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venerdì 23 dicembre 2016

Due Nazioni a Confronto

Italia e Germania allo specchio
L’Italia è più bella vista da Berlino 
Isabella Ciotti
30/12/2016
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Lo psicologo austriaco Alfred Adler, allievo di Freud, diceva che il complesso d’inferiorità va a braccetto con l’ambizione alla superiorità. Tradotto, che l’essere umano ricerca la sua sicurezza nella sfida con l’altro. Così il professore spiegava anche le rivalità tra Stati, i cui problemi di autostima sarebbero per lui all’origine di buona parte dei contrasti internazionali.

La teoria di Adler potrebbe tornare utile, oggi, nell’analizzare l’atteggiamento dell’Italia (e non solo) rispetto all’amica Germania. Un’amica sì, che desta ammirazione fino alla soggezione, ma che allo stesso tempo scatena istinti di rivalsa e pure maldestre esibizioni di autorevolezza. Specialmente quando il confronto si sposta in Europa, specchio conteso di 27 riflessi.

Lo spiega bene uno studio condotto da Policy Matters per la Fondazione Friedrich-Ebert, che ha intervistato oltre duemila cittadini italiani e tedeschi sulla percezione che hanno del proprio Paese e su come vedono, invece, l’altro.

Italiani insicuri
A proposito di insicurezza, la considerazione che gli italiani hanno di sé stessi è talmente bassa che i tedeschi hanno più fiducia nell’Italia di quanta non ne abbiamo noi: il 34% dei tedeschi ritiene la nostra nazione affidabile, mentre nella Penisola questa percentuale si ferma al 33%.

Lo stesso vale per la situazione economica del Paese, giudicata negativamente dal 71% dei tedeschi, ma dall’89% degli italiani. E se è vero che il pessimismo è una prerogativa tutta nostra, risulta ugualmente difficile giustificare come gli intervistati nel nostro Paese abbiano dato alla Germania un voto superiore persino alla qualità della vita: 7,1 - su una scala da 1 a 10 - contro il 4,6 assegnato all’Italia.

È parlando di Unione europea, Ue, e dei diversi ruoli di potere al suo interno, che il nostro Paese esprime il massimo della sfiducia. La Germania è indicata non più come modello ma come rivale, una prima donna a cui si desidera, in fondo, rubare la scena.

Quattro italiani su cinque, l’81%, accusano Berlino di abusare della sua posizione di forza nell’Ue a discapito degli altri membri, e il 66% si dice contrario alla sua leadership in Europa. La maggioranza degli italiani (il 78%) crede che sia proprio Roma a dover emergere tra i 27. Valutazioni che sembrano riflettere in scala quell’atteggiamento di sfida assunto più volte dal governo italiano nei confronti delle istituzioni europee e del governo tedesco in particolare.

D’altra parte, i tedeschi sono afflitti da un complesso, se non proprio di superiorità, almeno di “parità”: non si sentono inferiori a nessuno. Attribuiscono alla Germania voti più alti in tutti i settori dell’economia e, in virtù di questa percezione positiva del Paese, tre quarti di loro ritiene che spetti a Berlino la leadership all’interno dell’Ue.

Italia e Germania percepiscono l’Ue diversamente
La soddisfazione dei tedeschi rispetto al proprio ruolo nell’Ue è coerente con la loro percezione del sistema Europa, nettamente opposta a quella italiana. Per il 43% dei nostri connazionali l’Ue ha portato più svantaggi che vantaggi (la stessa percentuale di tedeschi pensa esattamente l’opposto), e un italiano su due individua nella moneta unica la causa dell’attuale crisi economica (anche qui, il 41% dei tedeschi attribuisce all’euro il merito del buon andamento dell’economia nazionale).

Su una cosa i due Paesi sono d’accordo, e a torto: sia la Germania che l’Italia sono contribuenti netti dell’Ue (la prima con 14,3 miliardi l’anno, nel 2015, la seconda con 2,6 miliardi), ma tutti e due i campioni ritengono che l’altro Paese riceva di più di quanto paga.

L’autostima dei tedeschi
Tornando ai nostri problemi di autostima, va detto che il complesso d’inferiorità all’italiana ha, comunque, i suoi lati positivi: il Paese vince senz’altro in autocritica. L’80% degli italiani riconosce che l’Italia sta facendo ancora troppo poco per riformare lo Stato e l’economia, e tre italiani su quattro ammettono che la maggior parte dei problemi finanziari sono da imputare al Paese stesso.

I tedeschi, invece, sono nettamente più superbi e auto assolutori. C’è una parte del sondaggio in cui agli intervistati si chiede di scegliere, tra una serie di aggettivi, quelli che meglio definiscono il proprio e l’altro popolo. Se sugli abitanti della Penisola le parole scelte sono le stesse - al punto che gli italiani si riconosco persino negli stereotipi - i tedeschi si attribuiscono una serie di aggettivi che la controparte nemmeno prende in considerazione. Si definiscono - tra le altre cose - creativi, generosi e soprattutto flessibili.

È evidente come i tedeschi, in casa e in Europa, si sentano vincenti. Nei giudizi negativi dell’Italia, tra i due Paesi c’è sempre una certa concordanza, i numeri quasi coincidono e le linee dei grafici viaggiano in parallelo. Quando si parla di Germania, invece, a ogni aspetto del Paese che gli italiani ritengono criticabile si oppone il parere soddisfatto dei tedeschi. L’impressione, insomma, è quella di una Germania che dialoga solo con sé stessa. Per dirlo con le linee, che va un po’ per la tangente.

Link al sondaggio “Amici distanti”

Isabella Ciotti è giornalista praticante

giovedì 22 dicembre 2016

In attesa delle prossime frittate


Accade domani
2017: l’ipoteca dei populismi sull’Anno Nuovo
Giampiero Gramaglia
27/12/2016
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L’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump il 20 gennaio e la serie scadenzata di voti politici in molti grandi Paesi europei, forse Italia compresa, mettono sul 2017 una sorta d’ipoteca populista; e proprio l’avanzata dell’anti-politica dall’Unione europea, Ue, agli Usa ravviva gli interrogativi sull’asserita generale ‘crisi strutturale’ della democrazia rappresentativa in tutto l’Occidente.

Il sì alla Brexit e l’affermazione di Trump, due risultati appena attenuati dalla vittoria alle presidenziali austriache dell’europeista verde Alexander van der Bellen, lasciano temere successi dei movimenti populisti e nazionalisti, xenofobi e anti-Islam, euro-scettici ed anti-euro, nella raffica di elezioni nell’Ue dei prossimi nove mesi.

Se le prime date in neretto sull’agenda 2017 sono statunitensi - il 9 gennaio, l’avallo del Congresso alla vittoria di Trump nelle presidenziali, nonostante la sua rivale Hillary Clinton abbia ottenuto oltre due milioni di voti popolari più di lui, e il 20 gennaio l’insediamento del nuovo presidente -, gli altri giorni da appuntare sono soprattutto europei.

Va però ricordato che le crisi del mondo, di cui Papa Francesco ha fatto un’agghiacciante sintesi, benedicendo l’umanità a Natale, restano aperte, senza una data di scadenza: Siria e Iraq, Yemen e Afghanistan, le ricorrenti tensioni mediorientali tra israeliani e palestinesi, la Libia e l’arco dell’integralismo a sud del Sahara, la Corea del Nord; e, ovunque e sempre, l’Idra dalle cento teste della minaccia terroristica. Tutte ombre con cui dovremo convivere ancora nel nuovo anno.

Carrellata di elezioni nell’Ue
La carrellata d’appuntamenti elettorali è eccezionale: il 2017 dell’Ue appare un percorso a ostacoli. A gennaio, il 22 e 29, ci sono le primarie della sinistra francese in vista delle presidenziali; il 15 marzo si vota in Olanda; il 26 marzo nella Saar in Germania; il 23 aprile c’è il primo turno delle presidenziali francesi; il 7 maggio, il ballottaggio francese e si vota nello Schleswig-Holstein ancora in Germania; il 14 maggio si vota nella Renania del Nord - Westfalia, sempre in Germania; il 24 settembre ci sono le politiche tedesche.

A questi appuntamenti, potrebbero ancora aggiungersi le politiche italiane. E restano da definire tempi d’avvio e ritmi del negoziato sulla Brexit, che, a oltre sei mesi dal referendum britannico, rimane un’incognita: una spada di Damocle sul capo dell’Ue e della Gran Bretagna.

Di come “costruire l’Europa federale nell’era dei populismi” si discute a Bruxelles e nelle capitali dei 28. Le famiglie politiche tradizionali europee cercano soprattutto di stornare l’insidia populista e, talora, avvertono la tentazione di rincorrere gli antagonisti sul loro terreno.

Dal dibattito fra europeisti, invece, emerge che chi ancora ci crede deve unire le energie per salvare e rilanciare il progetto d’integrazione, che, nato oltre settant’anni or sono nelle tenebre più profonde della Seconda Guerra Mondiale, celebrerà a Roma il 25 marzo 2017 il 60° anniversario della firma dei Trattati istitutivi delle tre iniziali Comunità europee.

L’attuale processo ha perso slancio politico e appoggio da parte dei cittadini che, prostrati dalla crisi del 2008 e delusi dalle risposte dell’Ue, rimproverano all’Unione di non rappresentare, come sperato, un frangiflutti della globalizzazione e di non gestire il flusso dei migranti, garantendo la sicurezza.

Un modo, forse l’unico, per riscattare e fare ripartire l’integrazione è rinnovarla, dando maggiore legittimità democratica all’azione politica europea e innestandovi una concreta prospettiva federale, nella convinzione che il vero ‘sovranismo’ non è la restituzione di sovranità ai singoli Stati, progressivamente irrilevanti, ma il conferimento di maggiore sovranità all’Unione europea, che può avere voce in capitolo nei consessi e nei processi internazionali.

La trasparenza e la democratizzazione sono una priorità della Commissione europea: il presidente Jean-Claude Juncker persegue, a tal fine, “una speciale partnership con il Parlamento europeo” e “un’accresciuta trasparenza” quando si tratta di contatti con gli stakeholders e i lobbisti.

I viottoli della speranza
C’è poco da sperare che i leader dei Grandi dell’Ue abbiano colpi d’ala europei in un contesto di sfide nazionali incerte e aperte com’è quello del 2017. Tanto più che le presidenze di turno del Consiglio dell’Ue sono sulla carta deboli: Malta nel primo semestre e l’Estonia nel secondo, due piccoli Paesi, entrambi esordienti nel ruolo.

Eppure, sarebbe l’ora d’aprire viottoli di speranza e ambizione tra le rovine di un’Unione sbriciolata nei suoi valori fondamentali - lo Stato di diritto e la solidarietà - e marginale nelle crisi mondiali, anche sull’uscio di casa, come la vicenda siriana dimostra.

Bisogna ridare ai cittadini il senso d’utilità di un progetto e l’orgoglio di appartenervi. E bisogna rispondere alle domande dei cittadini con azioni federali: gestire il flusso dei migranti e la riforma del diritto d’asilo che diventi europeo; concedere ai migranti che ne hanno diritto la cittadinanza europea piuttosto che quelle nazionali; e, ancora, affidare il controllo delle frontiere esterne all’Unione, neutralizzando le reciproche diffidenze; accelerare la promozione e la creazione d’una difesa europea, sfruttando come opportunità le sfide lanciate da Trump ancor prima d’insediarsi.

Infine, dare all’Europa una voce unica e forte nei consessi internazionali, dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu al Fondo monetario internazionale, dal G8 al G20. E migliorare la conoscenza di quanto esiste, estendendo la pratica dell’Erasmus a licei e realtà professionali - una ‘Erasmus dei giornalisti’ contribuirebbe, ad esempio, a un’informazione senza frontiere e senza pregiudizi.

Italia in prima fila sulla scena internazionale
Il Governo italiano del dopo Referendum e del dopo Matteo Renzi ha l’agenda zeppa di questioni politiche, a partire dalla legge elettorale, e di problemi economico-finanziari, a partire dalle angustie di Monte dei Paschi. Ma il premier Paolo Gentiloni e i suoi ministri dovranno subito confrontarsi con scadenze internazionali che fanno dell’Italia una protagonista del 2017.

Con Bruxelles, Roma deve affrontare il negoziato sulla legge finanziaria, senza potersi aspettare, nella fase attuale, e dopo una stagione di pugni sul tavolo e toni guasconi, particolare bonomia, nonostante che la trattativa sia affidata a un ministro, Pier Carlo Padoan, che gode di credito presso i suoi interlocutori e la cui competenza è riconosciuta.

Il fronte europeo è, però, solo uno di quelli che vedranno l’Italia impegnata: il 2017 è molto denso di responsabilità internazionali. Dal 1° gennaio, l’Italia assume la presidenza del G7, che culminerà il 26 e 27 maggio nel Vertice di Taormina - dove almeno quattro leader saranno esordienti -, senza contare le riunioni settoriali nel nostro Paese; e sempre dal 1° gennaio l’Italia ritorna nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu sia pure solo per un anno, avendo spartito il biennio con l’Olanda; e, ancora, deve preparare le celebrazioni a Roma il 25 marzo per il 60o anniversario della Cee.

Alla guida del G7, l’Italia dovrà coordinarsi con la presidenza di turno tedesca del G20 - il Vertice sarà ad Amburgo il 7 e 8 luglio. Nel 2018, poi, l’Italia avrà la presidenza dell’Osce, raccogliendo l’impegnativa eredità di Germania e Austria e dando seguito alla sua presidenza, nel 2017, del Gruppo Mediterraneo.

L’attuale delicata situazione politica e la prospettiva di elezioni anticipate potrebbero anche indurre il governo Gentiloni a fare cabotaggio in acque internazionali; ma la densità delle responsabilità lo sconsiglia. Anche se la designazione agli Esteri d’un ministro senza né esperienza né vocazione internazionale come Angelino Alfano non garantisce la conoscenza dei dossier necessaria per agire in tempi brevi.

Giampiero Gramaglia è consigliere per la comunicazione dello IAI

mercoledì 21 dicembre 2016

Politici anti-sistema: un quadro

Città d’Europa
Se il Sindaco ascoltasse l'Alcalde
Paul Costello
12/12/2016
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Mentre al Quirinale entravano nel vivo le consultazioni per le sorti del governo dopo le dimissioni di Matteo Renzi, e le maggiori forze politiche premevano su un rapido ritorno alle urne, il sindaco di Roma Virginia Raggi ha ricevuto al Campidoglio le prime cittadine di Barcellona Ada Colau e di Madrid Manuela Carmena, insieme ai colleghi di Riga e Varsavia, a margine del vertice sui rifugiati che in Vaticano ha riunito molti amministratori europei. È il primo incontro ufficiale fra la pentastellata capitolina e le due spagnole che hanno guidato la rivolta anti-establishment appena un anno prima del successo dei Cinque Stelle nelle amministrative di Roma e Torino. Una p articolare congiuntura politica e simbolica per rivedere quanto Paul Costello scriveva quest’estate sul blog del German Marshall Fund of the UnitedStates, suggerendo alla Raggi e a Chiara Appendino di seguire l’esempio delle colleghe iberiche.

I politici anti-sistema hanno ottenuto il controllo di diverse città italiane, alle elezioni amministrative di giugno. Nonostante la diffusa popolarità di cui gode il Movimento Cinque Stelle, l'elezione di Virginia Raggi e Chiara Appendino come sindaci di Roma e Torino è sotto l'attenzione di tutti, specie dovendo affrontare una difficoltosa transizione dalla guida di una campagna elettorale anti-sistema alla testa dell'amministrazione di due importanti città dal profilo globale.

Se avranno successo, sarà difficile per i partiti politici tradizionali mettere un freno alla crescita dei Cinque Stelle, la forza politica più popolare in Italia. I nuovi primi cittadini dovrebbero guardare all'esperienza al di là del Mediterraneo delle loro controparti elette quasi un anno fa in Spagna per prendere spunto su come guidare il cambiamento in maniera efficace.

Barcellona, fra idealismo e compromesso
Manuela Carmena a Madrid e specialmente Ada Coalu a Barcellona hanno portato alla vittoria coalizioni anti-sistema di sinistra nelle elezioni municipali del maggio 2015.

Definita come il sindaco più radicale al mondo dal Guardian, la Colau ha avuto bisogno di quasi un anno per accettare la realtà che il compromesso politico è necessario per raggiungere degli obiettivi, e che la strada che porta dall'attivismo idealistico al pragmatismo politico è piena di ostacoli.

L'assenza di accordi stabili con gli altri partiti ha reso molto più difficile per l'amministrazione catalana realizzare quei cambiamenti sui quali aveva fatto campagna elettorale. Durante i primi mesi del mandato del sindaco di Barcellona, le azioni più evidenti sono state soprattutto simboliche.

Le prime manifestazioni del cambiamento sono state, per citarne alcune, il fallito tentativo del sindaco di ridurre il proprio salario dell'80%, la sostituzione dell'auto istituzionale da una berlina di lusso ad un minivan e la rimozione del busto del re di Spagna.

La Colau è passata dall'esprimere un forte scetticismo in merito alla possibilità che Barcellona ospitasse l'annuale World Mobile Congress per paura che ne beneficiassero solo pochi nomi, alla partecipazione alla cerimonia di inaugurazione.

È anche passata dal sostegno ai lavoratori in sciopero fino al rifiuto di negoziare con i dipendenti del trasporto pubblico in protesta. Si nota quindi l'evoluzione dall'ideologia purista di un'attivista al compromesso e al pragmatismo necessari per essere un efficace amministratore, che a maggio ha anche siglato un accordo di coalizione con il partito socialista.

Questa nuova alleanza con i socialisti rappresenta un cambiamento radicale nella posizione della Colau, la quale aveva escluso ogni tipo di accordo con il Psoe - che era già stato al governo della città per 32 anni -, arrivando anche a definirli su Twitter, prima della sua elezione, corrotti e dal comportamento mafioso.

Madrid, pragmatismo della prima ora
Un accordo proprio con i socialisti era stato già siglato a Madrid dalla Carmena, per mettere fine ai 24 anni consecutivi dei popolari alla guida della capitale spagnola. Giudice - e per alcuni anni alla testa di una piccola impresa che commercializzava vestiti per bambini realizzati dal ex detenuti -, la 72enne Carmena si è quasi immediatamente convertita al compromesso pragmatico, dovendo subito raggiungere un accordo con i socialisti in modo da escludere il centrodestra - che pure aveva ottenuto la maggioranza dei voti nelle urne madrilene - dall’amministrazione della città.

La Carmena ha ridotto il debito di Madrid del 20% e ha interrotto i contratti con le agenzie di rating, non avendo intenzione di emettere nuovo debito. Madrid resta la città più indebitata della Spagna e una delle più indebitate d'Europa; tuttavia, è ora su una traiettoria finanziaria totalmente differente rispetto alle precedenti amministrazioni, le quali dal 2003 avevano aumentato il debito del 780% attraverso l'investimento in imponenti progetti infrastrutturali e nei tre tentativi falliti di ospitare le Olimpiadi dal 2005 in poi.

Cambiare la cultura politica dell'amministrazione municipale non è stato semplice né per la Carmena a Madrid né per la Colau a Barcellona. Ciò che è diventato evidente, però, è che entrambe lo stanno facendo costruendo ponti, cercando il consenso ed il compresso, piuttosto che proseguendo con i discorsi antagonisti delle loro campagne elettorali.

Appunti per la Raggi e la Appendino
Le pentastellate Virginia Raggi e Chiara Appendino, sindaci di Roma e Torino, dovrebbero prendere in seria considerazione le esperienze delle loro più navigate controparti di Barcellona e Madrid per governare le loro città e mantenere il supporto dei cittadini.

Sono riuscite a gestire il malcontento della loro base idealista e appassionata, al tempo stesso riconoscendo di fatto di non avere le competenze e il sostegno necessari per imprimere un rapido cambiamento all’ordine sociale e governare al tempo stesso in maniera efficace e responsabile le amministrazioni complesse di due importanti città europee.

La capacità da parte del Movimento Cinque Stelle di gestire queste contraddizioni diventerà sempre più importante, vista la fragilità strutturale del governo italiano e l'incertezza finanziaria in crescita. Di fronte alla corruzione politica in Italia, al dilemma rappresentato dai rifugiati e alla latente crisi bancaria, la Raggi e la Appendino dovranno affrontare numerose sfide dando prova di leadership, cercando il consenso e perseguendo la strada del compromesso politico, dovendo in fin dei conti dimostrare di essere più politiche che attiviste.

*Articolo originariamente apparso sul blog del German Marshall Fund of the United States il 14 luglio 2016 e tradotto da Matteo Garnero, già stagista dell’area Europa dello IAI.

Paul Costello è coordinatore del programma “Urban and Regional Policy” del German Marshall Fund of the United States
.

UNa prospettiva diversa per l'economia italiana

Blue Economy 
Mare, un’opportunità per l’Italia e per l’Ue
Fabio Caffio
09/12/2016
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Sconosciuta ai più, la dimensione marittima dell’economia nazionale (2,3% del Pil e quasi 500.000 occupati) emerge con forza dalla recente assemblea della Confederazione italiana Armatori-Confitarma.

L’armamento italiano, con circa 17 milioni di tonnellate di naviglio di bandiera, considerando il genuine link (1) tra società armatoriale/nave/bandiera, è il quarto nel mondo ed il secondo in Europa. Il nostro cluster marittimo deve però confrontarsi con attori europei ed internazionali agguerriti.

La tradizionale industria marittima italiana era basata su trasporto marittimo e crocieristico, cantieristica, porti, pesca, turismo ed offshore energetico. Questi settori rientrano ora nella strategia marittima dell’Unione europea, Ue, e quindi necessitano di un approccio sistemico.

La politica marittima integrata dell’Ue
Il mare è ritenuto opportunità di sviluppo per l’economia Ue che da esso trae milioni di posti di lavoro e centinaia di miliardi di euro di valore aggiunto. La visione degli Affari marittimi Ue si basa sulla Politica marittima integrata, i cui pilastri sono le Direttive per l’ambiente marino e per la pianificazione degli usi civili e militari degli spazi marittimi di giurisdizione.

Entrambe sono state recepite dall’Italia; da ultimo, quella sulla pianificazione spaziale con il Dlgs 201-2016. Altri Paesi lo hanno già fatto traendo significativi vantaggi come Grecia e Cipro da sempre concentrati sullo sviluppo della Blue Economy.

L’Ue è impegnata nella promozione dell’intermodalità marittima per ridurre l’impatto ambientale ed economico del trasporto su gomma, con 30 milioni di camion all’anno imbarcati, pari al 75% del dato mondiale.

In Italia, il settore, grazie anche a specifici incentivi (come il “Marebonus”) è in costante crescita, attraverso collegamenti con le isole, lungo le dorsali tirrenico-adriatiche, e con Marocco, Tunisia, Spagna, Francia, Malta, Albania e Grecia.

La grande consistenza della flotta italiana (sempre più alimentata da combustibili ecocompatibili o da dotazioni di bordo per l’abbattimento delle emissioni) si basa, oltre che sui traghetti, sul trasporto di idrocarburi e di merci varie in container da/per i principali porti africani e medio-orientali del Mediterraneo allargato: il 51% del commercio estero italiano viaggia infatti su nave (il petrolio è al 100%).

L’altra faccia dell’intermodalità sono i porti, punto di forza di alcune economie del Mare del Nord di Spagna e Grecia (che Pechino ha eletto a proprio hub). La frammentazione e non competitività del sistema portuale italiano dovrebbe essere risolta dalla riforma attuata con D.Lgs. 169-2016 che riduce a 15 il numero delle Autorità portuali per 57 porti. La strategia marittima Ue potrà però fornirci un ulteriore aiuto se punteremo su settori in crescita come “autostrade del mare”, trasporti a corto raggio o crociere.

Autostrade mediterranee (Fonte: RAM).

Pesca
L’Ue, secondo i Trattati, detiene una riserva esclusiva in materia di politica della pesca e di accordi con i Paesi terzi. È noto che il comparto italiano è in decrescita, secondo alcuni a causa di misure eccessive di riduzione dello sforzo di pesca.

I danni maggiori ci vengono però dal fatto che la Ue ha negoziato accordi di partenariato principalmente con Paesi dell'Atlantico (Capo Verde, Costa d'Avorio, Gabon, Guinea-Bissau, Liberia, Mauritania, Marocco e Senegal), con ciò favorendo la Spagna che ha una consistente flotta d’altura.

Il risultato è che i pescherecci italiani continuano ad essere sequestrati dai Paesi del Nord Africa, come avviene per Tunisia, Libia ed Egitto, con i quali l’Ue non ha mai stipulato intese.

Sicurezza marittima 
L’Europa ha scoperto la sua dimensione marittima da qualche tempo, anche grazie alla Strategia di sicurezza marittima del 2014 nel cui ambito si inquadra il contrasto della pirateria e delle altre minacce alla libertà di navigazione.

I traffici mercantili italiani ne hanno beneficiato potendo contare sull’attività di polizia dell’alto mare delle Unità delle missioni Atalanta e Sophia che ha messo in luce l’attualità delle missioni “tipo Petersberg”.

Purtroppo, l’Ue continua a sottovalutare il settore del soccorso in mare-Sar lasciato al volontario attivismo italiano, quando invece sarebbe necessario mettere in comune i mezzi disponibili e stringere partenariati con i Paesi nordafricani.

Governance marittima italiana
La governance marittima italiana si avvale oramai in modo positivo di tutti gli strumenti messi in campo dalla politica marittima Ue. Un handicap viene però dalla frammentazione delle competenze tra tutti i ministeri interessati, come Trasporti, Ambiente, Politiche agricole, Esteri e Difesa, problema che nessun governo ha mai saputo affrontare.

Un tempo c’era, come principale referente politico-amministrativo, il ministero la Marina mercantile. Per semplificare la gestione del settore e conseguire vantaggi economici si dovrebbe seguire l’esempio della Francia che ha incardinato nell’ufficio del Primo ministro il Secrétariat général de la mer competente per il necessario coordinamento interministeriale.

Anche la definizione, a livello politico, della nozione della “Funzione Guardia costiera” teorizzata dall’Ue aiuterebbe l’Italia ad efficientare l’impiego di tutti i numerosi assetti civili e militari operanti in mare per la sicurezza marittima.

(1) È l’effettivo rapporto giurisdizionale tra lo Stato di registrazione della nave e la sua filiera marittima; esso può altrimenti venir meno nel caso delle c.d. “bandiere ombra”.

Fabio Caffio è Ufficiale della Marina Militare in congedo, esperto di diritto marittimo.

Roma: la difesa in prima pagina

Italia e riforma della difesa
Libro Bianco della Difesa: i ritardi della riforma
Paola Sartori
02/12/2016
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Nelle ultime settimane si è discusso molto sulle possibili implicazioni della futura Presidenza Trump per la politica estera degli Stati Uniti e per le relazioni transatlantiche e anche a livello nazionale ci si è interrogati su quale potrebbe essere l’impatto di questa decisione sulla politica di difesa italiana in ambito euro-atlantico.

A riguardo, il futuro presidente statunitense ha reso ben chiara la sua intenzione di chiedere un maggiore contribuito agli Alleati europei per la propria difesa e dunque anche il nostro Paese sarà chiamato a fare la propria parte.

La qualità dell’azione nazionale in questo contesto dipende naturalmente dal funzionamento della “macchina” della Difesa e da un impiego efficiente delle risorse a sua disposizione. In questo senso, l’implementazione del Libro Bianco per la sicurezza internazionale e la difesa, presentato dal Ministro Pinotti al Consiglio Supremo di Difesa, al governo e al Parlamento ad aprile 2015, risulta quanto mai cruciale.

Tuttavia, come evidenziato nella recente analisi “Le sfide della Nato e il ruolo dell’Italia: Trump, Brexit, difesa collettiva e stabilizzazione del vicinato” pubblicata nell’ambito del progetto Defence Matters 2016, il processo di riforma rimane per ora solo su carta con potenziali ricadute negative non solo a livello interno, ma anche per quanto riguarda la qualità del contributo italiano in ambito euro-atlantico.

Implementazione in ritardo sulla tabella di marcia
Ad oltre un anno e mezzo dalla sua pubblicazione, le scadenze di attuazione dei principali provvedimenti contenuti nel Libro Bianco non sono state rispettate. Il progetto di riforma sembra essere stato rallentato da altre priorità legate alla contingenza politica nazionale, oltre che alla crescente instabilità a livello internazionale.

L’approvazione di altri provvedimenti, quali Jobs Act e riforma costituzionale, da un lato, e l’acuirsi di crisi in aree caratterizzate da un forte impegno militare e/o diplomatico italiano dall’altro, hanno di fatto catalizzato l’attenzione politica italiana distogliendola dal processo di implementazione del Libro Bianco.

Vero è che un segnale positivo in questo senso potrebbe venire dalle conclusioni della recente riunione del Consiglio Supremo di Difesa, tenutasi il 24 novembre. È stato infatti reso noto che il Disegno di legge contenente alcuni provvedimenti di riforma e di delega a successivi dispositivi legislativi starebbe per iniziare l’iter parlamentare, anche se da fine estate aspetta di essere approvato dal Consiglio dei Ministri.

Tuttavia, considerando i tempi tecnici richiesti per l’approvazione delle leggi ordinarie, per quelle parti della riforma che comportano questa procedura - quali revisione della governance e disposizioni sul personale - sembra comunque improbabile che l’attuazione possa concretizzarsi entro il termine dell’attuale legislatura.

Un’attuazione per fasi successive per uscire dall’impasse?
Per uscire da questa situazione di stallo, ci sarebbero alcune opzioni potenzialmente in grado di consentire all’Italia di avanzare nel processo di riforma. In prima battuta, con qualche sforzo potrebbe forse essere possibile ottenere quantomeno l’approvazione da parte di una delle due Camere in modo da favorire una rapida conclusione dell’esame anche nella successiva legislatura. In questo caso, tuttavia, molto dipenderebbe dal consenso politico raggiunto nel delineare il progetto di riforma.

In alternativa, si potrebbe invece optare per un’attuazione per fasi successive. Ovvero, procedere con l’approvazione di quelle disposizioni ritenute maggiormente urgenti e realizzabili, scorporandole dal disegno complessivo di riforma, e rimandare ad un secondo momento l’implementazione di quei cambiamenti che richiedano invece più tempo per essere attuati.

Questa modalità, pur contrastando con la logica complessiva del Libro Bianco di un approccio integrato alla Difesa a livello di sistema-paese, avrebbe il vantaggio di far progredire la riforma, anche se solo parzialmente.

Italia, Nato e Ue: i possibili effetti negativi di una mancata attuazione
Questa situazione di stallo rischia di avere una serie di effetti negativi non solo a livello interno, ma anche per quanto riguarda la qualità del contributo italiano in ambito euro-atlantico.

In primo luogo, da un punto di vista politico i ritardi nell’attuazione di un Libro Bianco che è anche direttiva ministeriale potrebbero non giovare alla credibilità del nostro Paese nei confronti degli Alleati. Inoltre, da un punto di vista operativo, potrebbero anche compromettere la qualità del contributo nazionale in ambito Nato, ma anche Ue, soprattutto in termini di interoperabilità, efficacia ed efficienza.

Il continuo rinvio dell’implementazione della riforma, infatti, fa sì che alcune decisioni connesse a precise esigenze operative, siano prese al di fuori del framework di attuazione del Libro Bianco con conseguenti effetti negativi anche sulla cooperazione in ambito europeo e transatlantico.

Dalle parole ai fatti, ma non se manca la volontà politica
In un quadro di per sé scoraggiante comunque, il principale ostacolo all’avanzamento del processo di attuazione del Libro Bianco rimane la mancanza di volontà politica, che invece è a dir poco cruciale per una riforma che porta con sé cambiamenti concreti e la strutturazione di un rinnovato strumento militare.

È certamente vero che negli ultimi mesi l’Italia si sia trovata a fare i conti con circostanze particolarmente delicate, legate sia a dinamiche interne che all’evoluzione dello scenario internazionale. Eppure, proprio di fronte all’acuirsi di alcune crisi che richiedono un aumento dell’impegno nazionale per la sicurezza e la difesa del Paese, risulta ancor più urgente attuare le disposizioni contenute nel Libro Bianco.

Soprattutto perché queste misure mirano a dotare l’Italia di una struttura della Difesa in grado di rispondere in maniera efficace ad eventuali minacce e adempiere al meglio alle proprie responsabilità a livello internazionale. Tuttavia, per concretizzare questo progetto è necessario che la classe dirigente italiana ritrovi l’impulso politico necessario, altrimenti il potenziale riformatore del Libro Bianco rischia di rimanere solo su carta.

Paola Sartori, Assistente alla Ricerca, Programma Sicurezza e Difesa (Twitter @SartoriPal).
 
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venerdì 9 dicembre 2016

Le nostre frontiere.

Dopo elezioni
In Austria l'ondata populista non passa
Francesco Bascone
06/12/2016
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Anche in Austria i sondaggi e i media non hanno colto nel segno, ma questa volta sopravvalutando il fattore “populismo”. L'effetto-Trump e l'effetto-Brexit ci sono stati, tuttavia non nel senso di un trascinamento bensì di uno stimolo a reagire.

I sostenitori di van der Bellen si sono mobilitati (infatti la partecipazione ha superato le previsioni), alcuni di quelli di Hofer - troppo sicuri di essere maggioranza - sono rimasti a casa. Il travaso di voti da un campo all'altro ha avuto un ruolo secondario.

L’elettorato di van der Bellen
La vittoria di Alexander van der Bellen, che assumerà le sue funzioni il 26 dicembre, ha preso molti alla sprovvista, ma più ancora ha sorpreso (proprio come in Italia) lo scarto di voti: quasi l'8% (a maggio era stato minimo).

Se nei giorni scorsi l'Austria veniva vista da molti come il paese occidentale più esposto alle sirene del nazionalismo xenofobo, oggi è d'obbligo riconoscere che la società austriaca ha saputo produrre i necessari anticorpi. E ha dato un forte segnale di conferma della scelta europeista.

Il candidato moderato ha probabilmente beneficiato della relativa sdrammatizzazione del tema “immigrazione” rispetto a sei mesi fa: l'ondata di piena del 2015 non si è verificata quest'anno; il tetto fissato a 37.500 domande di asilo non è stato superato (l'anno scorso l'Austria aveva accolto 90mila profughi, al netto del milione transitato verso la Germania); è allo studio una legge più severa sull'esecuzione dei decreti di espulsione e sulle sanzioni in caso di loro violazione.

Solo per un aspetto il risultato elettorale presenta una forte analogia con l'America: una carta geografica dominata dal colore della destra (là rosso, qui azzurro), con isole o frange a forte concentrazione demografica (le città), e più alto reddito medio e grado di istruzione. Ma rispetto allo scorso maggio queste isole moderate si sono allargate.

Il verde van der Bellen ha vinto in tutti i capoluoghi di regione e in alcune altre città medie. Nelle tre maggiori - Vienna, Graz e Linz - sfiora i due terzi dei voti; in tutti i distretti centrali della capitale e nei comuni circostanti il rapporto è di almeno 70 a 30. Solo in tre regioni su nove Hofer conserva la maggioranza.

Per lui ha votato solo il 17% dei laureati, mentre fra chi ha fatto un apprendistato ha ottenuto il 64% e nella categoria “operai” (che comprende gli agricoltori) l'85% . Due terzi degli elettori che hanno votato per posta (in media più istruiti) si sono pronunciati contro Hofer. Si rileva dunque una forte correlazione fra livello di istruzione e voto per van der Bellen. Un dato interessante è la forte differenziazione fra le preferenze di uomini e donne: fra i primi il 56% ha scelto Hofer, fra le seconde solo il 38%.

Estrema destra vicina alla maggioranza
D'altra parte può apparire preoccupante che il candidato di un partito di estrema destra si attesti a meno del 4% dalla maggioranza assoluta. Ma va ricordato che si tratta di una situazione sui generis: un ballottaggio, a seguito dell'eliminazione dei candidati dei due partiti di governo (11% dei voti ciascuno). Degli elettori democristiani, il 45 % risulta aver votato per Hofer (compreso il Capo del Gruppo Parlamentare); fra i socialisti sono il 10%. In una futura elezione parlamentare questi voti torneranno nelle rispettive orbite.

Al netto di tali voti, l'FPOe oscilla intorno al 30%; alle prossime politiche può ambire a conquistare non più del 35% (quanto Hofer ha avuto al primo turno), ma molti si aspettano che l'elezione del 4 dicembre segni l'inizio del riflusso che dovrebbe riportarla ben al di sotto del 30%.

Strache, il vero pericolo
Nel primo caso avrebbe discrete probabilità di divenire il primo partito, e Heinz-Christian Strache (è ormai noto che il pericolo è lui, non Hofer) sarebbe il candidato naturale al Cancellierato; solo un compatto fronte OeVP-SPOe potrebbe sbarrargli la strada. Ma in entrambi i partiti, e soprattutto nel primo, non mancano personalità inclini ad entrare in una coalizione con Strache.

Nel secondo caso quest'ultimo può ancora sperare di entrare nel prossimo governo, sia pure nella posizione di junior partner, come fu il caso di Haider. L' alternativa sarebbe la prosecuzione della grosse Koalition, che però si è assai logorata e viene generalmente considerata la causa di stagnazione, corruzione, inefficienza; o forse un'alleanza fra socialisti, verdi e neos, se ci saranno i numeri.

A questo proposito, in una intervista, il neo-eletto presidente ha fatto una dichiarazione significativa: mentre vuole essere un capo dello stato non interventista, a differenza del rivale, e quindi respinge l'interpretazione letterale della Costituzione che gli conferirebbe il potere di licenziare il governo, ribadisce l'intenzione di fare il possibile per evitare di affidare la formazione di un governo a Strache; per prassi l'incarico viene dato a chi ha la maggioranza relativa ma, non trattandosi di una disposizione costituzionale, van der Bellen considera preminente l'interesse del Paese - l'ancoraggio alla costruzione europea - e intende far pieno uso della sua discrezionalità.

In sostanza, l'Austria ha dato un chiaro segnale che la deriva populista ed euroscettica non è inevitabile. Per l'Italia è una svolta positiva anche perché si allontana il pericolo di un ritorno di Vienna a pretese di un droit de regard sull'Alto Adige. Ma di quanto? Hofer intende ripresentarsi per la Hofburg nel 2022; il suo partito si prepara alle elezioni parlamentari del 2018; e anzi - altra coincidenza temporale con le vicende italiane - dice di auspicare elezioni anticipate al maggio 2017.

Francesco Bascone è Ambasciatore d’Italia.

giovedì 1 dicembre 2016

Referendum 4 Decentramento

Referendum costituzionale 
La riforma e i poteri esterni delle Regioni
Elena Sciso
30/11/2016
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Uno degli aspetti più significativi del testo di riforma costituzionale riguarda, accanto al superamento del c.d. bicameralismo perfetto, l’abbandono del modello di decentramento legislativo introdotto in Costituzione con la riforma del 2001.

Legislazione concorrente addio
Fin dalla sua introduzione, con la formazione delle prime quattro regioni a statuto speciale, ancor prima che nascesse formalmente la Repubblica, il regionalismo italiano ha rappresentato un modello di decentramento incompiuto.

Nella Costituzione repubblicana, venne riconosciuta alle Regioni, in alcune materie elencate nell’allora art. 117, una potestà legislativa concorrente con quella dello Stato, da esercitarsi nel quadro dei principi fondamentali fissati dalla legge dello Stato e nel rispetto rigoroso del principio di tutela dell’interesse nazionale; alle Regioni veniva attribuita altresì la competenza ad emanare norme attuative di leggi dello Stato, se così previsto dalla legge medesima.

La proposta di istituire una seconda camera, il Senato, che fosse almeno in parte rappresentativa delle introdotte autonomie costituzionali, venne invece respinta essendo prevalsa l’opzione per il modello del bicameralismo perfetto, con la conseguenza che le Regioni furono escluse dal processo decisorio nazionale.

Nel testo vigente della Costituzione, l’art.117 come modificato nel 2001 riconosce alle Regioni (ed alle Province autonome) una potestà legislativa paritaria rispetto a quella dello Stato, essendo venuto formalmente meno il limite della tutela dell’interesse nazionale all’esercizio di tale loro competenza.

Accanto alle materie riservate alla legislazione esclusiva dello Stato, tra le quali figurano la politica estera e i rapporti internazionali e con l’Unione europea dello Stato, il vigente art. 117 Cost. disciplina nel terzo comma la categoria delle materie di legislazione concorrente, delle Regioni e dello Stato, tra le quali al primo posto vengono indicati i “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni”; il successivo comma 4 attribuisce poi alle Regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.

L’esercizio delle competenze “esterne” delle Regioni 
Tali rapporti esterni delle Regioni sono condotti non solo attraverso lo sviluppo di attività promozionali all’estero o mediante iniziative di mero rilievo internazionale ma anche, grazie alla formalizzazione nel testo costituzionale di taluni approdi della giurisprudenza costituzionale, attraverso la stipulazione di trattati con Stati terzi, retti dal diritto internazionale e del cui rispetto risponde, sul piano internazionale, la Repubblica come soggetto unitario (art. 117, 9° comma).

Ulteriore estrinsecazione della riconosciuta titolarità, in capo alle Regioni, di rapporti internazionali e con l’Unione europea, Ue, è costituita dal potere/dovere per le Regioni di provvedere direttamente, nelle materie di loro competenza, all’esecuzione e attuazione dei trattati internazionali nonché degli atti dell’Ue, nel rispetto delle norme di procedura stabilite dalla legge dello Stato; alle stesse condizioni, viene riconosciuto il diritto delle Regioni di partecipare al processo di formazione degli atti normativi comunitari (art. 117, 5° comma).

Il testo di riforma elimina la categoria delle materie di legislazione concorrente: viene dunque meno la categoria costituzionale dei “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni”. Rimangono immodificati i commi 5 e 9 dell’art.117 e le relative competenze attribuite alle Regioni.

È indubbio che tale modifica vale ad introdurre elementi di chiarezza nei rapporti tra lo Stato e le Regioni, contribuendo auspicabilmente a ridurre i contenziosi di cui è stata investita negli anni la Corte costituzionale.

Per altro verso, è intuitivo comprendere come l’eliminazione della categoria costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione delle Regioni potrà avere delle ricadute significative sull’esercizio delle competenze “esterne” delle Regioni riconosciute nei rilevanti commi dell’art.117, introducendo, quanto meno sul piano interpretativo, ulteriori limiti rispetto alle limitazioni già apportate, per esempio con riferimento alla conclusione di accordi con Stati terzi, dalla legge di attuazione del Titolo V modificato nel 2001 (la l. 131/2003) e dalla relativa giurisprudenza costituzionale.

In questa prospettiva, va valutato altresì l’impatto del reintrodotto limite della tutela dell’interesse nazionale che, alla stregua dell’art. 117, 4° comma del testo di riforma, giustifica l’intervento della legge statale in materie originariamente non riservate alla legislazione esclusiva dello Stato, su proposta del Governo.

La competenza legislativa del Senato riformato
La perdita, da parte delle Regioni, di una competenza legislativa originaria, ancorché concorrente con quella dello Stato, in talune materie potrebbe essere bilanciata dalle funzioni e dalle competenze attribuite al Senato riformato che dichiaratamente rappresenta le “istituzioni territoriali”, recuperando per questa via una partecipazione delle Regioni al processo decisionale nazionale.

L’art. 70 del testo di riforma indica tassativamente quali sono le materie oggetto di procedimento legislativo bicamerale, in deroga al principio generale che riserva alla Camera dei deputati l’esercizio della competenza legislativa.

Tra le leggi che il Senato riformato concorrerà ad approvare su base paritaria con la Camera figura la legge “che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione delle normative e delle politiche dell’Unione europea”, quindi non solo la legge contenente disposizioni generali in materia qual è oggi la legge 234/2012 ma anche, avuto riguardo al loro contenuto come precisato dall’art. 30 di tale provvedimento legislativo, anche la legge di delegazione europea e la legge europea per quanto rilevanti delle funzioni del Senato, nonché le leggi di cui ai commi 5 e 9 dell’art. 117.

L’attribuzione al Senato di funzioni di raccordo tra lo Stato e gli enti costitutivi della Repubblica e, in particolare, della funzione di raccordo tra lo Stato, le Regioni e l’Ue comporterà verosimilmente una riconsiderazione delle funzioni e delle competenze di organismi di raccordo esistenti, come la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome; tali attribuzioni, potrebbero avere delle ripercussioni anche sulle modalità di proposta, da parte dello Stato, dei membri nazionali componenti il Comitato delle Regioni, organo consultivo istituito e disciplinato dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (articoli 300 ss).

Nulla è previsto, invece, relativamente a un’eventuale partecipazione del Senato al procedimento di conclusione di trattati internazionali. In materia, l’art. 80 del testo di riforma assoggetta all’approvazione di entrambe le Camere esclusivamente la legge che autorizza la ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Ue; conseguentemente, in assenza di una disposizione ad hoc tanto nel vigente testo costituzionale quanto nella riforma, un ipotetico recesso del Paese dall’Unione, in conformità con l’art. 50 Tue, dovrebbe essere autorizzato da entrambe le Camere.

Il riconoscimento a livello costituzionale della specificità dei trattati europei, ancorché tardivo, va salutato con estremo favore. Per altro verso, va sottolineato come si sia persa l’occasione per trarre dalla riconosciuta peculiarità di questi trattati - destinati ad incidere in materie di rilevanza costituzionale qual è l’esercizio della potestà legislativa e la cui approvazione, non a caso, è assoggettata a referendum popolare in alcuni Paesi membri dell’Unione - le opportune conseguenze, regolando il relativo processo di ratifica alla stregua dell’art. 138 Cost.

Nessuna competenza, nemmeno di natura consultiva, è riservata al Senato relativamente alla conclusione di qualunque altro trattato internazionale che possa incidere sugli interessi di specifici territori, quali potrebbero essere i trattati per la concessione di basi militari o quelli che prevedono il passaggio nel territorio nazionale di reti transnazionali di trasporti ed energia; nemmeno, al riguardo, è prevista la consultazione della/e Regione/i interessata/e, com’è in alcune Costituzioni di stampo federale*.

*Questo contributo rappresenta una versione ridotta di un articolo più lungo destinato a comparire sul fascicolo 4 de "La Comunità internazionale".

Elena Sciso è professore ordinario di Diritto internazionale, direttore del Centro di Ricerca sulle Organizzazioni internazionali ed europee della Luiss Guido Carli.

Referendum3 Europa

eferendum costituzionale
La riforma costituzionale e i rapporti coll’Ue
Marco Gestri
25/11/2016
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L’Unione europea, Ue, viene spesso richiamata nel dibattito sulla riforma costituzionale. Il Comitato per il sì afferma che la riforma rafforzerebbe l’impronta europea della Costituzione e consentirebbe all’Italia di “essere un attore ancora più decisivo e decidente delle scelte” europee. Tra gli oppositori non mancano commenti per cui essa renderebbe l’Italia sempre più “asservita”all’Ue.

Sul piano dei principi, la riforma non introduce novità fondamentali quanto ai rapporti tra ordinamento italiano e comunitario. Nonostante sia talora richiamato come allarmante novità, il testo del nuovo art. 117 non muta (rispetto a quello vigente introdotto nel 2001) per quanto riguarda la clausola della prevalenza delle norme europee su quelle nazionali, a parte una revisione linguistica. Il principio del primato del diritto Ue su quello italiano è del resto da molti decenni consolidato nel nostro ordinamento.

Art. 70 e attuazione delle norme Ue
Alcune innovazioni derivano dalla nuova disciplina del procedimento legislativo. Il nuovo art. 70 prevede che, tranne alcune leggi di particolare importanza, le leggi ordinarie siano adottate dalla sola Camera, con un intervento del Senato eventuale e consultivo.

Tra le leggi che richiedono ancora una procedura bicamerale l’art. 70 menziona “la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione delle politiche dell’Ue”: si fa chiaramente riferimento alla legge di sistema, che prevede le procedure per l’attuazione delle norme europee, come fu la legge La Pergola ed è ora la l. 234/2012.

Invece, contrariamente a quanto talora affermato, le ordinarie leggi di recepimento e attuazione delle norme Ue (delle direttive, delle sentenze della Corte Ue e dei regolamenti non completi) diverrebbero monocamerali (tranne nel caso eccezionale che tocchino le materie riservate dall’art. 70 alla legge bicamerale: es. norme elettorali relative al Parlamento europeo ).

Ciò va salutato con favore, considerando il cronico ritardo nell’attuazione delle norme europee, che fa dell’Italia lo Stato col maggior numero di condanne della Corte Ue.

La legge di riforma costituzionale introduce poi una differenziazione tra la ratifica degli “ordinari” trattati interazionali, che dovrà esser autorizzata dalla sola Camera, e quella dei “trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea” (art. 80), per i quali l’autorizzazione dovrà provenire da entrambe le camere.

Scelta condivisibile, dato il rilievo dei trattati su cui si fonda l’integrazione europea e dei relativi trattati modificativi (inclusi quelli di adesione). Essa solleva peraltro qualche dubbio riguardo alla procedura applicabile a trattati che, pur riguardando sostanzialmente la materia europea, vengano adottati formalmente al di fuori del diritto Ue (com’è il caso del Fiscal Compact). Dovrebbe invece esser affidata alla sola Camera la ratifica degli “accordi-misti”, conclusi con Stati terzi sia dall’Ue che dagli Stati membri (come Ceta o Ttip).

Eventuale recesso dall’Ue
L’art. 50 del Tue prevede che ogni Stato possa decidere di recedere dall’Ue “conformemente alle proprie norme costituzionali”. La riforma costituzionale non si occupa del recesso. Del resto, c’è chi sostiene che per l’Italia l’appartenenza all’Ue sarebbe scelta irreversibile.

Ci si potrebbe chiedere se l’introduzione, ad opera della riforma, di una serie di norme che fanno espresso riferimento alla partecipazione dello Stato e delle sue istituzioni al processo d’integrazione europea non condizionerebbe un recesso dell’Italia a una revisione costituzionale. In ogni caso, in virtù del nuovo art. 80, la decisione di mettere in moto il recesso dovrebbe essere presa dal Governo previa autorizzazione di entrambe le camere.

Il Senato nelle riforma costituzionale e il futuro della qualità della rappresentanza
Secondo la legge di riforma costituzionale, il nuovo Senato concorre “all’esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea” (art. 55), partecipando alla formazione e attuazione degli atti normativi e delle politiche Ue.

Gli oppositori della riforma definiscono questa funzione “misteriosa”. In ogni caso, non v’è dubbio che, anche dopo la riforma, sarebbe ancora il Governo a gestire in prima persona i rapporti coll’Ue e a prendere le decisioni chiave in materia, mediante i propri rappresentanti nel Consiglio Ue (co-legislatore insieme al Parlamento Europeo).

La normativa vigente prevede già che rappresentanti delle regioni possano far parte delle delegazioni dell’Italia al Consiglio (secondo modalità faticosamente definite nell’Accordo adottato nel 2006 dalla Conferenza Stato-Regioni). Non sarebbe una buona idea modificare tale meccanismo, prevedendo una rappresentanza di membri del Senato (anche alla luce della composizione di quest’ultimo).

Il nuovo Senato continuerebbe poi ad esercitare le prerogative attribuite alle camere nazionali dal Protocollo n. 2, introdotto dal Trattato di Lisbona, riguardo alla verifica del rispetto del principio di sussidiarietà.

Il nuovo Senato delle autonomie, alleggerito di buona parte delle competenze legislative, potrebbe concentrarsi sull’esercizio di funzioni di indirizzo e controllo sul Governo quanto all’elaborazione (e attuazione) delle politiche Ue.

La prassi europea offre numerosi esempi di camere alte che svolgono egregiamente tali attività, condizionando l’operato degli esecutivi a Bruxelles e vagliandone i risultati. A parte la House of Lords, è naturale pensare al Bundesrat tedesco, espressione delle entità territoriali.

Sennonché nel Senato non siederebbero rappresentanti dei governi delle singole regioni, ma un numero variabile di consiglieri regionali e sindaci, eletti dai Consigli regionali col metodo proporzionale con una legge che peraltro non è stata ancora adottata.

È forse prematuro affermare che ciò inciderebbe sulla qualità della rappresentanza. Ma le regole sulla composizione non assicurano che i nuovi senatori rappresentino gli interessi delle rispettive regioni (e comuni) anziché votare secondo mere logiche di partito. Ciò, e il fatto che si tratti di persone che svolgerebbero un doppio incarico, solleva dubbi sulla capacità del nuovo Senato di esercitare in modo continuativo e proficuo le complesse funzioni sopra accennate.

Non è poi chiaro come le nuove competenze del Senato inciderebbero sul sistema attuale di raccordo tra Governo e enti regionali e locali, risultante dalla legge 234/2012 e incentrato sul sistema delle Conferenze (Stato/Regioni e Stato/Autonomie locali).

Marco Gestri è Professore di diritto internazionale nell’Università di Modena e Reggio Emilia e nella Johns Hopkins University, SAIS Europe.

Referendum 2. Il Mondo ci guarda

Referendum costituzionale
La riforma costituzionale che attrae gli osservatori internazionali
Antonio Armellini
29/10/2016
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Il faro dell’attenzione degli osservatori internazionali sull’Italia si è andato spostando dalla crisi delle banche verso il referendum sulle modifiche alla Costituzione.

Una correzione di rotta che li ha messi più in sincrono con il pensiero prevalente all’interno del Paese: per lungo tempo infatti i problemi del sistema bancario italiano sono stati visti da noi come un fattore rilevante di crisi sì, ma non necessariamente come un rischio sistemico (o perlomeno, salvo qualche voce competente e isolata, questa è la lettura che è stata data da buona parte dei media e dell’opinione pubblica informata).

Le cose non stanno cosi; il problema delle banche non ha perso di attualità e resterà con noi ancora per diverso tempo, come dimostrano i balbettii su MPS e bad banksvarie. Complice anche il tonfo di Deutsche Bank, che ha dato un provvisorio respiro all’Italia, la une è ora soprattutto sul referendum.

Il voto del 4 dicembre e la stabilità italiana
Che si tratti di un passaggio problematico è opinione condivisa, ma l’attenzione esterna non è rivolta tanto alla sostanza delle riforme sul tappeto, quanto alla loro incidenza sulla stabilità di un Paese che continua a dare la sensazione di reagire a debolezze endemiche con mosse corsare, in cui l’effetto di annuncio prevale sulla continuità della rappresentazione negoziale. Con il risultato di una difesa zoppa dell’interesse nazionale, che determina al tempo stesso incertezze sul piano comunitario.

La polarizzazione della discussione, l’intreccio improprio fra riforma costituzionale e legislazione elettorale, il formarsi di alleanze eterogenee sull’uno come sull’altro versante, appaiono altrettante manifestazioni della tendenza italiana alla drammatizzazione teatrale del confronto politico, al fine a volte di mascherare i veri nodi e rendere paradossalmente più facili i compromessi.

Cercare di penetrare i bizantinismi di un sistema politico viziato da una insuperabile fragilità appare più che complesso, inutile. Migliorare la governabilità semplificando i meccanismi istituzionali, riducendo le strozzature senza porre in discussione la rappresentanza democratica, è parte del bagaglio acquisito quantomeno dalla membership originaria dell’Unione europea, Ue: venuta meno l’illusione della razionalizzazione bipolare, il sistema italiano resta frammentato e difficilmente modificabile.

Previsione apocalittiche poco ascoltate
Alleati e mercati, osservatori e governi, danno mostra di non dare troppo credito alle previsioni apocalittiche dei due schieramenti: non sono in molti a credere che dal Sì possa venire la fine della democrazia in Italia, come che il No possa aprire la porta ad una stagione di ingovernabilità con conseguente tracollo dell’economia.

L’Italia è un partner importante nell’Alleanza Atlantica, che può svolgere un ruolo equilibratore sempre più necessario in una fase di contrasti crescenti con la Russia di Putin. La terza economia dei Ventisette è fondamentale per mantenere credibilità all’impianto comunitario, scosso per altri versi dalla Brexit. Rimane un elemento decisivo dell’equilibrio geopolitico nel Mediterraneo e in Medio Oriente.

Non si tratta quindi, nella percezioni di chi ci osserva, di capire se la riforma comporti davvero la modernizzazione necessaria del nostro paese; se un parlamento eletto con un maxi-premio di maggioranza possa cancellare ritardi e inefficienze consolidate.

Il punto è quello di spendersi per la soluzione che meglio di tutte consenta non tanto la governabilità a lungo termine del Paese, quanto la capacità di far fronte alle scadenze immediate che si pongono, senza dare eccessivi grattacapi ad alleati e partner.

La pressione incerta di Obama e Merkel
La riforma può essere brutta (e brutta lo è davvero, a mio parere) e la legge elettorale un pasticcio da correggere prima che sia troppo tardi. Nell’ottica internazionale, si tratta di problemi italo-italiani che interessano solo nella misura in cui possano incidere sul sistema nel suo complesso. Fatto il conto del dare e dell’avere insomma, meglio tenersi il Renzi che c’è, spingendo perché faccia tutto ciò che gli alleati si attendono senza troppe alzate d’ingegno.

Legando referendum ed elezioni il Presidente del Consiglio ha commesso un errore tattico, ma la cosa non rileva granché a livello internazionale. Gli interventi del presidente statunitense Barack Obama e gli incoraggiamenti della Cancelliera Angela Merkel sono segnali importanti, ma la loro efficacia come strumento diretto di pressione è incerta e tendono a mettere in luce l’aspettativa che non vengano dati scossoni di troppo ad una barca che non ne ha bisogno.

Un ragionamento che risuonerà nelle orecchie degli elettori e che mi induce a ritenere che non il condizionamento di invadenti attori esterni, bensì il timore del nuovo per quanto non apocalittico, spingerà gli italiani ad assicurare un margine, piccolo, alla scommessa di Renzi. Magari turandosi, montanellianamente, il naso.

Antonio Armellini, Ambasciatore d’Italia, commissario dell’Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente (IsIAO).

Referendum 1. Rischi

Referendum costituzionale
I rischi per l’Italia se vince il No
Gianni Bonvicini
22/09/2016
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Accantoniamo per un momento la non-diplomatica “interferenza” per il sì dell’ambasciatore americano John Philipps o le fosche previsioni dell’agenzia di rating Fitch in caso di vittoria del no. Nessuno tuttavia può davvero negare che in Europa non serpeggi una certa preoccupazione in vista del referendum sulla riforma costituzionale italiana.

Sembrerebbe un argomento di cucina domestica, di interesse per i soli italiani. Ma da alcuni anni, per non dire decenni, i fatti interni di un Paese si riflettono direttamente sui destini dell’intera Unione europea, Ue. Basti vedere l’ansia con cui sono state seguite nel recente passato le elezioni in Grecia o quelle ancora oggi pendenti in Austria.

Per non parlare poi dell’attenzione parossistica sul referendum inglese, che in effetti ha rimesso in gioco l’intera struttura dell’Unione, oggi alle prese con la prima uscita di un proprio membro dal club comune. Vi sono quindi buone ragioni per comprendere il nervosismo dei mercati finanziari sul futuro dell’Italia (e dell’Euro), nonché il fiato sospeso di Bruxelles (e Berlino) sul risultato del voto italiano.

Ma questi timori sono solo una parte, forse la più piccola, di un dibattito italiano poco attento alle ragioni europee e internazionali che giustificano la sostanza di una riforma costituzionale che il governo di Matteo Renzi ha portato a termine attraverso sei letture nel nostro Parlamento.

Un presidente del consiglio più forte in ambito internazionale
Come è noto, alcuni costituzionalisti hanno arricciato, a dire poco, il naso davanti al testo varato dalle camere. Una delle obiezioni, sostenuta perfino dalla minoranza del PD (magari dalla memoria corta), è di un eccessivo accentramento di poteri nelle mani del Presidente del Consiglio. A parte il fatto che anche la proposta di riforma varata dalla bicamerale Berlusconi-D’Alema (1997) sosteneva l’urgente necessità di rafforzare il Premier,vi è una chiara esigenza europea e internazionale a giustificarla.

La nascita e il sempre maggiore ruolo assunto dai Consigli europei all’interno del sistema decisionale dell’Ue impone una presenza continua e attenta dei primi ministri. Con la crisi finanziaria del 2008 e con il conseguente rischio di fare saltare l’Euro, il Consiglio europeo si è riunito con cadenza quasi mensile per diversi anni.

Ma al di là degli aspetti economici, i capi di stato dell’Ue decidono ormai su tutto, dalla lotta al terrorismo alle problematiche relative all’immigrazione. Lasciamo stare la valutazione sull’efficacia o meno di questa forma di “governo” dell’Ue (fra il resto prevista dal trattato di Lisbona), ma è evidente a tutti che il premier nazionale deve essere in grado di dirigere e coordinare tutte le competenze del governo che lo impegnano al tavolo del Consiglio europeo.

Lo stesso discorso vale, in termini più generici, per quanto riguarda la nostra partecipazione nei vari G7 o G20 che siano (di qui le preoccupazioni americane). Quindi accentrare i poteri nella Presidenza del Consiglio è un’esigenza dettata dall’evoluzione istituzionale dell’Ue e da un diffuso “verticismo” multipolare nelle relazioni internazionali.

D’altronde, quella di gestire in prima persona i dossier internazionali è una caratteristica di tutte le principali democrazie europee, dal Cancelliere in Germania al Primo ministro in Inghilterra. Forse, quindi, al di là degli aspetti di equilibrio interno fra diversi ruoli istituzionali, varrebbe la pena dare un’occhiata a quelli che sono gli interessi italiani nel contesto europeo e internazionale.

L’inefficienza del bicameralismo perfetto
A seguire, le obiezioni sulla riforma puntano l’attenzione sui rischi per la democraticità del futuro sistema istituzionale. È un tema un po’ sfuggente, poiché nessuno sembra mettere in dubbio i guasti prodotti dal bicameralismo perfetto, ma molti si attaccano nuovamente allo sbilancio degli equilibri di potere verso il Presidente del Consiglio con la sopravvivenza di una sola camera.

Anche in questo caso agli scettici o bastian contrari va ricordato come nel resto d’Europa laddove esiste il sistema bicamerale si preveda una distinzione di competenze e che nessun rischio alla democrazia si è per ciò palesato.

Al contrario, vale forse la pena valutare come questo farraginoso e ormai antistorico sistema di poteri perfettamente coincidenti di Camera e Senato abbia generato numerose deficienze anche rispetto ai nostri obblighi nei confronti dell’Ue.

Basti pensare ai ritardi cumulati nell’adozione delle direttive comunitarie o alle numerose condanne che quei ritardi hanno fatto subire al nostro Paese, sempre nella lista dei paesi reprobi dell’Ue.

Non si confonda quindi democrazia con inefficienza: quest’ultima semmai è all’origine proprio delle disuguaglianze e del diverso trattamento che i nostri cittadini hanno vissuto rispetto a quelli di altri paesi dell’Ue.

Per un Paese più efficiente vi è quindi estremo bisogno di rivedere l’intera catena di comando fra potere esecutivo e legislativo. I contrappesi, è evidente, devono funzionare, ma questo non vuol dire che ciò deve avvenire a scapito dell’efficienza. In un mondo sempre più competitivo e in un’Unione che ha bisogno di decisioni radicali per potere sopravvivere ai venti dell’antipolitica è necessario chiarire meglio la distinzione di ruoli fra esecutivo e legislativo.

Per troppi anni l’Italia ha vissuto nella confusione e sovrapposizione dei due ruoli, che se avevano qualche senso ai tempi del compromesso storico, con un governo democristiano e con un parlamento affidato alla direzione dei comunisti, oggi il paese necessita di efficienza, autorevolezza e credibilità.

I partner europei sperano in un’Italia più forte
Tutte qualità di cui non solo noi, ma anche i nostri partner europei sentono estremo bisogno: un’Italia più forte è una delle poche speranze per quel che resta del disegno unitario europeo.

Cedere alla malafede di una certa opposizione interna, che prima approva e poi respinge la riforma istituzionale, o allo scetticismo, per quanto rispettabile, di qualche costituzionalista sarebbe deleterio.

La riforma va vista in tutti i suoi aspetti e riflessi, sia interni che internazionali. Ci vuole uno sguardo un po’ più lungo rispetto a un dibattito interno per slogan o per posizioni preconcette. Dire no alla riforma significherebbe negare il nostro interesse europeo e internazionale a giocare un ruolo da grande nazione.

Gianni Bonvicini è vicepresidente vicario dello IAI.

Questo articolo è stato pubblicato sull’Adige del 20 settembre.