Blog di sviluppo per l'approfondimento della Geografia Politica ed Economica attraverso immagini, cartine, grafici e note.Atlante Geografico Statistico Capacità dello Stato.Parametrazione a 100 riferito all'Italia. Spazio esterno del CESVAM - Istituto del Nastro Azzurro. (info:centrostudicesvam@istitutonastroazzurro.org)
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sabato 31 dicembre 2016
venerdì 23 dicembre 2016
Due Nazioni a Confronto
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La teoria di Adler potrebbe tornare utile, oggi, nell’analizzare l’atteggiamento dell’Italia (e non solo) rispetto all’amica Germania. Un’amica sì, che desta ammirazione fino alla soggezione, ma che allo stesso tempo scatena istinti di rivalsa e pure maldestre esibizioni di autorevolezza. Specialmente quando il confronto si sposta in Europa, specchio conteso di 27 riflessi. Lo spiega bene uno studio condotto da Policy Matters per la Fondazione Friedrich-Ebert, che ha intervistato oltre duemila cittadini italiani e tedeschi sulla percezione che hanno del proprio Paese e su come vedono, invece, l’altro. Italiani insicuri A proposito di insicurezza, la considerazione che gli italiani hanno di sé stessi è talmente bassa che i tedeschi hanno più fiducia nell’Italia di quanta non ne abbiamo noi: il 34% dei tedeschi ritiene la nostra nazione affidabile, mentre nella Penisola questa percentuale si ferma al 33%. Lo stesso vale per la situazione economica del Paese, giudicata negativamente dal 71% dei tedeschi, ma dall’89% degli italiani. E se è vero che il pessimismo è una prerogativa tutta nostra, risulta ugualmente difficile giustificare come gli intervistati nel nostro Paese abbiano dato alla Germania un voto superiore persino alla qualità della vita: 7,1 - su una scala da 1 a 10 - contro il 4,6 assegnato all’Italia. È parlando di Unione europea, Ue, e dei diversi ruoli di potere al suo interno, che il nostro Paese esprime il massimo della sfiducia. La Germania è indicata non più come modello ma come rivale, una prima donna a cui si desidera, in fondo, rubare la scena. Quattro italiani su cinque, l’81%, accusano Berlino di abusare della sua posizione di forza nell’Ue a discapito degli altri membri, e il 66% si dice contrario alla sua leadership in Europa. La maggioranza degli italiani (il 78%) crede che sia proprio Roma a dover emergere tra i 27. Valutazioni che sembrano riflettere in scala quell’atteggiamento di sfida assunto più volte dal governo italiano nei confronti delle istituzioni europee e del governo tedesco in particolare. D’altra parte, i tedeschi sono afflitti da un complesso, se non proprio di superiorità, almeno di “parità”: non si sentono inferiori a nessuno. Attribuiscono alla Germania voti più alti in tutti i settori dell’economia e, in virtù di questa percezione positiva del Paese, tre quarti di loro ritiene che spetti a Berlino la leadership all’interno dell’Ue. Italia e Germania percepiscono l’Ue diversamente La soddisfazione dei tedeschi rispetto al proprio ruolo nell’Ue è coerente con la loro percezione del sistema Europa, nettamente opposta a quella italiana. Per il 43% dei nostri connazionali l’Ue ha portato più svantaggi che vantaggi (la stessa percentuale di tedeschi pensa esattamente l’opposto), e un italiano su due individua nella moneta unica la causa dell’attuale crisi economica (anche qui, il 41% dei tedeschi attribuisce all’euro il merito del buon andamento dell’economia nazionale). Su una cosa i due Paesi sono d’accordo, e a torto: sia la Germania che l’Italia sono contribuenti netti dell’Ue (la prima con 14,3 miliardi l’anno, nel 2015, la seconda con 2,6 miliardi), ma tutti e due i campioni ritengono che l’altro Paese riceva di più di quanto paga. L’autostima dei tedeschi Tornando ai nostri problemi di autostima, va detto che il complesso d’inferiorità all’italiana ha, comunque, i suoi lati positivi: il Paese vince senz’altro in autocritica. L’80% degli italiani riconosce che l’Italia sta facendo ancora troppo poco per riformare lo Stato e l’economia, e tre italiani su quattro ammettono che la maggior parte dei problemi finanziari sono da imputare al Paese stesso. I tedeschi, invece, sono nettamente più superbi e auto assolutori. C’è una parte del sondaggio in cui agli intervistati si chiede di scegliere, tra una serie di aggettivi, quelli che meglio definiscono il proprio e l’altro popolo. Se sugli abitanti della Penisola le parole scelte sono le stesse - al punto che gli italiani si riconosco persino negli stereotipi - i tedeschi si attribuiscono una serie di aggettivi che la controparte nemmeno prende in considerazione. Si definiscono - tra le altre cose - creativi, generosi e soprattutto flessibili. Link al sondaggio “Amici distanti” Isabella Ciotti è giornalista praticante |
giovedì 22 dicembre 2016
In attesa delle prossime frittate
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mercoledì 21 dicembre 2016
Politici anti-sistema: un quadro
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I politici anti-sistema hanno ottenuto il controllo di diverse città italiane, alle elezioni amministrative di giugno. Nonostante la diffusa popolarità di cui gode il Movimento Cinque Stelle, l'elezione di Virginia Raggi e Chiara Appendino come sindaci di Roma e Torino è sotto l'attenzione di tutti, specie dovendo affrontare una difficoltosa transizione dalla guida di una campagna elettorale anti-sistema alla testa dell'amministrazione di due importanti città dal profilo globale. Se avranno successo, sarà difficile per i partiti politici tradizionali mettere un freno alla crescita dei Cinque Stelle, la forza politica più popolare in Italia. I nuovi primi cittadini dovrebbero guardare all'esperienza al di là del Mediterraneo delle loro controparti elette quasi un anno fa in Spagna per prendere spunto su come guidare il cambiamento in maniera efficace. Barcellona, fra idealismo e compromesso Manuela Carmena a Madrid e specialmente Ada Coalu a Barcellona hanno portato alla vittoria coalizioni anti-sistema di sinistra nelle elezioni municipali del maggio 2015. Definita come il sindaco più radicale al mondo dal Guardian, la Colau ha avuto bisogno di quasi un anno per accettare la realtà che il compromesso politico è necessario per raggiungere degli obiettivi, e che la strada che porta dall'attivismo idealistico al pragmatismo politico è piena di ostacoli. L'assenza di accordi stabili con gli altri partiti ha reso molto più difficile per l'amministrazione catalana realizzare quei cambiamenti sui quali aveva fatto campagna elettorale. Durante i primi mesi del mandato del sindaco di Barcellona, le azioni più evidenti sono state soprattutto simboliche. Le prime manifestazioni del cambiamento sono state, per citarne alcune, il fallito tentativo del sindaco di ridurre il proprio salario dell'80%, la sostituzione dell'auto istituzionale da una berlina di lusso ad un minivan e la rimozione del busto del re di Spagna. La Colau è passata dall'esprimere un forte scetticismo in merito alla possibilità che Barcellona ospitasse l'annuale World Mobile Congress per paura che ne beneficiassero solo pochi nomi, alla partecipazione alla cerimonia di inaugurazione. È anche passata dal sostegno ai lavoratori in sciopero fino al rifiuto di negoziare con i dipendenti del trasporto pubblico in protesta. Si nota quindi l'evoluzione dall'ideologia purista di un'attivista al compromesso e al pragmatismo necessari per essere un efficace amministratore, che a maggio ha anche siglato un accordo di coalizione con il partito socialista. Questa nuova alleanza con i socialisti rappresenta un cambiamento radicale nella posizione della Colau, la quale aveva escluso ogni tipo di accordo con il Psoe - che era già stato al governo della città per 32 anni -, arrivando anche a definirli su Twitter, prima della sua elezione, corrotti e dal comportamento mafioso. Madrid, pragmatismo della prima ora Un accordo proprio con i socialisti era stato già siglato a Madrid dalla Carmena, per mettere fine ai 24 anni consecutivi dei popolari alla guida della capitale spagnola. Giudice - e per alcuni anni alla testa di una piccola impresa che commercializzava vestiti per bambini realizzati dal ex detenuti -, la 72enne Carmena si è quasi immediatamente convertita al compromesso pragmatico, dovendo subito raggiungere un accordo con i socialisti in modo da escludere il centrodestra - che pure aveva ottenuto la maggioranza dei voti nelle urne madrilene - dall’amministrazione della città. La Carmena ha ridotto il debito di Madrid del 20% e ha interrotto i contratti con le agenzie di rating, non avendo intenzione di emettere nuovo debito. Madrid resta la città più indebitata della Spagna e una delle più indebitate d'Europa; tuttavia, è ora su una traiettoria finanziaria totalmente differente rispetto alle precedenti amministrazioni, le quali dal 2003 avevano aumentato il debito del 780% attraverso l'investimento in imponenti progetti infrastrutturali e nei tre tentativi falliti di ospitare le Olimpiadi dal 2005 in poi. Cambiare la cultura politica dell'amministrazione municipale non è stato semplice né per la Carmena a Madrid né per la Colau a Barcellona. Ciò che è diventato evidente, però, è che entrambe lo stanno facendo costruendo ponti, cercando il consenso ed il compresso, piuttosto che proseguendo con i discorsi antagonisti delle loro campagne elettorali. Appunti per la Raggi e la Appendino Le pentastellate Virginia Raggi e Chiara Appendino, sindaci di Roma e Torino, dovrebbero prendere in seria considerazione le esperienze delle loro più navigate controparti di Barcellona e Madrid per governare le loro città e mantenere il supporto dei cittadini. Sono riuscite a gestire il malcontento della loro base idealista e appassionata, al tempo stesso riconoscendo di fatto di non avere le competenze e il sostegno necessari per imprimere un rapido cambiamento all’ordine sociale e governare al tempo stesso in maniera efficace e responsabile le amministrazioni complesse di due importanti città europee. La capacità da parte del Movimento Cinque Stelle di gestire queste contraddizioni diventerà sempre più importante, vista la fragilità strutturale del governo italiano e l'incertezza finanziaria in crescita. Di fronte alla corruzione politica in Italia, al dilemma rappresentato dai rifugiati e alla latente crisi bancaria, la Raggi e la Appendino dovranno affrontare numerose sfide dando prova di leadership, cercando il consenso e perseguendo la strada del compromesso politico, dovendo in fin dei conti dimostrare di essere più politiche che attiviste. *Articolo originariamente apparso sul blog del German Marshall Fund of the United States il 14 luglio 2016 e tradotto da Matteo Garnero, già stagista dell’area Europa dello IAI. Paul Costello è coordinatore del programma “Urban and Regional Policy” del German Marshall Fund of the United States. | ||||||||
UNa prospettiva diversa per l'economia italiana
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L’armamento italiano, con circa 17 milioni di tonnellate di naviglio di bandiera, considerando il genuine link (1) tra società armatoriale/nave/bandiera, è il quarto nel mondo ed il secondo in Europa. Il nostro cluster marittimo deve però confrontarsi con attori europei ed internazionali agguerriti. La tradizionale industria marittima italiana era basata su trasporto marittimo e crocieristico, cantieristica, porti, pesca, turismo ed offshore energetico. Questi settori rientrano ora nella strategia marittima dell’Unione europea, Ue, e quindi necessitano di un approccio sistemico. La politica marittima integrata dell’Ue Il mare è ritenuto opportunità di sviluppo per l’economia Ue che da esso trae milioni di posti di lavoro e centinaia di miliardi di euro di valore aggiunto. La visione degli Affari marittimi Ue si basa sulla Politica marittima integrata, i cui pilastri sono le Direttive per l’ambiente marino e per la pianificazione degli usi civili e militari degli spazi marittimi di giurisdizione. Entrambe sono state recepite dall’Italia; da ultimo, quella sulla pianificazione spaziale con il Dlgs 201-2016. Altri Paesi lo hanno già fatto traendo significativi vantaggi come Grecia e Cipro da sempre concentrati sullo sviluppo della Blue Economy. L’Ue è impegnata nella promozione dell’intermodalità marittima per ridurre l’impatto ambientale ed economico del trasporto su gomma, con 30 milioni di camion all’anno imbarcati, pari al 75% del dato mondiale. In Italia, il settore, grazie anche a specifici incentivi (come il “Marebonus”) è in costante crescita, attraverso collegamenti con le isole, lungo le dorsali tirrenico-adriatiche, e con Marocco, Tunisia, Spagna, Francia, Malta, Albania e Grecia. La grande consistenza della flotta italiana (sempre più alimentata da combustibili ecocompatibili o da dotazioni di bordo per l’abbattimento delle emissioni) si basa, oltre che sui traghetti, sul trasporto di idrocarburi e di merci varie in container da/per i principali porti africani e medio-orientali del Mediterraneo allargato: il 51% del commercio estero italiano viaggia infatti su nave (il petrolio è al 100%). L’altra faccia dell’intermodalità sono i porti, punto di forza di alcune economie del Mare del Nord di Spagna e Grecia (che Pechino ha eletto a proprio hub). La frammentazione e non competitività del sistema portuale italiano dovrebbe essere risolta dalla riforma attuata con D.Lgs. 169-2016 che riduce a 15 il numero delle Autorità portuali per 57 porti. La strategia marittima Ue potrà però fornirci un ulteriore aiuto se punteremo su settori in crescita come “autostrade del mare”, trasporti a corto raggio o crociere. Pesca L’Ue, secondo i Trattati, detiene una riserva esclusiva in materia di politica della pesca e di accordi con i Paesi terzi. È noto che il comparto italiano è in decrescita, secondo alcuni a causa di misure eccessive di riduzione dello sforzo di pesca. I danni maggiori ci vengono però dal fatto che la Ue ha negoziato accordi di partenariato principalmente con Paesi dell'Atlantico (Capo Verde, Costa d'Avorio, Gabon, Guinea-Bissau, Liberia, Mauritania, Marocco e Senegal), con ciò favorendo la Spagna che ha una consistente flotta d’altura. Il risultato è che i pescherecci italiani continuano ad essere sequestrati dai Paesi del Nord Africa, come avviene per Tunisia, Libia ed Egitto, con i quali l’Ue non ha mai stipulato intese. L’Europa ha scoperto la sua dimensione marittima da qualche tempo, anche grazie alla Strategia di sicurezza marittima del 2014 nel cui ambito si inquadra il contrasto della pirateria e delle altre minacce alla libertà di navigazione. I traffici mercantili italiani ne hanno beneficiato potendo contare sull’attività di polizia dell’alto mare delle Unità delle missioni Atalanta e Sophia che ha messo in luce l’attualità delle missioni “tipo Petersberg”. Purtroppo, l’Ue continua a sottovalutare il settore del soccorso in mare-Sar lasciato al volontario attivismo italiano, quando invece sarebbe necessario mettere in comune i mezzi disponibili e stringere partenariati con i Paesi nordafricani. Governance marittima italiana La governance marittima italiana si avvale oramai in modo positivo di tutti gli strumenti messi in campo dalla politica marittima Ue. Un handicap viene però dalla frammentazione delle competenze tra tutti i ministeri interessati, come Trasporti, Ambiente, Politiche agricole, Esteri e Difesa, problema che nessun governo ha mai saputo affrontare. Un tempo c’era, come principale referente politico-amministrativo, il ministero la Marina mercantile. Per semplificare la gestione del settore e conseguire vantaggi economici si dovrebbe seguire l’esempio della Francia che ha incardinato nell’ufficio del Primo ministro il Secrétariat général de la mer competente per il necessario coordinamento interministeriale. Anche la definizione, a livello politico, della nozione della “Funzione Guardia costiera” teorizzata dall’Ue aiuterebbe l’Italia ad efficientare l’impiego di tutti i numerosi assetti civili e militari operanti in mare per la sicurezza marittima. (1) È l’effettivo rapporto giurisdizionale tra lo Stato di registrazione della nave e la sua filiera marittima; esso può altrimenti venir meno nel caso delle c.d. “bandiere ombra”. Fabio Caffio è Ufficiale della Marina Militare in congedo, esperto di diritto marittimo. |
Roma: la difesa in prima pagina
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venerdì 9 dicembre 2016
Le nostre frontiere.
giovedì 1 dicembre 2016
Referendum 4 Decentramento
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Legislazione concorrente addio Fin dalla sua introduzione, con la formazione delle prime quattro regioni a statuto speciale, ancor prima che nascesse formalmente la Repubblica, il regionalismo italiano ha rappresentato un modello di decentramento incompiuto. Nella Costituzione repubblicana, venne riconosciuta alle Regioni, in alcune materie elencate nell’allora art. 117, una potestà legislativa concorrente con quella dello Stato, da esercitarsi nel quadro dei principi fondamentali fissati dalla legge dello Stato e nel rispetto rigoroso del principio di tutela dell’interesse nazionale; alle Regioni veniva attribuita altresì la competenza ad emanare norme attuative di leggi dello Stato, se così previsto dalla legge medesima. La proposta di istituire una seconda camera, il Senato, che fosse almeno in parte rappresentativa delle introdotte autonomie costituzionali, venne invece respinta essendo prevalsa l’opzione per il modello del bicameralismo perfetto, con la conseguenza che le Regioni furono escluse dal processo decisorio nazionale. Nel testo vigente della Costituzione, l’art.117 come modificato nel 2001 riconosce alle Regioni (ed alle Province autonome) una potestà legislativa paritaria rispetto a quella dello Stato, essendo venuto formalmente meno il limite della tutela dell’interesse nazionale all’esercizio di tale loro competenza. Accanto alle materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato, tra le quali figurano la politica estera e i rapporti internazionali e con l’Unione europea dello Stato, il vigente art. 117 Cost. disciplina nel terzo comma la categoria delle materie di legislazione concorrente, delle Regioni e dello Stato, tra le quali al primo posto vengono indicati i “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni”; il successivo comma 4 attribuisce poi alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato. L’esercizio delle competenze “esterne” delle Regioni Tali rapporti esterni delle Regioni sono condotti non solo attraverso lo sviluppo di attività promozionali all’estero o mediante iniziative di mero rilievo internazionale ma anche, grazie alla formalizzazione nel testo costituzionale di taluni approdi della giurisprudenza costituzionale, attraverso la stipulazione di trattati con Stati terzi, retti dal diritto internazionale e del cui rispetto risponde, sul piano internazionale, la Repubblica come soggetto unitario (art. 117, 9° comma). Ulteriore estrinsecazione della riconosciuta titolarità, in capo alle Regioni, di rapporti internazionali e con l’Unione europea, Ue, è costituita dal potere/dovere per le Regioni di provvedere direttamente, nelle materie di loro competenza, all’esecuzione e attuazione dei trattati internazionali nonché degli atti dell’Ue, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato; alle stesse condizioni, viene riconosciuto il diritto delle Regioni di partecipare al processo di formazione degli atti normativi comunitari (art. 117, 5° comma). Il testo di riforma elimina la categoria delle materie di legislazione concorrente: viene dunque meno la categoria costituzionale dei “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni”. Rimangono immodificati i commi 5 e 9 dell’art.117 e le relative competenze attribuite alle Regioni. È indubbio che tale modifica vale ad introdurre elementi di chiarezza nei rapporti tra lo Stato e le Regioni, contribuendo auspicabilmente a ridurre i contenziosi di cui è stata investita negli anni la Corte costituzionale. Per altro verso, è intuitivo comprendere come l’eliminazione della categoria costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione delle Regioni potrà avere delle ricadute significative sull’esercizio delle competenze “esterne” delle Regioni riconosciute nei rilevanti commi dell’art.117, introducendo, quanto meno sul piano interpretativo, ulteriori limiti rispetto alle limitazioni già apportate, per esempio con riferimento alla conclusione di accordi con Stati terzi, dalla legge di attuazione del Titolo V modificato nel 2001 (la l. 131/2003) e dalla relativa giurisprudenza costituzionale. In questa prospettiva, va valutato altresì l’impatto del reintrodotto limite della tutela dell’interesse nazionale che, alla stregua dell’art. 117, 4° comma del testo di riforma, giustifica l’intervento della legge statale in materie originariamente non riservate alla legislazione esclusiva dello Stato, su proposta del Governo. La competenza legislativa del Senato riformato La perdita, da parte delle Regioni, di una competenza legislativa originaria, ancorché concorrente con quella dello Stato, in talune materie potrebbe essere bilanciata dalle funzioni e dalle competenze attribuite al Senato riformato che dichiaratamente rappresenta le “istituzioni territoriali”, recuperando per questa via una partecipazione delle Regioni al processo decisionale nazionale. L’art. 70 del testo di riforma indica tassativamente quali sono le materie oggetto di procedimento legislativo bicamerale, in deroga al principio generale che riserva alla Camera dei deputati l’esercizio della competenza legislativa. Tra le leggi che il Senato riformato concorrerà ad approvare su base paritaria con la Camera figura la legge “che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione delle normative e delle politiche dell’Unione europea”, quindi non solo la legge contenente disposizioni generali in materia qual è oggi la legge 234/2012 ma anche, avuto riguardo al loro contenuto come precisato dall’art. 30 di tale provvedimento legislativo, anche la legge di delegazione europea e la legge europea per quanto rilevanti delle funzioni del Senato, nonché le leggi di cui ai commi 5 e 9 dell’art. 117. L’attribuzione al Senato di funzioni di raccordo tra lo Stato e gli enti costitutivi della Repubblica e, in particolare, della funzione di raccordo tra lo Stato, le Regioni e l’Ue comporterà verosimilmente una riconsiderazione delle funzioni e delle competenze di organismi di raccordo esistenti, come la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome; tali attribuzioni, potrebbero avere delle ripercussioni anche sulle modalità di proposta, da parte dello Stato, dei membri nazionali componenti il Comitato delle Regioni, organo consultivo istituito e disciplinato dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (articoli 300 ss). Nulla è previsto, invece, relativamente a un’eventuale partecipazione del Senato al procedimento di conclusione di trattati internazionali. In materia, l’art. 80 del testo di riforma assoggetta all’approvazione di entrambe le Camere esclusivamente la legge che autorizza la ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Ue; conseguentemente, in assenza di una disposizione ad hoc tanto nel vigente testo costituzionale quanto nella riforma, un ipotetico recesso del Paese dall’Unione, in conformità con l’art. 50 Tue, dovrebbe essere autorizzato da entrambe le Camere. Il riconoscimento a livello costituzionale della specificità dei trattati europei, ancorché tardivo, va salutato con estremo favore. Per altro verso, va sottolineato come si sia persa l’occasione per trarre dalla riconosciuta peculiarità di questi trattati - destinati ad incidere in materie di rilevanza costituzionale qual è l’esercizio della potestà legislativa e la cui approvazione, non a caso, è assoggettata a referendum popolare in alcuni Paesi membri dell’Unione - le opportune conseguenze, regolando il relativo processo di ratifica alla stregua dell’art. 138 Cost. Nessuna competenza, nemmeno di natura consultiva, è riservata al Senato relativamente alla conclusione di qualunque altro trattato internazionale che possa incidere sugli interessi di specifici territori, quali potrebbero essere i trattati per la concessione di basi militari o quelli che prevedono il passaggio nel territorio nazionale di reti transnazionali di trasporti ed energia; nemmeno, al riguardo, è prevista la consultazione della/e Regione/i interessata/e, com’è in alcune Costituzioni di stampo federale*. *Questo contributo rappresenta una versione ridotta di un articolo più lungo destinato a comparire sul fascicolo 4 de "La Comunità internazionale". Elena Sciso è professore ordinario di Diritto internazionale, direttore del Centro di Ricerca sulle Organizzazioni internazionali ed europee della Luiss Guido Carli. |
Referendum3 Europa
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Sul piano dei principi, la riforma non introduce novità fondamentali quanto ai rapporti tra ordinamento italiano e comunitario. Nonostante sia talora richiamato come allarmante novità, il testo del nuovo art. 117 non muta (rispetto a quello vigente introdotto nel 2001) per quanto riguarda la clausola della prevalenza delle norme europee su quelle nazionali, a parte una revisione linguistica. Il principio del primato del diritto Ue su quello italiano è del resto da molti decenni consolidato nel nostro ordinamento. Art. 70 e attuazione delle norme Ue Alcune innovazioni derivano dalla nuova disciplina del procedimento legislativo. Il nuovo art. 70 prevede che, tranne alcune leggi di particolare importanza, le leggi ordinarie siano adottate dalla sola Camera, con un intervento del Senato eventuale e consultivo. Tra le leggi che richiedono ancora una procedura bicamerale l’art. 70 menziona “la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione delle politiche dell’Ue”: si fa chiaramente riferimento alla legge di sistema, che prevede le procedure per l’attuazione delle norme europee, come fu la legge La Pergola ed è ora la l. 234/2012. Invece, contrariamente a quanto talora affermato, le ordinarie leggi di recepimento e attuazione delle norme Ue (delle direttive, delle sentenze della Corte Ue e dei regolamenti non completi) diverrebbero monocamerali (tranne nel caso eccezionale che tocchino le materie riservate dall’art. 70 alla legge bicamerale: es. norme elettorali relative al Parlamento europeo ). Ciò va salutato con favore, considerando il cronico ritardo nell’attuazione delle norme europee, che fa dell’Italia lo Stato col maggior numero di condanne della Corte Ue. La legge di riforma costituzionale introduce poi una differenziazione tra la ratifica degli “ordinari” trattati interazionali, che dovrà esser autorizzata dalla sola Camera, e quella dei “trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea” (art. 80), per i quali l’autorizzazione dovrà provenire da entrambe le camere. Scelta condivisibile, dato il rilievo dei trattati su cui si fonda l’integrazione europea e dei relativi trattati modificativi (inclusi quelli di adesione). Essa solleva peraltro qualche dubbio riguardo alla procedura applicabile a trattati che, pur riguardando sostanzialmente la materia europea, vengano adottati formalmente al di fuori del diritto Ue (com’è il caso del Fiscal Compact). Dovrebbe invece esser affidata alla sola Camera la ratifica degli “accordi-misti”, conclusi con Stati terzi sia dall’Ue che dagli Stati membri (come Ceta o Ttip). Eventuale recesso dall’Ue L’art. 50 del Tue prevede che ogni Stato possa decidere di recedere dall’Ue “conformemente alle proprie norme costituzionali”. La riforma costituzionale non si occupa del recesso. Del resto, c’è chi sostiene che per l’Italia l’appartenenza all’Ue sarebbe scelta irreversibile. Ci si potrebbe chiedere se l’introduzione, ad opera della riforma, di una serie di norme che fanno espresso riferimento alla partecipazione dello Stato e delle sue istituzioni al processo d’integrazione europea non condizionerebbe un recesso dell’Italia a una revisione costituzionale. In ogni caso, in virtù del nuovo art. 80, la decisione di mettere in moto il recesso dovrebbe essere presa dal Governo previa autorizzazione di entrambe le camere. Il Senato nelle riforma costituzionale e il futuro della qualità della rappresentanza Secondo la legge di riforma costituzionale, il nuovo Senato concorre “all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea” (art. 55), partecipando alla formazione e attuazione degli atti normativi e delle politiche Ue. Gli oppositori della riforma definiscono questa funzione “misteriosa”. In ogni caso, non v’è dubbio che, anche dopo la riforma, sarebbe ancora il Governo a gestire in prima persona i rapporti coll’Ue e a prendere le decisioni chiave in materia, mediante i propri rappresentanti nel Consiglio Ue (co-legislatore insieme al Parlamento Europeo). La normativa vigente prevede già che rappresentanti delle regioni possano far parte delle delegazioni dell’Italia al Consiglio (secondo modalità faticosamente definite nell’Accordo adottato nel 2006 dalla Conferenza Stato-Regioni). Non sarebbe una buona idea modificare tale meccanismo, prevedendo una rappresentanza di membri del Senato (anche alla luce della composizione di quest’ultimo). Il nuovo Senato continuerebbe poi ad esercitare le prerogative attribuite alle camere nazionali dal Protocollo n. 2, introdotto dal Trattato di Lisbona, riguardo alla verifica del rispetto del principio di sussidiarietà. Il nuovo Senato delle autonomie, alleggerito di buona parte delle competenze legislative, potrebbe concentrarsi sull’esercizio di funzioni di indirizzo e controllo sul Governo quanto all’elaborazione (e attuazione) delle politiche Ue. La prassi europea offre numerosi esempi di camere alte che svolgono egregiamente tali attività, condizionando l’operato degli esecutivi a Bruxelles e vagliandone i risultati. A parte la House of Lords, è naturale pensare al Bundesrat tedesco, espressione delle entità territoriali. Sennonché nel Senato non siederebbero rappresentanti dei governi delle singole regioni, ma un numero variabile di consiglieri regionali e sindaci, eletti dai Consigli regionali col metodo proporzionale con una legge che peraltro non è stata ancora adottata. È forse prematuro affermare che ciò inciderebbe sulla qualità della rappresentanza. Ma le regole sulla composizione non assicurano che i nuovi senatori rappresentino gli interessi delle rispettive regioni (e comuni) anziché votare secondo mere logiche di partito. Ciò, e il fatto che si tratti di persone che svolgerebbero un doppio incarico, solleva dubbi sulla capacità del nuovo Senato di esercitare in modo continuativo e proficuo le complesse funzioni sopra accennate. Non è poi chiaro come le nuove competenze del Senato inciderebbero sul sistema attuale di raccordo tra Governo e enti regionali e locali, risultante dalla legge 234/2012 e incentrato sul sistema delle Conferenze (Stato/Regioni e Stato/Autonomie locali). Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe. |
Referendum 2. Il Mondo ci guarda
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Una correzione di rotta che li ha messi più in sincrono con il pensiero prevalente all’interno del Paese: per lungo tempo infatti i problemi del sistema bancario italiano sono stati visti da noi come un fattore rilevante di crisi sì, ma non necessariamente come un rischio sistemico (o perlomeno, salvo qualche voce competente e isolata, questa è la lettura che è stata data da buona parte dei media e dell’opinione pubblica informata). Le cose non stanno cosi; il problema delle banche non ha perso di attualità e resterà con noi ancora per diverso tempo, come dimostrano i balbettii su MPS e bad banksvarie. Complice anche il tonfo di Deutsche Bank, che ha dato un provvisorio respiro all’Italia, la une è ora soprattutto sul referendum. Il voto del 4 dicembre e la stabilità italiana Che si tratti di un passaggio problematico è opinione condivisa, ma l’attenzione esterna non è rivolta tanto alla sostanza delle riforme sul tappeto, quanto alla loro incidenza sulla stabilità di un Paese che continua a dare la sensazione di reagire a debolezze endemiche con mosse corsare, in cui l’effetto di annuncio prevale sulla continuità della rappresentazione negoziale. Con il risultato di una difesa zoppa dell’interesse nazionale, che determina al tempo stesso incertezze sul piano comunitario. La polarizzazione della discussione, l’intreccio improprio fra riforma costituzionale e legislazione elettorale, il formarsi di alleanze eterogenee sull’uno come sull’altro versante, appaiono altrettante manifestazioni della tendenza italiana alla drammatizzazione teatrale del confronto politico, al fine a volte di mascherare i veri nodi e rendere paradossalmente più facili i compromessi. Cercare di penetrare i bizantinismi di un sistema politico viziato da una insuperabile fragilità appare più che complesso, inutile. Migliorare la governabilità semplificando i meccanismi istituzionali, riducendo le strozzature senza porre in discussione la rappresentanza democratica, è parte del bagaglio acquisito quantomeno dalla membership originaria dell’Unione europea, Ue: venuta meno l’illusione della razionalizzazione bipolare, il sistema italiano resta frammentato e difficilmente modificabile. Previsione apocalittiche poco ascoltate Alleati e mercati, osservatori e governi, danno mostra di non dare troppo credito alle previsioni apocalittiche dei due schieramenti: non sono in molti a credere che dal Sì possa venire la fine della democrazia in Italia, come che il No possa aprire la porta ad una stagione di ingovernabilità con conseguente tracollo dell’economia. L’Italia è un partner importante nell’Alleanza Atlantica, che può svolgere un ruolo equilibratore sempre più necessario in una fase di contrasti crescenti con la Russia di Putin. La terza economia dei Ventisette è fondamentale per mantenere credibilità all’impianto comunitario, scosso per altri versi dalla Brexit. Rimane un elemento decisivo dell’equilibrio geopolitico nel Mediterraneo e in Medio Oriente. Non si tratta quindi, nella percezioni di chi ci osserva, di capire se la riforma comporti davvero la modernizzazione necessaria del nostro paese; se un parlamento eletto con un maxi-premio di maggioranza possa cancellare ritardi e inefficienze consolidate. Il punto è quello di spendersi per la soluzione che meglio di tutte consenta non tanto la governabilità a lungo termine del Paese, quanto la capacità di far fronte alle scadenze immediate che si pongono, senza dare eccessivi grattacapi ad alleati e partner. La pressione incerta di Obama e Merkel La riforma può essere brutta (e brutta lo è davvero, a mio parere) e la legge elettorale un pasticcio da correggere prima che sia troppo tardi. Nell’ottica internazionale, si tratta di problemi italo-italiani che interessano solo nella misura in cui possano incidere sul sistema nel suo complesso. Fatto il conto del dare e dell’avere insomma, meglio tenersi il Renzi che c’è, spingendo perché faccia tutto ciò che gli alleati si attendono senza troppe alzate d’ingegno. Legando referendum ed elezioni il Presidente del Consiglio ha commesso un errore tattico, ma la cosa non rileva granché a livello internazionale. Gli interventi del presidente statunitense Barack Obama e gli incoraggiamenti della Cancelliera Angela Merkel sono segnali importanti, ma la loro efficacia come strumento diretto di pressione è incerta e tendono a mettere in luce l’aspettativa che non vengano dati scossoni di troppo ad una barca che non ne ha bisogno. Un ragionamento che risuonerà nelle orecchie degli elettori e che mi induce a ritenere che non il condizionamento di invadenti attori esterni, bensì il timore del nuovo per quanto non apocalittico, spingerà gli italiani ad assicurare un margine, piccolo, alla scommessa di Renzi. Magari turandosi, montanellianamente, il naso. Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO). |
Referendum 1. Rischi
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Sembrerebbe un argomento di cucina domestica, di interesse per i soli italiani. Ma da alcuni anni, per non dire decenni, i fatti interni di un Paese si riflettono direttamente sui destini dell’intera Unione europea, Ue. Basti vedere l’ansia con cui sono state seguite nel recente passato le elezioni in Grecia o quelle ancora oggi pendenti in Austria. Per non parlare poi dell’attenzione parossistica sul referendum inglese, che in effetti ha rimesso in gioco l’intera struttura dell’Unione, oggi alle prese con la prima uscita di un proprio membro dal club comune. Vi sono quindi buone ragioni per comprendere il nervosismo dei mercati finanziari sul futuro dell’Italia (e dell’Euro), nonché il fiato sospeso di Bruxelles (e Berlino) sul risultato del voto italiano. Ma questi timori sono solo una parte, forse la più piccola, di un dibattito italiano poco attento alle ragioni europee e internazionali che giustificano la sostanza di una riforma costituzionale che il governo di Matteo Renzi ha portato a termine attraverso sei letture nel nostro Parlamento. Un presidente del consiglio più forte in ambito internazionale Come è noto, alcuni costituzionalisti hanno arricciato, a dire poco, il naso davanti al testo varato dalle camere. Una delle obiezioni, sostenuta perfino dalla minoranza del PD (magari dalla memoria corta), è di un eccessivo accentramento di poteri nelle mani del Presidente del Consiglio. A parte il fatto che anche la proposta di riforma varata dalla bicamerale Berlusconi-D’Alema (1997) sosteneva l’urgente necessità di rafforzare il Premier,vi è una chiara esigenza europea e internazionale a giustificarla. La nascita e il sempre maggiore ruolo assunto dai Consigli europei all’interno del sistema decisionale dell’Ue impone una presenza continua e attenta dei primi ministri. Con la crisi finanziaria del 2008 e con il conseguente rischio di fare saltare l’Euro, il Consiglio europeo si è riunito con cadenza quasi mensile per diversi anni. Ma al di là degli aspetti economici, i capi di stato dell’Ue decidono ormai su tutto, dalla lotta al terrorismo alle problematiche relative all’immigrazione. Lasciamo stare la valutazione sull’efficacia o meno di questa forma di “governo” dell’Ue (fra il resto prevista dal trattato di Lisbona), ma è evidente a tutti che il premier nazionale deve essere in grado di dirigere e coordinare tutte le competenze del governo che lo impegnano al tavolo del Consiglio europeo. Lo stesso discorso vale, in termini più generici, per quanto riguarda la nostra partecipazione nei vari G7 o G20 che siano (di qui le preoccupazioni americane). Quindi accentrare i poteri nella Presidenza del Consiglio è un’esigenza dettata dall’evoluzione istituzionale dell’Ue e da un diffuso “verticismo” multipolare nelle relazioni internazionali. D’altronde, quella di gestire in prima persona i dossier internazionali è una caratteristica di tutte le principali democrazie europee, dal Cancelliere in Germania al Primo ministro in Inghilterra. Forse, quindi, al di là degli aspetti di equilibrio interno fra diversi ruoli istituzionali, varrebbe la pena dare un’occhiata a quelli che sono gli interessi italiani nel contesto europeo e internazionale. L’inefficienza del bicameralismo perfetto A seguire, le obiezioni sulla riforma puntano l’attenzione sui rischi per la democraticità del futuro sistema istituzionale. È un tema un po’ sfuggente, poiché nessuno sembra mettere in dubbio i guasti prodotti dal bicameralismo perfetto, ma molti si attaccano nuovamente allo sbilancio degli equilibri di potere verso il Presidente del Consiglio con la sopravvivenza di una sola camera. Anche in questo caso agli scettici o bastian contrari va ricordato come nel resto d’Europa laddove esiste il sistema bicamerale si preveda una distinzione di competenze e che nessun rischio alla democrazia si è per ciò palesato. Al contrario, vale forse la pena valutare come questo farraginoso e ormai antistorico sistema di poteri perfettamente coincidenti di Camera e Senato abbia generato numerose deficienze anche rispetto ai nostri obblighi nei confronti dell’Ue. Basti pensare ai ritardi cumulati nell’adozione delle direttive comunitarie o alle numerose condanne che quei ritardi hanno fatto subire al nostro Paese, sempre nella lista dei paesi reprobi dell’Ue. Non si confonda quindi democrazia con inefficienza: quest’ultima semmai è all’origine proprio delle disuguaglianze e del diverso trattamento che i nostri cittadini hanno vissuto rispetto a quelli di altri paesi dell’Ue. Per un Paese più efficiente vi è quindi estremo bisogno di rivedere l’intera catena di comando fra potere esecutivo e legislativo. I contrappesi, è evidente, devono funzionare, ma questo non vuol dire che ciò deve avvenire a scapito dell’efficienza. In un mondo sempre più competitivo e in un’Unione che ha bisogno di decisioni radicali per potere sopravvivere ai venti dell’antipolitica è necessario chiarire meglio la distinzione di ruoli fra esecutivo e legislativo. Per troppi anni l’Italia ha vissuto nella confusione e sovrapposizione dei due ruoli, che se avevano qualche senso ai tempi del compromesso storico, con un governo democristiano e con un parlamento affidato alla direzione dei comunisti, oggi il paese necessita di efficienza, autorevolezza e credibilità. I partner europei sperano in un’Italia più forte Tutte qualità di cui non solo noi, ma anche i nostri partner europei sentono estremo bisogno: un’Italia più forte è una delle poche speranze per quel che resta del disegno unitario europeo. Cedere alla malafede di una certa opposizione interna, che prima approva e poi respinge la riforma istituzionale, o allo scetticismo, per quanto rispettabile, di qualche costituzionalista sarebbe deleterio. La riforma va vista in tutti i suoi aspetti e riflessi, sia interni che internazionali. Ci vuole uno sguardo un po’ più lungo rispetto a un dibattito interno per slogan o per posizioni preconcette. Dire no alla riforma significherebbe negare il nostro interesse europeo e internazionale a giocare un ruolo da grande nazione. Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI. Questo articolo è stato pubblicato sull’Adige del 20 settembre. |
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