: siamo il primo contributore di truppe, tra i Paesi occidentali, alle operazioni di pace delle Nazioni Unite.

Le nostre credenziali sono ugualmente ineccepibili per quanto riguarda il contributo agli altri principali fini dell’ Organizzazione (promozione della soluzione pacifica delle controversie, del rispetto della legalità internazionale e del disarmo, protezione dei diritti umani). Lo sono meno per quanto riguarda l’aiuto pubblico allo sviluppo, dove l’ Italia è largamente indietro rispetto ai suoi concorrenti.

I principi cui s’ispira la nostra politica estera richiamano quasi alla lettera i fini assegnati alle Nazioni Unite dal suo Statuto. Ciò spiega l’importanza fondamentale che il nostro Paese attribuisce al ruolo delle Nazioni Unite e il contributo di eccellenza che l’Italia ha costantemente dato alla loro azione in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, anche sedendo periodicamente nel Consiglio di Sicurezza. La solida reputazione che l’Italia ha saputo guadagnarsi negli oltre sessanta anni di appartenenza alle Nazioni Unite non è stata raggiunta però agevolmente.

Siamo diventati membri delle Nazioni Unite nel 1955, dieci anni dopo la loro costituzione. Abbiamo dovuto superare i giudizi negativi che circondavano il nostro Paese a causa delle folli avventure belliche fasciste e delle tragiche vicende attraverso le quali l’Italia aveva posto fine alla guerra contro le Potenze Alleate: vicende che ci avevano valso il risentimento dei vinti e il disprezzo dei vincitori. Si tratta di giudizi, e pregiudizi, dei quali non ci siamo ancora liberati completamente.

Riforma del Consiglio di Sicurezza 
Accanto a questa costante opera in difesa e promozione del ruolo delle Nazioni Unite e dei principi sui quali è basato il loro Statuto, l’Italia svolge da quasi un quarto di secolo, insieme a molti altri Paesi che condividono la nostra impostazione, una azione determinata e intelligente volta a rafforzare il carattere democratico delle Nazioni Unite, nel cui ambito da tempo è sentita l’ esigenza di adattare composizione e metodi di lavoro del Consiglio di Sicurezza alla odierna realtà internazionale.

La composizione di questo organo è rimasta invariata dal 1965, quando i membri delle Nazioni Unite erano 117: ora sono 193. A partire dal 1993 sono state avanzate varie proposte per allargare il Consiglio di Sicurezza e per migliorarne i metodi di lavoro, incluso il ricorso al potere di veto.

L’ Italia si è immediatamente dichiarata disponibile a dare il proprio apporto per rendere il Consiglio di Sicurezza maggiormente democratico, rappresentativo e responsabile nei confronti di tutti i membri delle Nazioni Unite. Ma si è opposta all’aumento dei membri permanenti e ha svolto un ruolo cruciale per contribuire a bloccare, a partire dal 1995, il ripetuto tentativo di Brasile, Germania, Giappone e India di promuovere una revisione dello Statuto intesa ad attribuire a questi Paesi lo status di membri permanenti.

Il ragionamento che ha mosso l’azione del nostro Paese è che, secondo il diritto internazionale, tutti i Paesi sono uguali: hanno gli stessi diritti e gli stessi doveri. Questo principio deve valere anche nell’ambito dell’Organizzazione che li raccoglie tutti e nella quale tutti si riconoscono.

La presenza nel Consiglio di Sicurezza di Sicurezza di cinque membri con diritti speciali (seggio permanente e diritto di veto) si giustifica solo perché questi cinque Paesi sono stati i principali, anche se non gli unici, vincitori della seconda guerra mondiale e, come fondatori delle Nazioni Unite, si sono attribuiti una posizione speciale nel loro ambito, quando ne hanno scritto lo Statuto. Sarebbe profondamente antidemocratico e contrario ai fondamenti del diritto internazionale estendere oggi ad altri Paesi diritti discriminatori che vengono dalla storia; e la storia, come noto, non si può cambiare.

Vale la pena di ricordare un episodio del passato,significativo ma poco noto, avvenuto durante un viaggio in Giappone, alla metà degli anni ‘90, dell’allora ministro degli Affari esteri Susanna Agnelli. Durante l’incontro, il suo omologo giapponese aveva esposto a lungo i motivi che rendevano essenziale l’attribuzione al Giappone (e alla Germania ) dello status di membro permanente del Consiglio di Sicurezza. La Signora Agnelli osservò laconicamente: “Caro Collega, Lei non penserà che l’Italia abbia perso, da sola, la seconda guerra mondiale?”. Il Ministro giapponese concluse immediatamente il colloquio senza reagire e si ritirò.

La proposta italiana
La discussione sulla riforma del Consiglio di Sicurezza continua a registrare molteplici e contraddittorie proposte che finiscono per incrociarsi con il veto di uno o più dei membri permanenti. Per far progredire il negoziato, l’Italia ha presentato, insieme agli altri Paesi che da tempo condividono la sua posizione di fondo, una proposta di compromesso, che prevede l’istituzione di una terza categoria di membri, con mandato più lungo degli attuali seggi biennali e rinnovabile.

A parere di chi scrive, si tratta di un’ipotesi utile per far progredire il negoziato, ma che va maneggiata e modulata con cautela, se non si vuole indebolire la logica del principio sul quale si basa la posizione italiana: che tutti gli Stati sono uguali e hanno gli stessi diritti nelle Nazioni Unite; con l’eccezione del Consiglio di Sicurezza, dove i Cinque permanenti hanno acquisito la loro posizione speciale come imposizione del vincitore al termine della seconda guerra mondiale.

Roberto Nigido è Ambasciatore d’Italia.

Roma: di fronte alla Brexit

Brexit
L’Italia dica la sua sulla Brexit
Riccardo Alcaro
25/11/2015
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Rimanere nell’Ue, solo se le relazioni con Londra saranno ricalibrate. È questo il messaggio delle proposte di riforma presentate dal primo ministro britannico David Cameron in previsione del referendum in cui - tra il 2016 e il 2017- i cittadini britannici sceglieranno se restare o meno nell’Ue.

L’Italia, il quarto paese Ue per dimensioni economiche e demografiche, è destinata ad avere una parte molto importante nel negoziato.

Proposta di riforma o ricatto?
Le proposte di Cameron, messe nero su bianco nella lettera spedito al presidente Ue Donald Tusk, hanno suscitato reazioni contrastanti in Italia.

Da una parte, funzionari, politici ed esperti vi hanno visto un incoraggiante - e lungamente attesto - primo passo verso una rapida risoluzione del problema del travagliato rapporto con l’Ue del Regno Unito. Dall’altra, molti si risentono del fatto che la questione di cui Cameron ha proposto una soluzione è un problema creato da lui stesso.

Dopo la pubblicazione della lettera, Cameron si è espresso positivamente sull’Ue, ricordando i molti vantaggi che il Regno Unito trae dalla sua appartenenza all’Unione, anche in termini di sicurezza nazionale.

Molti in Italia (e di certo anche in altri paesi) si chiedono pertanto come mai il governo britannico consideri lo status quo insostenibile. In fin dei conti, molte delle proposte di riforma fatte da Cameron potrebbero essere discusse in un normale contesto di negoziato interno all’Ue. Condizionarle all’uscita del Regno Unito sembra a molti una forma nemmeno troppo nascosta di ricatto.

Altri lamentano che l’intera vicenda puzzi di opportunismo politico, visto che Cameron ha promesso di tenere il referendum per riportare all’ordine la fazione più euroscettica del Partito conservatore e contenere l’avanzata dello UK Independence Party (Ukip), visceralmente anti-Ue. Altri ancora temono una sorta di effetto domino: se si fanno concessioni speciali ai britannici, cosa impedirà ad altri di avanzare simili pretese?

Regno Unito caso speciale
Il governo di Matteo Renzi non deve farsi influenzare da questi argomenti. Che considerazioni di politica interna entrino nel calcolo strategico di leader nazionali non è uno scandalo - in un modo o nell’altro, succede a tutti i leader europei.

Agitando lo spettro della ‘Brexit’ (come colloquialmente ci si riferisce all’uscita del Regno Unito dall’Ue) Cameron sta indubbiamente giocando duro, ma il premier sa che può permetterselo perché molti non vogliono lasciar andare un paese dell’importanza economica, politica e strategica come il Regno Unito.

Per quanto opportunistico, se non cinico, il calcolo di Cameron è anche realistico. Pochi stati membri, forse solo Francia e Germania, hanno la stessa influenza - e conseguentemente la stessa forza negoziale - del Regno Unito. Se gli altri provassero a emulare Cameron scoprirebbero che anche nell’Ue alcuni stati membri sono più uguali di altri.

Renzi farebbe meglio a impostare il suo approccio su una spassionata e pragmatica valutazione degli interessi italiani in gioco. L’Italia ha un interesse vitale a tutelare la strada dell’integrazione evitandone la preclusione a quegli stati - soprattutto i membri dell’eurozona - che vogliano continuare a percorrerla.

Dobbiamo inoltre evitare che i risultati conseguiti dall’integrazione siano compromessi. Al contempo però, l’Italia ha anche interesse a tenere il Regno Unito nell’Ue perché, senza Londra, l’Unione sarebbe più piccola economicamente e meno influente sul piano internazionale.

Le riforme volute da Cameron
Cameron ha avuto il buon senso di avanzare proposte ragionevoli (pur con qualche eccezione). Delle aree che il premier britannico vorrebbe riformare, l’unica che presenta ostacoli forse insormontabili riguarda l’immigrazione da paesi Ue.

Su questo fronte l’Italia deve guardarsi bene dal fare concessioni che riducano la libertà di circolazione dei lavoratori, una delle quattro libertà fondamentali - insieme alla libera circolazione di merci, servizi e capitali - su cui il processo d’integrazione europea è storicamente basato.

Le altre aree offrono prospettive di accordo più incoraggianti. L’Italia ha interesse sia ad appoggiare la proposta di creare un’unione digitale e di capitali, sia a tenere sotto controllo la regolamentazione Ue.

Le piccole e medie imprese italiane beneficerebbero infatti dall’avere maggiore accesso a fonti di credito (una conseguenza dell’integrazione dei capitali) e una burocrazia più snella.

Cameron vuole anche porre fine all’obbligo del Regno Unito a lavorare verso una ‘unione sempre più stretta’. Purché non si aprano le porte ad un’Europa à la carte, l’Italia non deve opporsi all’introduzione di maggiore flessibilità nella governance dell’Ue.

L’Unione, dopotutto, già ora opera come un sistema di governance multi-livello, visto che un certo grado di differenziazione è già presente in questioni di difesa, giustizia e affari interni, nonché ovviamente affari economici e monetari.

A questo proposito, la richiesta di Cameron di tutelare i paesi Ue fuori dalla zona euro da possibili forme di discriminazione e proteggere il mercato unico ha senso, ma non a tal punto da acconsentire che le decisioni degli stati euro possano essere bloccate dai non-euro semplicemente richiamandosi all’integrità del mercato comune. Molto meglio orientarsi verso soluzioni ad hoc, decise caso per caso.

La strada per un accordo con i britannici è meno stretta di quanto sembri. Gli italiani possono contribuirvi senza sacrificare il loro interesse nell’integrazione europea. L’alternativa - un’Ue più modesta e un Regno Unito estraniato - potrebbe dimostrarsi ben peggiore.

Riccardo Alcaro è responsabile di ricerca dello Iai e non-resident fellow presso la Brookings Institution di Washington. Di recente ha pubblicato una serie diraccomandazioni al governo italiano su come reagire alle proposte di riforma di Cameron.

La ricostruzione dei rapporti con l'India

Caso Marò
Business as usual, con l’India non basta
Antonio Armellini
18/06/2016
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Ora che si è calmata l’onda di piena delle polemiche sui nostri marò, è il momento di ricostruire un po’ di ponti. Delhi insegue Pechino senza raggiungerla, ma è diventata un perno fondamentale degli equilibri geostrategici in Asia e non solo. Non ha ancora la gravitas necessaria per imporsi come membro permanente del Consiglio di Sicurezza, ma le cose evolvono.

Modi ha ottenuto nei giorni scorsi un ulteriore riconoscimento dello status di potenza nucleare, da parte di quello stesso Obama che a lungo si era detto risolutamente contrario. La capacità di proiezione strategica che sta acquisendo la marina indiana, la dice lunga su quali potranno essere gli equilibri - e i punti di tensione - da qui a qualche anno.

L’altra grande potenza continentale asiatica non è solo un interlocutore sempre più cruciale, ma rappresenta un mercato dal quale ci siamo forzatamente isolati e che sarebbe un grave errore tralasciare ancora.

Mazzini, Gramsci e anche Mussolini
I rapporti fra i due paesi hanno origini antiche e la conoscenza reciproca è spesso preda di generalizzazioni e stereotipi. Pochi sanno che Giuseppe Mazzini è una figura conosciuta e studiata in India forse più che in Italia: i padri del movimento nazionalista indiano lessero i suoi scritti del periodo dell’esilio londinese e ne fecero una delle basi della loro formazione politica.

Sono ancora in meno a sapere che nel partito comunista indiano - un tempo potente soprattutto in Bengala e nel Kerala, ora ridotto a povera cosa - il nome di Gramsci compare spesso accanto a quelli di Marx ed Engels, mentre il suo ritratto continua ad adornare le pareti di più di una sezione.

Sul versante opposto Savarkar, il fondatore del movimento ultra-nazionalista Rss - quello in cui l’attuale premier Narendra Modi ha mosso i primi passi, e dal quale solo ora sta prendendo le prime, esitanti distanze - era un ammiratore di Mussolini e prese le organizzazioni giovanili fasciste a modello per le sue, ancora oggi attive con riti, gagliardetti e uniformi ispirati a quegli infausti progenitori.

Lo stesso Gandhi vide Mussolini a Roma, di ritorno da uno dei suoi viaggi a Londra: i biografi hanno steso un velo su quel colloquio, del cui contenuto si è saputo assai poco; qualcuno ha scritto che il Mahatma sembrò ricavarne un’impressione non negativa, forse influenzato dal ragionamento secondo cui “i nemici dei miei nemici sono amici”.

L’Italia fu un partner importante nella prima fase dello sviluppo del paese dopo l’indipendenza. La prima rivoluzione agricola voluta da Nehru poté contare sull’apporto delle aziende del gruppo Iri, di Snam e di altri come Montecatini, per mettere in piedi un’industria chimica moderna.

La motorizzazione fu all’inizio esclusivamente italiana: le due ruote arrivarono con Piaggio e Innocenti, mentre Fiat era per tutti sinonimo incontestato di qualità. Nomi un tempo famosi in Italia, come Bisleri o Ceat, divennero marchi indiani; ancora oggi l’espressione dialettale per dire ventilatore è marelli.

Il declino della nostra industria di Stato, alcune scelte industriali infelici, ad opera ad esempio di Fiat, infortuni come quelli che cancellarono per decenni Piaggio dal mercato, determinarono il progressivo indebolimento della nostra posizione. Ora il mercato dell’auto è diventato di massa ed è dominato dai produttori asiatici (e Rolls Royce, Bentley e Lamborghini non riescono a soddisfare le richieste).

Stimolare una conoscenza reciproca meno imperfetta
Il paese di duecento milioni di abitanti raccontato negli anni sessanta da Moravia e Pasolini è diventato un gigante da oltre un miliardo: l’Italia è un partner secondario, ma non sconosciuto. Cinema, moda e italian way of life alimentano l’immagine di un paese politicamente non molto forte, ma verso il quale la simpatia immediata è rafforzata dall’assenza di condizionamenti di tipo coloniale o post-imperiale.

Sonia Gandhi ha costituito a lungo una remora per la nostra presenza, visto che doveva tenere una distanza assoluta da tutto ciò che suonasse italiano per non venire contestata in quanto “straniera”. Con Modi il problema non si pone più.

I marò suscitano un interesse modesto nell’opinione pubblica indiana e sono stati utili strumentalmente, in una fase politica ora trascorsa; in Italia il tema continua ad alimentare reazioni giustificatamente più vive. Una strategia di rilancio dovrà tenere conto di tali implicazioni piscologiche e delle suscettibilità; dovrà essere graduale, puntando su economia e cultura.

I punti di frizione politica si sono ridotti: la nostra opposizione all’ingresso dell’India nel Nuclear Suppliers Group viene meno e, quanto al Consiglio di Sicurezza, si tratta di insistere nel chiarire che la nostra posizione non ha nulla a che vedere con il confronto indo-pakistano (come sospetta Delhi) e riguarda una filosofia di fondo, che si articola in tempi sempre più lunghi.

Il vero problema è quello di stimolare una conoscenza reciproca meno imperfetta: per gli indiani, Europa vuole dire soprattutto Gran Bretagna, con l’aggiunta ogni tanto di Francia e Germania. La visione di molti in Italia, dell’India come paese spirituale e tollerante, è altrettanto fuorviante.

Sfruttiamo molto poco il volano culturale e quello dell’italian way of life, mentre del tutto assenti sono gli strumenti di soft power, che potrebbero giocare un ruolo molto importante in un paese avvezzo a farvi ricorso.

Le due associazioni di amicizia (parlamentare e non) sono dormienti, le Camere di Commercio sono asfittiche, i centri di ricerca si occupano poco dell’India e quelli specializzati come l’isIAO sono ridotti in cenere. Eppure queste vie sono tutte utilissime per ricominciare a parlarci.

Grandi possibilità dell’economia indiana
L’economia indiana offre grandi possibilità, che il nostro sistema produttivo non ha potuto cogliere che in misura ridotta. Scontiamo un generale problema di dimensioni: un mercato vasto, ma anche molto complicato richiede spalle solide e l’idea di consorziarsi per essere più efficaci, stenta ad entrare nella cultura delle nostre imprese. Infrastrutture, meccanica, automotive sono delle evidenti priorità; come lo è il turismo.

Gli indiani hanno cominciato a viaggiare in gran numero e non abbiamo fatto nulla per indurre i grandi gruppi alberghieri indiani, presenti ormai in tutta Europa, ad investire in Italia. Senza ovviamente dimenticare la difesa - l’India è fra i massimi acquirenti mondiali di materiale militare - dove l’eco negativa del pasticcio Westland-Finmeccanica si sta spegnendo e abbiamo ottime carte da giocare, a partire da quella di Fincantieri.

Mentre noi eravamo forzatamente fermi, i nostri partner non hanno perso tempo. Se vogliamo davvero non lasciar cadere la prospettiva di rientrare in un paese chiave da ogni punto di vista, business as usual non basta. Ci vuole una strategia pubblico-privata ad hoc: le caratteristiche si vedono bene; quella che resta da definire è la volontà.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, è commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).

L'Italia e la Nato: prospettive di medio termine

Vertice Nato 
Gli alleati si preparano per la partita di Varsavia
Alessandro Marrone, Paola Sartori
18/06/2016
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Il vertice Nato di Varsavia del prossimo luglio sarà un importante momento di confronto tra le diverse visioni alleate sulle minacce alla sicurezza euro-atlantica e le possibili risposte per assicurare la difesa degli stati membri e lavorare alla stabilizzazione del vicinato.

Agenda di Varsavia
Dall'inizio della crisi in Ucraina nel 2014, su spinta principalmente dei Paesi dell'est e nord Europa, la Nato si è concentrata maggiormente sul fianco orientale e sul rischio di un’aggressione russa anche tramite tattiche di “guerra ibrida”.

Viceversa, gli stati membri che si affacciano sul Mediterraneo, in primis l'Italia ma non solo, hanno spinto per bilanciare l’attenzione della Nato sul fianco sud, benché la natura non-convenzionale delle minacce e dei fattori di instabilità su questo fronte - dal terrorismo islamico alla crisi migratoria - renda più difficile identificare un possibile contributo dell'Alleanza alla sicurezza della regione euro-mediterranea.

Tale dinamica sta influenzando anche la preparazione del vertice di Varsavia, condotta attraverso riunioni ministeriali, militari e informali. Preparazione che ha risentito anche di un presidente Usa a pochi mesi dalla sua uscita definitiva dalla Casa Bianca e quindi meno in grado di esercitare la tradizionale leadership statunitense all'interno dell'Alleanza.

Due sembrano essere i temi principali nell'agenda di Varsavia: da un lato deterrenza e dialogo e dall'altro la proiezione di stabilità. In un’ottica Nato questi principi dovrebbero garantire una risposta a 360 gradi all'insieme di minacce alla sicurezza euro-atlantica e applicarsi lungo tutto il perimetro dell'Alleanza.

Nei fatti, tuttavia, mentre il binomio deterrenza-dialogo è pensato principalmente nei confronti di Mosca, il problema di proiettare stabilità si pone soprattutto in Medio Oriente e Nord Africa.

Deterrenza e distensione per i figli della Guerra Fredda 
Guardando ad est, il dibattito interno alla Nato sembra spostarsi dalle misure di rassicurazione dei Paesi dell'Europa centro orientale - tema emerso nel precedente vertice del Galles - verso il terreno ben più impegnativo della deterrenza convenzionale e nucleare della Federazione russa.

Sono ora in discussione un rafforzamento e un ulteriore sviluppo delle misure contenute nel Readiness Action Plan del 2014, incluse frequenza e portata delle esercitazioni alleate sul fianco orientale e pre-posizionamento di equipaggiamenti militari in loco.

Sembra profilarsi lo stazionamento di un battaglione multinazionale dell'Alleanza in ognuno dei Paesi confinanti con la Federazione russa, sui 500 uomini, a rotazione continua in modo da non infrangere apertamente l'Atto fondativo delle relazioni Nato-Russia del 1997 che, tra le altre cose, impegna gli alleati a non stazionare in modo permanente significative capacità militari nei Paesi membri di nuova adesione.

Questi ultimi avevano chiesto un impegno militare anche maggiore sul confine orientale, ma capitali quali Roma, Parigi, Madrid e Berlino hanno preferito un approccio più bilanciato per evitare che Mosca lo percepisse come un’escalation militare.

Questo approccio comprende anche la ripresa delle riunioni formali del Consiglio Nato-Russia, avvenuta il 20 aprile con un primo incontro a livello di ambasciatori in cui si è discusso di Ucraina, Afghanistan e altri temi importanti nei rapporti tra l'Occidente e Mosca.

Un incontro definito in gergo diplomatico “franco”, cioè di confronto duro, cosa che non stupisce visti i disaccordi esistenti tra le parti. È tuttavia significativo che le parti siano tornate a parlarsi nel forum istituzionale creato a Pratica di Mare nel 2002 sotto gli auspici italiani e che vi sia la volontà da parte Nato di tenere ulteriori riunioni del Consiglio con l'approssimarsi dell'appuntamento di Varsavia - anche al fine di spiegare le decisioni in cantiere nel prossimo vertice per ridurre l'impatto negativo sulla percezione russa dell'aggressività alleata. Proprio in quest’ottica rientra l’organizzazione in corso di un secondo incontro del Consiglio Nato-Russia.

Si tratta di un necessario equilibrio tra misure militari e diplomatiche niente affatto nuovo per la Nato che, dall'adozione nel 1956 del Rapporto dei tre saggi - uno dei quali era Gaetano Martino - fino al 1991, ha portato avanti il duplice approccio di deterrenza e distensione. Il problema oggi è adattare questo binomio alle condizioni dell'attuale contesto internazionale, e trovare per esso il consenso necessario in un'Alleanza che include anche Paesi che hanno vissuto la Guerra Fredda dall’altro lato della Cortina di Ferro.

Fianco sud: quo vadis?
Se un compromesso ragionevole sembra possibile per l'approccio alleato al fianco orientale, le idee sono ancora poco chiare su quello meridionale. Proiettare stabilità è sicuramente un obiettivo logico e condivisibile, ma rimane da vedere cosa implichi nel concreto per la Nato.

Chiaro è l'intento dell'Alleanza di investire maggiormente nella cooperazione bilaterale con i Paesi del Medio Oriente e Nord Africa al fine di rafforzarne le forze armate e di sicurezza (il cosiddetto Defence Capacity Building - DCB). L’obiettivo è quello di accrescere la loro capacità di contrastare in loco quegli attori che alimentano crisi e conflittualità di cui poi è anche l'Europa a pagare il prezzo, in primis in termini di crisi migratoria e terrorismo islamico.

Giordania, Iraq e Tunisia sono in cima alla lista di partner da aiutare tramite il DCB, e non a caso il Re di Giordania sarà a Varsavia per il vertice.

Anche sulla sicurezza marittima del Mediterraneo, dopo l'avvio nel 2016 della missioneNato nell'Egeo si stanno studiando passi ulteriori, anche su spinta italiana, quali la trasformazione dell'attuale missione Nato Active Endeavour, avviata dopo l'11 settembre 2001 con un mandato di contrasto al terrorismo, in una missione più ampia per lamaritime security, si spera in sinergia con la missione Sophia dell'Unione europea e quelle nazionali dell'Italia.

Aldilà di DCB e sicurezza marittima, non è però chiaro come sfruttare e potenziare i partenariati bilaterali e regionali Nato per proiettare stabilità sul fianco sud, quale potrebbe essere nella regione euro-mediterranea la cooperazione con l'Ue - ancora ostaggio delle dispute ideologiche turco-greco-cipriote - e, infine, quale contributo potrebbe dare l'Alleanza alla lotta all’autoproclamatosi “stato islamico” in particolare, ma non solo, sul fronte dell'intelligence.

Tutti temi su cui anche l'Italia è chiamata a dare un maggiore contributo, nel suo stesso interesse di Paese europeo al centro del Mediterraneo.

Alessandro Marrone è responsabile di ricerca del Programma sicurezza e difesa dello IAI (Twitter @Alessandro__Ma).
Paola Sartori è assistente alla ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI, twitter @SartoriPal
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domenica 12 giugno 2016

Roma: chiusura del Brennero apertura del Gottardo

Migration compact, dall’Italia all’Ue
Cosimo Risi
09/06/2016
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Con la comunicazione al Parlamento europeo del 7 giugno, la Commissione riprende significativamente il titolo di Migration Compact per proporre un patto europeo ad una serie di paesi terzi (Giordania, Libano) affinché continuino ad assistere i migranti che ospitano (o ospiteranno) sul loro territorio o riprendano i migranti già partiti verso l’Europa e da questa rimpatriati.

Nel secondo caso il patto è volto all’Africa nera ed è assortito da un robusto pacchetto finanziario. Il modello è quello del Piano Juncker (Efsi) e analogamente dovrebbe mobilitare risorse europee, nazionali, private, esercitando su queste ultime un effetto di traino.

La Commissione presenta il Compact come una prova di verità con l’elettorato. Il fenomeno migratorio è elevato e di lunga durata, le chiusure nazionali non riescono ad arginarlo, bisogna gestirlo con un’accorta risposta europea.

L’approccio della Commissione resta dentro al quadro della cooperazione. Poco o nulla dice di una politica attiva della difesa, intesa a prevenire i fenomeni bellici o a intervenire quando questi scoppiano, per limitare i danni umani e materiali e l’avvio di nuovi esodi di massa. Pur con le comprensibili cautele, si avvede che solo dispiegando tutta la strumentazione del Trattato in materia di azione esterna ci avviciniamo alla soluzione.

La proposta italiana
Il Migration Compact proposto dall’Italia offre un approccio diverso a un fenomeno - quello dell’immigrazione - che definisce in apertura “senza precedenti” e destinato a durare per decenni a causa delle dinamiche geopolitiche nelle aree prossime all’Europa, e segnatamente in Medio Oriente, Nord Africa, Sahel, Corno d’Africa.

Le turbolenze sono diffuse perché riguardano le zone di guerra (Siria) e le zone di arretratezza economica e sociale quando non ambedue assieme. Il fenomeno è tale da “minacciare i pilastri fondamentali dell’integrazione europea (ad esempio l’integrità della zona Schengen) e la solidarietà fra gli stati membri”.

Le azioni intraprese sulla rotta orientale (Accordo Ue-Turchia) mirano a dare sollievo alle popolazioni che fuggono da condizioni di guerra. I flussi in arrivo attraverso la rotta mediterranea sono composti principalmente da migranti economici: e sono quelli destinati a durare decenni proprio per le origini strutturali dei mali da cui le persone fuggono.

Il fenomeno ha anche e soprattutto un impatto umanitario. Le immagini di persone in fuga e sovente vittime di disastri e deportazioni sono emotivamente forti per il pubblico europeo, che ne prende immediata conoscenza grazie ai mezzi di comunicazioni di massa. La tensione si scarica sulla nostra rete protettiva, sia essa di assistenza che di contrasto, e si fa sempre più alta. Alcuni punti di approdo sono divenuti il simbolo d’Europa, nel bene e nel male.

La chiusura del Brennero e l’apertura del Gottardo 
Urge un salto di qualità nella risposta europea. Il salto di qualità va piuttosto diretto verso l’esterno che all’interno. A chiarire il pensiero vale la dichiarazione della Cancelliera tedesca, che icasticamente paventa la fine d’Europa se il Brennero viene chiuso. Il Brennero è un confine simbolo che, come tutti i simboli, vale molto più del traffico che consente (o interdice). Il Brennero è la porta d’ingresso fra Nord e Sud Europa.

Non è probabilmente un caso che la Cancelliera si pronunci in questo modo dopo avere partecipato il primo giugno, assieme ad altri dirigenti europei, all’inaugurazione della galleria svizzera del San Gottardo. La chiusura del Brennero tradisce l’apertura del Gottardo.

Le migrazioni di massa mettono l’Unione di fronte alle sue responsabilità sulla scena internazionale. Il Trattato di Lisbona inserisce la politica estera, di sicurezza e difesa nel capitolo dell’azione esterna, che include pure la cooperazione allo sviluppo, l’aiuto umanitario, le politiche “comunitarie” tradizionali.

L’Unione dovrebbe agire all’esterno sulla base degli stessi principi che animano la sua zione all’interno, in una armonica ancorché poco probabile coerenza di atteggiamento. Poco probabile perché sulla scena internazionale l’Unione si confronta con soggetti a volte refrattari ai principi che essa propugna.

Importa comunque che, con Lisbona, l’Unione si sia dotata della strumentazione astrattamente idonea all’azione esterna. Altro discorso è che dal 2009 non tutta l’azione esterna si è dispiegata con pari velocità ed efficacia. La politica di difesa è rimasta indietro e gli effetti del ritardo sono percepibili proprio nella presente crisi.

L’approccio integrato del Migration Compact 
Il Migration Compact propone un approccio integrato che, a semplificare, si può definire come miscela di prevenzione, contrasto, aiuto. Accanto ai progetti d’investimento tramite gli strumenti finanziari a ciò deputati, si pone la cooperazione in materia di sicurezza: gestire le migrazioni controllandole anche alla radice, mediante azioni di Psdc (politica di sicurezza e difesa comune) da proiettare nelle aree di crisi.

Creare opportunità legali ai migranti e insieme varare gli schemi di riallocazione a titolo di compensazione per i paesi di prima linea. Praticare i ritorni e le riammissioni, rivedere i sistemi di asilo, lottare contro i trafficanti di esseri umani.

Il documento si conclude con la proposta di una nuova Guardia europea di frontiera che serva a sviluppare un piano per “joint EU return operations”. Non è detto che ilMigration Compact sia condiviso in tutto e per tutto dagli stati membri e dalle istituzioni europee, essendo prevedibili le resistenze di varia natura. Ma occorre smuovere le acque perché si percepisca fino in fondo la portata della sfida che si pone non solo ai paesi di frontiera ma agli assetti delle società europee nel loro insieme.

Cosimo Risi è docente di Relazioni internazionali, Link Campus University di Roma.
 
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martedì 7 giugno 2016

Italia. la Nato e la Russia

Europa
Nato e Russia, ricostruire la fiducia in Europa
Carlo Trezza
03/06/2016
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Alla presenza del Segretario generale della Nato e del Presidente della Romania, è stata inaugurata nei giorni scorsi la base romena che ospita i nuovi sistemi di difesa antimissilistica della Nato.

Il giorno successivo è anche stato celebrato l'avvio dei lavori per l'installazione di analoghi sistemi in Polonia. La Federazione russa da anni si oppone a tali programmi, sostenendo che si tratta di una minaccia strategica addizionale nonché una violazione del trattato Inf che proibisce a russi e statunitensi di detenere missili nucleari a raggio intermedio.

Le posizioni di Mosca e Washington
Gli argomenti di Mosca non appaiono del tutto credibili: è difficile pensare che alcune decine di missili di difesa possano neutralizzare un arsenale nucleare che conta migliaia di missili e testate. Allo stesso tempo, non è del tutto convincente neppure l'argomento Usa, laddove si afferma che i nuovi sistemi servano solo a difendere Stati Uniti e alleati dai missili dell'Iran e della Corea del Nord. È probabile che la Russia risponderà con un avanzamento verso ovest dei propri sistemi missilistici alimentando ulteriormente la sfiducia reciproca e la tensione in Europa.

Questa diatriba viene da lontano. La prima avvisaglia, da molti trascurata, fu la sospensione nel 2007 dell'applicazione da parte della Russia delle misure previste dal Trattato sulle Forze convenzionali in Europa (Cfe), uno dei pilastri della sicurezza europea. Seguì l'anno successivo l'azione russa in Georgia ed in seguito l'annessione della Crimea e la crisi irrisolta con l'Ucraina.

Lo spirito di Pratica di Mare
Aleggiava ancora fino a pochi anni fa lo "spirito di Pratica di Mare", il vertice dove si sancì la cooperazione strategica tra Nato e Russia fortemente caldeggiata dall'Italia. Poco prima della crisi in Georgia, Putin aveva ancora partecipato al Vertice Nato tenutosi simbolicamente a Bucarest, nella mastodontica sede del parlamento dell'era Ceausescu. Nel 2010, Russia e Stati Uniti riuscirono a concludere il Trattato 'Nuovo Start', che riduceva il numero delle rispettive testate strategiche e dei loro vettori.

Con poche eccezioni, la sfiducia si va estendendo oggi a tutti i settori della passata collaborazione e si assiste ad una ripresa della spirale armamentisca. Mosca ha risposto "niet" all'offerta americana di ulteriori riduzioni strategiche e si trova attualmente in bilico persino il già citato trattato Inf.

Si va progressivamente disgregando l'architettura di sicurezza costruita nel quadro del processo Csce lanciato a Helsinki nel 1975 e che trovò il suo punto di forza nelle Confidence and Security Building Measures (Csbm) adottate in materia di trasparenza militare, prenotifica delle manovre e degli spostamenti di forze, osservazione degli esercizi militari e ispezione delle riduzioni delle principali categorie di armamenti.

Tali misure resero il processo di Helsinki un formidabile strumento di dialogo e collaborazione che fu strumentale al superamento del confronto Est/Ovest. Le misure di fiducia adottate a Helsinki, pur essendo state ulteriormente rafforzate a Vienna nel 1990, non si rivelano più sufficienti ad impedire il degrado.

Rischio crisi nucleare
L'attuale accrescimento della tensione si estrinseca in particolare attraverso sempre più frequenti "incontri ravvicinati" e potenziali incidenti aerei tra forze russe e della Nato. Negli ultimi mesi si sono rilevati oltre 60 episodi di tale genere assieme a sconfinamenti, lanci missilistici simulati ed interferenze cibernetiche. Risale a pochi giorni fa una collisione tra unità navali russe e Nato, mancata per un soffio.

A monitorare tale situazione e ad attirare su di essa l'attenzione pubblica è stato soprattutto lo European Leadership Network (Eln), organismo non governativo apartitico con base a Londra, che ha proposto di stabilire in Europa un codice di condotta per scongiurare gli incidenti aeronavali analogamente a quanto fatto recentemente dagli americani con la Cina.

Il rischio che tutto ciò sconfini in una crisi nucleare è evidente ed avrebbe conseguenze gravissime. Anche in questo settore le misure di fiducia sono insufficienti. Da anni, in seno alle Nazioni Unite vengono richieste agli Stati nucleari, invano, misure di fiducia volte ad allungare i tempi di risposta nucleare in caso di attacco ("de-alerting").

Analoga stasi sul fronte dottrinale. Tra le potenze nucleari solo la Cina ha sposato il principio del non primo uso dell'arma nucleare. Gli Stati Uniti sotto Obama hanno fatto alcuni passi in avanti riducendo le situazioni in cui essi impiegherebbero tale arma. Pur essendo "azionisti di maggioranza" della Nato, gli Usa non sono ad oggi riusciti ad estendere ai partner atlantici tale misura di flessibilità.

Appuntamento a Varsavia
Vista l'attuale tensione, non è verosimile attendersi un rilancio dei trattati o grandi misure distensive. Dal prossimo vertice Nato che si terrà a luglio nello stadio di Varsavia emergerà probabilmente un orientamento riflessivo piuttosto che la linea di confronto promossa dal paese ospitante.

Ma sarebbe quanto meno da incoraggiare, sul fronte delle misure di fiducia, la recente proposta del Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg di rivisitare le misure di sicurezza e di fiducia contenute nel documento di Vienna dell'Osce. Si potrebbe anche esaminare con maggiore attenzione la proposta Eln mirante ad evitare gli incidenti.

Sarebbe da cogliere l'occasione dell'anno di presidenza tedesca dell'Osce e della grande esperienza in materia di sicurezza europea dell'attuale Segretario generale di tale organismo - l'italiano Lamberto Zannier - per ricostruire la fiducia e prevenire il rischio di un confronto causato da malintesi e da errori.

L'Ambasciatore Carlo Trezza, presidente uscente del Missile Technology Control Regime, è stato inviato speciale del ministro degli Esteri e Rappresentante permanente a Ginevra per il disarmo e la non proliferazione.

sabato 4 giugno 2016

Il Referendum costituzionale

Referendum confermativo
Riforma Costituzione e potere estero dello stato
Natalino Ronzitti
01/06/2016
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Delle norme interessanti il diritto internazionale e il potere estero inserite nella Legge costituzionale di superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V della Costituzione avevamo già dato notizia qualche tempo fa quando il disegno di legge era ancora in fieri.

Non molto è mutato dopo l’approvazione della Legge, ma occorre effettuare una ricognizione, allo scopo di contribuire ad un dibattito che purtroppo è estremamente politicizzato, in vista del referendum confermativo di ottobre, e trascura di esaminare i contenuti della Legge. Tra l’altro il confronto sulle trasformazioni che investono il potere estero dello stato è completamente assente (o quasi).

I cardini della riforma costituzionale riguardano la trasformazione del Senato in Camera delle autonomie e il ridimensionamento delle competenze regionali con il rafforzamento delle competenze statali e la cancellazione delle competenze concorrenti stato-regione. Quanto alla funzione legislativa, questa viene esercitata dalla Camera dei Deputati, ma con vari correttivi a favore del Senato delle Autonomie.

Il bicameralismo perfetto rimane invece per talune materie, tra cui, per quello che qui interessa, le leggi relative alla partecipazione dell’Italia alla formazione e attuazione delle normative e politiche dell’Unione, Ue.

Il tutto si ripercuote sulla gestione del potere estero. Talune modifiche sono meramente consequenziali, altre invece lo sono meno. Inoltre vanno segnalate lacune, già presenti nel nostro ordinamento costituzionale, che la legge di riforma ha omesso di colmare.

Le modifiche consequenziali
Quanto alle modifiche consequenziali, viene in primo luogo in considerazione la “dichiarazione di guerra”, che a norma dell’art. 78 Cost. è deliberata dalle Camere. La Legge di revisione stabilisce che la dichiarazione e il conferimento al Governo dei poteri necessari siano prerogative della sola Camera dei Deputati, che delibera a maggioranza assoluta, cioè sul totale dei deputati pari a 316 voti (ovviamente viene modificato anche l’art. 87, nono comma, per cui il Presidente della Repubblica dichiara lo stato di guerra deliberato dalla sola Camera).

Non si tratta quindi di rendere più facile la dichiarazione di guerra, com’è stato erroneamente sostenuto, ma piuttosto di rimarcare che ormai gli attuali conflitti difficilmente possono essere definiti guerra in senso tecnico ed occorre invece disciplinare l’invio di truppe all’estero. Un’occasione mancata, nonostante sia pendente in Parlamento una proposta di legge organica concernente la partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali, approvata con modifiche dal Senato il 9 marzo 2016 e trasmessa di nuovo alla Camera.

I disegni di legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati restano di competenza della sola Camera dei Deputati, che procede alla loro approvazione in via definitiva, tranne quelli relativi ai trattati che riguardano l’appartenenza dell’Italia all’Ue, che rimangono di competenza di entrambe le Camere (modifica che si riverbera sulla dizione dell’art. 87 Cost., ottavo comma, relativo al potere presidenziale di ratifica dei trattati).

Qui vedo due problemi. Il primo riguarda i trattati che interessano il potere estero delle regioni, ad es. di quelli che disciplinano la cooperazione transfrontaliera. Perché affidare il disegno di legge alla sola competenza della Camera (con la partecipazione del Senato solo residuale)?

Il secondo riguarda i trattati negoziati nel quadro Ue, ma formalmente autonomi, tipo il Fiscal Compact. In tal caso la competenza è della sola Camera dei deputati oppure anche del Senato delle autonomie? Probabilmente sono quesiti superabili in via interpretativa. Ciò che non è possibile, invece, per alcune evidenti omissioni della Legge costituzionale. Mi riferisco alla legittimità dei trattati in forma semplificata, che entrano in vigore con la sola firma dell’esecutivo, e alla provvisoria esecuzione dei trattati internazionali in attesa del formale procedimento di ratifica. La Legge costituzionale non si è nemmeno preoccupata di risolvere la questione dell’efficacia dei trattati nel nostro ordinamento una volta ratificati, escludendo la necessità di adottare in ogni caso una legge di esecuzione.

Referendum e trattati internazionali
Viene ribadita l’inammissibilità del referendum abrogativo per le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Quid per il referendum propositivo o di indirizzo prima della ratifica? La prassi dei paesi europei attesta che un tale referendum è una conquista democratica da esercitare in relazione ai più importanti trattati internazionali.

All’art. 71 Cost. è stato aggiunto un nuovo comma in materia di referendum propositivo e di indirizzo, la cui disciplina è rinviata all’adozione di un’apposita legge costituzionale. Potrà tale legge disciplinare anche la questione del referendum dei trattati internazionali, non ancora oggetto di legge di autorizzazione alla ratifica?

I rapporti con l’Ue
Per quanto riguarda l’art. 117 Cost., a parte la toeletta istituzionale operata sostituendo “Comunità europee” con la dizione “Unione europea”, resta formalmente intatta la supremazia rispetto alla legge ordinaria dei trattati ratificati dall’Italia e del diritto Ue. Il diritto comunitario può addirittura derogare le stesse norme costituzionali, tranne quelle contenenti principi fondamentali o poste a tutela dei diritti inviolabili della persona umana.

Sul punto, il legislatore non ha fortunatamente accolto le sirene isolazioniste. Resta formalmente immutata anche la competenza delle regioni alla conclusione di accordi ed intese, e alla loro attuazione, inclusa quella della legislazione Ue. Tuttavia, essendo le competenze regionali fortemente erose a favore di quelle esclusive dello stato, ne risulta ridimensionata la competenza regionale sotto il profilo sostanziale anche in materia di rapporti internazionali, inclusi quelli con l’Ue.

Un'occasione perduta
Per quanto riguarda il potere estero e i rapporti internazionali dello stato, la riforma costituzionale è un mero adattamento delle norme preesistenti ad un procedimento legislativo che privilegia la Camera dei deputati, ma non si è colta l’occasione per regolare una serie di questioni che sono emerse nella prassi applicativa durante i decenni passati. Tra l’altro la questione del referendum propositivo e di indirizzo resta ancora sospesa essendo demandata a una futura legge costituzionale e non è dato sapere se questa potrà includere anche la partecipazione a trattati internazionali che abbiano un grande impatto per la vita della nazione.

Si è voluto invece enfatizzare il ruolo del Senato, anche per la funzione di raccordo tra Stato e Ue, lasciando di conseguenza intatto il bicameralismo perfetto per le leggi interessanti l’Ue. Le conseguenze non sono di poco momento. Si prenda ad esempio una legge che disponga l’invio di missioni militari all’estero, così come prefigurato dalla normativa attualmente in discussione in Parlamento. Se l’operazione avviene nel quadro Nazioni Unite, Nato o coalition of the willing, si dovrà provvedere con legge della Camera (con i correttivi a favore del Senato di cui si è detto). Invece per una missione decisa dall’Ue, si dovrà agire mediante l’adozione di una legge improntata al bicameralismo perfetto. Non c’è da spendere molte parole per dimostrare come questo risultato sia a dir poco stravagante!

Natalino Ronzitti è professore emerito di Diritto internazionale (Luiss Guido Carli) e consigliere scientifico dello IAI.
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