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mercoledì 30 novembre 2016

Roma: rapporti con bruxelles

Referendum costituzionale
La riforma costituzionale e i rapporti coll’Ue
Marco Gestri
25/11/2016
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L’Unione europea, Ue, viene spesso richiamata nel dibattito sulla riforma costituzionale. Il Comitato per il sì afferma che la riforma rafforzerebbe l’impronta europea della Costituzione e consentirebbe all’Italia di “essere un attore ancora più decisivo e decidente delle scelte” europee. Tra gli oppositori non mancano commenti per cui essa renderebbe l’Italia sempre più “asservita”all’Ue.

Sul piano dei principi, la riforma non introduce novità fondamentali quanto ai rapporti tra ordinamento italiano e comunitario. Nonostante sia talora richiamato come allarmante novità, il testo del nuovo art. 117 non muta (rispetto a quello vigente introdotto nel 2001) per quanto riguarda la clausola della prevalenza delle norme europee su quelle nazionali, a parte una revisione linguistica. Il principio del primato del diritto Ue su quello italiano è del resto da molti decenni consolidato nel nostro ordinamento.

Art. 70 e attuazione delle norme Ue
Alcune innovazioni derivano dalla nuova disciplina del procedimento legislativo. Il nuovo art. 70 prevede che, tranne alcune leggi di particolare importanza, le leggi ordinarie siano adottate dalla sola Camera, con un intervento del Senato eventuale e consultivo.

Tra le leggi che richiedono ancora una procedura bicamerale l’art. 70 menziona “la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione delle politiche dell’Ue”: si fa chiaramente riferimento alla legge di sistema, che prevede le procedure per l’attuazione delle norme europee, come fu la legge La Pergola ed è ora la l. 234/2012.

Invece, contrariamente a quanto talora affermato, le ordinarie leggi di recepimento e attuazione delle norme Ue (delle direttive, delle sentenze della Corte Ue e dei regolamenti non completi) diverrebbero monocamerali (tranne nel caso eccezionale che tocchino le materie riservate dall’art. 70 alla legge bicamerale: es. norme elettorali relative al Parlamento europeo ).

Ciò va salutato con favore, considerando il cronico ritardo nell’attuazione delle norme europee, che fa dell’Italia lo Stato col maggior numero di condanne della Corte Ue.

La legge di riforma costituzionale introduce poi una differenziazione tra la ratifica degli “ordinari” trattati interazionali, che dovrà esser autorizzata dalla sola Camera, e quella dei “trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea” (art. 80), per i quali l’autorizzazione dovrà provenire da entrambe le camere.

Scelta condivisibile, dato il rilievo dei trattati su cui si fonda l’integrazione europea e dei relativi trattati modificativi (inclusi quelli di adesione). Essa solleva peraltro qualche dubbio riguardo alla procedura applicabile a trattati che, pur riguardando sostanzialmente la materia europea, vengano adottati formalmente al di fuori del diritto Ue (com’è il caso del Fiscal Compact). Dovrebbe invece esser affidata alla sola Camera la ratifica degli “accordi-misti”, conclusi con Stati terzi sia dall’Ue che dagli Stati membri (come Ceta o Ttip).

Eventuale recesso dall’Ue
L’art. 50 del Tue prevede che ogni Stato possa decidere di recedere dall’Ue “conformemente alle proprie norme costituzionali”. La riforma costituzionale non si occupa del recesso. Del resto, c’è chi sostiene che per l’Italia l’appartenenza all’Ue sarebbe scelta irreversibile.

Ci si potrebbe chiedere se l’introduzione, ad opera della riforma, di una serie di norme che fanno espresso riferimento alla partecipazione dello Stato e delle sue istituzioni al processo d’integrazione europea non condizionerebbe un recesso dell’Italia a una revisione costituzionale. In ogni caso, in virtù del nuovo art. 80, la decisione di mettere in moto il recesso dovrebbe essere presa dal Governo previa autorizzazione di entrambe le camere.

Il Senato nelle riforma costituzionale e il futuro della qualità della rappresentanza
Secondo la legge di riforma costituzionale, il nuovo Senato concorre “all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea” (art. 55), partecipando alla formazione e attuazione degli atti normativi e delle politiche Ue.

Gli oppositori della riforma definiscono questa funzione “misteriosa”. In ogni caso, non v’è dubbio che, anche dopo la riforma, sarebbe ancora il Governo a gestire in prima persona i rapporti coll’Ue e a prendere le decisioni chiave in materia, mediante i propri rappresentanti nel Consiglio Ue (co-legislatore insieme al Parlamento Europeo).

La normativa vigente prevede già che rappresentanti delle regioni possano far parte delle delegazioni dell’Italia al Consiglio (secondo modalità faticosamente definite nell’Accordo adottato nel 2006 dalla Conferenza Stato-Regioni). Non sarebbe una buona idea modificare tale meccanismo, prevedendo una rappresentanza di membri del Senato (anche alla luce della composizione di quest’ultimo).

Il nuovo Senato continuerebbe poi ad esercitare le prerogative attribuite alle camere nazionali dal Protocollo n. 2, introdotto dal Trattato di Lisbona, riguardo alla verifica del rispetto del principio di sussidiarietà.

Il nuovo Senato delle autonomie, alleggerito di buona parte delle competenze legislative, potrebbe concentrarsi sull’esercizio di funzioni di indirizzo e controllo sul Governo quanto all’elaborazione (e attuazione) delle politiche Ue.

La prassi europea offre numerosi esempi di camere alte che svolgono egregiamente tali attività, condizionando l’operato degli esecutivi a Bruxelles e vagliandone i risultati. A parte la House of Lords, è naturale pensare al Bundesrat tedesco, espressione delle entità territoriali.

Sennonché nel Senato non siederebbero rappresentanti dei governi delle singole regioni, ma un numero variabile di consiglieri regionali e sindaci, eletti dai Consigli regionali col metodo proporzionale con una legge che peraltro non è stata ancora adottata.

È forse prematuro affermare che ciò inciderebbe sulla qualità della rappresentanza. Ma le regole sulla composizione non assicurano che i nuovi senatori rappresentino gli interessi delle rispettive regioni (e comuni) anziché votare secondo mere logiche di partito. Ciò, e il fatto che si tratti di persone che svolgerebbero un doppio incarico, solleva dubbi sulla capacità del nuovo Senato di esercitare in modo continuativo e proficuo le complesse funzioni sopra accennate.

Non è poi chiaro come le nuove competenze del Senato inciderebbero sul sistema attuale di raccordo tra Governo e enti regionali e locali, risultante dalla legge 234/2012 e incentrato sul sistema delle Conferenze (Stato/Regioni e Stato/Autonomie locali).

Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.

Albania: La collaborazione continua

Allargamento
Sostenuta dall’Italia, l’Albania si affaccia all’Ue 
Cristian Barbieri
26/11/2016
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A dicembre l’Albania potrebbe raggiungere l’agognata apertura dei trentacinque capitoli di accesso all’Unione europea, Ue, anche grazie al sostegno dell’Italia.

Dopo aver ottenuto lo status di candidato, nel giugno del 2014, il 14 novembre il Ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, ha affermato la volontà degli Stati Membri di avviare i negoziati per l’adesione dell’Albania, auspicando già nel prossimo dicembre l’apertura ufficiale dei capitoli dei negoziati con l’Albania.

L’effetto a cascata dell’apertura dei negoziati con l’Albania
Il processo di stabilizzazione e associazione, Psa, lanciato dall’Ue sin dal 1999, mirava a sviluppare una strategia standardizzata per sostenere la graduale integrazione di sette stati dei Balcani occidentali nell’Ue.

Fino ad oggi, l’unico stato dei Balcani occidentali ad aderire è stata la Croazia, il primo gennaio 2013. Da allora, la politica di enlargement dell’Ue ha ridotto la sua spinta; questo è principalmente dovuto alla recessione che ha colpito i paesi europei nel 2009, ma anche alla crisi Ucraina del 2014.

Al momento, l’Ue sta negoziando i trentacinque capitoli dell’Accordo di stabilizzazione e associazione, Asa, con Montenegro e Serbia, oltre che con la Turchia. Se con il Montenegro gli accordi procedono, seppur lentamente, la Serbia ha dal canto suo l’annosa questione del capitolo 35 dei negoziati, cioè la normalizzazione dei rapporti con il Kosovo.

È in quest’ottica che un’apertura dei negoziati con l’Albania può trovare la sua ragione d’essere in un effetto a cascata sugli altri accordi. Come successo nel 2012, per l’entrata in coppia di Romania e Bulgaria, Serbia e Albania potrebbero cominciare un cammino comune verso l’ingresso.

Questa strada cooperativa, sebbene tortuosa, è realizzabile ed avrebbe effetti di assestamento anche nei riguardi del Kosovo, fresco firmatario dell’Asa lo scorso dicembre, ma non ancora “stato candidato”.

Lo dimostra per esempio la riunione dello scorso 21 novembre tra il Ministro dell’Integrazione Europea albanese e i capi negoziatori all’Ue di Belgrado e Podgorica, in cui questi ultimi hanno affermato la volontà e la disponibilità di Montenegro e Serbia di sostenere il cammino di Tirana verso Bruxelles.

Il futuro europeo dell’Albania passa anche dalle urne
L’enfasi dell’Ue sulla strategia di allargamento sin dal Consiglio Europeo di Salonicco del 2003 e ribadita nell’ultimo “strategy paper” pubblicato dalla Commissione lo scorso novembre, si è focalizzata sull’area Giustizia e Sicurezza.

Ciò significa che la prima pre-condizione all’apertura dei negoziati è una situazione di miglioramento nei “fundamental first” cioè di focalizzazione degli sforzi, per i Paesi candidati, principalmente nelle aree di sicurezza, Rule of Law e amministrazione pubblica.

L’apertura della negoziazione sui trentacinque capitoli partirebbe quindi, come già accaduto per Montenegro e Serbia, dai capitoli 23 e 24 rispettivamente “magistratura/diritti fondamentali” e “giustizia/libertà/sicurezza” le cinque “priorità chiave” sottolineate dai report della Commissione nei confronti dell’Albania.

L’ultimo “country report” della Commissione europea dello scorso novembre 2016 ha lodato i progressi dello stato adriatico nelle sopracitate aree, in particolare riportando il successo della riforma della giustizia adottata all’unanimità dal Parlamento e la collaborazione nel campo della sicurezza.

Quest’ultima è stata ribadita dall’accordo sullo scambio di documenti EU-Restricted firmato nel marzo scorso a Tirana; accordo che denota fiducia dell’establishment europeo, e non solo, nella controparte albanese seguendo la corrente intrapresa dal 2009, quando la Nato accolse l’Albania tra gli stati membri dell’intesa, e nel 2013 quando Tirana iniziò la collaborazione con l’ufficio di polizia europeo - Europol.

Passi in avanti che però andranno confermati entro la prossima chiamata alle urne, prevista per primavera 2017 visto che la stessa Ue, attraverso il “country report”, ha espresso preoccupazioni per la continuazione dei progressi fin qui raggiunti in caso di risultati elettorali stravolgenti.

L’ondata populista che ha colpito diversi stati europei non sembra aver fatto breccia nella popolazione albanese; l’essere europeisti mette d’accordo maggioranza e opposizione e l’ex sindaco di Tirana e attuale Primo ministro, Edi Rama, dovrebbe riuscire a riconfermare il suo mandato per i prossimi quattro anni. L’apertura dei capitoli di negoziato con l’Ue potrebbero rappresentare la spinta decisiva per una riconferma al potere del leader pro-Europa.

Dal gasdotto Trans Adriatico alla sicurezza, Albania partner strategico per l’Italia
Nel 2015, l’Ambasciata d’Italia a Tirana catalogava in più di 400 le aziende italiane e le joint-venture italo-albanesi presenti nel Paese, le esportazioni verso l’Italia dell’Albania hanno raggiunto la quota di 1,2 miliardi di euro su 2,3 miliardi totali del Paese.

L’Italia è il punto di riferimento economico albanese per l’Europa, cosi come l’Albania lo è per l’interesse italiano nei Balcani visti anche i nostri 1,3 miliardi di euro di esportazioni.

Sul fronte sicurezza non bisogna dimenticare che Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia sono presenti in Albania con una missione bilaterale interforze operante sin dal 1997, sostenendo il lavoro delle controparti locali con addestramenti e operazioni congiunte.

Mentre, per quanto riguarda la difesa, l’Italia coopera con l’Albania, oltre che in ambito Nato, anche nella iniziativa DeCI (Defence Cooperation Initiative), nata nel 2013 e volta a rafforzare la cooperazione multilaterale tra i Paesi del bacino adriatico oltre che a fornire un Battlegroup a l’Ue entro il 2017.

Nel settore della sicurezza energetica bisogna infine menzionare il gasdotto Trans Adriatico, riconosciuto progetto di interesse comune dall’Ue che unisce Italia, Albania e Grecia ai partner del Mar Caspio.

Un’Albania più prossima all’Europa significherebbe quindi una risorsa strategica per l’Italia sul fronte est per varie ragioni tra le quali la lotta alla criminalità organizzata, la cooperazione militare ed energetica.

Il prossimo 15 dicembre al Consiglio dei Ministri degli Esteri a Bruxelles la decisione non sarà scontata, ma, se positiva, rappresenterà senza dubbio un passo vitale nel cammino di Tirana verso l’Europa.

Cristian Barbieri è Assistente alla Ricerca del Programma Sicurezza e Difesa dello IAI. Twitter @Barbiericr.

UE: mettersi sulla retta via

Dichiarazioni Schauble
La 'resistibile' deriva intergovernativa dell’Unione
Vincenzo Guizzi
18/11/2016
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Le dichiarazioni del Ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble sulla configurazione della Commissione europea potrebbero suscitare stupore, se non fosse ormai da tempo diffusa la pratica di “sparare sul pianista”.

Nonostante alcuni atteggiamenti di Angela Merkel, che in un recente passato sembrava auspicare il rafforzamento delle istituzioni comunitarie e dell’Unione Europea (Ue) nel suo complesso, appare infatti evidente il mutamento dell’indirizzo politico della Germania sull’evoluzione del processo di integrazione europea - e condiviso purtroppo anche da altri stati membri.

Affermare in modo così netto che la Commissione non deve svolgere un ruolo politico ma limitarsi a funzioni sostanzialmente amministrative, meramente esecutive, significa infatti confermare la deriva governativa che sta caratterizzando la politica dell’Unione.

Dalla Comunità all’Unione
La Commissione è da sempre considerata il “motore della Comunità e dell’Unione Europea”. Negarne il ruolo politico equivale a negare proprio l’essenza, anch’essa politica, dell’Ue.

Vero che all’iniziale Comunità europea si era data una connotazione economica, ma con la sua evoluzione l’istituzione ha dimostrato, pirandellianamente, di essere un “personaggio” che è sfuggito “ai suoi autori”.

Sulla scorta degli elementi giuridici contenuti nei Trattati, da Comunità prettamente economico-commerciale si è trasformata in un’entità squisitamente politica, evolutasi ancora nell’Unione Europea. Forse, nel passaggio da Cee, Comunità Economica Europea, a CE, Comunità Europea, non si è sufficientemente sottolineata la significativa eliminazione dell’aggettivo “economica”, effettuata dal Trattato di Maastricht.

Non è stata una modifica meramente formale, ma sostanziale: si pensi al rafforzamento istituzionale (specie quello del Parlamento europeo, dotato di un vero potere decisionale), all’introduzione della cittadinanza europea e di nuove politiche comuni, tra cui spicca quella monetaria.

Un discorso a parte va fatto per i 2 nuovi “Pilastri” introdotti da Maastricht (la Politica Estera e di sicurezza Comune, Pesc, e Giustizia e Affari Interni, il Gai), caratterizzati inizialmente da un metodo intergovernativo attenuatosi con i successivi Trattati di Amsterdam, Nizza e, soprattutto, con quello di Lisbona, che li ha in gran parte “comunitarizzati”.

Di certo la Commissione non sempre è stata all’altezza del suo ruolo; ma è noto che la storia cammina sulle gambe degli uomini e credo che nessuno neghi il contenuto squisitamente politico dell’operato dalla Commissione presieduta da Jacques Delors nel decennio dal 1985 al 1995.

La regressione verso la cooperazione intergovernativa 
Con la crisi, la deriva intergovernativa si è accentuata ed espansa coinvolgendo vari Paesi, soprattutto dell’Europa centrorientale. C’è stato un ripiegamento dallo spirito comunitario, tendenzialmente federalista, ad un netto rafforzamento della cooperazione intergovernativa, che talvolta ha invaso anche i settori regolati dai Trattati con il metodo comunitario.

Alcune proposte che sembravano avere un carattere più europeo, anche nelle parole di Schauble, sono in realtà concepite come un ulteriore rafforzamento della deriva intergovernativa che ho definito. Un esempio ne è la creazione di un Ministro dell’economia dell’Unione, che in sintesi sarebbe espressione dei governi.

Chi ancora crede nell’evoluzione federale dell’Ue dovrebbe lottare per l’istituzione di un ministero dell’economia dell’Unione in seno alla Commissione, accentuandone i connotati di vero Governo.

Si sta verificando uno scostamento progressivo e sempre più esteso dal metodo comunitario alla cooperazione intergovernativa. In alcuni settori non sono approvati atti normativi comunitari: si concludono accordi di diritto internazionale (si pensi al fiscal compact), tra singoli stati, con ricadute in ambito comunitario. È il Consiglio europeo che sta prendendo il sopravvento, perdendo di caratterizzazione come istituzione propria dell’Unione.

L’iniziativa politica per ricondurre l’Unione sulla “retta via”
Voglio subito chiarire che ritengo indispensabile la presenza dei governi nell’assetto istituzionale dell’Ue. Hanno un ruolo importante, ma che dovrebbe essere svolto nell’alveo dell’Unione stessa.

Mi considero un federalista “con i piedi per terra”, ma detesto la sempre più diffusa real politik che sta influenzando anche alcuni federalisti: la storia del processo di integrazione mostra che a far progredire l’Unione non è stato il mero pragmatismo, ma lo slancio di quella che appariva un’utopia e la saggezza e l’azione di alcuni grandi statisti.

In questo momento storico reso difficile dalla crisi economica, dalla Brexit,e da un’ondata populista che attraversa l’Unione, è necessario rilanciare (si sarebbe detto un tempo “approfondire”) con realismo e altrettanta fermezza il contenuto politico del processo di integrazione europea.

Proprio la Brexit potrebbe essere l’occasione per verificare chi condivide gli obiettivi e i principi su cui si fonda l’Ue, non ammettendo più i continui opting out, entrate e uscite, dall’Unione.

A mio avviso resta sempre valida la conclusione del “Manifesto di Ventotene”, che saggiamente prevedeva una realizzazione graduale del disegno federalista, senza mai, però, abbandonare l’obiettivo finale da perseguire. Nelle sue parole: “La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa e lo sarà”.

Vincenzo Guizzi è socio dello IAI e membro dell’Associazione italiana dei giuristi europei.

sabato 26 novembre 2016

Referendum Istituzionale

Stiamo andando verso la terza frittata?
Dopo la Brexit, e e le elezioni statuinitensi, ci facciamo mancare una terza fonte di rimpianti?

In questi giorni chi segue la vita politica inglese non fa altro che constatare il pianto greco che tutti in Gran Bretagna versano per il gravissimo errore di essere usciti dal mercato unico; non vi sono che risvolti negativi della scelta di giugno. Il popolo inglese sta pagando sulla sua pelle la scelta che ogni giorno che passa appare sempre più scellerata.

Gli Stati Uniti con la scelta presidenziale hanno accelerato la loro decadenza, sempr epiù lontani da una leaderschip del mondo che assolutamente non possono più avere. Tutti si augurano che il candidato eletto si comporti come il classico polico, che non mantenga le promesse elettorali. La Russia in questo momento gioisce, in quanto grazie a queste elezioni avrà mano libera in Medio oriente e riprederà quelo ruolo di superpotenza perso nel 1989, offerto su un piatto d'argento dal candidato eletto in cambio della eliminazione dell'ISIS. Altri versanti della politicainternazionale non è il caso di nominarli, sperando tutti che ci si sbagli nelle previsioni su come questo candidato eletto si comporterà.

In questo panorama dove il populismo trionfa, dove quelle cose giuste da fare non si fanno, ove l'importante è disruggere e annichilire l'avversario con ogni mezzo, aspettiamo che si compia la terza fritta,
Si disse, nella crisi armistiziale del 1943: meglio un ordine sbagliato ma dato, che non dare nessuno ordine; un ordine sbagliato può essere corretto, un non ordine il nulla porta solo disastri. Ammesso che anche la riforma sia sbagliata, non perfetta, ma sempre una riforma che è passata attraverso sette volte al vaglio della Camera e del  Senato, e che può essere sempre migliorata.
Ma il populisimo non pensa mai al dopo, e con tanta fiducia aspettiamo la prossima fritta.

Il nostro unico modo per impiegare il tempo non rimane che quello di aiutare ( mettete voi il sostantivo) a non essere tali.
Mc

lunedì 21 novembre 2016

Europa: null'altro che richiami

nione europea
Ue e cooperazione giudiziaria: se l’Italia non attua Prüm
Francesca Galli
17/11/2016
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Non ci sono solo i conti pubblici a rendere l’aria pesante fra Roma e Bruxelles. L’Italia ha infatti ricevuto, insieme a Croazia, Grecia, Irlanda e Portogallo, una lettera di costituzione in mora per mancata attuazione delle decisioni di Prüm (decisioni 2008/615/GAI e 2008/616/GAI del Consiglio) sul potenziamento della cooperazione transfrontaliera, soprattutto nella lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata.

Si tratta di strumenti giuridici dell’Unione europea (Ue) che hanno introdotto procedure per un rapido ed efficiente scambio tra stati membri di dati riguardanti il Dna e le impronte digitali per l’identificazione di autori di reati.

Si tratta delle prime procedure di infrazione aperte dalla Commissione nel campo della cooperazione di polizia e giudiziaria, avendo acquisito la relativa competenza solo cinque anni dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, nel 2014.

Il sistema di Prüm
Lo scambio delle informazioni, sulla base del principio di disponibilità, si articola in due fasi: dapprima è lanciata una ricerca per accertare se nelle banche dati nazionali degli altri stati membri è registrato il campione in questione (procedura hit/no hit). Il raffronto automatico avviene senza scambio di dati personali; in caso di riscontro positivo (hit) può essere richiesto lo scambio di dati personali attraverso i canali ufficiali o di assistenza giudiziaria abituali.

La cooperazione Prüm prevede anche misure volte a intensificare la cooperazione transfrontaliera di polizia riguardanti lo scambio di dati sulle targhe e i detentori di veicoli.

I cinque paesi messi in mora non hanno ancora garantito gli scambi automatizzati di dati per almeno due delle tre categorie di dati di Dna, impronte digitali e dati nazionali di immatricolazione dei veicoli. L’atto della Commissione, il primo nel suo genere, vuole essere un segnale forte alla luce dei più recenti attacchi terroristici in Francia e Germania.

Gli Stati membri interessati hanno due mesi di tempo per rispondere, dopodiché la Commissione può inviare loro un parere motivato con cui cristallizza in fatto e in diritto l'inadempimento contestato e diffida a porvi fine entro un dato termine.

Nel caso in cui lo Stato non si adegua, la Commissione può presentare ricorso per inadempimento davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Si conclude così la fase del c.d. "pre contenzioso" ed inizia il giudizio, volto ad ottenere dalla Corte l'accertamento formale, mediante sentenza, dell'inosservanza da parte dello Stato di uno degli obblighi imposti dall'Unione.

L’agenda europea sulla sicurezza
L’attuazione delle decisioni di Prüm è un elemento importante dell’agenda europea sulla sicurezza per il periodo 2015-2020 che stabilisce misure e strumenti concreti da utilizzare nell'ambito della cooperazione per garantire la sicurezza e affrontare le minacce più urgenti.

Per l’Italia partecipare appieno alla cooperazione Prüm sarebbe vantaggioso a diversi livelli. Consentirebbe alle autorità di polizia un notevole risparmio di tempo e un aumento dell’efficienza nell’identificazione dei presunti autori di reati o delle tracce rinvenute sul luogo di un delitto.

La centralizzazione dei profili, in particolare, consente un’economia di gestione rispetto alla pluralità di strutture organizzative sul territorio nazionale che caratterizza l’attuale situazione. La cooperazione permetterebbe inoltre un accesso rapido e semplificato alle impronte digitali e ai profili Dna presenti nelle banche dati degli altri paesi contraenti.

L’adeguamento interno
Con la legge n. 85 del 30 giugno 2009, l’Italia ha autorizzato la ratifica del Trattato di Prüm e ha previsto l’istituzione di una Banca dati nazionale del Dna e di un Laboratorio centrale.

In attuazione della legge, Il successivo intervento regolatorio in vigore dal giugno 2016 si propone di disciplinare il funzionamento e l’organizzazione delle due strutture con specifico riferimento alle modalità di prelievo, gestione, tipizzazione, conservazione e cancellazione dei profili genetici dei reperti e dei campioni biologici trattati. Il testo vuole inoltre regolare le modalità di trattamento e di accesso per via informatica e telematica ai dati raccolti.

Le potenzialità dei dati genetici nel contrasto a criminalità organizzata e terrorismo implicano rischi in materia di intrusione nella sfera privata delle persone interessate. Rischi accresciuti dall’utilizzo di mezzi elettronici o automatizzati di gestione delle informazioni. Si possono verificare inoltre derive discriminatorie o di stigmatizzazione nei confronti di gruppi sociali “a rischio” per l’utilizzo di tecniche di racial profiling.

L’articolo 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue impone una specifica protezione dei dati personali. Un’attenzione replicata anche dalle decisioni di Prüm: è possibile utilizzare i soli profili ricavati dalla parte non codificante del Dna, non consentendo quindi di accedere all’identità del soggetto, né ad alcuna informazione sulle sue caratteristiche ereditarie; è previsto un divieto all’utilizzo dei dati per fini diversi da quelli per i quali erano stati trasmessi; e, una volta che i dati non sono più necessari alla finalità per le quali sono stati trasmessi se ne prescrive la distruzione.

Tra i diritti riconosciuti alle persone interessate si prevede la possibilità di ricevere tutte le informazioni relative alla trasmissione di dati, la rettifica o la cancellazione di dati inesatti o trasmessi illecitamente, l’accesso a mezzi di ricorso efficace per fare fronte ad eventuali violazioni.

Deficit di uniformità
Permangono una serie di aspetti problematici:è possibile infatti derogare al principio di finalità se la legislazione dello stato che gestisce la banca dati lo consente; non esiste alcun meccanismo di controllo preventivo relativo alla correttezza dei dati da trasmettere; non sono individuate regole minime per la raccolta ed il trattamento dei dati a livello nazionale.

La mancanza di standard comuni da rispettare durante tutte le fasi del trattamento dei dati rischia di rendere più difficoltoso il flusso di informazioni tra autorità nazionali, viste le sensibili differenze tra legislazioni nazionali in materia di banche dati. Questo potrebbe incidere negativamente sullo sviluppo stesso della cooperazione transfrontaliera.

Francesca Galli è Assistant Professor, Dipartimento di diritto internazionale e dell’Unione europea, Università di Maastricht.

venerdì 11 novembre 2016

Le elezioni negli Stati Uniti

Usa 2016
Se le giovani donne voltano le spalle a Hillary
Azzurra Meringolo
12/04/2016
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Hillary Clinton è un’indiscussa pioniera. Nessuna donna è mai stata presidente o c’è andata così vicino. È per questo che molte femministe di vecchia generazione si preparano a festeggiare.

Dopo anni di battaglie, insieme a figlie e nipoti possono ora finire il lavoro iniziato dalle loro antenate. Che cosa aspetta chi non raccoglie questo testimone rosa l’ha detto l’ex segretario di Stato Madeleine Albright, secondo la quale per le donne che la pensano diversamente "c'è un posto speciale all'inferno".

Dati alla mano però, fino ad ora le donne hanno preferito più l’inferno dell'Albright che il paradiso. Nelle primarie democratiche che hanno visto zia Hillary contro nonno Bernie, sono state tante le elettrici che hanno optato per Sanders.

In New Hampshire, lo sfidante della ex first lady si è aggiudicato il 53% del voto femminile (Clinton il 46%). E i suoi numeri tra le più giovani sono stati sorprendenti: è stato sostenuto dall’82% delle donne sotto i 30. Dati simili in Iowa, dove l'84% delle donne della stessa età ha votato per Sanders (il 14% per Clinton).

Le Millennials e il femminismo Usa
Il fatto di essere donna non garantisce quindi alla Clinton alcun vantaggio comparativo nel catturare il voto delle eletttrici. Anzi, è proprio l’elettorato rosa quello che Hillary fatica a catturare maggiormente. Ma anche qui ci sono differenze.

Clinton può ancora contare sulle signore bianche della sua età che portano a casa ogni anno dai 200mila dollari in su. Ostili invece le millennials, quelle donne nate dagli anni ’80 all’inizio del nuovo secolo che non solo non hanno sostenuto la sua candidatura fino ad ora, ma sono addirittura scettiche sul farlo nel momento decisivo.

Le motivazioni che hanno fino ad ora spinto queste giovani ad abbracciare la candidatura del senatore Sanders sono diverse e, andando oltre i programmi dei due contendenti, arrivano alle radici dell’evoluzione del femminismo statunitense. Quest’ultimo sta attraversando una fase di turbolenza ben evidente non solo sulle testate più accreditate, ma anche sulle riviste di avanguardia che si concentrano sulle questioni di genere.

È evidente che le donne più giovani non si accontentano più della tradizionale agenda rosa scritta dalle loro nonne. Le femministe di ultima generazione non hanno come obiettivo quello di portare una di loro ai vertici del sistema. In ottica comunitaria, si preoccupano piuttosto di risolvere i problemi della base: tanto quelli delle signore di colore più emarginate come quelli delle ragazze madri che devono sopperire alla mancanza del congedo di maternità.

L’obiettivo è quello di afferrare il trofeo tutte insieme. Ottimo che Hillary riesca a fare carriera politica, ma perché non aiutare tutte ad avere più opportunità? Sono domande come queste quelle che spingono questo elettorato a preferire un candidato come Sanders che sta provando - con successo - a spostare a sinistra l’agenda del partito democratico, insistendo su tematiche sociali che stanno a cuore soprattutto al ceto medio o a settori particolarmente sensibili della società.

È questo che porta la rivista Politico a concludere che se Hillary fosse nera, omosessuale, giovane o povera - e quindi, membro di un gruppo più vulnerabile - potrebbe ottenere maggior sostegno, raccogliendo anche l’eredità di Barack Obama.

Clinton, la donna dell’establishment
Essendo da anni in politica, la Clinton non riesce a essere percepita come una novità. E se molte giovani la vedono con sospetto ritenendola una da decenni all’interno del sistema politico statunitense, altre sembrano non conoscere la sua storia personale.

Non solo quella legata a suo marito Bill, ma soprattutto quella marcata dalle diverse battaglie sociali da lei combattute con determinazione soprattutto negli anni ‘90. Dalla sua carriera di avvocato alla - mai decollata - Hillarycare, la riforma sanitaria patrocinata dalla Clinton ai tempi in cui il marito era alla Casa Bianca: secondo alcuni sondaggi, solo una millennial su dieci conosce eventi salienti del passato politico della ex first lady.

Dietro i problemi rosa di Hillary si nascondono anche motivazioni che hanno direttamente a che fare con l’evoluzione del femminismo statunitense, un movimento eterogeneo ormai sensibile più a questioni sociali che di genere.

Molte si sono accorte di non essere vittime della stessa discriminazione sessuale che ha condizionato vita e carriera delle loro nonne o mamme che hanno lottato per ottenere l’aborto o la contraccezione.

Per le nuove generazioni l’uguaglianza di genere - diversamente da quella sociale - è un obiettivo a portata di mano. Non sono quindi pronte a votare Hillary solo per il suo sesso, perché sanno che questo non farebbe la differenza.

Elettrici e swing States
Se fino ad ora queste elettrici hanno trovato in nonno Bernie il loro paladino, che cosa faranno in autunno quando Hillary dovrà giocarsi la finale contro il candidato che uscirà vincente dalla convention repubblicana?

Anche se i millennials sono ora la generazione più numerosa del paese, nelle ultime elezioni sono stati i più pigri ad andare votare. È quindi importante capire come il loro voto potrà davvero incidire sui risultati finali.

Secondo dati elaborati dal Center for Information and Research on Civic Learning and Engagement, il loro voto sarà influente in Iowa, Florida, Ohio,Colorado, Pennyslvania, Wisconsin, Virginia, New Hampshire, Nevada e North Carolina. Solo dieci stati, tra i quali troviamo però importanti swing states, ovvero quelli capaci di determinare il risultato finale.

Da qui a novembre, Hillary Clinton riuscirà a farsi conoscere dalle millennials per quella che è veramente, o non spenderà in questa operazione troppe energie? Del resto, dagli anni ’70 ad oggi, le donne non hanno votato in base al sesso, perché aspettarsi che lo facciano quest’anno?

Azzurra Meringolo è ricercatrice presso lo IAI e caporedattrice di Affarinte

Roma e la grande occasione

Economia
G7 all’italiana, un’occasione da non perdere
Simone Romano
02/11/2016
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Maggio 2017. Questo l’appuntamento per il quarantatreesimo summit del gruppo dei Sette, meglio noto come G7. I capi di Stato e di Governo che si riuniranno nel vertice si troveranno davanti una situazione tutt’altro che semplice da diversi punti di vista.

Ai problemi economici strutturali e di lungo periodo, quali una crescita sempre più anemica della produttività e la carenza ormai endemica di domanda aggregata, si vanno ad aggiungere problemi nuovi, come l’incertezza politica e finanziaria dovuta alle delicate elezioni in Francia e Germania, all’avvio del processo di uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, Ue, e alle crisi geopolitiche, prima fra tutte quella siriana.

Il compito di scegliere i temi al centro del prossimo summit che si prospetta innanzi alla presidenza italiana diviene così tanto fondamentale quanto arduo. La speranza è che ci si concentri sulle questioni comuni che sono alla base di questi molteplici problemi, senza focalizzarsi su ognuno di essi in modo singolo, ricercando soluzioni concrete ed effettive di lungo periodo, non solo palliativi di breve periodo, per quanto urgenti e necessari.

L’economia globale cresce meno del suo potenziale
Il quadro macroeconomico globale che emerge dai recenti annual meeting tenuti a Washington dal Fondo monetario internazionale, Fmi, è, a dir poco, scoraggiante. Alla perdurante recessione seguita alla crisi del 2008, non ha fatto seguito il “rimbalzo” sperato ed è ormai chiaro che l’economia globale stia crescendo al di sotto del suo potenziale da troppo tempo. Inoltre, le stime negli ultimi semestri sono state costantemente e ripetutamente riviste al ribasso.

Le risposte politiche messe in campo sino ad ora non hanno sortito gli effetti sperati ed è per questo che, ormai da mesi, gli esperti del Fmi sollecitano l’adozione di un mix di politiche economiche potente che faccia leva non solo sulla politica monetaria, ma usi anche gli strumenti fiscali e completi le riforme strutturali.

Il messaggio che viene lanciato da Washington è che non si può più aspettare: bisogna agire in fretta e in modo deciso, utilizzando tutti gli strumenti a disposizione. Questo perché la stagnazione economica, che coinvolge la maggior parte delle economie mature ormai da lunghi anni, ha creato le condizioni perfette per la crescita del malcontento e della sfiducia, concretizzatisi poi nell’ascesa di movimenti populisti e xenofobi in Europa e nella storica decisione presa dai cittadini britannici di abbandonare l’Ue.

Anche negli Stati Uniti la recente campagna elettorale ha evidenziato come il malcontento popolare, critico delle élite e del sistema politico attuale, sia cresciuto in modo preoccupante.

Occorre dunque che i governi facciano ricorso sì a tutte le armi a loro disposizione per risollevare al più presto la situazione economica globale, allo stesso tempo però le dinamiche descritte esprimono con forza la necessità sempre più urgente di una riflessione che vada al di là dei rimedi di breve e medio periodo, concentrandosi sulle cause ultime che hanno reso questo periodo così difficile e delicato a livello economico, politico e sociale.

Crescente sperequazione nella distribuzione delle risorse e pessimismo diffuso
Come aveva già fatto notare Carlo Cottarelli nel suo intervento ad un convegno IAI, il problema fondamentale da risolvere riguarda la sperequazione nella distribuzione dei redditi e della ricchezza. Tale fenomeno si è venuto ingigantendo dagli anni ‘80 ad oggi, creando delle vere e proprie fratture sociali all’interno delle quali sono proliferate la sfiducia nelle élite, nelle istituzioni e nella classe politica.

Una distribuzione sempre più iniqua del reddito non è solo un problema etico e di uguaglianza, ma è un problema economico reale che è alla base di molte delle problematiche attuali. La dinamica che ha lentamente concentrato il reddito nella parte più ricca della popolazione ha colpito maggiormente la classe media, spina dorsale delle economie di mercato più mature, facendone crollare i consumi e con essi la domanda aggregata, con i conseguenti problemi di disoccupazione ormai tipici di molte economie europee.

Questa crescente disuguaglianza, insieme con la crisi e la lunga recessione, ha comportato la perdita di fiducia nella maggior parte della popolazione, che guarda ora al futuro con timore e non più con speranza. Questo spiega perché, anche in un periodo di tassi di interesse a zero e di prezzi in stallo da tempo, i consumi e gli investimenti non diano alcun segnale di ripresa.

Creare attraverso la politica monetaria le condizioni per un rilancio dei consumi e degli investimenti privati senza ridare risorse e fiducia alle famiglie e alle piccole e medie imprese è una strategia sterile, come d’altronde hanno pienamente dimostrato gli ultimi anni.

La presidenza italiana tra breve e lungo periodo
Considerando la difficoltà della situazione attuale a livello economico, politico e sociale, la presidenza italiana dovrebbe mirare sia a favorire soluzioni efficaci e concrete di breve periodo, quantomai urgenti, sia, nel contempo, a mettere l’accento sui problemi strutturali di lungo periodo.

In entrambi i casi sarà fondamentale che il governo italiano insista nel promuovere un approccio condiviso a livello internazionale. Il coordinamento delle politiche economiche, soprattutto in seno a un forum più ristretto e omogeneo quale quello del G7, è assolutamente irrinunciabile: pensare di risolvere problemi globali con approcci nazionali sarebbe quantomeno miope e non c’è davvero più tempo da perdere.

Simone Romano è ricercatore dello IAI.

mercoledì 2 novembre 2016

Roma: sempre sotto esame

Referendum e politica estera
La fragile credibilità dell’Italia
Adolfo Battaglia
25/10/2016
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In vista del referendum del 4 dicembre si ascoltano motivazioni di voto che prescindono dalla riforma costituzionale e molto si rifanno a preoccupazioni e impressioni di ordine del tutto diverse, talvolta le più strane.

Colpisce, in particolare, che nessuna attenzione sia stata data alle conseguenze sul piano internazionale di un esito del referendum che vedesse il prevalere dei No.

Per l’Italia gli esami non finiscono mai
Tradizionalmente, l’Italia è sotto giudizio per l’instabilità dei suoi Governi: più di 60 in poco più di sessant’anni, com’è noto. E la comunità europea sembrava aver accettato la tesi che la svolta nella politica interna, realizzata due anni orsono con l’introduzione delle primarie nel partito di maggioranza, segnasse l’inizio di una nuova stabilità dei Governi italiani.

La vittoria del No indurrebbe facilmente a considerazioni opposte. In effetti, la motivazione della vittoria del No da molti dichiarata è la necessità di abbattere l’attuale Presidente del Consiglio e il suo governo.

Voto No perché penso ad altro
Molti ambienti internazionali osserverebbero in materia, probabilmente, che i regimi democratici sono tali appunto perché apprestano i mezzi per sostituire i governi e i Primi ministri; ma che in genere nei paesi democratici avanzati ciò non avviene a scapito delle politiche di riforma che il Parlamento, in ripetute votazioni, ha giudicato nell’interesse costituzionale della nazione.

Desta quindi grande stupore che una persona stimabile come Mario Monti, in un’intervista al Corriere della Sera, abbia addirittura teorizzato la necessità di questa aberrazione tutta italiana. Immaginiamo che nessuno potesse prevederlo, sul Colle, quando fu nominato un senatore a vita per permettergli di seguire più facilmente la procedura costituzionale di sostituzione dell’on. Berlusconi alla testa del governo.

Ancora, l’Unione Europea aveva concesso la rilevante flessibilità in materia di bilancio che l’Italia aveva chiesto: e che era appunto fondata sulla garanzia che sarebbe continuata la politica di riforme necessaria a risanare la condizione finanziaria del paese.

Anche questo, è da temere potrebbe esser revocato in dubbio da un esito del referendum che comportasse una crisi di governo e l’inizio di un periodo politicamente imprevedibile: nel quale la sorta di trio Lescano politico che ha guidato la campagna del No (il famoso Grillo-Salvini-D’Alema) assumerebbe di fatto la direzione politica del paese.

L’Italietta dei giri di valzer?
Purtroppo, il comico che guida il Movimento 5 stelle si è prodotto anche in dichiarazioni che Massimo Franco, nella sua consueta nota sul Corriere, ha giudicato particolarmente incongrue. C’è stato, egli dice, “un inserimento a forza nella campagna elettorale del tema della politica estera” con l’improvvido invito a non rispettare un impegno internazionale già preso in sede di Alleanza Atlantica (la partecipazione di soldati italiani al contingente Nato posto a protezione della frontiera della Lettonia).

“Forse il Governo non pensava che il partito anti-europeo entrasse nella campagna referendaria usando questo argomento”, ha scritto Franco; ma il fatto è che ciò “rischia di rilanciare i sospetti su un’alleanza di fatto tra forze populiste europee e Cremlino; e costringe a chiederci dove andrebbero l’Italia, l’Euro e l’Ue se dovessero prevalere questi movimenti”.

Ineccepibile. Quante sorprese le campagne elettorali riservano.

Adolfo Battaglia, già Sottosegretario agli Esteri e Ministro dell’Industria.

Roma: laboratorio di idee

Referendum del 4 dicembre
La riforma costituzionale che attrae gli osservatori internazionali
Antonio Armellini
29/10/2016
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Il faro dell’attenzione degli osservatori internazionali sull’Italia si è andato spostando dalla crisi delle banche verso il referendum sulle modifiche alla Costituzione.

Una correzione di rotta che li ha messi più in sincrono con il pensiero prevalente all’interno del Paese: per lungo tempo infatti i problemi del sistema bancario italiano sono stati visti da noi come un fattore rilevante di crisi sì, ma non necessariamente come un rischio sistemico (o perlomeno, salvo qualche voce competente e isolata, questa è la lettura che è stata data da buona parte dei media e dell’opinione pubblica informata).

Le cose non stanno cosi; il problema delle banche non ha perso di attualità e resterà con noi ancora per diverso tempo, come dimostrano i balbettii su MPS e bad banks varie. Complice anche il tonfo di Deutsche Bank, che ha dato un provvisorio respiro all’Italia, la une è ora soprattutto sul referendum.

Il voto del 4 dicembre e la stabilità italiana
Che si tratti di un passaggio problematico è opinione condivisa, ma l’attenzione esterna non è rivolta tanto alla sostanza delle riforme sul tappeto, quanto alla loro incidenza sulla stabilità di un Paese che continua a dare la sensazione di reagire a debolezze endemiche con mosse corsare, in cui l’effetto di annuncio prevale sulla continuità della rappresentazione negoziale. Con il risultato di una difesa zoppa dell’interesse nazionale, che determina al tempo stesso incertezze sul piano comunitario.

La polarizzazione della discussione, l’intreccio improprio fra riforma costituzionale e legislazione elettorale, il formarsi di alleanze eterogenee sull’uno come sull’altro versante, appaiono altrettante manifestazioni della tendenza italiana alla drammatizzazione teatrale del confronto politico, al fine a volte di mascherare i veri nodi e rendere paradossalmente più facili i compromessi.

Cercare di penetrare i bizantinismi di un sistema politico viziato da una insuperabile fragilità appare più che complesso, inutile. Migliorare la governabilità semplificando i meccanismi istituzionali, riducendo le strozzature senza porre in discussione la rappresentanza democratica, è parte del bagaglio acquisito quantomeno dallamembership originaria dell’Unione europea, Ue: venuta meno l’illusione della razionalizzazione bipolare, il sistema italiano resta frammentato e difficilmente modificabile.

Previsione apocalittiche poco ascoltate
Alleati e mercati, osservatori e governi, danno mostra di non dare troppo credito alle previsioni apocalittiche dei due schieramenti: non sono in molti a credere che dal Sì possa venire la fine della democrazia in Italia, come che il No possa aprire la porta ad una stagione di ingovernabilità con conseguente tracollo dell’economia.

L’Italia è un partner importante nell’Alleanza Atlantica, che può svolgere un ruolo equilibratore sempre più necessario in una fase di contrasti crescenti con la Russia di Putin. La terza economia dei Ventisette è fondamentale per mantenere credibilità all’impianto comunitario, scosso per altri versi dalla Brexit. Rimane un elemento decisivo dell’equilibrio geopolitico nel Mediterraneo e in Medio Oriente.

Non si tratta quindi, nella percezioni di chi ci osserva, di capire se la riforma comporti davvero la modernizzazione necessaria del nostro paese; se un parlamento eletto con un maxi-premio di maggioranza possa cancellare ritardi e inefficienze consolidate.

Il punto è quello di spendersi per la soluzione che meglio di tutte consenta non tanto la governabilità a lungo termine del Paese, quanto la capacità di far fronte alle scadenze immediate che si pongono, senza dare eccessivi grattacapi ad alleati e partner.

La pressione incerta di Obama e Merkel
La riforma può essere brutta (e brutta lo è davvero, a mio parere) e la legge elettorale un pasticcio da correggere prima che sia troppo tardi. Nell’ottica internazionale, si tratta di problemi italo-italiani che interessano solo nella misura in cui possano incidere sul sistema nel suo complesso. Fatto il conto del dare e dell’avere insomma, meglio tenersi il Renzi che c’è, spingendo perché faccia tutto ciò che gli alleati si attendono senza troppe alzate d’ingegno.

Legando referendum ed elezioni il Presidente del Consiglio ha commesso un errore tattico, ma la cosa non rileva granché a livello internazionale. Gli interventi del presidente statunitense Barack Obama e gli incoraggiamenti della Cancelliera Angela Merkel sono segnali importanti, ma la loro efficacia come strumento diretto di pressione è incerta e tendono a mettere in luce l’aspettativa che non vengano dati scossoni di troppo ad una barca che non ne ha bisogno.

Un ragionamento che risuonerà nelle orecchie degli elettori e che mi induce a ritenere che non il condizionamento di invadenti attori esterni, bensì il timore del nuovo per quanto non apocalittico, spingerà gli italiani ad assicurare un margine, piccolo, alla scommessa di Renzi. Magari turandosi, montanellianamente, il naso.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).
 

Roma: i nuovi orizzonit americani

Relazioni Italia-Usa
Nuovo “asse” Renzi-Obama, referendum e PD
Giovanni Faleg
27/10/2016
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Matteo Renzi è tornato dalla cena di stato alla Casa Bianca con un importante capitale politico per il Partito Democratico (PD) riassumibile in tre punti. Primo, l’endorsement di Barack Obama alla riforma costituzionale, in vista del voto referendario.

Il Presidente ha ufficializzato il sostegno del governo americani al Sì, elogiando inoltre le riforme elaborate dal governo italiano per aiutare l’economia italiana a crescere.

Secondo, Obama ha ribadito la propria opposizione alle misure di austerità, considerate un freno alla ripresa all’interno dell’Unione europea (Ue), indicando l’Italia come modello da seguire in aperta antitesi con le politiche economiche prevalenti oggi in Europa. Un sostegno simile è arrivato anche riguardo alle proposte italiane in materia di migrazione.

Infine, paragonando Matteo Renzi al primo ministro canadese Justin Trudeau, Obama ha dato una forte indicazione sulla futura leadership del movimento progressista e sulla “Terza Via”, sponsorizzando l’italiano come un leader moderno, capace di motivare gli elettori e portare a compimento le riforme di cui ha bisogno il paese.

Questo capitale politico non è poca cosa. Il principio dei “patti chiari, amicizia lunga” pone le basi per una relazione privilegiata tra Italia e Stati Uniti e aumenta la rilevanza strategica internazionale del paese. Il tutto naturalmente legato a doppio filo al voto dell’8 novembre negli Stati Uniti e del 4 dicembre in Italia. Ovvero: se vince Hillary, se vince il Sì.

Se vince Hillary
Renzi ha ottime possibilità di proseguire l’intesa dei “patti chiari” nel caso in cui l’8 novembre venga eletta Hillary Clinton, candidata per la quale ha preso posizione da tempo e a più riprese. Le buone relazioni profittano anche del lavoro del think tank progressista Center for American Progress, fondato da John Podesta, il presidente (italo-americano) della campagna elettorale di Hillary. Il primo incontro ufficiale fra Renzi e Clinton potrebbe avvenire in occasione del G7 organizzato dall’Italia a Taormina nel 2017.

Difficile invece immaginare una simile intesa con Donald Trump alla Casa Bianca. Al contrario, in tal caso si teme che i nostri diplomatici, alle prese con l’incontrollabile variabilità del neo-presidente, saranno sin troppo impegnati nel difficile compito di mantenere stabili le relazioni politiche e la cooperazione fra Washington e Roma, superando inevitabili e fondamentali divergenze di vedute.

Il ruolo del Pd in Europa dopo il referendum
Il referendum costituzionale è invece una variabile controllabile. Senza entrare in questa sede nel merito della riforma o analizzarne i cavilli giuridici, è opportuno fare una considerazione relativa al carattere politico assunto da questo voto e alla frammentazione all’interno del PD.

La creazione di un fronte del NO interno al PD è difficilmente comprensibile in una logica di opportunità politica verso l’estero. Un voto compatto per il Sì, infatti, rafforzerebbe notevolmente il PD in Europa, mettendo i nostri democratici in una posizione dominante all’interno del gruppo socialista europeo, anche in considerazione dell’indebolimento dei partiti progressisti in altri Paesi (Francia, Regno Unito, Spagna, Germania).

L’influenza sull’agenda politica, sia a livello collettivo di partito, che dei singoli decision-makers italiani, ne uscirebbe rafforzata. Le implicazioni non sono da sottovalutare: il peso politico dei partiti ha un effetto su processi, politiche e decisioni l’adozione e l’attuazione delle direttive comunitarie, le nomine di funzionari in settori chiave della cooperazione europea, l’elaborazione di nuove politiche comuni, per esempio in tema di emigrazione.

Gianni Bonvicini ha giustamente evidenziato in un precedente articolo suAffarInternazionali i rischi per il nostro paese in caso di vittoria del NO, concludendo come un’Italia più forte sia una delle poche speranze per quel che resta del disegno unitario europeo.

È una previsione verosimile: gli scenari post-Brexit impongono una ridefinizione del cuore della governance Ue, in cui l’Italia potrebbe giocare un ruolo di primo piano, assieme al motore franco-tedesco. In questo contesto, il PD, ove riuscisse a restare al governo del paese, potrebbe a sua volta giocare una sua partita politica a livello sovranazionale, nel quadro del processo di integrazione europea, ridando vigore all’idea di un’Ue solidale, orientata verso il progresso sociale, l’uguaglianza economica e il rinnovamento politico.

Un’intesa ideologica fra i democratici italiani e statunitensi
Sembra invece che il PD stia continuando a coltivare l’antica e nobile arte del “tirarsi la zappa sui piedi” e si stia facendo opposizione da solo, pur essendo il partito politico che potrebbe maggiormente capitalizzare l’approvazione della riforma costituzionale.

In gioco, ci sono il ruolo di leadership all’interno della famiglia socialista europea e del movimento progressista globale; e la possibilità di avere maggiore peso politico nelle sedi decisionali multilaterali - a cominciare da Bruxelles, in tema di austerità e di migrazione. Ma soprattutto, c’è in gioco la capacità di un partito di mostrarsi più forte delle lotte intestine e agire nell’interesse dei cittadini.

In quest’ottica, la visita di Renzi alla Casa Bianca potrebbe essere vista e presentata come il riconoscimento di una importante nuova intesa ideologica fra i democratici italiani e statunitensi, e servire per porre le basi per un ricompattamento progressista anche in Europa.

Bocciare la riforma nel merito e nel metodo è una scelta dell’elettorato che, a nostro avviso, sarebbe controproducente per il futuro della democrazia italiana. Ma la bocciatura politica, vista dalla prospettiva del PD, è talmente controproducente da apparire come un atto di follia.

Giovanni Faleg è consulente di ricerca IAI e Segretario del Circolo PD di Washington DC.