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mercoledì 30 novembre 2016

Roma: rapporti con bruxelles

Referendum costituzionale
La riforma costituzionale e i rapporti coll’Ue
Marco Gestri
25/11/2016
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L’Unione europea, Ue, viene spesso richiamata nel dibattito sulla riforma costituzionale. Il Comitato per il sì afferma che la riforma rafforzerebbe l’impronta europea della Costituzione e consentirebbe all’Italia di “essere un attore ancora più decisivo e decidente delle scelte” europee. Tra gli oppositori non mancano commenti per cui essa renderebbe l’Italia sempre più “asservita”all’Ue.

Sul piano dei principi, la riforma non introduce novità fondamentali quanto ai rapporti tra ordinamento italiano e comunitario. Nonostante sia talora richiamato come allarmante novità, il testo del nuovo art. 117 non muta (rispetto a quello vigente introdotto nel 2001) per quanto riguarda la clausola della prevalenza delle norme europee su quelle nazionali, a parte una revisione linguistica. Il principio del primato del diritto Ue su quello italiano è del resto da molti decenni consolidato nel nostro ordinamento.

Art. 70 e attuazione delle norme Ue
Alcune innovazioni derivano dalla nuova disciplina del procedimento legislativo. Il nuovo art. 70 prevede che, tranne alcune leggi di particolare importanza, le leggi ordinarie siano adottate dalla sola Camera, con un intervento del Senato eventuale e consultivo.

Tra le leggi che richiedono ancora una procedura bicamerale l’art. 70 menziona “la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione delle politiche dell’Ue”: si fa chiaramente riferimento alla legge di sistema, che prevede le procedure per l’attuazione delle norme europee, come fu la legge La Pergola ed è ora la l. 234/2012.

Invece, contrariamente a quanto talora affermato, le ordinarie leggi di recepimento e attuazione delle norme Ue (delle direttive, delle sentenze della Corte Ue e dei regolamenti non completi) diverrebbero monocamerali (tranne nel caso eccezionale che tocchino le materie riservate dall’art. 70 alla legge bicamerale: es. norme elettorali relative al Parlamento europeo ).

Ciò va salutato con favore, considerando il cronico ritardo nell’attuazione delle norme europee, che fa dell’Italia lo Stato col maggior numero di condanne della Corte Ue.

La legge di riforma costituzionale introduce poi una differenziazione tra la ratifica degli “ordinari” trattati interazionali, che dovrà esser autorizzata dalla sola Camera, e quella dei “trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea” (art. 80), per i quali l’autorizzazione dovrà provenire da entrambe le camere.

Scelta condivisibile, dato il rilievo dei trattati su cui si fonda l’integrazione europea e dei relativi trattati modificativi (inclusi quelli di adesione). Essa solleva peraltro qualche dubbio riguardo alla procedura applicabile a trattati che, pur riguardando sostanzialmente la materia europea, vengano adottati formalmente al di fuori del diritto Ue (com’è il caso del Fiscal Compact). Dovrebbe invece esser affidata alla sola Camera la ratifica degli “accordi-misti”, conclusi con Stati terzi sia dall’Ue che dagli Stati membri (come Ceta o Ttip).

Eventuale recesso dall’Ue
L’art. 50 del Tue prevede che ogni Stato possa decidere di recedere dall’Ue “conformemente alle proprie norme costituzionali”. La riforma costituzionale non si occupa del recesso. Del resto, c’è chi sostiene che per l’Italia l’appartenenza all’Ue sarebbe scelta irreversibile.

Ci si potrebbe chiedere se l’introduzione, ad opera della riforma, di una serie di norme che fanno espresso riferimento alla partecipazione dello Stato e delle sue istituzioni al processo d’integrazione europea non condizionerebbe un recesso dell’Italia a una revisione costituzionale. In ogni caso, in virtù del nuovo art. 80, la decisione di mettere in moto il recesso dovrebbe essere presa dal Governo previa autorizzazione di entrambe le camere.

Il Senato nelle riforma costituzionale e il futuro della qualità della rappresentanza
Secondo la legge di riforma costituzionale, il nuovo Senato concorre “all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea” (art. 55), partecipando alla formazione e attuazione degli atti normativi e delle politiche Ue.

Gli oppositori della riforma definiscono questa funzione “misteriosa”. In ogni caso, non v’è dubbio che, anche dopo la riforma, sarebbe ancora il Governo a gestire in prima persona i rapporti coll’Ue e a prendere le decisioni chiave in materia, mediante i propri rappresentanti nel Consiglio Ue (co-legislatore insieme al Parlamento Europeo).

La normativa vigente prevede già che rappresentanti delle regioni possano far parte delle delegazioni dell’Italia al Consiglio (secondo modalità faticosamente definite nell’Accordo adottato nel 2006 dalla Conferenza Stato-Regioni). Non sarebbe una buona idea modificare tale meccanismo, prevedendo una rappresentanza di membri del Senato (anche alla luce della composizione di quest’ultimo).

Il nuovo Senato continuerebbe poi ad esercitare le prerogative attribuite alle camere nazionali dal Protocollo n. 2, introdotto dal Trattato di Lisbona, riguardo alla verifica del rispetto del principio di sussidiarietà.

Il nuovo Senato delle autonomie, alleggerito di buona parte delle competenze legislative, potrebbe concentrarsi sull’esercizio di funzioni di indirizzo e controllo sul Governo quanto all’elaborazione (e attuazione) delle politiche Ue.

La prassi europea offre numerosi esempi di camere alte che svolgono egregiamente tali attività, condizionando l’operato degli esecutivi a Bruxelles e vagliandone i risultati. A parte la House of Lords, è naturale pensare al Bundesrat tedesco, espressione delle entità territoriali.

Sennonché nel Senato non siederebbero rappresentanti dei governi delle singole regioni, ma un numero variabile di consiglieri regionali e sindaci, eletti dai Consigli regionali col metodo proporzionale con una legge che peraltro non è stata ancora adottata.

È forse prematuro affermare che ciò inciderebbe sulla qualità della rappresentanza. Ma le regole sulla composizione non assicurano che i nuovi senatori rappresentino gli interessi delle rispettive regioni (e comuni) anziché votare secondo mere logiche di partito. Ciò, e il fatto che si tratti di persone che svolgerebbero un doppio incarico, solleva dubbi sulla capacità del nuovo Senato di esercitare in modo continuativo e proficuo le complesse funzioni sopra accennate.

Non è poi chiaro come le nuove competenze del Senato inciderebbero sul sistema attuale di raccordo tra Governo e enti regionali e locali, risultante dalla legge 234/2012 e incentrato sul sistema delle Conferenze (Stato/Regioni e Stato/Autonomie locali).

Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.

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